Anno II Numero 2 - Aprile 2010
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EDITORIALE 04
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Per guardarsi intorno: Spazio a… di Stefania Nirchi Ospite Scientifico Prof. Gaetano Domenici Universita’ degli Studi di Roma Tre Valutazione e tecnologie didattiche
RUBRICHE TRAMA
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Ricerca scientifica e sperimentazione operativa sulle reti di imprese. Strategie innovative per la competitività e lo sviluppo aziendale: trasformare la conoscenza in valore Contributo dell’Università di Perugia Gruppo di Ricerca sulle Reti di Impresa
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Contesto, management e leadership educativa di Laura Piroli
SIPARIO
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La rappresentazione del rapporto genitori-figli nel cartone animato. Parte prima: considerazioni generali di Savina Cellamare
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L’etica per una nuova professione docente di Stefania Nirchi
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La Gelmini fa 30 di Renèe Mortellaro
PUNTO
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Fatti e Norme di Gianfranco Zucca
FEATURES 55
Recensione a “Persone, organizzazioni, lavori” di Stefania Capogna
SPAZIO A 59
Frontex. Il controllo dei confini dell’ UE di Pietro Vallone
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Calais, una via clandestina verso l’Inghilterra di Marie Françoise Pitteloud
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Per guardarsi intorno: Spazio a … di Stefania Nirchi Le difformità culturali portano con sé diversi aspetti delle varie identità degli individui: la provenienza geografica, l’etnia, il codice linguistico, il bagaglio educativo, la religione. E’ su tali prospettive che si stabilisce il dialogo affinché chiunque viva nell’Unione Europea si senta coinvolto nella realizzazione di una società interculturale. Un dialogo che è stato al centro di molte iniziative e programmi europei: conferenze, progetti culturali o iniziative educative rivolte al fenomeno migratorio, programmi dedicati presenti nelle pianificazioni 2000-2006 e 2007-2013 all’interno del “Programma per l’apprendimento permanente”. Del resto lo stesso dialogo interculturale contribuisce a perseguire una serie di priorità strategiche: il rispetto e la promozione di concetti quali quelli della diversità culturale e della cittadinanza attiva, l’inclusione della strategia di Lisbona per la quale l’economia basata sulla conoscenza ha bisogno per realizzarsi di individui capaci di adeguarsi ai mutamenti e di godere delle possibili fonti di innovazione per sviluppare ricchezza; puntare al rispetto di obiettivi quali dignità umana, libertà, equità, inclusione sociale, solidarietà. Tutto questo nell’ottica di uno scopo ultimo rintracciabile nel passaggio obbligato dalla multicultura, intesa come dialogo tra culture per il rispetto reciproco, alla intercultura, come contaminazione di valori, idee, pro-
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spettive per realizzare un progetto comune di convivenza civile e sociale. Data l’importanza del fenomeno immigratorio registrato anche nel nostro Paese e non sottovalutando la complessità e la criticità dei problemi legati all’immigrazione, QTimes uscirà a partire da questo numero con una nuova rubrica “spazio a …” intesa come apertura alle organizzazioni per la diffusione e la promozione di fatti, attività, eventi, stili e quant’altro di importante possa essere comunicato per sottolineare la propria mission e le sue caratteristiche. Questo numero in particolare partirà con articoli tratti dal sito “ImmigrationFlows.net”. Il loro fine è quello di: “dare numeri, statistiche, informazioni, immagini che permettano di interpretare in modo critico senza pregiudizi e luoghi comuni un fenomeno che sta modificando le società contemporanee. ImmigrationFlows è uno strumento indipendente, aperto a tutti coloro che vogliano offrire contributi critici. Una sentinella nei confronti di stereotipi e xenofobia” 1. L’auspicio è che tali articoli, oltre ad informare e ad approfondire l’argomento, servano a sostenere una più forte sensibilità al pluralismo culturale verso la comprensione di come i diritti culturali siano parte integrante di diritti umani universali. Note: Tratto da: www.immigrationflows.net
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valutazione e tecnologie didattiche
Prof. Gaetano Domenici Universita’ degli Studi di Roma Tre 1. Alcune questioni preliminari È assai probabile che nell’ambito specifico della valutazione in campo formativo, i lettori di questo articolo abbiano un’esperienza, diretta o indiretta, abbastanza differenziata. Tentare in qualche modo di tenerne conto nella scrittura delle sue pagine, significa innanzi tutto evitare i due estremi che caratterizzano non poche trattazioni di argomenti specialistici: i tecnicalismi accademici, spesso utilizzati per comunicare con i soli addetti al lavoro, poco importa se della propria o concorrente scuola di pensiero; la semplificazione estrema, peraltro non sempre praticabile, per rivolgersi a chi si presume che non stia proprio dentro alle questioni trattate o non possegga gli strumenti culturali adatti per comprenderle, così da rasentare quella banalizzazione di problemi pur sempre complessi, che diventa offensiva dell’intelligenza del lettore. L’evitare questi due opposti limiti, non garantisce di per sé la piena corrispondenza tra il registro prescelto e quello più adatto al lettore reale, ma permette comunque di avvicinarsi di più a lui.
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Certo, impiegando una tecnologia della comunicazione diversa e più moderna del libro, e persino quella dei dimenticati “libri mischiati” (così definiti perchè composti, come taluni ricorderanno, da parti sequenziali non lineari, adatti a più tipologie di lettori proceduralmente individuati da un coesistente apparato autovalutativo del livello di comprensione del testo e sulla cui base sono organizzati i rimandi alle pagine di lettura adatte ad ognuno), si sarebbe potuto -magari con più lavoro e maggior tempo a disposizione- procedere alla stesura di una pluralità di testi o volumetti certamente più rispondenti alle diverse enciclopedie e alle aspettative individuali, nonché ai bisogni diseguali di differenti ipotetici lettori. Come potremo constatare, con le nuove Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (TIC) questa evenienza da possibile, ma impraticabile, sta diventando praticabile a livelli di diffusione prima inimmaginabili e con l’impiego di risorse davvero esigue rispetto a quelle una volta necessarie. Anche aspetti quantitativi come quello appena indicato hanno contribuito non poco alla determinazione delle caratteristiche qualitative dei nuovi ambienti di apprendimento che le TIC hanno creato: nuovi, beninteso, per gli adulti o rispetto al passato, ma “naturali” o almeno familiari, invece, per le nuove generazioni che vi si trovano “fisiologicamente” ad operare lungo tutto l’arco dello sviluppo psicofisico individuale. Se si escludono i pur non pochi casi di banali e talvolta pericolose fughe in avanti, le TIC hanno prodotto, come si sa, effetti dirompenti e quasi sempre positivi anche nel campo della didattica, cioè in un ambito conoscitivo che, occorre qui precisare, si occupa di una particolare forma (e contenuto) della comunicazione: quella educativa. Di una comunicazione concernente perciò, primariamente, ma non solo, la trasmissione e la costruzione nelle nuove generazioni, dei saperi opportunamente selezionati da ciascuna comunità socioculturale, da ciascun Paese, in quanto ritenuti più di altri
capaci di assicurarne, al tempo stesso, la continuità identitaria e l’apertura al cambiamento senza il quale non si può stare, soprattutto oggi, se non nel motore della storia, neppure nel mondo. 2. Comunicazione educativa e comunicazione non verbale La comunicazione educativa è un processo assai delicato e complesso, non solo di trasmissione alle nuove generazioni o ad un pubblico più ristretto di adulti, adolescenti, bambini ecc., di saperi, conoscenze, competenze, norme e valori condivisi e opportunamente selezionati; ma anche, se non soprattutto, di allestimento di contesti e ambienti ottimali per la costruzione individuale e sociale di quell’insieme di saperi, in situazioni formali - scuola, università, accademie e simili, non formali - aziende, amministrazioni pubbliche e private, ecc. e persino informali - in casa, nel vicinato, per strada e così via. Occorre precisare che in quanto comunicazione, quel processo presuppone e comporta la presenza di un trasmittente, di un ricevente, di un canale, nonché di un contesto simbolico condiviso, che permetta di dare senso e significato ai dati e alle informazioni cosi da rappresentare un sistema di relazione e scambio a due vie: dal docente o chi ne sa di più sulla questione oggetto della comunicazione al discente e viceversa. In quanto, poi, educativa, cioè capace di formare in senso lato, cioè di condurre da uno stato A ad uno B ritenuto più avanzato e desiderabile, la comunicazione, ma soprattutto l’effetto via via prodotto da essa dovrebbe essere monitorato e valutato continuamente per permettere agli attori (e ai responsabili) del processo relazionale di adattare le proprie rispettive condotte alle necessità emergenti modificando il rapporto tra i fattori che innalzano la qualità dell’azione educativa. La mancata comunicazione a due vie e la mancata regolazione valutativa degli interventi didattici rappresentano due delle principali
cause dell’insuccesso nell’apprendimento anche di soggetti dotati di forte volizione e alte capacità. Purtroppo però, persino nelle situazioni formali e perciò intenzionali della formazione (nella scuola, nell’università come nei corsi di aggiornamento dei repertori professionali di chi lavora, ormai resisi necessari per la lifelong learning, ecc.), spesso si pensa che per il sol fatto di trovarsi docente e discente in una situazione di prossimità spaziale e temporale, la comunicazione educativa avviata sia in realtà una comunicazione a due vie: dall’uno all’altro dei due attori e viceversa attraverso adattamenti consapevoli dell’azione educativa. Numerose indagini empiriche hanno invece mostrato, purtroppo, che quella più diffusa risulta essere la comunicazione a una sola via: tra chi insegna e chi apprende, senza alcun riscontro degli effetti prodotti, quindi senza poter decidere per l’ottimizzazione del processo. Ciò accade, seppur meno vistosamente, anche quando si adottino metodiche didattiche fondate sull’apprendimento cooperativo. Gli esiti disastrosi delle mancate azioni di regolazione della proposta didattica in funzione delle caratteristiche cognitive e affettivo-motivazionali di chi deve apprendere e degli obiettivi formativi perseguiti, a causa della indisponibilità dei dati informativi di ritorno sulla efficacia e sulla qualità della relazione comunicativa e dei processi individuali di co-costruzione dei saperi, si registrano assai spesso al termine del corso, quando ormai è troppo tardi, dispendioso e frustrante cercare di porvi rimedio. La mancata relazione comunicativa a due vie, causata tra l’altro dall’assenza di procedure valutative non fiscalizzanti e dalla inconsapevolezza o mancata memorizzazione dei dati valutativi, cioè di quelli davvero in grado di offrire informazioni utili per la strutturazione di decisioni che abbiano alta probabilità di successo, determina una bassa qualità dei processi e dei risultati formativi.
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Nella formazione in presenza, processi ed esiti scadenti derivano, anche, paradossalmente, dall’attivazione, questa volta molto efficace, della comunicazione non verbale. Facendo riferimento ai grandi numeri, le stime di successo o di insuccesso di ciascuno degli allievi, stime fatte dai docenti sulla base di un insieme di indizi o elementi valutativi comunque soggettivi (come soggettivi sono gli strumenti generalmente impiegati per la quasi totalità delle verifiche dell’apprendimento a scuola come all’università) finiscono inesorabilmente per avverarsi. Attraverso “comportamenti che insegnano”, che cioè “comunicano” messaggi ben precisi in modo davvero pervasivo, i docenti adattano, spesso inavvertitamente, le loro scelte didattiche e tutto il repertorio della comunicazione non verbale, la loro prossemica, alle stime di successo o insuccesso fatte per i loro allievi. A seconda di queste, sosterranno o inibiranno certe condotte, gratificheranno o frustreranno taluni comportamenti, così promuovendo, in definitiva, in ciascun soggetto, un incremento o un decremento del proprio livello di autostima e/o del suo senso di adeguatezza al compito richiesto, con effetti virtuosi o viziosi sul piano cognitivo, affettivomotivazionale e persino relazionale. Tutto ciò contribuisce non poco a creare nei fatti quelle condizioni che producono gli esiti per ciascuno attesi, ma attesi sulla base di impressioni o valutazioni (soggettive) talvolta pre-giudiziali. Se si escludono le possibili condizioni di frequenti videoconferenze, l’uso di web-cam o comunque della videocomunicazione in diretta, nella Formazione a Distanza (FaD) che oggi più d’ogni altra modalità formativa presuppone e comporta un impiego massiccio delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione e alla quale faremo riferimento più avanti, la prossemica non influenza così tanto, nel bene come nel male, i processi didattico-formativi.
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3. Tecnologie dell’istruzione e didattica Proprio evolvendosi come riflessione, analisi e proposta formale dei processi che hanno luogo nella messa in atto dell’insegnamento intenzionale e nella strutturazione dell’apprendimento significativo, la Tecnologia dell’istruzione o Tecnologia/e didattica/che o dell’educazione (in questa sede vogliamo valorizzare intenzionalmente gli elementi di sinonimia delle tre locuzioni e non le pur forti differenziazioni semantico-concettuali che ne distinguono gli ambiti di studio) si è dotata ormai di un robusto apparato teorico-interpretativo, nonché di metodologie di indagine in grado di accrescerlo continuamente, che non può assolutamente essere ignorato, pena il pressappochismo posticcio dell’improvvisazione formativa. Tutto ciò può aiutarci non poco a risolvere i tanti problemi postici dalla rivoluzione delle TIC , dal cambiamento dei modi di organizzazione della quasi totalità delle attività dell’uomo nelle società odierne e quindi, inevitabilmente, dal variare delle finalità socioculturali assegnate alla scuola, alla formazione professionale e all’auto e/o eteroformazione che in varie forme accompagnerà ormai ciascuno di noi lungo l’asse della vita lavorativa e non solo di essa (lifelong learning). Molti di quei problemi derivano, in ultima istanza, dal mutamento che risulta necessario apportare non solo al cosa, ma anche se non soprattutto al come insegnare per promuovere apprendimenti significativi, per far padroneggiare a ciascuno e in ogni contesto, quei saperi e quelle strategie di apprendimento (e affettivo-motivazionali e relazionali) rilevatisi storicamente e/o volta a volta, caso per caso, efficaci per far acquisire (criticamente) nuove competenze in forma autonoma. Si è ormai consapevoli che, se è vero che un impiego competente delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione da parte di ogni cittadino rappresenta il tramite per l’esercizio attivo della propria cittadinanza, così come per molti produttori costituisce uno
(se non lo) strumento per svolgere il proprio lavoro, è anche vero che la qualità dell’uso di quelle tecnologie verrà paradossalmente a dipendere sempre più dalla formazione scolastica ricevuta. Paradossalmente perché per quanto quello delle TIC rappresenti, come abbiamo accennato, l’ambiente nuovo, ma ormai familiare e “naturale” entro cui e attraverso cui tutti i più fortunati abitanti di questa terra hanno la prima conoscenza del mondo, l’evoluzione tecnologica richiederà una sempre più ampia competenza e una più spiccata consapevolezza non solo per padroneggiarne l’uso, ma per starne dentro criticamente. Non è perciò superfluo ricordare che, come ho già avuto modo di scrivere, le competenze, senza alcuna specificazione, si esprimono, nella «capacità di adottare strutture, piani, schemi e programmi di azione capaci di integrare a livello interdisciplinare le conoscenze, formali e informali, teoriche, esperenziali e procedurali possedute, per risolvere un problema in un contesto ambientale specifico; di adottare, inoltre, un sistema di monitoraggio della validità del programma nel contesto specifico (meta-cognizione), quindi di ri-adattarlo (meta-valutazione e meta-decisione), costruttivamente, per porre in atto comportamenti adatti al raggiungimento degli scopi, ovvero per il raggiungimento di un risultato adeguato alle intenzioni prestabilite»1. Né risulta inutile in questo contesto avvertire il lettore che in netta opposizione alla moda pervasiva della denuncia e rinuncia tout court all’autoreferenzialità della scuola, lo scrivente al contrario ne propone un forte recupero per quegli aspetti che storicamente hanno fatto della scuola quel particolare ambiente di istruzione diverso da tutti gli altri, per la sua spiccata capacità specialistica di produrre saperi altamente strutturati (raramente acquisibili in altri contesti), quei saperi moderni che, solo se diffusamente posseduti dal complesso della popolazione, possono rappresentare il tramite per promuovere un collegamento reale, a livelli socioculturalmente alti e un mezzo di su-
peramento della separatezza tra scuola, società e mondo del lavoro da più parti lamentata. Un recupero intelligente e più avanzato di quella perduta autoreferenzialità eviterebbe, peraltro, quello schiacciamento reciproco dell’uno sull’altro di quei poli, demagogicamente chiamato oggi modernità e che invece è concausa non secondaria della progressiva distruzione delle strutture formative, soprattutto pubbliche, e con essa dell’abbattimento nelle nuove generazioni di una formazione alta nonostante la loro maggiore e crescente scolarizzazione, nonché della progressiva demolizione dell’immagine sociale dei docenti con tutto ciò che ne consegue sul piano educativo-culturale. Si ricorderà che gli ambienti formali di insegnamento e di apprendimento sono così definiti perché in quanto opportunamente attrezzati, provvisti cioè di particolari risorse scientifiche, tecnologiche e materiali - mezzi, strumenti, laboratori, nuovi ambienti di apprendimento reali e virtuali - ma soprattutto di risorse umane - i professionisti esperti della istruzione/formazione, più e meglio di altri luoghi possono favorire, e in tempi ragionevolmente più brevi, l’apprendimento, la costruzione e ricostruzione di conoscenze, procedure, strategie, competenze e saperi significativi per l’individuo e per la collettività umana.
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Certo, in un ambiente artificiale ovvero culturalmente specializzato e attrezzato per istruire, il capolavoro formativo si potrebbe avere quando in forma ludica, e perciò esplorativa, gli elementi e il complesso dei curricula, ovvero di una sezione prescelta di ciò che definiamo cultura, prodotto “artificiale” dell’uomo, vengano ad innestarsi con rigore, impegno e, ci si augura, con divertimento, sul patrimonio conoscitivo “naturale”, inteso come familiare, del soggetto in apprendimento (si pensi, nell’uso delle TIC , quanto sia proficuo tener conto della diffusa familiarità che con esse hanno gli allievi in ingresso nella scuola) senza discontinuità inibenti, ma con salti compatibili con le caratteristiche e gli stili cognitivi individuali (la vygotskijana area di sviluppo prossimale). Quando l’oggetto dell’azione educativa ha in qualche modo a che fare con le TIC l’ottimizzazione del processo e persino quel capolavoro dovrebbero risultare di più agevole fattura. Partendo dalle competenze degli allievi nell’uso delle tecnologie a loro più familiari è senza dubbio più facile procedere per farne differenziare progressivamente gli impieghi, così come progressivamente spingerli alla riflessione su di essi. Ma in generale la chiusura ludica del circolo esperienza individuale o dato empirico-esperenziale -nuova conoscenza, astrazione, ovvero riflessione e meta riflessione - ricaduta empirica o possibile applicazione in ambito esperenziale, chiusura del circolo necessaria per la costruzione dei saperi socialmente degni di attenzione (quelli, per intenderci, nel bene e nel male sottesi ai curricoli e ai programmi e articolati nelle quote sovranazionali, nazionali, locali), è operazione complessa, assai specializzata e artificiale, poiché di squisito carattere culturale, e può attuarsi al meglio solo in luoghi specificatamente deputati all’istruzione. Molti saperi e molte competenze apparentemente e immediatamente inutili sul versante empiricolavorativo, i cosiddetti saperi disinteressati
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spesso apostrofati come “scolastici”, sono proprio quelli che nelle società tecnologicamente avanzate come la nostra (che essenzialmente presuppongono e richiedono soggetti in grado di operare senza problemi con simboli e linguaggi specialistici e settoriali) emancipano il soggetto dalla necessità di dover rincorrere solo con l’aiuto di altri nuove “conoscenze”, dandogli la possibilità di stare dinamicamente nel mondo - cioè di partecipare al suo governo e, perché no, anche al suo cambiamento. L’eteroreferenzialità della scuola, o comunque di ogni ambiente formale di formazione, produce invece quasi esclusivamente un addestramento a svolgere mansioni ripetitive richieste dal mondo già dato, da quello che si è trovato in eredità e che l’acriticità cognitiva oggi prodotta dalla scuola, condanna a perpetuare. Molti dei problemi didattico-culturali posti dalla diffusione pervasiva delle moderne TIC stanno trovando soluzione, seppur temporanea, non tanto nelle e per lo svolgimento delle attività formative scolastiche o della formazione professionale (dove all’ostentazione demagogica della modernità delle famose tre i, nel nostro caso di informatica e di internet nei programmi elettorali delle forze politiche di governo sono corrisposti scarsezza dei mezzi messi a disposizione e una spiccata negligenza operativa dell’Amministrazione) quanto e soprattutto nelle iniziative universitarie di Formazione a Distanza (FaD) con l’impiego di particolari piattaforme e-learning. Mi riferisco, tuttavia, a quelle iniziative assunte da alcune università “tradizionali”, nate cioè ben prima dei recentissimi atenei telematici che purtroppo praticano solo la formazione a distanza correndo seriamente il rischio di trasformarsi in luoghi di mera trasmissione di saperi prodotti quasi tutti altrove. Quando, purtroppo, la didattica praticata dai docenti non scaturisce più né si integra con la loro ricerca (come ancora suggerisce il significato di universitas studiorum, anche in presenza di molti altri centri culturali e di ri-
cerca), essa finisce col rispecchiare pedissequamente le peculiarità “commerciali” delle TIC impiegate! È invece soprattutto in alcune iniziative FaD finora assunte dalle “vecchie” università che la qualificazione della proposta didattica avviene attraverso una intenzionale curvatura delle tecnologie alle esigenze delle più accreditate strategie di insegnamento-apprendimento, al materiale oggetto di studio (in gran parte esito della ricerca del Centro universitario che eroga il servizio) nonché alle caratteristiche individuali di chi deve apprendere, e non con il mero adattamento della formazione alle tecnologie volta a volta acquisite rincorrendo il mercato! 4. Perché il riferimento alla valutazione FaD e-learning La FaD, come è intuitivo, si ha quando l’erogazione di un corso di istruzione coinvolge allievi che continuando a permanere nel proprio luogo di residenza lo seguono “a distanza”, lontani perciò dal centro che lo ha pianificato, organizzato e che lo gestisce. L’interazione tra docenti e discenti non avviene dunque in uno spazio in cui, come per la formazione convenzionale, “faccia a faccia”, vi è la presenza contestuale di entrambi gli attori del processo formativo, un loro contatto diretto, una sostanziale contiguità spazio temporale delle rispettive azioni. L’interazione, senza la quale non può esserci né insegnamento né apprendimento, si attua invece indirettamente, viene affidata ad altre vie e si avvale di altri mezzi: oggi, di quelli che in letteratura sono definite, appunto, TIC. Le cosiddette piattaforme e-learning, altro non sono che un concentrato d’uso, non solo da parte di chi gestisce il “corso”, delle più avanzate tecnologie dell’informazione e della comunicazione (prioritariamente Internet, ovvero la Rete e il Web), ovviamente quanto più funzionali possibile alle caratteristiche della strategia formativa prescelta, dei materiali e dei contenuti informativo-formativo veicolati e trattati, di quanti devono apprendere, eccetera.
È nella FaD così intesa che l’impiego delle TIC viene a costituire nel contempo fondamento e coronamento delle attività didattiche. La mancata prossimità spaziale, e per molti versi anche temporale, tra docente e allievo spinge più che nella più consueta situazione d’aula a trovare le soluzioni tecnologiche più efficaci per promuovere le condizioni che favoriscano in tutti i fruitori della proposta formativa un apprendimento di alta qualità. Non potendosi infatti avvalere della ricchezza informativa della prossemica (anche se come abbiamo visto se ne fa spesso un uso negativo) dal momento che la comunicazione è prevalentemente mediata, asincrona (non immediata, o sincrona), è ovvio che la FaD utilizzi tutte le TIC storicamente disponibili, le quali, proprio in quanto esito, talvolta rivoluzionario, della ricerca scientifica e tecnologica di settore mutano il modo di insegnare e di apprendere. Ma è anche vero che persino la FaD più avanzata, oltre a far riferimento a tutti i linguaggi possibili, assegna un ruolo fondamentale all’interazione verbale scritta (dalla comunicazione delle “istruzioni per l’uso” al trattamento dei dati informativi e ai processi di codifica e transcodifica di diversi codici passando per buona parte dell’approfondimento tematico-concettuale dei materiali di studio) per assolvere importanti funzioni didattiche. Non è per caso che il presente saggio dia un rilievo del tutto particolare, inusuale in trattazioni dello stesso genere, alla comunicazione verbale scritta. Per queste come per altre ragioni il far riferimento alla valutazione nella FaD come a modalità valutative per molti versi paradigmatiche di quelle impiegabili nei più diversi contesti formativi in cui si utilizzino moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione, diventa quindi comprensibile. In questa modalità di insegnamento-apprendimento più che in altre forme di intervento educativo infatti, l’impiego massiccio delle nuove TIC così come delle più efficaci strategie formative vengono a rappresentare, sia i presup-
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posti teorico-culturali fondativi dell’attività didattica, sia lo spazio fisico e virtuale in cui si manifesta l’esito di quella attività, quindi il campo specifico di riferimento entro cui è insostituibile l’operare valutativo autonomo ed eteronomo, interno ed esterno, con riferimento a risorse, mezzi, prestazioni professionali e apprendimento. Pertanto, una sia pur breve analisi delle finalità, degli strumenti e delle procedure valutative più importanti nella formazione a distanza e su cui più ampio è l’accordo tra i non molti ricercatori di settore, può offrire uno spaccato del come operare anche in situazioni d’aula non virtuali nelle quali si impieghino i più moderni mezzi tecnologici e i più diversi ambienti con cui e in cui promuovere l’apprendimento, cioè trasmettere e far costruire all’allievo, bambino, adolescente o adulto che sia, quei saperi e quelle competenze storicamente o volta a volta condivisi, desiderati e programmati perché ritenuti in grado di promuovere in chi li padroneggi la capacità di acquisirne, e se possibile di produrne, di nuovi, autonomamente e nei più disparati contesti, nel settore conoscitivo specifico o generale di riferimento. 5. Momenti e funzioni della valutazione. Cosa significa valutare Consapevole dell’impegno di non incorrere intenzionalmente nei due errori estremi della trattazione di questioni specialistiche paventati in apertura di questo intervento e volendo andare subito al cuore del problema, converrà perciò precisare subito, nel contesto qui considerato, il concetto di valutazione ritenuto, tra i tanti, il più proficuo e utile. Esso rimanda all’operare valutativo come a quella particolarissima attività che in qualche modo consiste nella «attribuzione di “valore” a fatti, eventi, oggetti e simili, in relazione agli “scopi” che chi valuta intende perseguire»2. Ovviamente, l’azione valutativa per diventare capace di orientare le scelte in rapporto agli obiettivi perseguiti, di rappresentare in
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sintesi uno strumento di regolazione delle decisioni utili per favorire il verificarsi degli eventi favorevoli e inibire o superare quelli reputati dannosi, ha bisogno di un sistema di riferimento chiaro e in gran parte predefinito di qualificazione di quegli eventi. Un simile sistema può essere costituito o dall’insieme degli obiettivi che si vogliono raggiungere, oppure, dalla sintetica definizione preliminare di ciò che si intende in generale per evento desiderato e atteso, ovvero dalla scala del valore attribuibile ai diversi fatti ed eventi o ai loro elementi costitutivi e alle rispettive qualità. La potenza demistificatrice e deideologizzante della definizione dell’operare valutativo data sopra, è immediatamente evidente, così come altrettanto chiaro è il suo rimando esplicativo circa le procedure formali da seguire per compiere correttamente l’attività di valutazione. Se, con essa, viene bandita ogni forma valutativa valorialmente precostituita, in cui siano cioè predefiniti rigidamente una volta per tutte l’ambito, l’oggetto e gli elementi del giudizio,
viene altresì posto contemporaneamente fuori “norma”, ogni operato valutativo che giustifichi solo a posteriori il giudizio che lo accompagna o lo conclude. Se questa definizione esclude quindi dalla teoria e dalla pratica valutativa ritenute accettabili, la fissità dogmatica dei giudizi di valore assoluti, non per questo ritiene corrette le posizioni relativistiche che, all’opposto delle prime, giustificano tutto e il contrario di tutto, in ragione della continua mutazione dei valori cui fare riferimento. Più razionalmente, essa considera accettabile dinamicamente, cioè non per l’eterno, ma fino ad una successiva più avanzata definizione del quadro di riferimento e dei suoi elementi costitutivi, quei procedimenti valutativi e i giudizi che li accompagnano, quando risultino fondati sì, su criteri resi preliminarmente espliciti -non foss’altro che per evitare l’ambiguità nella comunicazione e nell’accordo intersoggettivo tra gli attori coinvolti nel processo-, ma quando con essi venga anche resa pub-
blica e condivisa la scala di discriminazione degli eventi, ovvero di attribuzione di valore (non dei valori) ad essi, o a certe loro qualità, facendo diventare il tutto, quella pietra di paragone su cui si fonderà il giudizio. Ed è proprio questo secondo inscindibile requisito di ogni procedimento valutativo che voglia essere scientificamente fondato ma anche, dato il contesto sociale di impiego dei risultati di quel procedimento, accettabile sul piano democratico, a risultare sistematicamente disatteso tanto nella moda pervasiva, ma pericolosissima, di valutare ormai tutto e sempre, qualsiasi organizzazione, attività, operato umano ecc. quanto nei processi formativi in presenza e a distanza che facciano più o meno massiccio impiego delle moderne TIC. Il relativismo cui quella definizione rimanda non è perciò giustificativo d’ogni giudizio, ma solo di quelli rigorosamente costruiti sulla base delle regole predefinite e, quel che è più importante, condivise, anche se sempre aperte a tutte le possibili modificazioni che possono però compiersi lecitamente solo a posteriori, a bocce ferme, proprio sulla base di una valutazione critica degli esiti valutativi cui si è pervenuti, ovvero dell’accrescimento delle conoscenze teoriche o procedurali di settore. All’autorità assolutistica della tradizione e all’eclettismo disorientante del cambiamento continuo del modernismo (non certo della più rigorosa e impegnativa modernità), questa definizione oppone solidi punti di riferimento giustificati sul piano culturale dall’accordo convenzionale e resi stabili, certo non per sempre, ma almeno per il tempo necessario alla conduzione delle attività su quella base intenzionalmente intraprese. Certo, la valutazione nella FaD con piattaforme e-learning, parimenti alla valutazione nella formazione in presenza che impieghi le più diffuse TIC, anche se non necessariamente quelle di ultima generazione, rappresenta ancora un processo poco indagato e conosciuto. Tuttavia, l’impiego di regole e criteri generali applicabili a qualsiasi procedura valutativa,
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possono proficuamente impiegarsi con opportune modificazioni per procedere alla scoperta progressiva delle variabili significative che entrano in gioco nella formazione a distanza e in quella in presenza con le moderne TIC, nonché delle relazioni che tra quelle variabili intercorrono. Sarà quindi più agevole procedere poi ad una valutazione più corretta, più rispondente alle caratteristiche dei mezzi e degli ambienti, con i quali e dentro i quali si attivano vecchi e nuovi processi di apprendimento, e si realizzano esiti procedurali e finali simili a, ma anche e soprattutto diversi da, quelli diffusamente conosciuti impiegando mezzi e ambienti, strumenti e contesti tradizionali. La questione concerne ancora una volta, in estrema sintesi, anche se a livelli più avanzati, la qualità dei risultati formativi processuali e finali che in specifici contesti e attraverso certi processi, certi mezzi e “ambienti” diventano appannaggio di tutti ovvero requisito cognitivo generale, ancorché stilisticamente personale, di chi ha compiuto quelle “esperienze”. Chiarito preliminarmente il quadro di riferimento, ovvero il cuore del problema valutativo, possiamo finalmente inoltrarci in una sua breve analisi in stretta relazione con l’altro corno della questione inerente alle tecnologie della comunicazione in generale, della comunicazione didattica in particolare. 5.1 La valutazione ex-ante Per svolgere delle attività di formazione formale e non formale (rispettivamente, come peraltro si è già accennato, la formazione posta in atto in ambienti istituzionalmente a ciò deputati –scuola, università, centri di formazione tecnica e professionale, e simili; la formazione in luoghi di lavoro), sia in presenza, sia a distanza -con o senza l’impiego di piattaforme e-learning, sia, ancora, in una modalità che integri entrambe (diffusamente definita blended) occorre, in qualche modo, trattandosi di formazione intenzionale, pia-
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nificare complessivamente e poi progettare più precisamente i percorsi. Progettare cioè i corsi, i tempi, i mezzi, i luoghi, le risorse, i materiali, ecc. da impiegarsi, o impiegabili, in relazione: agli scopi o obiettivi perseguiti; alle caratteristiche oggettive e soggettive della popolazione utente; ai mezzi disponibili; ai contenuti di studio o di insegnamento e apprendimento specifici; al tipo di strategia possibile, oltre che in relazione ad altri vincoli variabili nel tempo e da contesto a contesto e che sarebbe perciò tanto stupido quanto inutile pretendere di descrivere più o meno compiutamente. Ebbene, già in questa fase di lavoro preparatorio la valutazione entra in gioco contribuendo non poco a determinare la futura qualità dei processi di istruzione o formazione e i suoi stessi esiti. Questa valutazione ex ante, che si voglia o no viene compiuta sempre: in forma salutarmente esplicita e consapevole, oppure implicita. In quest’ultimo caso essa può essere attuata o da competenti esperti che la utilizzano consapevolmente e agilmente nelle proprie strategie di decisione, oppure, come più spesso accade, da chi è poco o per nulla competente e quasi sempre inconsapevole che all’apparente avalutatività del proprio operato corrisponda una messa in pratica di teorie implicite, poco valutabili razionalmente perché non sottoponibili a vaglio critico individuale o pubblico. Teorie perciò non confutabili, modificabili, adattabili alla nuova situazione, come invece dovrebbe accadere nell’operare scientifico e democratico. Cosa accade nella procedura valutativa definita ex ante? Che tutto il materiale conoscitivo e informativo di cui si dispone circa gli esiti procedurali e finali di progetti abbastanza simili o analoghi in alcune sue componenti costitutive, viene vagliato criticamente in rapporto all’abbozzo di progetto formativo che si ha in mente e si vuole preliminarmente (rispetto ovviamente alla sua messa a punto e alla sua esecuzione) sottoporre ad analisi preventiva per individuarne il grado di ade-
guatezza e pertinenza rispetto alle condizioni date, al contesto del nuovo intervento. In sintesi estrema, in considerazione del desiderio di formare una certa popolazione in un certo modo e in presenza di certi vincoli, ecc. si compie l’operazione di confronto delle soluzioni progettuali possibili, per sceglierne la più adatta al contesto, alle risorse, ai vincoli e agli obiettivi perseguiti. Nella formazione a distanza con piattaforma e-learning così come in quella in presenza o mista (a distanza e in presenza o blended o integrata, come preferiamo chiamarla noi), l’operazione va fatta con particolare riferimento alle peculiarità complessive di chi deve apprendere, agli ambienti specifici utilizzati per promuovere l’apprendimento, ovvero in relazione alle tecnologie della comunicazione impiegabili per ognuna e per le diverse funzioni della didattica, ai contenuti e ai materiali di “studio”, alle risorse, soprattutto umane, utilizzabili. Nella progettazione della FaD che si avvalga di piattaforme e-learning occorrerà allora, in relazione ai fattori prima considerati, scegliere la piattaforma più adatta. Anche qui il rapporto tra strategia didattica e caratteristiche peculiari delle TIC impiegabili diventa cruciale. E allora, con una ipotetica modalità didattica che, oltre alla prevalente attività di formazione a distanza, preveda anche momenti interattivi in presenza (con ciò si possono ben desumere i problemi e le possibili soluzioni teorico-pratiche della valutazione in entrambe quelle situazioni) occorre prefiguare le caratteristiche dell’una come dell’altra attività. Per quella a distanza on line occorre quanto meno stabilire o sapere come la piattaforma elearning adottabile possa permettere: il livello più alto d’individualizzazione della proposta didattica e assicurare al percorso formativo caratteristiche di interattività e flessibilità molto elevate; la strutturazione e la messa in rete dei contenuti dei corsi e del corrispondente apparato didattico (moduli; esercitazioni per il consolidamento, l’approfondimento e l’esten-
sione dell’apprendimento; simulazione di contesti; prove di autoverifica del processo di apprendimento e simili); l’interazione e la comunicazione sincrona e asincrona tra chi eroga la proposta formativa (primariamente nella figura dei docenti –intesi come autori dei materiali di studio on line, insegnanti e valutatori-; nonché dei tutor) e singolo allievo e degli allievi tra loro; l’apprendimento cooperativo e lo scambio di informazioni ed esperienze remote e recenti tra studenti e studenti e docenti e tutor; l’allestimento di spazi appositi per comunicazioni, verticali e orizzontali, (mailing list, chat, forum); l’assolvimento di funzioni generali e specifiche dei tutor remoti (intesi, appunto, come esperti organizzativi; ‘consulenti’ delle procedure e delle attività di formazione; facilitatori degli impegni di studio; addetti al sostegno affettivo-motivazionale oltre che culturale, eccetera); l’organizzazione per gruppi degli studenti; l’uso di strumenti semplici, ma adatti alle necessità specifiche, di editor per la gestione dei contenuti e di prove di verifica dell’adeguatezza delle procedure formative oltre che dell’apprendimento; il tracciamento e la memorizzazione delle attività didatticamente rilevanti (siano esse individuali che collettive o di gruppo) eccetera. Per la formazione in presenza che si avvalga più o meno massicciamente delle TIC più avanzate, il problema da risolvere in questa fase valutativo-progettuale del lavoro formativo riguarderà la connessione tra materiali di apprendimento, profilo dell’allievo in uscita dal periodo formativo e ruolo di ognuna delle TIC impiegabili, ora come elementi costitutivi dell’ambiente che si vuole creare per promuovere e facilitare la costruzione e la cocostruzione dell’apprendimento; ora (magari con riferimento ad una stessa o ad altre tecnologie) come strumento facilitatore delle funzioni - altrettanto necessarie - di accesso alle informazioni, alle fonti informative e di trasmissione di quelle conoscenze senza le quali diventa impossibile esercitare e far esercitare autonomamente al soggetto l’azione elabora-
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trice di costrutti teorico-pratici, la costruzione di modelli interpretativi, eccetera. Compiuta l’operazione valutativa ex ante sulla cui base sarà stato prefigurato il progetto formativo, quella successiva di pianificazione e progettazione delle corrispondenti attività, compresi monitoraggio, verifica e valutazione in itinere, potrà svolgersi con minori margini di errore previsionale. 5.2 La valutazione in itinere In un progetto formativo che si rispetti, la valutazione non può non considerare, prioritariamente, le variabili che più di altre contribuiscono a determinare per un verso la specificità del processo che con l’attuazione del progetto si mette in atto, per altro verso la sua qualità e, con alta probabilità, gli stessi suoi esiti. Le teorie relative alla qualità in campo formativo qui condivise, postulano la qualità non già come astratta e indefinibile, e perciò non “misurabile” o, peggio ancora, misurabile per così dire solo soggettivamente, bensì come entità concretamente individuabile e determinabile piuttosto precisamente. Queste teorie la interpretano in qualche modo come espressione/misura della adeguatezza della proposta didattica: a) alle caratteristiche cognitive e affettivo-motivazionali di chi deve apprendere; b) ai requisiti formali dei saperi e delle competenze da promuovere, nonché agli ambienti di apprendimento e ai contesti in cui si opera; c) al profilo della popolazione delineato e desiderato in uscita dal percorso di formazione progettato e attuato. Dal momento che la proposta didattica in qualche modo si concretizza in contenuti e materiali di studi; ambienti di costruzione e/o cocostruzione e/o di trasmissione dell’apprendimento; canali comunicativi; apparati tecnici e tecnologici; strumenti e modalità di monitoraggio e regolazione della procedura, ecc. si comprende allora come la valutazione in itinere abbia a che fare con tutti questi elementi o fattori dal momento che questi, più di altri, contribuiscono a determi-
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nare la qualità processuale del progetto di formazione/istruzione elaborato e messo in atto. Il processo valutativo si pone così come mezzo procedurale per l’ottimizzazione dei percorsi individuali e collettivi. Ma esso può aver luogo quando tutti siano posti nella condizione di produrre e impiegare con continuità e/o in momenti particolari, informazioni e dati sull’andamento delle proprie e delle altrui attività significative svolte (talvolta anche le più minute) nel “sistema o per il sistema” in cui si opera. È la condizione necessaria per permettere che seppur a diversi livelli di responsabilità tutti, appunto, possano assumere micro e macrodecisioni per rafforzare o modificare azioni, intensificare o cambiare l’impiego di particolari strumenti, di risorse e ambienti, al fine di rendere sempre rispondenti le attività e i mezzi agli scopi formativi perseguiti come veri e propri fini procedurali. Sulla base di queste considerazioni e riprendendo la “definizione” data sopra del processo valutativo, la domanda da porsi sarà dunque, anche per la valutazione in itinere: cosa ha valore e perché nella e della azione formativa intrapresa? Se, per così dire, nella strategia didattica l’enfasi è posta su tutto ciò che si colleghi al costruttivismo, all’apprendimento collaborativo, alla corresponsabilità di chi deve apprendere circa i risultati conseguiti durante e al termine di un processo di insegnamento-apprendimento on line, allora saranno i corrispondenti indicatori – opportunamente definiti e resi espliciti, pubblici - a suggerire forme, strumenti, procedure e criteri della valutazione. Se non si vogliono seguire passivamente le mode culturali (sempre pericolose, anche quando innescate da apparati concettuali di grande spessore come purtroppo sta accadendo in molte esperienze di formazione a distanza) per non compiere macroscopici errori di stima del peso di talune variabili o di alcune pur specifiche funzioni didattico-valutative della formazione in Rete, e perciò non si vogliono escludere i riferimenti concettuali e
operativi all’istruttivismo, all’apprendimento individuale, l’uno e l’altro insostituibili anche nella FaD (come peraltro potrebbero scoprire studiando meglio le sue opere i neofiti di L. S. Vygotskij), allora andranno messi nel novero delle variabili ponderali da sottoporre a verifica e valutazione, anche quelle riferibili ai fattori sottesi da entrambi quei riferimenti concettuali. Come ho già avuto modo di notare 3 essi non escludono, come troppo frettolosamente si afferma, ma al contrario “presuppongono e comportano la creazione di contesti e la messa in atto di processi di costruzione e cocostruzione dei nuovi saperi, di confronto e di cooperazione orizzontale e verticale tra discenti, tutor, esperti e docenti in una comunicazione sincrona e asincrona da uno a uno o a molti e viceversa, al fine di strutturare relazioni significative per l’apprendimento. Nei corsi FaD in Rete, formali e non-formali, corsi che per tante ragioni privilegiano strutturalmente un pubblico adulto perché lo si preferisce già “letterato”, scolarizzato, difficilmente si opera con soggetti così disinteressati da disporsi alla formazione per un tempo che possa “essere esteso ad libitum. La variabile temporale qualifica in alto l’offerta formativa attraverso l’impiego di tecnologie e procedure metodologiche congruenti con la quantità di tempo disponibile” o definito dalla durata di un ciclo di studi “(nonostante che la FaD consenta più d’ogni altra soluzione didattica l’uso soggettivo del tempo metrico a disposizione d’ogni fruitore della proposta). Anche qui, dunque, valgono le riflessioni sull’assurdità dell’esclusivizzazione del metodo euristico nella didattica: se è impossibile seguire nell’ontogenesi delle conoscenze, dal bambino all’adulto, le tappe, e ancor più i tempi del loro costituirsi storicamente, insomma della loro filogenesi, altrettanto può dirsi, soprattutto in riferimento ad una utenza adulta, della esclusivizzazione dell’apprendimento cooperativo e della interattività tra gli attori nel processo di formazione in Rete. Sostenere che solo per tale via si favorisca la costruzione
sociale delle conoscenze e l’accrescimento dello stesso sapere oggetto della formazione, che in tal modo finalmente non sarebbe più astratto e decontestualizzato, significa di fatto bandire dalla formazione proprio quei saperi a più alta spendibilità autonoma individuale” che la scuola, peraltro, dovrebbe promuovere in tutti i soggetti. Esaminando una certa letteratura sull’argomento e molta parte delle iniziative di formazione on line, “si direbbe che si stiano ripercorrendo, certo a livelli tecnologici più avanzati e/o in contesti mutati geneticamente, i sentieri che sembravano rivoluzionari, ma che in effetti erano reazionari, proposti da quanti negli anni Settanta del secolo scorso volevano la descolarizzazione della società per democratizzarla! Dall’abolizione dell’obbligo di istruzione alla proposta di promuovere il vero apprendimento, reso finalmente possibile con la formazione in Rete, cioè l’apprendimento “disinteressato”, inteso come “costruzione collaborativa della conoscenza”, la fuga in avanti, ma regressiva, è immediatamente percepibile: per la in sé nobilissima volontà di promuovere un sapere disinteressato, si priva nei fatti la maggioranza dei cittadini della possibilità di acquisire, soprattutto da adulti, saperi utili per vivere meglio il proprio tempo e per cercare di partecipare al governo del cambiamento senza subirlo solamente. Nella valutazione in itinere potranno avere allora senso i dati attinenti ai pareri e punti di vista e persino percezioni e sensazioni di docenti, allievi, tutor, o di osservatori privilegiati, ma relativi anche al tempo complessivo trascorso in rete, e a quello speso in ognuno degli “ambienti” di apprendimento disponibili; alle connessioni compiute in un dato intervallo di tempo o rispetto ad una unità o modulo formativo; al numero e alla tipologia di nodi visitati; alla partecipazione, e al suo eventuale peso relativo, nei collegamenti sincroni e asincroni (chat, forum, ecc.) con i docenti, con i tutor e, trasversalmente, con gli altri allievi, eccetera. Dati, questi ultimi, che,
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almeno sul piano quantitativo, la FaD, o comunque un impiego razionale delle moderne TIC - a differenza di qualsiasi altra forma di istruzione/formazione, in particolare di quella “in presenza” in cui occorre organizzare e usare strumenti appositi di osservazione, rilevazione e registrazione dei dati- permettono di avere in modo per così dire fisiologico (cioè attraverso la tracciabilità, la memorizzazione, delle azioni individuali) quelle informazioni. I flussi informativi da attivarsi sono comunque vari e relativi tanto agli aspetti formali della strategia quanto a quelli informali o di ulteriore supporto al processo di apprendimento. Ogni specifica tipologia delle informazioni da e per ognuno degli attori del processo formativo, va in qualche modo classificata e registrata per essere sottoposta ad opportuni trattamenti. Per mezzo dell’analisi di quei dati diventa così possibile avere sotto controllo il valore che volta a volta assumono le variabili omologhe alla diversa tipologia di dati, in relazione sia a ciascuno che a tutti i corsisti, in modo che si possano avviare tanto iniziative in grado di coinvolgere i singoli allievi, quanto iniziative capaci di condurre ad una vera e propria revisione e regolazione dell’impianto didattico complessivo. Le principali tipologie di dati riguardano: • gli aspetti ascrittivi di ciascuno studente; • gli atteggiamenti iniziali e finali verso la proposta formativa (rilevati con un questionario d’ingresso e uno di uscita); • i livelli cognitivi d’ingresso e d’uscita; • la partecipazione alle attività di formazione proposte; • i risultati conseguiti alle prove di verifica, scritta e orale, di ciascuno e di tutti i moduli in cui eventualmente si articola il programma di lavoro; • la partecipazione alle iniziative tutoriali; • la frequenza e i contenuti delle interazioni da e per tutor, docenti e altri studenti. La procedura di registrazione e di trattamento di dati omogenei permette di disporre nel più
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breve arco di tempo delle omologhe informazioni relative sia al singolo che all’intero gruppo di allievi; sia all’andamento dell’attuazione delle specifiche funzioni della didattica che dell’efficacia e dell’efficienza dei mezzi e delle procedure di gestione. In altri termini è così possibile compiere: a) l’analisi sincronica, trasversale, della posizione in un qualsiasi tempo t1; t2; t3; ... tn, di ciascun allievo e/o di tutti gli allievi, in rapporto ad ognuna delle variabili significative (obiettivo: identificazione dei ritardi della percorrenza degli itinerari previsti e delle cause probabili - questioni relative a problemi individuali degli allievi e/o strutturali e/o gestionali); b) l’analisi diacronica, longitudinale, dell’andamento nel tempo di ciascuna i quelle variabili, per ciascun allievo, e per tutti gli allievi considerati come un unico aggregato; (obiettivo: verifica dello stato di avanzamento dell’apprendimento di ogni allievo e della procedura formativa complessiva); c) l’analisi incrociata dei dati relativi a, e dei dati risultato di, tutte quelle variabili (obiettivi: analisi del peso specifico assunto dalle singole variabili nella determinazione dei risultati registrati; modifica ponderata dell’assetto strutturale, organizzativo e gestionale dell’impianto complessivo). Le informazioni indicate, pur costituendo una sorta di sistema nervoso della strategia, perciò tutte indispensabili per assicurare un proficuo avanzamento delle attività di insegnamento e di apprendimento, hanno una incidenza abbastanza differenziata nel lavoro organizzativo, di gestione e di coordinamento delle attività. È soprattutto in forza di quelle informazioni e dei risultati del loro trattamento che la proposta didattica si adegua alle esigenze individuali per mettere tutti nella condizione di conseguire comunque la padronanza degli obiettivi formativi finali desiderati. L’analisi quali-quantitativa di tutti i dati disponibili si accompagnerà e dovrà essere incrociata sempre con quella quali-quantitativa
degli apprendimenti promossi, per dar loro senso e significato. Nelle esperienze di formazione in rete più diffuse e in molte di quelle che comunque fanno un massiccio impiego delle TIC , la valutazione dell’apprendimento promosso in ciascun individuo e con esso il materiale di studio e di esperienza impiegato, trova purtroppo posto solo accidentalmente! Il monitoraggio delle procedure o strategie di ripescaggio, attivazione e impiego delle conoscenze possedute da ciascun allievo per affrontare contesti nuovi, di scoperta o conferma di “teorie” interpretative delle situazioni problematiche che progressivamente ognuno si trova ad affrontare nel processo di costruzione dei suoi nuovi saperi potrebbero evitare tale inconveniente. Si pensi a quante di tali situazioni si incontrano nei nuovi e diffusi ambienti di apprendimento che le TIC mettono a disposizione o permettono di costruire, e dove si strutturano appunto le conoscenze, per esempio elaborando un testo o navigando in Internet. Se al monitoraggio si associa poi una verifica tendenzialmente oggettiva degli apprendimenti via via promossi (attuata magari soprattutto con prove semistrutturate definibili volta a volta in relazione alla specificità della situazione, ma sempre secondo ben precisi modelli formali di costruzione), il tutto potrebbe contribuire per un verso a tenere sotto controllo le variabili soggettive dei docenti; per altro verso a conoscere meglio gli allievi sul piano cognitivo, affettivo e relazionale così da adattare in itinere, appunto, la proposta formativa alle loro peculiarità, ma sempre in vista degli imprescindibili traguardi cognitivi propri di ogni percorso di studi e che tutti gli allievi dovrebbero raggiungere, magari per vie e con esperienze diverse. 5.3 La valutazione ex post Questo procedimento valutativo ha come scopo l’analisi di bilancio critico, a freddo si direbbe, della validità complessiva della strategia didattico-formativa impiegata ed eventualmente delle sue articolazioni interne. An-
che in questo caso il criterio di giudizio con cui confrontare gli esiti raggiunti e l’insieme e/o i singoli elementi costitutivi della strategia usata, dell’organizzazione del lavoro allestita e della gestione del progetto formativo attuata, diventa l’apprendimento desiderato e atteso. L’esito di questo processo potrà non avere ricadute sugli studenti con esso direttamente coinvolti, ma certamente su quelli che verranno appresso ovvero sulla ri-pianificazione e sulla ri-progettazione della strategia formativa, andando ad alimentare, chiudendo anche in questo caso virtuosamente la spirale programmatorio-valutativa, la successiva valutazione ex ante del futuro e, ci si augura, più avanzato progetto d’intervento educativo. Note: 1. Domenici, La valutazione nel nuovo sistema formativo, in G. Domenici (a cura di), La valutazione come risorsa, Napoli, Tecnodid, 2000, p. 24. 2. Sui problemi della valutazione in generale e su quelli posti dalla considerazione del processo valutativo come attribuzione implicita o esplicita di valore ad una o più qualità di un qualcosa o qualcuno, in particolare, si vedano, tra gli altri G. Domenici, Manuale della valutazione scolastica, Manuali di base, Roma-Bari, Laterza, 2003; L. Cajola, G. Domenici, Organizzazione della didattica e valutazione, Roma , Monolite Editrice, 2005. 3. Cfr. in particolare, le pp. 263-273 del capitolo di G. Domenici, Didattica e valutazione nella formazione a distanza, in L. Cajola, G. Domenici, Organizzazione della didattica, cit Riferimenti Bibliografici: DOMENICI G. (a cura di), La valutazione come risorsa, Napoli, Tecnodid, 2000; DOMENICI G. Manuale della valutazione scolastica, Manuali di base, Roma-Bari, Laterza, 2003; CAJOLA L., DOMENICI G., Organizzazione della didattica e valutazione, Roma, Monolite editrice, 2005; DOMENICI G. (a cura di), Ragioni e strumenti della valutazione, Napoli, Tecnodid, 2009.
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IMPRESA DI COSTRUZIONI
Di particolare rilevanza sono attualmente le esperienze maturate dall’Archiplan nei settori dell’edilizia residenziale, manutenzione, gestione e censimento di patrimoni immobiliari pubblici e privati. In particolare, i settori in cui l'impresa opera sono: • Costruzione, ristrutturazione e vendita di fabbricati civili, industriali, uffici e locali commerciali; • L'esecuzione di lavori edili di diversa natura; • L'installazione di impianti civili ed industriali; • La Gestione Immobiliare • La costruzione e la manutenzione su committenza di soggetti pubblici e privati. • Interventi di manutenzione su guasto, manutenzione programmata ordinaria e straordinaria (global service manutentivo).
In ogni settore l'impresa confeziona prodotti di qualità; le opere sono realizzate impiegando materiali di prima scelta e personale altamente qualificato. Poniamo particolare attenzione non soltanto nelle finiture ma anche nell'aspetto architettonico ed ambientale.
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www.archiplan-srl.it
Ricerca scientifica e sperimentazione operativa sulle reti di imprese. Strategie innovative per la competitività e lo sviluppo aziendale: trasformare la conoscenza in valore
Il contributo dell’Università di Perugia Gruppo di Ricerca sulle Reti di Impresa Da sinistra: ing. Antonio Biagetti - Presidente spin off NetValue ing. Massimiliano Brilli - Presidente GPT dott.ssa Vanessa Rossi - ricercatrice Facoltà Ingegneria Università di Perugia ing. Lorenzo Tiacci - ricercatrice incardinato Facoltà Ingegneria Università di Perugia dott. Andrea Cardoni - ricercatrice Facoltà Ingegneria Università di Perugia
www.macchine.unipg.it/RICERCA/reti.html
1. La ricerca sulle reti di imprese dell’Università di Perugia Nel 1998 si è costituito all’interno del Dipartimento di Ingegneria Industriale uno staff di lavoro denominato IP3, acronimo di Industrial, Plants, Project & Production, con l’obiettivo di studiare le problematiche riguardanti i processi industriali delle aziende, con particolare riferimento alle PMI, per comprendere quali fossero le strategie in ambito gestionale in grado di migliorare le performance produttive. Data la particolare natura dell’oggetto indagato il lavoro di ricerca è stato condotto attraverso progetti di collaborazione con le imprese, grazie ai quali il caso reale, l’”azienda”, è stato considerato a tutti gli effetti il laboratorio in cui sottoporre a verifica le ipotesi teoriche e i modelli elaborati in ambito dottrinale. In questo contesto sono stati attivati più di 100 progetti di ricerca attraverso la stipula di convenzioni tra imprese e il Dipartimento di Ingegneria industriale, impostando una metodologia di lavoro basata sullo studio delle principali caratteristiche dell’azienda sia sul fronte esterno (ambiente, mercato, business, ecc.), sia sul fronte interno (profili organizzativi, gestionali e informativi), sulla definizione del modello risultante dalle best practices e dai contributi proposti in ambito dottrinale e sulla elaborazione di indicazioni teoriche per il miglioramento delle performance. Una tale metodologia ha richiesto un approccio rigoroso dal punto di vista scientifico, per la corretta conduzione dell’analisi ed elaborazione teorica, ma funzionale ed efficace dal punto di vista operativo, per assicurare la concreta applicabilità e sperimentabilità delle proposte. Lo staff di ricerca si è così allargato fino ad arrivare agli attuali 20 ricercatori e collaboratori richiedendo, accanto alle competenze di carattere industriale e produttivo, il coinvolgimento di specializzazioni di matrice economica e finanziaria e la sempre più stretta collaborazione interdisciplinare con la facoltà di Economia. Forte dei riscontri ottenuti grazie ai progetti e al lavoro di ricerca condotto, il
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gruppo IP3 ha sempre operato considerando imprescindibile la sinergia tra conoscenza teorica e competenza operativa e ponendosi come mission (Fig. 1) quella di favorire l’incontro tra due realtà (le Università e le imprese) che, per quanto caratterizzate da orientamento e vocazioni profondamente e legittimamente differenti, devono trovare sempre più spazi di collaborazione.
CREARE, TRASFERIRE E VALORIZZARE CONOSCENZE SPECIALISTICHE IN AMBITO ACCADEMICO, ISTITUZIONALE E OPERTIVO SVILUPPANDO SINERGIE TRA UNIVERSITÀ E IMPRESE
ad affrontare l’accresciuta complessità organizzativa e la crescente globalizzazione dei mercati. Tali condizioni produttive richiedono una forte cultura aziendale e la capacità di sostenere investimenti rischiosi e impegnativi, facendo emergere la fragilità strutturale e la mancanza di competenze manageriali tipiche delle PMI. Sul piano della gestione aziendale si sono pertanto modificate radicalmente le dinamiche di creazione del valore aggiunto, una volta prevalentemente concentrate sulla fase di produzione mentre oggi riconducibili ai processi di analisi dei bisogni ed erogazione del servizio (fig. 2).
Fig. 1 - La mission del gruppo di ricerca IP3
2. L’attuale contesto competitivo e l’esigenza di modelli innovativi di aggregazione L’importanza, micro e macro economica, di tali obiettivi risulta evidente se si considera lo scenario evolutivo e in particolare il passaggio dalla “Economia Industriale” alla c.d. “Economia Post-Industriale”, nella quale riveste una importanza strategica il fattore produttivo “conoscenza”. Per una serie di condizioni ambientali lo sviluppo industriale si è per lungo tempo basato sui fattori produttivi lavoro e capitale, ha visto la prevalenza di asset “tangibili”, ha beneficiato di contesti stabili e di mercati in crescita, consentendo anche alle PMI con scarsa cultura aziendale di ottenere soddisfacenti performance economico-finanziarie facendo perno sull’efficienza della funzione produttiva. Al contrario, lo scenario di tipo “post- industriale”, sta manifestando la centralità del fattore conoscenza e la prevalenza delle risorse “intangibili” (capacità di innovazione, know-how, relazioni commerciali, istituzionali e territoriali, capacità di management, ecc.) come principali asset necessari
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Fig. 2 – Le dinamiche di creazione del valore aggiunto
Con riferimento al sistema produttivo nel suo complesso si sta osservando come il fattore produttivo “conoscenza” sta scardinando il funzionamento dei due sistemi su cui si è fondato tipicamente lo sviluppo industriale, l’impresa e il mercato, richiedendo dinamiche di attivazione, produzione, scambio e valorizzazione di risorse cognitive basate su forme organizzative reticolari (sistemi a rete). Partendo da tali assunti, ampiamente dimostrati in letteratura e riscontrati nell’osservazione empirica, il gruppo IP3 ha nel tempo spostato il focus di attenzione della ricerca sulle forme innovative di gestione aziendale necessarie ad affrontare le sfide dell’attuale contesto eco-
nomico, mettendo al centro dei propri interessi scientifici lo studio e la sperimentazione delle dinamiche di aggregazione e delle reti di impresa. Nei primi anni del 2003 è iniziato l’approfondimento di tali tematiche che ha portato, come primo importante risultato, all’attivazione presso il MIUR di un “progetto di ricerca di rilevante interesse nazionale” (PRIN) intitolato MIGEN (modelli e strumenti innovativi per la gestione dei network di imprese). Coerentemente con la metodologia di lavoro dei ricercatori del gruppo IP3 il progetto ha sviluppato l’elaborazione teorica, tramite la proposizione di forme innovative di networking nel contesto degli schemi proposti dalla letteratura nazionale e internazionale, e sperimentando parallelamente il modello proposto attraverso un reale progetto di aggregazione reticolare che ha interessato un gruppo di imprese operanti nel settore cartotecnico dell’alta valle tiberina, denominato GPT (Gruppo Poligrafico Tiberino). Il progetto scientifico si è concluso nel 2008 con una serie di pubblicazioni in ambito nazionale e internazionale, tra cui la redazione di un libro intitolato “Modelli e strumenti Innovativi per la Gestione dei Network di imprese” , e con la definizione delle premesse per indagare ulteriormente la tematica attraverso un nuovo PRIN proposto nel 2008 denominato VIODEMA , attualmente in corso di valutazione. Dal punto di vista empirico il network GPT è stato attivato operativamente e ha subito nel tempo un significativo e articolato processo di sviluppo (di cui si parlerà nel paragrafo successivo), e rappresenta oggi una realtà imprenditoriale che ha raggiunto interessanti risultati strategici e che sta dimostrando promettenti prospettive di crescita. Al fine di poter dar vita alla partecipazione e alla concretizzazione di business derivanti dai risultati scientifici ottenuti grazie al progetto MIGEN, nel 2007 è stato costituito lo Spin Off Accademico “Net Value”, il cui compito è quello di diffondere e commercializzare il modello di networking elaborato dal gruppo IP3 partecipando in
modo attivo alla costituzione e alla gestione delle reti e delle aggregazioni aziendali. 3. Un modello innovativo di aggregazione: il VDO Sotto il profilo generale il network si può considerare come una specifica forma di relazione tra attori economici che, traendo vantaggi dalla loro mutua dipendenza, dalla fiducia e dalla cooperazione, è in grado di portare economie esterne di agglomerazione e di innescare dinamiche innovative di tipo incrementale o radicale. Gli elementi che contraddistinguono i network sono i seguenti: • i soggetti coinvolti, generalmente rappresentati da entità giuridicamente indipendenti tra le quali si instaura una forma di dipendenza economica; • le modalità con cui tali soggetti sono tra loro interconnessi; • la presenza e il contenuto dello scambio, in cui si possono distinguere transazioni di prodotti o servizi, scambi di know-how e condivisione di risorse; • le modalità di gestione dello scambio, cioè come le attività e i compiti sono suddivisi tra le parti e come viene guidato e strutturato il comportamento dei soggetti. Le forme attraverso le quali le aziende possono attivare rapporti di collaborazione e networking sono le più svariate e ad ognuna di esse coincide con una differente configurazione degli elementi sopramenzionati (soggetti coinvolti, interconnessioni, oggetti e modalità dello scambio). Nel quadro dei criteri di classificazione proposti dalla letteratura, quello su cui si basa il modello elaborato nel progetto MIGEN e che è stato ritenuto maggiormente esplicativo per studiare le dinamiche di aggregazione è rappresentato dal seguente (Fig. 3); nello stesso viene operata una distinzione dei network in funzione alla mission strategica che fa attivare il rapporto di collaborazione.
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Fig. 3 – Classificazione dei network in base alla mission strategica (fonte ECOLEAD)strategica (fonte ECOLEAD)
In base a tale classificazione si osserva una importante distinzione tra network che si fondano su alleanze strategiche di lunga durata, tipicamente impostate sulla condivisione stabile delle loro risorse critiche, e network goal oriented in cui la strategia di collaborazione è finalizzata alla realizzazione di un singola opportunità di business o segmento di attività. Questi ultimi sono caratterizzati da relazioni più discontinue, in cui la sinergia operata tra le risorse critiche è limitata a particolari momenti produttivi o a specifiche condizioni di mercato. Il modello innovativo elaborato nell’ambito della ricerca accademica e della sperimentazione operativa MIGEN si è basato sul superamento di tale con-
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trapposizione e sulla necessità di individuare forme di networking che siano in grado di cogliere tutte le potenzialità derivanti dalle strategie di collaborazione, e in particolare: • i vantaggi di continuità e stabilità strutturale tipici delle alleanze di lunga durata; • i benefici, in termini di efficacia ed efficienza, derivanti dalla finalizzazione delle risorse critiche messe in comune con l’obiettivo di cogliere specifiche opporunità di mercato. Ne è derivata pertanto l’elaborazione di un modello di networking nel quale si può realizzare una forma di collaborazione stabile concentrata su opportunità di business (Fig. 4)
Fig. 4 – Le collaborazioni strategiche di lunga durata finalizzate alle opportunità di mercato
In questo senso si creano le premesse per superare alcune condizioni limitanti che caratterizzano i tradizionali modelli aggregativi, in cui la logica di cooperazione e la continuità della relazione sono influenzate da fattori geografici e territoriali (es. distretti) o da profili settoriali (es. consorzi). Tali forme di assetto collaborativo, pur presentando elementi di stabilità e di sinergia strutturale, rischiano di assumere elementi di rigidità strategica e di perdere la capacità innovativa che deriva dalla continua ricerca di nuove opportunità di business e dalla possibilità di servire il mercato operando nuove combinazioni di processo e di prodotto. Al contrario, il modello elaborato dal gruppo di ricerca propone una logica di aggregazione e di networking più generale in cui gli imprescindibili passaggi strategici sono: • l’individuazione di risorse critiche delle aziende facenti parte del network, rappresentate dal sistema di asset tangibili e intangibili di cui le stesse dispongono; • la disponibilità delle imprese ad attivare forme stabili di alleanza tramite la definizione di un framework contrattuale di collaborazione in cui vengono messe a disposizione del network le proprie risorse critiche; • la definizione e la ricerca delle opportunità di business in grado di valorizzare tali asset, delineando di volta in volta modalità di collaborazione “goal oriented” in funzione delle occasioni di mercato che un ufficio di sviluppo virtuale (denominato VDO, come acronimo di Virtual Development Office) è in grado di generare facendo leva sulle risorse critiche strutturalmente messe in comune. Si realizza così una forma innovativa di collaborazione in cui si mettono in comune, attraverso opportune forme societarie e/o contrattuali, i propri asset e si crea una nuova entità aziendale che beneficia delle potenzialità pro-
duttive, tecnologiche, commerciali, logistiche e professionali apportate dalle delle singole aziende. Per rendere operativa tale entità e trasformare le potenzialità produttive in opportunità di business viene richiesta la creazione di un ufficio virtuale di sviluppo (VDO) che abbia la mission istitutuzionale di: • selezionare i partner valutando gli asset apportati dalle imprese della rete; • individuare i segmenti di mercato e i contesti competitivi di operatività; • definire la corretta configurazione giuridica e il modello di governance (configurazione contrattuale/configurazione societaria; governance “forte”/governance “debole”); • promuovere le strategie di network finalizzate all’ ampliamento dei mercati, all’internazionalizzazione, all’ innovazione prodotti e al potenziamento dei processi gestionali di programmazione e controllo economico-finanziario; • intrattenere rapporti con il sistema degli interlocutori esterni con i quali promuovere e attivare forme di collaborazione e operatività gestendo in forma unitaria le opportunità derivanti dall’ambiente. Per superare alcuni limiti strutturali delle PMI e sviluppare le potenzialità di business della nuova entità la creazione di tale organismo VDO deve avvenire tramite la partecipazione di un soggetto esterno, con elevata capacità innovativa e professionalità manageriale, in grado di governare le dinamiche di coordinamento nei rapporti interni e di concentrare il sistema delle relazioni con clienti, centri di ricerca, enti pubblici ed istituzioni finanziarie (Fig. 5). Nella logica di networking, infatti, i legami che si instaurano con tali soggetti sono fondamentali per favorire la competitività e realizzare delle strategie innovative in cui le imprese e le istituzioni riescono a fare sistema per la creazione del valore.
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Fig. 5 – Il coordinamento degli attori di network e le relazioni con l’esterno nel concetto di VDO
E’ in questo contesto che opera lo Spin Off Net Value, mettendo a disposizione delle imprese che intendono attivare forme stabili di collaborazione gli strumenti strategici e operativi per l’implementazione del modello basato sulla creazione dell’ufficio di sviluppo virtuale (VDO) e partecipando attivamente in tal senso alla creazione e alla gestione del network. 4. Lo Spin off accademico e la sperimentazione operativa L’operatività di Net Value si è sviluppata attraverso un rapporto sinergico con l’Università, responsabile istituzionale della ricerca di base e applicata sulle dinamiche industriali e gestionali di network, dal quale è scaturita la definizione di un modello che richiede per la sua attivazione processi di diffusione e commercializzazione finalizzati alla creazione e alla gestione di reti stabili di imprese e aggregazioni. La nuova entità aziendale che nasce grazie alla diffusione del modello di aggregazione e alla creazione del network è in grado di esprimere una progettualità innovativa che alimenta un rapporto sinergico con l’Università, innescando in tal modo una relazione circolare virtuosa (Fig. 6).
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Fig. 6 – Le modalità operative dello Spin Off Net Value
In questo scenario l’attività dello Spin Off si basa sulla necessità di rafforzare la competitività delle imprese, consentendo alle stesse di affrontare le attuali sfide competitive e di superare le criticità strutturali tramite processi di aggregazione. Su tali presupposti sono state elaborate la vision e la mission di Net Value (fig. 7).
Fig. 7 - Vision e Mission di Net Value
L’importanza di una organizzazione come Net Value dedicata alla promozione e gestione dei network deriva dalle caratteristiche del modello di rete elaborato grazie alle ricerca accademica sviluppatasi nell’ambito del MIGEN. 4.1 I casi di successo – il caso GPT Uno dei casi di successo più importanti realizzati dal team di NetValue, innescato proprio grazie ad alcune opportunità agevolative promosse dagli interlocutori istituzionali (in particolare la Regione Umbria con il bando Re.Sta 2005) è rappresentato dal Gruppo Poligrafico Tiberino (GPT). GPT – Gruppo Poligrafico Tiberino S.r.l. è una società emanazione di un network di 20 imprese (soci della GPT srl) comprendenti anche lo Spin Off NetValue e la
finanziaria della Regione Umbria Gepafin, che ha l’obiettivo di fornire soluzioni integrate, complete e innovative nel settore comunicazione, stampa, packaging e servizi correlati. L’aggregazione è quella che può definirsi un network “orizzontale”, che mette insieme realtà aziendali tendenzialmente complementari in grado di esprimere insieme una copertura tecnica e tecnologica molto ampia sia nell’ambito della produzione che dei servizi. Dal punto di vista dei principali numeri dimensionali e di attività GPT conta 20 aziende socie, un fatturato a livello aggregato di oltre 150 milioni di euro, una forza lavoro di oltre 800 dipendenti di cui un 10% dedicati alla Ricerca & Sviluppo e 24 stabilimenti produttivi.
I partners soci della GPT
I settori e le tecnologie coperte dal network GPT
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Questi due elementi, ovvero la grande capacità tecnologica (integrata tra le varie aziende proprio da GPT) e la dimensione del network, consentono a GPT di puntare ad essere un fornitore globale, per importanti clienti pubblici e privati, nazionali e internazionali, di sistemi di prodotti e servizi, attraverso soluzioni integrate ad alto contenuto innovativo. E’ sulla base di questa impostazione che sono stati raggiunti alcuni importanti e concreti risultati di mercato tra i quali spicca la commessa (contratto biennale del valore superiore al milione di euro) ottenuta dal gruppo ENI per la realizzazione e fornitura di materiale di stampa e cartotecnico per negozi (volantino, espositore, blocchetto, materiale identificativo e promozionale, ecc), che rappresenta un esempio tipico di fornitura che abbraccia diverse tecnologie produttive e servizi del network, verso un cliente per il quale è fondamentale presentarsi con le capacità aggregate del network. Altrettanto rappresentativo risulta essere l’innovativo servizio messo a punto da GPT per la realizzazione e postalizzazione di diplomi universitari, ad oggi operativo con alcune importanti Università, che prevede l’invio a casa dello studente del diploma realizzato e confezionato in modo innovativo grazie alle tecnologie di varie aziende del network, in grado di fornire in questo modo tramite GPT un vero e proprio prodotto-servizio integrato. Non sono da meno i risultati nel supporto alla crescita delle aziende del network insieme alle quali GPT ha sviluppato progetti per un valore complessivo di oltre 5 M€ in ambito di innovazione tecnologica, ricerca e sviluppo e progetti di rafforzamento dei modelli di controllo gestionale e finanziario. Va in proposito evidenziato come GPT, adottando un metodo innovativo di aggregazione, si sia data una mission non solo commerciale ma anche di sviluppo del network e dei suoi partners, attraverso l’indivi-
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duazione, il coordinamento e lo sviluppo di progetti in rete di innovazione (di prodotto, processo, servizio), individuando al tempo stesso le opportune forme di finanziamento. Altro elemento fondamentale che rientra nel ruolo di GPT è quello di definire modelli e strumenti di cooperazione tra le aziende e di gestione della value chain. Infine, ulteriore compito della GPT, è il monitoraggio delle prestazioni dei partners al fine di garantirne adeguati standard non solo dal punto di vista del prodotto e del servizio ma anche della gestione aziendale. In sintesi la mission di GPT è quella dunque di agire nelle relazioni con il mercato, le istituzioni pubbliche, i centri di ricerca e le istituzioni finanziarie nazionali ed internazionali, come una singola organizzazione virtuale, con il compito di: • individuare e sviluppare opportunità di business (BO), strategiche e di lunga durata; • coordinare progetti di innovazione (prodotto, processo, servizio) individuando le forme di finanziamento; • proiettare il network sui mercati internazionali; • definire modelli e strumenti di cooperazione , value chain, attori coinvolti e ruoli; • Monitorare le prestazioni attraverso opportune forme di controllo. Si tratta di una mission che va ben oltre il semplice approccio commerciale e punta a creare le condizioni per una sinergia molto ampia tra le aziende del network. Tale importante mission e capacità operativa sviluppata ad oggi dalla GPT è stata il risultato del progetto che a partire dal 2007 e con il pieno coinvolgimento dei collaboratori dello Spin Off universitario ha visto la GPT passare da 3 a 20 soci (marzo 2007 – marzo 2008) attraverso un processo di selezione a valutazione dei nuovi partners e la definizione e l’appli-
cazione dei modelli di gestione e governance frutto del lavoro accademico. L’embrione della GTP si era generato già nel 2005 attraverso la creazione della società da parte dei 3 soci fondatori (Pasqui, Litograf Editor, Litop) promossa dal gruppo di lavoro universitario attraverso l’ideazione del progetto presentato sul primo bando sulle Reti Stabili (Re.Sta. 2005) della Regione Umbria, che ha creato l’innesco dell’aggregazione e ha fatto nascere l’embrione che poi si è sviluppato, come detto, a partire dal 2007 con il pieno coinvolgimento dello Spin Off e con la relativa applicazione dei modelli di ampliamento e gestione del network. Coerentemente con la logica definita dal modello teorico, in questo percorso hanno giocato un ruolo fondamentale sia gli imprenditori che le istituzioni regionali, con la Gepafin che ha supportato l’iniziativa partecipando al capitale sociale e la Regione Umbria che ha continuato a promuovere le iniziative di rete con i Bandi Re.Sta. tramite i quali il network GPT ha potuto dare seguito alle sue strategie di sviluppo. Il risultato è dunque oggi un network di aziende in crescita sia sul piano dei risultati che in termini di partners e che punta ad affermarsi ancora nel mercato avvalendosi della sua peculiarità di fare rete ed innovazione. Per concludere si può osservare che GPT è il risultato di un’importante sinergia tra Università, istituzioni (Regione Umbria, Gepafin, ecc.) ed imprese, in grado di produrre modelli di business innovativi che, grazie allo Spin Off NetValue, hanno trovato le condizioni per essere diffusi ed attivati nelle aziende, creando i presupposti anche per una replica di tali esperienze utile per salvaguardare il patrimonio delle piccole e medie imprese attraverso aggregazioni che permettono di sopravvivere e svilupparsi nell’attuale contesto altamente competitivo.
Contesto, management e leadership educativa
di Laura Piroli I concetti di contesto, management e leadership educativa sono strettamente legati tra loro, anzi, direi dipendenti l’uno dall’altro in una situazione particolare e ricca come quella scolastica. Perché ho posto il “contesto” come elemento primo, nell’elenco di questi tre sistemi che danno vita al macrosistema “scuola”? Perché è partendo dal “contesto” che si può implementare un percorso che spieghi l’importanza del Dirigente Scolastico in relazione alla comunità scolastica da lui “governata”. Il “contesto”, nel quale ogni singola scuola è calata, permea la vita della stessa, modificandola continuamente perché esso stesso è in continua trasformazione. Individuo e “contesto” sono, infatti, legati in maniera indissolubile, fusi gli uni con gli altri. Quando si parla di “contesto” si intende non solo l’ambiente che fa da sfondo all’istituzione educativa, ma anche il “contesto interno”, quello reale, che dà forma e sostanza ad ogni singola istituzione educativa e che è possibile conoscere mediante un’analisi dei bisogni formativi interni all’organizzazione e alle risorse che si hanno a disposizione. La conoscenza di questi due fattori, contesto esterno e contesto interno (composto oltre che dai bisogni formativi e dalle risorse anche, e soprattutto, dagli attori protagonisti: alunni, docenti, personale ATA e genitori), costituisce la “base” da cui un Dirigente Scolastico dovrebbe partire per approntare il suo modello organizzato
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e organizzativo di una scuola vista come “comunità che apprende”. Con la legge 59 del ’97 sull’Autonomia delle Istituzioni Scolastiche, cresce l’importanza che le scuole rivestono nell’attribuzione e distribuzione di poteri per quanto riguarda la loro gestione interna e, proporzionalmente, cresce l’importanza del ruolo del Dirigente visto come manager dell’Istituto Scolastico. Alla definizione di manager, nel senso più stretto del termine, ovvero “gestore” di un’organizzazione, va affiancato, per completamento, il termine di leader. Il leader è colui che, con carisma, guida, motiva e sviluppa la cultura della qualità all’interno della “sua” scuola. Il Dirigente come leader educativo è un protagonista di rilievo nella gestione della comunità scolastica, è colui che stimola gli insegnanti, organizza le competenze possedute da ognuno e condivide, con gli altri protagonisti del processo insegnamento/apprendimento, la sua vision. Il Dirigente scolastico che ha un ruolo di leader nelle istituzioni scolastiche, non deve essere visto come colui che guida prendendo decisioni autonome e non condivise, in quanto questo atteggiamento minerebbe i legami, già deboli, all’interno di una struttura “delicata” come la scuola, dove operano dei professionisti e dove, dunque, si deve parlare di leadership diffusa e centrata sull’apprendimento. Gli insegnanti, professionisti dell’apprendimento, rivestono un’importanza unica per la loro valenza formativa e per la sfida quotidiana da essi accolta, che si presenta nel processo di insegnamento-apprendimento soprattutto nella scuola dell’autonomia. Alla scuola si chiede, pertanto, di agire con efficacia ed efficienza, senza trascurare la qualità del servizio, il pieno perseguimento delle finalità socialmente assegnatele e la soddisfazione degli “utenti”. Il Dirigente e tutta la sua équipe devono progettare insieme un Piano dell’Offerta Formativa che comprenda finalità, obiettivi e strategie per raggiungerli che dovrà essere condiviso, perché, come si sa, in ambito scolastico, una decisione sub-ottimale ma condivisa, ha più probabilità di successo
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rispetto ad una decisione ottimale sul piano teorico, ma poco praticabile se non diffusamente accettata. Come è noto, tralasciando il nuovo sistema di “reclutamento” messo in atto con l’indizione dell’ultimo concorso per Dirigenti Scolastici, in passato, attraverso un apposito corso di formazione, i Capi d’Istituto sono diventati dei Dirigenti che si occupano di “management”, ossia pianificano, coordinano e controllano i processi e le attività di un’organizzazione. “Nelle scuole la funzione istituzionale del management è di pertinenza dei Capi d’Istituto e dei loro vice: il loro lavoro consiste nel pianificare, coordinare e controllare il funzionamento della scuola. Il concetto di “leadership educativa”, invece, è stato sviluppato nell’ambito di quel filone di studio che prende il nome di “ricerca sull’efficacia della scuola”, che afferma che la leadership educativa influisce positivamente -seppur in maniera limitata- sul profitto degli studenti” 1. Le maggiori differenze che si possono individuare tra leadership educativa e management scolastico sono state individuate da Bennis (Leaders e managers, 1989) il quale ha fatto la seguente distinzione: • Il leader padroneggia il contesto - Il manager si adatta al contesto • Il leader innova - Il manager amministra • Il leader forma e sviluppa - Il manager mantiene • Il leader è centrato sulle persone - Il manager è centrato sui sistemi e sulle strutture • Il leader ispira ira/fiducia - Il manager si affida al controllo • Il leader chiede cosa e perché - Il manager chiede come e quando • Il leader sfida lo status quo - Il manager accetta lo status quo • Il leader fa le cose in maniera giusta - Il manager fa le cose giuste “La leadership tende ad avere più significato formativo, proattivo e di problemsolving, poiché tratta con i valori, la vision e la mission,
mentre gli oggetti del management riguardano maggiormente l’esecuzione, la pianificazione, l’organizzazione e l’utilizzo delle risorse, oppure il “fare in modo che le cose si realizzino”2. L’OFSTED (agenzia centrale di ispettorato dell’Inghilterra) in una recente pubblicazione, ha indicato altre differenze attribuendo al leader capacità di miglioramento della scuola motivando e influenzando il personale, rendendolo più responsabile. Nel manager sono state carpite altre qualità quali il pensiero strategico e la pianificazione, valutazione e formazione del personale, gestione delle risorse e finanze. Fare queste distinzioni non è cosa semplice, molti studiosi infatti ritengono che questi due concetti si sovrappongano; si deve parlare, piuttosto, di qualità presenti in chi ricopre il ruolo di Dirigente Scolastico. Si tratta di qualità intellettive (preparazione), ma anche emotive (motivazione) e organizzative (impegno e lavoro ben strutturato). “ La leadership educativa può essere considerata come un fenomeno il cui obiettivo primario è il raggiungimento di un equilibrio tra tendenze estreme: direzione o autonomia dei professionisti, monitoraggio o sostegno, uso di strumenti e procedure o creazione di una cultura condivisa”3. Il Dirigente deve essere al corrente dei progressi degli alunni e fare in modo che gli alunni con problemi d’apprendimento siano adeguatamente e costantemente seguiti; deve essere visto come consigliere e supervisore degli insegnanti non come un “cerbero” che passa tutto il tempo a
controllare. Il coinvolgimento del Capo d’Istituto nelle decisioni importanti in merito ad obiettivi e metodi deve essere notevole. In una frase potrei dire che un buon manager scolastico è colui che è rivolto ai risultati e che fa dell’autovalutazione un ottimo strumento di verifica di tutto l’andamento dell’organizzazione scolastica oltre che del proprio agire. I Dirigenti, nel nuovo assetto autonomo, possono e devono avvalersi di collaboratori e questa “delega” non deve essere vista come un laissez faire, ma come una maggiore apertura e comprensione. Le caratteristiche che deve avere un Dirigente sono difficili da enumerare e stabilire rigidamente e, come si vede appunto dalla tabella riportata secondo gli studi di Bennis, i confini tra leader e manager sono a volte sfumati. Io credo che la qualità più importante risieda nella duttilità, nella capacità di capire e conoscere; il Dirigente è colui che si avvicina al nuovo non con il timore di perdere i suoi punti fermi, ma parte da questi per un’evoluzione continua e in questa direzione deve portare tutta l’organizzazione in cui opera perché, come da molti ricordato, “la scuola è un organizzazione che apprende”, dove ogni conoscenza genera conoscenza. Il Dirigente deve valorizzare le professionalità nella scuola, indirizzando i professionisti del sistema formativo verso obiettivi di crescita culturale e di sviluppo in modo condiviso; egli “sa” che “deve” contare sugli altri e deve impegnarsi per “creare un mondo” al quale gli altri sono contenti di appartenere, deve saper
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permettere ad ognuno di crescere, sapendo dirigere una scuola che cambia. Oltre ad avere capacità di gestione delle risorse finanziarie (in questo, infatti, è coadiuvato dal DSGA), deve promuovere e valorizzare quelle umane, riconoscendo competenze e talenti, creando sinergie con soggetti esterni, delegando compiti e funzioni, attivando processi di condivisione e aiutando a sviluppare capacità professionali umane nei docenti. Ogni individuo, anche se appartiene ad una specifica comunità, è un essere unico e non solo per l’originalità di cui è portatore e custode, ma proprio perché il suo aprirsi ad altre culture, grazie, oggi più di ieri, all’accessibilità delle conoscenze, fa si che le interpreti, le metabolizzi e nuovamente e costantemente si formi. Oggi ci troviamo di fronte non a più culture che interagiscono, ma ad una molteplicità di persone che, calate in un contesto specifico (la scuola), si aprono, ma che vengono anche “colpite” da ciò che è altro. L’individuo filtra ciò che impara dando ad ogni nuova conoscenza la sua impronta e il suo colore. Questa è l’unicità culturale, di cui ognuno è portatore e capire l’importanza di questa risorsa mette il Dirigente Scolastico nella condizione di “servirsi” di competenze forti, nuove e spendibili per migliorare il funzionamento della sua organizzazione scolastica. Aver autonomia non significa solamente avere più libertà di gestione, il “decentramento” non è esonerato dal dover rendere conto, infatti, le nuove scuole, con la predisposizione del POF (Piano dell’Offerta Formativa), rendono pubblici i propri intenti al cliente (termine oggi usato per connotare colui che si avvicina al sapere scolastico e, a mio avviso, questo termine è riduttivo perché “svende”, in un certo senso, il bagaglio di emozioni e vissuti di cui è portatore sia l’alunno che la famiglia, oggi sempre più coinvolta nel processo di insegnamento/apprendimento). Le famiglie all’atto dell’iscrizione prendono visione del POF e sarebbe auspicabile, e non tutte le scuole lo fanno, che siano fornite di una copia dello stesso, in quanto il POF è
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un contratto che propone una serie di offerte formative mirate all’acquisizione di determinate competenze (fermo restando i principi base enunciati nelle Indicazioni Nazionali) sulla base di un’analisi di bisogni formativi della popolazione scolastica, tenendo presenti le risorse interne ed esterne delle quali ci si può avvalere. Conoscere ciò che si è in grado di offrire è l’elemento chiave e necessario quando poi si rende conto agli utenti di ciò che si è fatto. Il valore aggiunto che la scuola è stata in grado di “dare” deve essere valutato al fine di una chiara e trasparente modalità di lavoro. L’autovalutazione, che prevede un’attività di monitoraggio, verifica e miglioramento continuo dell’offerta formativa non è fine a se stessa e necessaria solo ai fini della rendicontazione nei confronti dell’amministrazione. Le scuole che hanno una missione condivisa e una leadership diffusa (valorizzazione del personale mediante la sua “reale” conoscenza e attribuzione di incarichi), nell’autovalutazione vedono un momento di riflessione per fare una ricerca-azione sviluppando le capacità di coglierne i problemi e riuscire a risolverli. Autovalutarsi, permette all’organizzazione di conoscersi e rendere pubblici i risultati dell’autovalutazione, è un dovere che diventa diritto di tutti gli attori protagonisti del processo di istruzione (e non intendo solo gli alunni, i genitori, i docenti e il dirigente scolastico, ma anche gli ATA e i collaboratori scolastici) perché tutti sono responsabili del futuro della cultura in una scuola di qualità. Note: 1 G. Barzanò, S. Mosca, J. Scheerens, L’autovalutazione nella scuola, Milano, Bruno Mondadori, 2000, pp.115-117. 2 P. Earley, Leadership e management nell’istituto scolastico: presupposti e questioni, Seminario internazionale, “Guidare la scuola e valutare i risultati. Contesti e processi in Europa”, Bergamo, novembre 2000. 3 G. Barzanò, S. Mosca, J. Scheerens, op. cit., 2000, pp.12-13.
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La rappresentazione del rapporto genitorifigli nel cartone animato. Parte prima: considerazioni generali
di Savina Cellamare Introduzione Parlare della famiglia mediatica non è certo un argomento nuovo; nei media, infatti, questa è largamente e variamente rappresentata in quanto le vicende domestiche offrono un materiale copioso e di sicura presa sul pubblico: talk-show, varietà, fiction offrono, o meglio esibiscono, situazioni di interazione familiare tra genitori e figli, tra coniugi, tra componenti di famiglie allargate e altro. La scelta di fare della famiglia un oggetto di rappresentazione risponde evidentemente a logiche di mercato, poiché la famiglia stessa è lo spazio principale di consumo dei prodotti mediatici. La necessità di soddisfare le esigenze di un pubblico “di massa”, e perciò stesso ampio e diversificato, fa sì che l’offerta di contenuti sia di impronta generalista e la programmazione si caratterizzi per il fatto di essere anodina, ovvero “priva di connotazioni forti, sia dal punto di vista linguistico, sia dal punto di vista ideologico” (Melchiorre, 2000). Anche parlare
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di cartoni animati non denota grande creatività; sono stati scritti innumerevoli quanto autorevoli testi sia sugli aspetti strutturali e narrativi che li caratterizzano, sia sui contenuti e i messaggi che veicolano, sulla loro pericolosità per lo sviluppo psicologico dei bambini come pure, per contro, sui possibili effetti positivi della loro fruizione da parte dei destinatari di questo prodotto. Tuttavia, ci è sembrato che fosse interessante soffermarsi a osservare la rappresentazione dell’interazione tra genitori e figli rappresentata nei cartoni animati, un versante non ancora molto esplorato o almeno non esplorato nei termini in cui lo si propone in questo contributo. Tenendo conto dell’assunto affermato da diversi Autori per i quali il prodotto televisivo non crea una rappresentazione che condiziona l’utente ma rimanda al pubblico ciò che questi già ha nel suo bagaglio di convinzioni personali, spesso consolidate in forma di stereotipi, abbiamo voluto indagare il tipo di interazione tra genitore e figlio che si manifesta nell’ambiente rappresentativo costituito dal cartone animato. Per enucleare gli aspetti che caratterizzano questa interazione è stata allestita un’indagine esplorativa, nata –come spesso accade nella ricerca- da annotazioni e osservazioni raccolte occasionalmente durante incontri di formazione condotti con adulti, generalmente genitori, sulle vexata quaestio del rapporto tra famiglia e TV o su altri temi educativi (ad esempio gli stili genitoriali, i rapporti intergenerazionali, la conflittualità educativa ecc.). Poiché la polemica sull’incidenza che i media hanno, o avrebbero, nel determinare modelli di condotta è da anni viva e non accenna a spegnersi ma vive anzi periodici rinvigorimenti, abbiamo anche voluto vedere se il cartone animato offre agli utenti delle rappresentazioni delle relazioni familiari nuove, che vengono poi assorbite dal quotidiano, o se invece esso ripropone stereotipi tipici della nostra cultura circa la relazione genitorefiglio. Alla base della ricerca abbiamo posto le considerazioni teoriche che seguono.
Caratteri generali dei messaggi veicolati dai cartoni animati La televisione, e i mezzi di comunicazione di massa in generale, hanno una connotazione multidirezionale derivante dall’intercultura e dalla multietnicità; di qui la copresenza di una pluralità di linguaggi afferenti da un lato ad orizzonti culturali diversificati, e dall’altro interni ad uno specifico contesto e caratterizzati dal loro essere trasgenerazionali, dove per generazione si intende “un gruppo umano di comune età anagrafica, possibilmente accumunato da simili passioni, intenti, valori di riferimento” (Pellitteri, 2002, p. 20) e da un comune immaginario eroico, cioè da quell’insieme di personaggi che, pur essendo riconducibili a canoni narrativi diversi, sono investiti di valore ideologico. L’eroe definisce un personaggio ontologicamente ibrido, sospeso tra realtà identitarie ed affettive diverse che, in forza del possesso di particolari doti e di un forte senso di responsabilità, vive al di sopra della Legge perseguendo l’ideale di Giustizia; egli, strutturalmente legato alla propria missione anche quando incompreso, riparando i torti e proteggendo i deboli ha una funzione conservatrice e riparatrice. Figura antitetica e complementare è quella del punitore o antieroe, caratterizzato da una violenza iperbolica e da un uso distruttivo delle proprie risorse. Ciò che accomuna l’eroe e l’antieroe è il vissuto della solitudine. Tra questi due poli si colloca il quasi-eroe, cioè un individuo che viene ad assumere il ruolo di eroe in funzione di avvenimenti che lo coinvolgono suo malgrado ed ai quali fa fronte ricorrendo alle proprie capacità e attitudini; generalmente si tratta di personaggi femminili. Questa tripartizione tipica della cultura occidentale e mutuata dalla letteratura dell’‘800 e del ‘900, ha subito una forte riconfigurazione in seguito all’avvento degli anime, che ha determinato un allargamento del concetto di eroe segnando il passaggio dall’eroe clas-
sico all’eroe culturale, con il quale un’ideologia o un valore si concretizza nell’agire, non più di un solo eletto, ma di ogni membro della comunità; ed ecco che assumono una significatività positiva personaggi quali orfani, adolescenti, campioni sportivi e soprattutto le figure femminili e con questi una visione laicizzata ed universalizzabile del modo di concepire la guerra, la violenza, la solidarietà, l’ambiente, l’amicizia, l’amore e il sesso. Gli anime, concepiti nel rigido rispetto dei canoni di genere e delle fasce di età, hanno lo scopo di suscitare emozioni attraverso trame facilmente accessibili e piacevoli dal punto di vista narrativo; la funzione di comprimario assunta di volta in volta dai personaggi maschili o dai personaggi femminili dipende dunque dal target di riferimento, anche se la figura della donna risente degli stereotipi interni alla cultura nipponica: le eroine sono infatti spesso caratterizzate dall’androginia (come Lady Oscar), che ha sia la funzione si sottolineare la subalterità del genere femminile rispetto a quello maschile, e quindi la possibilità di emanciparsi solo attraverso il sotterfugio del travestimento che ne cela la vera identità di genere, sia di simbolizzare la transizione conflittuale dall’infanzia all’adultità. La medesima funzione è assolta dalla magia che, proponendo continui mutamenti della struttura fisica, avvicina gli spettatori alle trasformazioni corporee connesse al periodo adolescenziale e alla conseguente ristrutturazione dello schema mentale. È opportuno sottolineare che la metamorfosi magica non coinvolge la sfera cognitiva del protagonista, in genere di sesso femminile, che mantiene così i modelli interpretativi fasi-specifici che rappresenta: infatti nel caso in cui l’età del personaggio coincida con quella del fruitore si mantiene il legame di identificazione empatica a prescindere dall’apparenza fisica, sia quando il nuovo aspetto conservi l’identità di genere del protagonista stesso sia quando questo assuma le caratteristiche del sesso opposto; la funzione assolta dalla magia è dunque di tipo proiettivo. Il tema dell’ibridismo, e dunque della sospensione ontologica tra
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due realtà differenti, è il tratto caratterizzante delle figure dei robot e dei cybor; si tratta infatti di esseri in parte uomini e in parte macchine che vivono la condizione del rifiuto perché visti come divergenti dalla norma. Questo disagio, che li rende dei quasi-eroi, è reso attraverso la creazioni di scenari specifici per ogni singolo personaggio, come ad evidenziare la peculiare unicità del vissuto interiore. Sia i robot sia i cybor, nella loro necessità di una vita relazionale di tipo gruppale e nel loro rappresentare il diverso, possono essere interpretati come la metafora tanto dell’adolescenza quanto della condizione dell’immigrato; in particolare, il gruppo rappresenta il luogo nel quale l’identità esteriore e la condivisione di obiettivi comuni convergono. Il rapporto tra la corporeità umana e la corporeità meccanica si presta inoltre ad essere inserito nel dibattito bioetico interno alle recenti speculazioni scientifiche e religiose. La bioetica, ovvero “lo studio sistematico della condotta umana nell’ambito della salute, quando tale condotta è esaminata alla luce di valori e principi etici” (Traversa, 2002, pp 4041), nel suo valutare le problematicità che “si generano sulla base dei motivi epistemologici, conoscitivi e scientifici, interni alla scienza in quanto tale e ai suoi diversi paradigmi” apre la riflessione sulla questione della consapevolezza dei limiti e del fare responsabile e con esso della possibilità di scegliere. La motivazione all’avventura è definita dal tema della ricerca della famiglia o di uno dei genitori e assume da un lato il significato della scoperta delle proprie origini e della propria storia personale e dall’altro dell’esperienza della diversità e del razzismo connessi ai caratteri somatici; ancora una volta è evidenziato come la corporeità costituisca il termine medio tra il mondo interno e mondo esterno. Di qui l’importanza del riconoscimento che “non interviene, con le sue dinamiche e le sue processualità, in un momento secondo rispetto alla costituzione della soggettività”, ma al contrario è interrelato con il “costituirsi di un soggetto all’interno di un contesto […] dal quale il soggetto è sempre preceduto e
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determinato. In tale senso, dopo essersi costituito in quanto identità (tramite una logica del conoscere), dopo essersi affermato come ipseità (l’ipse definisce l’identità mobile considerata nella sua dimensione storica e quindi definita spazialmente e temporalmente) attraverso l’assunzione del proprio agire ([…] la cui azione si riflette sul proprio passato e si proietta nel proprio futuro), il soggetto si ritrova ad affrontare la questione di sé relativamente all’altro, all’alterità” (Ricoeur, 2005, p. XV). Anche l’umorismo, nella sua duplice accezione grottesca e goliardica, obbedisce ai medesimi criteri di differenziazione dei fruitori. L’anime sportivo costituisce un prodotto assolutamente caratterizzato dal punto di vista culturale; in esso vengono proposti infatti i valori fondamentali “dell’etica orientale, quali: la fatica, il raggiungimento dell’obiettivo, il dolore, l’abnegazione, il lavoro di squadra e il valore del singolo, la forza fisica e la forza della mente, la lealtà, la costanza, il potere della concentrazione” (Pellitteri, 2002, p. 176). Il protagonista, a prescindere dal sesso, è quindi impegnato in un costante processo di miglioramento personale che non passa attraverso l’acquisizione di posizione di potere ma attraverso la distinzione derivante dal possesso di determinate qualità morali; di qui la scelta di estendere la dimensione temporale che fa sì che l’azione svolta non si consumi in un lasso di tempo verosimile ma si protragga, rendendo lo spettatore partecipe dei pensieri dei protagonisti. E’ solo attraverso l’esplicitazione del pensiero infatti che è possibile cogliere la levatura spirituale del personaggio e il significato del confronto con l’avversario, che rappresenta sia un rivale da battere sia la presentificazione delle proprie debolezze; si è quindi di fronte ad una competizione affettivo-emotiva e fisica. Lo sport appare come “una metafora della durezza della vita” (Pellitteri, 2002, p. 180) nel quale si intrecciano violenza, scorrettezze, vendetta e morte ma anche sentimenti e modelli positivi; la pratica sportiva è un possibile orizzonte di senso. In quasi tutti gli anime è presente il tema del viaggio, inteso come sco-
perta dello spazio fisico e dello spazio interiore, funzionali alla ricerca del sé. È opportuno rilevare che i valori della cultura nipponica sono proposti in maniera esplicita e sono chiaramente identificabili all’interno di ogni singolo episodio, anche in presenza di adattamenti che hanno censurato atteggiamenti ed abitudini ritualizzati non rispondenti alla cultura occidentale; al contrario la componente ideologica dei cartoon americani è rintracciabile non nel singolo cortometraggio o in una serie specifica ma nell’intera produzione, che propone una visione del mondo e un approccio alla fantasia tipico di una determinata casa produttrice. Si tratta di prodotti prevalentemente ludici, in cui il sovvertimento dell’ordine e la conseguente anarchia rendono i personaggi comici nella loro drammaticità; la fissità delle caratteristiche identitarie dei protagonisti, la dimensione atemporale, la beffa, il paradosso, le deformazioni morfologiche, lo scontro fisico, lo sconvolgimento delle leggi della fisica e l’ironia, ottenuta attraverso un uso quasi nullo del linguaggio verbale, non sono però mai privi di ricorrenze tematiche subliminali. Negli anime le azione intraprese sono auto esplicative, mentre nella produzione americana non è infrequente che alcune serie propongano, alla fine dell’episodio, una parte riservata alla decodifica di quanto accaduto. È significativa l’esistenza di alcuni punti di raccordo ideologici trasversali alla cultura americana e alla cultura giapponese, quali: il razzismo, il rifiuto della diversità, la ribellione verso le forme deviate di potere, la catastrofe ecologica e nucleare. In definitiva è possibile affermare che la pericolosità della fruizione dei cartoons o degli anime da parte di un pubblico molto giovane risiede nella mancanza di competenze comunicative idonee alla decodifica del contenuto e al contesto socio-relazionale e culturale in cui questi sono inseriti. Ne deriva che i valori proposti non sono accostati in maniera acritica, ma sono accolti ed interiorizzati sulla base dei modelli proposti dalle figure genitoriali, parentadi e degli adulti di riferimento. Occorre pertanto una modalità ido-
nea di porsi di fronte al prodotto mediatico, creando le condizione per apprezzare, valutare e giudicare ciò che si vede; l’educazione televisiva si basa, infatti, sull’acquisizione del senso estetico e del senso critico e quindi sulla formazione di una forma mentis alla cui base si trova la capacità di comunicare, e che trova nella famiglia prima, e nel più ampio contesto sociale e delle istituzioni educative poi, un contesto di sviluppo. Potremmo quindi dire che se il cartone animato, così come qualunque prodotto multimediale, diventa fonte di problemi per la famiglia è la famiglia stessa a doversi interrogare sui motivi per cui questo accade. La famiglia attuale i suoi nuovi bisogni. La famiglia vive attualmente notevoli trasformazioni all’interno di una società che, a sua volta, è soggetta a cambiamenti rapidi, soprattutto sotto la spinta di un sempre più accentuato pluralismo culturale, religioso, etnico. Ovviamente tali mutamenti incidono sulle modalità di relazione che la famiglia sperimenta al suo interno e nella relazione con il contesto socio-culturale cui appartiene o si trova inserita, per scelta o per fatti contingenti. Uno dei cambiamenti più evidenti, che hanno sollecitato l’attenzione della ricerca sociologica e psicologica, è dato dall’aumento delle distanze fra le generazioni. Uno dei motivi per cui questo si verifica può essere rintracciato nel fatto che i genitori scelgano di avere i figli ad un’età sempre più avanzata e con un investimento affettivo ed economico sempre più elevato. Queste scelte possono avere come conseguenza un allentamento del legame tra genitori e figli per effetto della distanza d’età maggiore che in passato, quando tra le generazioni intercorrevano circa 20 anni. Oltre al fattore età, potevano influire sulla vicinanza i tempi e i modi di vivere, indubbiamente più lenti in quanto non sostenuti dall’accelerazione tecnologica particolarmente evidente nell’ultimo trentennio. I tempi più lunghi in cui si realizzava il cambiamento e le minori possibilità di movimento, dovute anche al diffondersi dell’informazione globale, favoriva
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una maggiore identificazione dei figli con i genitori. Ne è un esempio l’ereditarietà delle professioni e dei mestieri; spesso i figli svolgevano la professione dei genitori, possedevano conoscenze e competenze un po’ più avanzate, ma non totalmente diverse, vivevano in luoghi confinanti, se non negli stessi. Da alcuni anni questi meccanismi si sono incrinati e in alcuni casi dissolti e questo causa inevitabilmente un divario molto ampio fra genitori e figli. Se prendiamo come esempio l’ambito lavorativo si vede come i figli spesso svolgano professioni inimmaginabili per i genitori, in quanto inesistenti al tempo in cui i genitori hanno effettuato le loro scelte lavorative, con conoscenze e competenze molto diverse; la possibilità di muoversi in luoghi diversi in tempi rapidi e le esigenze poste dall’economia, che non ha più carattere locale ma planetario, incidono indubbiamente su bisogni e costumi dei più giovani e determinano decisioni e modi di vivere non sempre comprensibili per gli adulti. Per apprezzare il peso della distanza tra generazioni non occorre però andare lontano e si può rimanere entro le mura domestiche, davanti ad un computer, ad esempio. Molti adulti hanno fatto la sconfortante esperienza di sentirsi incapaci di gestire una macchina con cui i figli hanno un rapporto di grande libertà e confidenza fin da piccoli. Si tratta di situazioni che possono creare nei genitori disagio, sensazioni d’inutilità e/o d’incomprensione, di diminuzione del valore del ruolo genitoriale; può così diventare difficile riconoscersi adulto, ovvero esperto che dovrebbe sostenere la crescita del più giovane, e riconoscere il ruolo del figlio, soprattutto alla luce di un’immagine dei ruoli consolidata dalla tradizione ricevuta: “Mio figlio non lo riconosco più... noi non eravamo così”, “Non so mai come comportarmi con mio figlio” sono frasi ricorrenti nei dialoghi tra genitori, che denota la difficoltà a gestire la relazione, cosa molto più ampia e profonda dell’incapacità di utilizzare un computer insieme. D’altro canto i genitori tendono, a loro volta, a distanziarsi dalle figure genitoriali d’origine (è comune l’affermazione
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“non vorrei essere come mio padre”), ma trovano difficoltà a definire e mettere in atto nuove identità genitoriali e a ricomporre il gap che si verifica tra il modello ricevuto e le molteplici stimolazioni che richiedono una rapida riconfigurazione di quel modello. Un secondo fattore che determina per la famiglia bisogni tipici del nostro tempo è costituito dall’affermarsi di nuove identità maschili e femminili, legate ai cambiamenti connessi con il modificarsi dei ruoli femminili e maschili nella famiglia e nella società. Il fatto che la donna occupi spazi di dominio tradizionalmente maschile implica una ridefinizione dell’identità e del ruolo femminile, cosa che d’altro canto mette in crisi il ruolo maschile e paterno, che invece sta a sua volta cercando faticosamente un proprio modello e una propria rinnovata modalità di relazione. I padri, come rileva la letteratura più recente, spesso si sentono esclusi dalla crescita del figlio durante la primissima infanzia, a causa del legame simbiotico fra madre e bambino; richiedono, in seguito, di essere coinvolti nella cura del figlio, ma esprimono la fatica di elaborare modalità comunicative e relazionali proprie, diverse da quelle della madre e anche da quelle dei propri padri (Andolfi, 2001; Starace, 1983; Ventimiglia, 1994). Mancano, però, modelli di riferimento chiari e significativi per una nuova identità maschile meglio rispondente alle attuali esigenze sociali, educative, affettive, relazionali. Una delle conseguenze più diffuse e più studiate oggi è costituita dalla difficoltà ad assumersi quello che, nella nostra cultura, è il codice paterno, ovvero il ruolo di chi stabilisce le regole e riveste una certa autorità, sia quando i figli sono piccoli, sia durante la delicata età adolescenziale. E’ ormai unanimemente riconosciuto, a questo proposito, uno sbilanciamento verso un comportamento femminile/materno all’interno della famiglia attuale; la letteratura, in altre parole, sottolinea come i genitori tendano entrambi ad esibire comportamenti ed atteggiamenti connessi, nella nostra cultura, al codice materno. Risulta, quindi, più facile per madri e padri prendersi cura, proteg-
gere, aiutare i figli; è invece più difficile trovare ed attuare modalità di relazione che impongano e richiedano anche la spinta verso l’autonomia e l’indipendenza, la capacità di responsabilità, il rispetto delle regole. Il ruolo di chi impone la regola è in ogni modo molto scomodo. Un sintomo della difficoltà a rivestire il codice paterno è evidente nelle richieste che i genitori pongono sempre più alle scuole: richieste di consulenza e di gruppi di discussione proprio sulle tematiche delle regole, dei limiti, dell’autonomia. Questi argomenti generano, infatti, forte apprensione sia nei genitori con figli piccoli sia in quelli con figli adolescenti: le famiglie sono consce della propria difficoltà nel proporre (o, a volte, nell’imporre) limiti ai propri figli e richiedono alla scuola gli spazi per confrontarsi su questi limiti, per trovare le modalità per elaborare e affrontare in maniera costruttiva le eventuali trasgressioni. Un lavoro sinergico e integrato tra famiglie e scuola sarebbe del resto più che auspicabile, dal momento che sono le due agenzie educative che in modo più pervasivo e per un tempo lungo concorrono alla strutturazione della persona in tutte le sue dimensioni. Un terzo fattore di rilievo, molto più di quanto non appaia a molti, è la perdita di riti e rituali condivisi, un patrimonio culturale, religioso e sociale, oltre che personale, che si è pericolosamente assottigliato. In realtà, oltre alla mancanza di grandi rituali, i nostri ritmi di vita prevedono oggi anche la scomparsa di riti più quotidiani, come il pasto insieme. In molte famiglie è difficile ritrovarsi e condividere questo momento a causa degli orari complessi di uscita e/o di entrata dal lavoro, e così via. Questo fenomeno, sempre più evidente nella ricerca da parte di bambini e di ragazzini di altri e nuovi riti, a volte pericolosi, come il consumare sostanze stupefacenti insieme o il bere in gruppo per essere riconosciuti ed entrare e a far parte di un ambiente che conferisce una identità, anche se scomoda sul piano personale e sociale. Del resto i ritmi di vita che restingono gli spazi dello stare insieme in famiglia ampliano il tempo trascorso fuori casa, ad esempio a scuola, dove i
bambini svolgono la maggior parte della loro giornata. Se il tempo per stare in casa si contrae drasticamente è abbastanza facile che i mementi di permanenza a casa debbano essere suddivisi tra molteplici esigenze di tipo organizzativo e logistico e che quindi lo spazio per la relazione tra genitori e figli sia esiguo, o peggio frettoloso. È forse opportuno fermarsi a riflette che “l’educazione indaffarata, faccendiera, che va e viene senza posa, che chiacchiera senza fine, è l’immagine di una vita vissuta solo in superficie”; occorre allora recuperare “il significato delle pause, l’autorità che si esprime sottovoce, il linguaggio dei gesti espressivi misurati, degli sguardi pieni dell’anima, delle strette di mano”. Conclusioni Con quanto abbiamo detto fino a questo punto abbiamo voluto evidenziare le caratteristiche salienti dei due poli oggetto di interesse, ovvero la famiglia e i cartoni animati, per cercare di creare una base di conoscenza alla luce della quale analizzare i possibili effetti socioeducativi prodotti dalla fruizione televisiva. Da questa analisi sono scaturite le sollecitazioni che hanno avviato la ricerca esplorativa sulla rappresentazione del rapporto che intercorre tra genitori e figli, e più in generale tra adultoeducatore e giovane- educando, nei cartoni animati. Il percorso di ricerca e le riflessioni, a nostro avviso interessanti, che sono emerse saranno presentate in un successivo contributo. Riferimenti Bibliografici: Ammanniti M., Crescere con i figli, Milano, Mondadori, 1997; Andolfi M., Il padre ritrovato. Alla ricerca di nuove dimensioni paterne in una prospettiva sistemico-relazionale, Milano, Franco Angeli, 2001; Argenteri S., Affetti, emozioni, passioni: dal conflitto alla costruzione del senso, in Susi F., Cipriani R., Meghnagi D., Le antinomie dell’educazione nel XXI secolo, Armando, Roma, 2004, 236-243; Aroldi P., La meridiana elettronica. Tempo sociale e tempo televisivo, Milano, Franco Angeli, 1999;
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Bronfenbrenner U., Ecologia dello sviluppo umano, Bologna,Il Mulino, 1986; Bruner J.S., Il significato dell’educazione, Roma, Armando, 1973; Callari Galli M., Antropologia culturale e processi educativi, Firenze, La Nuova Italia, 1993; Camaioni L. (a cura di), Manuale di psicologia dello sviluppo, Bologna, Il Mulino, 1999; Cendon P., Il bambino e le cose, Milano, Franco Angeli, 1993, Fabio R.A., Genitori positivi, figli forti, Trento, Erickson, 2003; Horkheimer M., Studi sull’autorità e la famiglia, Torino,UTET, 1974; Kendal P., Di Pietro M., Terapia scolastica dell’ansia, Trento, Erickson, 1996; L’Abate L., Famiglia e contesti di vita. Una teoria dello sviluppo della personalità, Roma, Borla, 1995; Mead E., Sei approcci all’educazione del bambino. Modelli psicologici, Roma, Armando, 1989; Melchiorre V. (a cura di), La famiglia italiana. Vecchi e nuovi percorsi, Milano, San Paolo, 2000; Montuschi F., Competenze affettive e intelligenza, Brescia, La Scuola, 1993; Montuschi F., L’aiuto fra solidarietà e inganni. Le parole per capire e per agire, Assisi, Cittadella, 2002; Oatley, K., Percezione e rappresentazione, Bologna, Il Mulino, 1982; Pelliteri M., Mazinga nostalgia. Storia, valori e linguaggi della Goldrake-generation, Roma, King Saggi, 2002, seconda ed.; Petter G., Dall’infanzia alla preadolescenza. Aspetti e problemi fondamentali dello sviluppo psicologico, Firenze, Giunti, 1972; Ricoeur P., Percorsi del riconoscimento, Milano, Raffaello Cortina, 2005; Saraceno C., Anatomia della famiglia, Bari, De Donato, 1976; Sponchiado E., Capire le famiglie, Roma, Carocci, 2001; Starace G. (a cura di), La paternità. Le funzioni, i miti e l’esperienza dell’essere padre, Milano, Franco Angeli, 1983; Togliatti Malagoli M., Telfener U. (a cura di), Dall’individuo al sistema. Manuale di psicopatologia relazionale, Torino, Boringhieri,1991; Ventimiglia C., Di padre in padre. Essere, sentirsi, diventare padri, Milano, Franco Angeli, 1994; Volpi C., La famiglia che rimane, Roma, SEAM, 1996.
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L’etica per una nuova professione docente
di Stefania Nirchi In un noto scritto Norberto Bobbio ricorda così tre suoi insegnanti: “Zino Zini, Umberto Cosmo, Arturo Segre ebbero in comune due virtù: l’amore disinteressato del sapere e il senso di dignità della scuola. Comuni gli ideali, ma diversissime le personalità, come ci apparvero dai banchi di scuola, e come li abbiamo tuttora vivi nella memoria. (...) Tutti e tre questi nostri insegnanti furono maestri di vita civile. Che cosa dobbiamo chiedere di più alla scuola? Zini ci aperse gli orizzonti dei sommi problemi, ci diede il senso della serietà e della drammaticità della vita; Cosmo educò la nostra anima ad intendere l’incanto segreto della poesia; Segre ci pose innanzi la complessità e molteplicità delle umane vicende e c’insegnò la severa regola dello studio storico. Tutti e tre, in diversa guisa e con diverse attitudini, furono interpreti e promotori di educazione umanistica (...). Perciò oggi li onoriamo” 1. Questo brano sottolinea l’enorme importanza che un insegnante riveste nella vita di una persona, anche a distanza di anni. Eppure nonostante ciò gli insegnanti vivono attualmente un momento di forte svalutazione sociale del loro ruolo, non godendo di prestigio e valorizzazione del lavoro svolto quotidianamente in classe. In tal senso, oggi più che mai, si sente in modo stringente l’esigenza di parlare di etica della professione docente. Il docente educa attraverso la cultura e l’insegnamento: l’attività didattica mette a confronto
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tre mondi vitali, nello specifico quello che è all’origine delle grandi espressioni culturali dell’umanità, quello del docente e quello degli allievi nella cui mente possono rafforzarsi i saperi oggetto dell’insegnamento. In altre parole, mutuando il pensiero di Delors, mediante il “sapere” e il “saper fare” si mira al “saper essere”. Il cuore dell’attività dell’insegnante sta dunque nell’aspetto educativo del suo incarico, fondata sulla tensione ideale a “prendersi cura” degli allievi nella loro pienezza, facendosi carico sia dei loro “bisogni” spesso instabili, sia delle più intime esigenze connesse alla dignità dell’individuo come tale: la cornice di riferimento è l’azione didattica, la relazione di insegnamento-apprendimento, il rapporto con i colleghi, i genitori e l’organizzazione scolastica. La prassi attraverso cui si realizza tale compito necessita dell’interpretazione dell’azione didattica stessa: il docente educa insegnando, perché è in grado di comprendere l’importanza formativa dei diversi saperi e delle discipline, di porre in evidenza il valore antropologico e di incoraggiare la relazione significativa tra i mondi vitali degli allievi e gli universi culturali in generale. Essi sono consci del fatto che, come dètta la costituzione, il “pieno sviluppo della persona” dello studente, da perseguirsi soprattutto attraverso le conoscenze e le competenze proposte dalla scuola, è alla base dell’attività educativa e didattica. A tale riguardo, avendo un occhio vigile sulle caratteristiche degli allievi, essi promuovono la dignità, l’autonomia, la libertà e la responsabilità di ogni discente, verso se stesso e verso gli altri. Il dibattito sull’identità dell’insegnante si colloca in uno spazio concettuale in cui si intrecciano tesi tra loro diverse: dalla questione del profilo professionale e conseguente stato giuridico, a quella dell’identità pedagogica del docente, fino ad arrivare alle radici etiche del suo agire in quanto tale. Se prendiamo per buoni questi tre livelli della “piccola etica” di Ricoeur 2, allora possiamo di già delimitare l’ipotesi di una esistenza della deontologia entro parametri definiti: il primo riguarda il rap-
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porto che ogni individuo ha con la propria vita, con la percezione di sé nel mondo, intendendo con questo termine l’ambiente geografico, antropico e culturale in cui vive, la realizzazione di reti relazionali che intesse continuamente e che lo limitano implacabilmente quando esse si fanno molteplici ed estese nel trascorrere del tempo e nell’ampliarsi dello spazio di vita, quasi fossero una ragnatela che lo avvolge e irretisce ancorandolo sempre più ad un’immagine di sé sia interiore che esteriore. Questo è il livello degli inevitabili condizionamenti dell’essere di ognuno, imbrogliato dai condizionamenti della cultura dominante dell’ambiente familiare, sociale, economico in cui è nato, vive ed opera. Qui la personalità originaria dell’individuo si plasma nell’adesione ai costumi di vita di chi lo educa. Il secondo livello, che riguarda le norme ad obiettivo universale, è la necessaria evoluzione del primo: se esso è il livello delle norme “personali”, il secondo insiste e si addentra negli imperativi legati alla totalità del genere umano, alla sua sopravvivenza. Questo “mondo delle leggi universali” è ineludibile, è impresso nelle nostre coscienze e con esso dobbiamo confrontarci. Da esso deriva l’etica sociale, la quale distingue ed insegna che cosa è il bene e che cosa è male. Il terzo ed ultimo livello, quello della “saggezza pratica”, è l’evoluzione del secondo e del primo: esso, riprendendo le norme personali e universali, permette di deliberare che cosa sia il Bene e, di contro, il Male. E’ nella lotta tra il bene ed il male che si inserisce il problema educativo. Ma come si può fissare un codice deontologico che funga da linee guida? La condizione mentale in cui l’insegnante si trova ad operare ha affinità forti con quella in cui si trova il medico, nel senso che si cerca di riconoscere i limiti del proprio agire e si cerca di non lasciarsi troppo deprimere dagli insuccessi cui si va inevitabilmente incontro. L’attività educativa ha comunque un suo “proprium”, che la connota in modo peculiare ed è caratterizzata da una difficoltà specifica con cui l’educatore deve misurarsi: l’educa-
zione ha a che fare non solo con la concezione dell’uomo e con le prospettive di crescita della società, ma anche con problemi di tipo esistenziale, che pongono l’educatore sotto la lente d’ingrandimento. Tutto questo comporta un intimo intreccio tra la dimensione educativa e la funzione sociale del docente, di cui quest’ultimo dovrebbe essere sempre pienamente consapevole. 1. II contesto odierno di riferimento Proprio perché l’insegnante è un professionista che cerca di rispondere ad una domanda di educazione e di istruzione tipiche di società complesse, post-moderne, post-industriali, interdipendenti e globali, il contesto di riferimento attuale è quello delle learning society del mondo occidentale. Ci si riferisce pertanto ad un processo di apprendimento che dura tutta la vita del soggetto (long Life education), e che restituisce alla progettualità educativa il suo fine più alto, quello di essere in primis progettualità esistenziale, in cui l’educazione iniziale anticipa l’educazione permanente. Il contesto di riferimento ha i colori della multidimensionalità, determinata dal collegamento tra sistema informale e sistema formale di educazione, della pluralità, multiculturalità, multietnicità, in bilico tra localismo e universalismo, identità e differenza. È la sfida più rilevante dell’agire dell’insegnante, la sua capacità di analisi e flessibilità, cui saprà ricorrere per rispondere all’imperativo dell’integrazione, nel rispetto dell’alterità e nel riconoscimento della diversità. Le istituzioni scolastiche rompono in questo modo l’isolamento che le ha contraddistinte per anni convergendo verso la costituzione di un sistema formativo integrato e cercando di rispondere all’istanza di un’educazione per tutta la vita. In aiuto alla scuola in tal senso soccorre anche l’autonomia dell’azione scolastica che, senza violare la specificità di un intervento educativo, apre l’istituzione scolastica al territorio sotto la spinta di una progettualità più vicina alle specifiche esigenze formative locali attraverso curriculi mirati e,
complessivamente, con un’offerta formativa adeguata alla comunità. In altri termini, la nuova autonomia che si traduce in progettualità didattica e amministrativa, sburocratizza, decentra, delega, devolve funzioni segnando con ciò il passaggio da quella istituzionale di stato, alla scuola come servizio pubblico, alla persona e alla comunità. Le competenze richieste all’insegnante di oggi rispetto a queste nuove esigenze socio-politico-educative trovano il loro fondamento in conoscenze approfondite anche a livello metacognitivo, radicate nei risvolti epistemologici con cui ogni disciplina si offre. Ma concepire la preparazione di un insegnante solo sul piano teorico ed affidare la pratica unicamente alla traduzione tecnica di un sapere acquisito in teoria, vuol dire prestare il fianco ad un modello di insegnamento centrato solo sulla disciplina che lascia lo studente sullo sfondo, ignorando la complessità del binomio insegnamento-apprendimento. 2. La necessità di un codice deontologico Le competenze etiche dell’insegnante rappresentano, per un verso, l’aspetto più nuovo del suo ruolo; per un altro verso, anche l’aspetto più antico. La prima affermazione si giustifica, infatti, in rapporto alla recente rivalutazione della professionalità dell’insegnante in un viaggio da posizione di minorità a quella più alta di professione. Corollari di questo assunto sono l’affermazione nella categoria di una comune identità professionale che si rafforza anche attraverso l’autodefinizione di regole di comportamento, premessa per l’adozione di un codice deontologico. La seconda affermazione fa riferimento ad una identità portata a considerare la dimensione etica importante non per gli effetti che può avere nel docente, ma nello studente. Questi due aspetti sono l’uno condizione dell’altro e viceversa. Solo la dimensione etica dell’insegnamento può richiamare una deontologia, così come quest’ultima si giustifica come segno di consapevolezza di una categoria professionale tesa a salvaguardare e difendere la peculiarità della propria funzione
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sociale. La giustificazione ultima della natura etica dell’insegnamento riposa, dunque, sulla caratteristica dell’azione educativa che, come detto, non è di tipo tecnico ma pratico: azione indirizzata ad altri, ma svolta anche in nome di altri, rivolta al singolo ma inserita all’interno di una prassi comune della quale non può ignorare regole e modelli comportamentali impliciti. Per queste ragioni in ogni professione, particolarmente in quella docente, un codice deontologico esprime la coscienza individuale ma anche sociale della professione; è espressione di moralità ma anche di eticità; di responsabilità ma anche di senso civico. A tale riguardo, l’autonomia scolastica ha avuto il potere di marcare questi aspetti aumentando lo spazio di iniziativa libera del docente e accrescendo conseguentemente la responsabilità del suo operare. Responsabilità non solo limitatamente ai contenuti trattati in aula ma anche, per i possibili effetti di questi ultimi sugli allievi, per il contributo che possono arrecare alla loro crescita e formazione personale in: intelligenza, razionalità, sensibilità, sentimento, affettività, abilità pratiche, coscienza morale e autonomia. L’autentica responsabilità etica in questa professione riguarda, dunque, l’impegno per lo sviluppo integrale della persona. La moralità dell’azione di insegnamento non deriva unicamente dall’essere rivolta a persone, dallo svilupparsi attraverso un rapporto interpersonale, ma anche dalla asimmetria del rapporto stesso e dalla condizione di fiducia che esso richiede. Pertanto, l’idea di un codice deontologico si è fatta più urgente proprio in virtù di un insegnamento più libero, responsabile, ma ancor più problematico e complesso. Si possono allora tracciare alcuni punti fermi della deontologia del docente: insegnare “secondo verità”, con metodo critico e mai assoluto per fare in modo che la verità emerga nella dialettica dei punti di vista; formare alla e nella libertà fornendo strumenti che permettano all’allievo di imparare a pensare con la propria intelligenza e sensibilità analizzando i dati ricevuti (notizie, interpretazioni delle
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stesse, pareri, ecc.) attraverso le conoscenze possedute, senza lasciarsi andare ad una superficiale acquiescenza al percepito; comprendere l’individualità del discente, per quanto possibile; valorizzare il dialogo intendendolo come valore da perseguire quanto possibile; farsi mediatore razionale rispetto ad ideologie, tradizioni, culture ecc., in modo da superare i pregiudizi e le chiusure emotive; mettere in evidenza, sempre, la cultura come valore che arricchisce l’umanità. 2.1 Gli aspetti critici Non mancano tuttavia, in una società come quella attuale, definita “Società degli Individui” e caratterizzata da autenticità e autonomia, critiche feroci circa il ricorso a codici che sono espressione di eteronomia. Partendo dall’assunto che per molti l’insegnamento è e resta una funzione pubblica, nonostante la crisi attuale di credibilità, la prospettiva di un professionalismo spinge al timore diffuso di un servizio educativo messo sul mercato per il migliore offerente. Le altre ragioni che fanno da sfondo a tale discorso sono riconducibili a due contesti diversi: “la prima è più interna al mondo pedagogico e tocca la complessità interna dell’azione d’insegnare, in particolare per quegli aspetti più profondi – di presa in carico dell’alunno e dei suoi problemi di sviluppo – che sfuggono alla presa di qualsiasi regolamentazione formale. E che costituiscono il significato più impegnativamente “etico” dell’azione educativa. (…) L’altra ha carattere più sociologico e segnala il limite di qualsiasi regolamentazione, in una società che si trasforma, come quella di oggi, secondo ritmi accelerati e in direzioni difficilmente prevedibili. Ogni codice risulterebbe immancabilmente “datato”, superato dagli eventi e pertanto un freno agli adattamenti che via via si rendessero opportuni, se non necessari. Ma ancora più grave è l’impossibilità, per ogni codice, quale che sia, di prevedere la incontenibile varietà delle situazioni singolari in cui si trova ad operare l’insegnante ” 2. Per
superare lo “spauracchio” del termine deontologia che nell’immaginario collettivo rimanda alla disciplinazione tipica del diritto, esso va ripensato nella sua natura etica, come guida per assumere responsabilità, per trovare risposte in un contesto, soggetto a molteplici cambiamenti. In altri termini “un orientamento per l’azione”, capace di aiutare il discernimento all’atto di sciogliere un dilemma – uno dei tanti che si frappongono alle scelte dell’insegnante – e di prendere una decisione. Una decisione che esprima chiaramente il carattere di una identità professionale3. In assenza di ideologie condivise e di teorie dell’educazione universalmente accettate e incontrovertibili, l’educatore deve trovare un suo personale percorso, un suo modo di concepire, di vivere e di proporre quella che è una funzione antropologica fondamentale, indispensabile come la generazione per la continuità della specie umana. In quanto inevitabilmente educatore, egli deve farsi in qualche modo carico non di una umanità astratta, ma di quella concreta dei suoi studenti, per favorirne l’integrazione nella società circostante, da quella locale a quella nazionale. È questione di competenza professionale, che non può andare disgiunta dalla consapevolezza del profondo significato ideale dell’educazione. Si tratta di compiere un viaggio, non come fuga o come evasione, ma come esodo, ritorno a casa, liberazione, scoperta, presa di coscienza. È il “viaggio interiore” di cui parla il rapporto Delors, a proposito dell’educazione. Quali che siano le scelte adottate, gli influssi di cui abbiamo parlato in questo saggio, seppur non esaurendo il discorso, promuovono il cambiamento della figura dell’insegnante, da una modalità burocratica a una forma professionale. La contrapposizione ideale tra insegnante “burocrate” e insegnante “professionista” è utile per capire il passaggio, anche se è chiaro che rappresenta un’estremizzazione non sempre constatabile nella realtà. La tendenza attuale è quella che vede il docente
come “professionista” staccato dalla forma burocratica che lo vincola a un’infinità di regole e di adempimenti che nulla hanno a vedere con il vero insegnamento. L’abbandono della mentalità burocratica costituisce pertanto un fattore fondamentale di un codice etico moderno degli insegnanti ed anche del rapporto tra colleghi nell’insegnamento. Essere professionisti significa scegliere i criteri della competenza, dell’autoformazione, della responsabilità, del merito e dell’autonomia. Queste caratteristiche saranno dunque poste in primo piano in un codice etico coerente con le esigenze della società contemporanea. Un codice etico-deontologico adatto al momento presente, in grado di rispecchiare il peso che la conoscenza è venuta ad assumere per tutta la società; l’indicatore sostanziale del distacco dell’insegnante dal mondo della burocrazia, il suo passaggio consapevole e chiaro a quello della professione. Note: 1. N. Bobbio, Tre maestri, in “Italia civile”, Firenze, Passigli, 1986, pp. 131-134. 2. P. Ricoeur, Soi-même comme un autre, Paris, Seuil, 1990, tr. it. a cura di D. Iannotta, “Sé come un altro”, Milano, Jaca Book, 1993. 3. E. Damiano, L’insegnante etico. Saggio sull’insegnamento come professione morale, Assisi, Cittadella Editrice, 2007, pp. 296-297. 4. Ibidem, … p. 301. Riferimenti Bibliografici: BOBBIO N., Tre maestri, in “Italia civile”, Firenze, Passigli, 1986; CARDONA C., Etica del lavoro educativo, Milano, Ares, 1990; DAMIANO E., L’insegnante etico. Saggio sull’insegnamento come professione morale, Assisi, Cittadella Editrice, 2007; RICOEUR P., Soi-même comme un autre, Paris, Seuil, 1990, tr. it. a cura di D. Iannotta, “Sé come un altro”, Milano, Jaca Book, 1993; XODO C., L’occhio del cuore. Pedagogia della competenza etica, Brescia, La Scuola, 2001b.
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La didattica laboratoriale: una scelta strategica
di Daniela Simeone La scuola nel tempo, malgrado le difficoltà, è cambiata e appare chiaro che il suo processo di trasformazione sembra non essere ancora intenzionato ad interrompersi. È difatti sotto gli occhi di tutti, ed in special modo di chi lavora nell’ambito educativo, come la forte contrapposizione politica, caratteristica da tempo del nostro Paese, ha dato vita ad una serie di innovazioni che hanno finito per assumere carattere episodico e frammentario e che hanno causato disorientamento nel sistema formativo, soprattutto ai docenti direttamente coinvolti in un continuo adeguamento del loro lavoro a proposte e controproposte più o meno innovative. Nel continuo cambiamento, gli insegnanti hanno difficili compiti educativi a cui non possono sottrarsi per correttezza e professionalità. Essi diventano (o, per meglio dire, sono sempre stati) le figure fondamentali senza cui qualsiasi riforma è destinata a fallire. È il docente a dover scegliere e adottare metodologie e strumenti che meglio rispondano alle esigenze degli alunni, orientando e personalizzando la sua azione didattica. Il diritto allo sviluppo della persona, consentito solo da un effettivo diritto all’educazione, è il principio su cui poggia il percorso scolastico e l’intero percorso educativo; ed è la conoscenza il principale strumento in grado di garantire libertà alla persona, fornire gli strumenti per interpretare e trasformare la realtà, formare quella per-
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sona capace di fare della propria esperienza di vita una risorsa per continuare a crescere, che si misura con i saperi fondamentali, che non teme il confronto con gli altri e che mantiene vivo il gusto di scoprire, leggere, ricercare e progettare 1. La scuola e gli insegnanti sono quindi impegnati concretamente a: • fornire a tutti uguali opportunità formative, mettendo in campo tutte le possibili strategie per ridurre eventuali situazioni di svantaggio; • garantire l’integrazione e l’unitarietà delle conoscenze e delle abilità, ponendo al centro della progettazione e dell’attività didattica l’apprendimento del bambino; • far maturare negli alunni atteggiamenti collaborativi efficaci, ponendo solide basi per la costruzione di una fondamentale integrazione affettiva della personalità. Porre l’accento su opportunità e scelte strategiche, che favoriscano un apprendimento significativo per tutti e per ciascun alunno, impone di spostare la propria attenzione di insegnante dai contenuti ai contesti di apprendimento, quell’ambiente d’apprendimento in cui il docente propone compiti confacenti all’alunno affinché egli stesso possa sfruttare i propri punti di forza. Per questo, particolare attenzione viene posta su attività di tipo laboratoriale: “sviluppare l’attività laboratoriale significa porre l’allievo al centro dell’attenzione come persona, unica e irripetibile, sviluppare la parte emozionale dell’apprendimento e far nascere l’amore per lo studio, per la conoscenza2”. Il laboratorio, per la molteplicità delle opportunità formative che lo caratterizzano, può assumere un ruolo privilegiato nella vita scolastica in special modo per gli alunni che dimostrano difficoltà nel seguire lo stesso percorso di insegnamento/apprendimento proposto per tutti. Tale modalità di lavoro potrebbe servire ad organizzare l’attività didattica in maniera efficace, impedendo che i bambini finiscano per annoiarsi quando nella scuola sono costretti
a seguire unicamente insegnamenti che non hanno un legame immediato ed evidente con la loro vita concreta dominata dalla motricità, dall’immaginazione, dalle emozioni. Il bambino costruisce il proprio sapere attraverso il fare e il “pensare facendo” seguito e guidato da un insegnante che non si sostituisce a lui, ma che lo incoraggia a sperimentare e lo stimola all’autonomia. E per insegnare all’alunno a saper fare da sé è necessario che l’insegnante lo guidi ad osservare le cose da diversi punti di vista senza avere paura degli errori e dei fallimenti 3 . È fondamentale per questo abituare il bambino a pensare con una mentalità aperta e a valutare dubbi e incertezze non con paura ma come segnali positivi che stimolano ad indagare ed esaminare un concetto da diversi punti di vista per arrivare ad una ipotesi originale e creativa. Costruire la propria identità è il primo passo verso il raggiungimento dell’autonomia, espressione di creatività, libertà decisionale e consapevolezza di sé. L’autonomia si consegue attraverso il confronto dialettico fra il bisogno di appartenenza e di indipendenza, bisogni che si giocano nel clima relazionale. Così maggiore autonomia diventa testimonianza di fiducia in se stessi, nelle proprie capacità e competenze personali, quelle competenze che si acquisiscono e si consolidano nell’esplorazione della realtà che richiede e stimola intuizione, immaginazione e creatività, poiché espressione di capacità culturali, cognitive e comunicative, a loro volta massima espressione della capacità di acquisire e di creare simboli. Nuove conoscenze e abilità, costruzione di sé, creazione di un ambiente relazionale e capacità di affrontare la complessità della società e della cultura, sono il risultato finale di una somma di competenze nel possesso delle quali si misura il successo educativo. Ponendo così l’interesse sul metodo di lavoro, valorizzando le abilità individuali, agendo sulle modalità di autocontrollo e di autovalutazione dell’apprendimento (didattica metacognitiva), si possono fornire a ciascun alunno gli strumenti necessari per favorire la riflessione critica e per individuare
L’"Istituto Etico per l’Osservazione e la Promozione degli Appalti", di seguito “Associazione”, è una organizzazione non profit ed ha come scopo quello di professionalizzare gli attori strategici che a vario titolo gravitano nell’alveo dei procedimenti ad evidenza pubblica rendendo, anche indirettamente, beneficio ai fruitori dei procedimenti medesimi.
Cattedra di Filosofia del diritto di Scienze Politiche di Roma “ La Sapienza” Cattedra di Istituzione di diritto pubblico di Sociologia di Roma “La Sapienza” Direttivo PRESIDENZA Federico Tedeschini Teresa Serra Francesco A. Caputo Anna Cataleta Luca Di Fazio
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gli eventuali meccanismi di controllo e regolazione del proprio processo di apprendimento. Ecco che torna la necessità di fare scuola per laboratori in cui le aree di apprendimento non sono il fine ma gli strumenti per progettare percorsi atti a favorire e valorizzare le effettive capacità individuali. Laboratorio inteso non solo e sempre come spazio fisico ma anche e soprattutto come “spazio mentale4” che offre all’alunno la possibilità di sviluppare la parte dell’apprendimento legata all’emozione, parte fondamentale per accrescere il piacere di ricercare, scoprire nuovi percorsi e stimolare nuove conoscenze per apprendere in tutto l’arco della vita. È giusto a questo punto evidenziare che spesso gli insegnanti hanno buone idee e mettono in campo tutta la loro disponibilità, ma poi devono fare i conti con quelle che sono le effettive risorse della scuola e le reali possibilità di portare avanti il lavoro immaginato. Certo chi opera da tempo nella scuola non ha bisogno di esempi di didattica laboratoriale, e tuttavia pare utile descrivere a questo punto un esempio di laboratorio, da poter svolgere a classi aperte trasversali, che possa svilupparsi a diversi livelli così da andare avanti per tutto l’anno scolastico. Il laboratorio che verrà di seguito rappresentato è ripreso da un lavoro di P. Mainelli 5 relativo all’ambiente logico-matematico; esso è finalizzato all’acquisizione e sviluppo delle capacità logiche che, come sostiene l’autrice sopra citata (e non solo), non cominciano con l’ingresso degli alunni nella scuola primaria, ma vengono già esercitate nelle precedenti esperienze di gioco, di vita familiare e sociale e nella scuola dell’infanzia (pensiamo, per esempio, a compiti quali: distribuire materiale per ciascun compagno, separare oggetti, ecc.) a partire da esperienze percettive e discriminative che sono prerequisiti importanti per le attività di classificazione, raggruppamento, ordinamento, e così via. La didattica di tale laboratorio è suddivisa in diversi livelli e varie attività, per la descrizione delle quali si rimanda direttamente alla lettura dell’indicazione bibliografica; in questa sede si descriveranno invece solo due attività che po-
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trebbero essere attuate con bambini dell’ultimo anno dell’infanzia e della prima classe elementare, tese a sviluppare i seguenti obiettivi: • discriminare caratteristiche in una collezione di oggetti; • classificare oggetti, figure, in base ad un dato attributo e viceversa, indicando un attributo che spieghi la classificazione data. La prima attività, intitolata dall’autrice 6 “Ucci Ucci, Sento Odor…” precede l’uso di un sacco in cui poter inserire materiale di diverso genere: bottoni, matite, gomme, sassi, conchiglie, ovatta, stoffe di diverso genere, boccettine di profumo, piatti e/o bicchieri di carta, ecc. Compito degli alunni è quello di manipolare gli oggetti ad occhi chiusi usando i sensi e verbalizzando le sensazioni mentre cercano di riconoscere l’oggetto. Compito dell’insegnante è invece quello di guidare l’alunno chiedendo di toccare l’oggetto, strofinarlo con le dita, sentirne la superficie al tatto, annusare o sbatterlo per sentirne il rumore. Il gioco poi può proseguire anche con l’osservazione dell’oggetto per completarne la descrizione. Nella seconda attività, titolata “Nel Mondo della Materia7”, si chiede agli alunni di raggruppare gli oggetti in base al materiale di cui sono fatti (plastica, legno, carta …) osservandone le proprietà (duro, molle, si piega, non si piega…). Da questa sperimentazione delle proprietà dei materiali l’insegnante può via via proporre una terminologia sempre più precisa e le prime generaliz-
zazioni relativamente alle proprietà osservate e sperimentate dei materiali. Da queste esperienze si possono poi proporre attività di livello maggiore, tenendo conto dei progressi e delle capacità dei bambini coinvolti. Con queste due attività si è voluto dare esempio di come, anche con semplici materiali, sia possibile attivare laboratori che consentano davvero di tener conto dell’importante collegamento tra i campi di esperienza e le discipline attraverso un lavoro didattico che parte dal gioco in cui i bambini imparano divertendosi e percepiscono il cammino scolastico come un percorso unito e significativo. Insegnamento per laboratori che non solo, quindi, permette di dare risalto a modalità di lavoro cooperativo e individualizzato, ma che appare essere anche uno strumento efficace per attivare quel circuito di teoria e pratica, esperienza-riflessione, che già Dewey indicava come la base di ogni forma di conoscenza. Note: 1 Cfr. L. Rosati, Il tempo delle sfide, Editrice La Scuola, Brescia, 1993. 2 Cit. A. Gente, Il laboratorio come spazio mentale, in Gulliver Erresse, n.74, nov. 2007, anno IX, Ed. Didattiche Gulliver, Loreto (AN), pg.17. 3 Cfr. C. La Neve, Insegnare nel laboratorio, La Scuola, Brescia, 2005.; T. Bruno, in Tuttoscuola n. 456, novembre 2005. 4 Cfr. A. Gente, Il laboratorio come spazio mentale, op. cit. pp. 17-18. 5 Cfr. P. Mainelli, Logica, in “Giulia” n. 5, Anno II, maggio 2003, Istituto Didattico, Teramo, pp. 50 – 62.
La rivista offre numerosi spunti laboratoriali non solo per l’ambito logico-matematico ma anche linguistico, geo-storico-scientifico, musicale, informatico, ecc. 6 Il riferimento è sempre a P. Mainelli, Logica, …. Op.cit., pg.53. 7 P. Mainelli, Logica, …. Op.cit., pg.54. Referimenti Bibliografici: BOSCOLO P., Continuità, apprendimenti e competenze in un curricolo verticale, in Gli Istituti Comprensivi. Innovazioni organizzative e curricolari nel quadro dei processi di cambiamento del sistema scolastico, Studi e Documenti degli Annali della Pubblica Istruzione, n°83, Firenze, ed. Le Monnier, 1999, pp. 211-227; CAPALDO N. – Rondanini L., Indicazioni per i curricolo. Istruzioni per l’uso, Vasto (CH), Ed. Didattiche Gulliver, 2007; CAPALDO N. – Rondanini L., Ripartire dalla scuola, Trento, Erickson, 2006; DEWEY J., Esperienza e educazione, Firenze, La Nuova Italia; FRANTA H., Relazioni sociali nella scuola, formazione di un clima umano positivo, Torino, SEI,1987; GENOVESE L. – Kaniza S., Manuale della gestione della classe, Milano, F. Angeli, 1998; GENTE A., Il laboratorio come spazio mentale, in Gulliver Erresse, n.74, Anno IX, Loreto (AN), Ed. Didattiche Gulliver, nov. 2007; LA NEVE C., Insegnare nel laboratorio, La Scuola, Brescia, 2005; MAINELLI P., Logica, in “Giulia” n. 5, Anno II, maggio 2003, Istituto Didattico, Teramo, pp. 50 – 62; M.P.I. (Ministero della Pubblica Istruzione), Rapporto O.C.S.E., 2007; M.P.I. (Ministero della Pubblica Istruzione), Indicazioni per il Curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione, Roma, settembre 2007; MORIN E., La testa ben fatta, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000; Orientamenti, Decreto Ministeriale 3 giugno 1991; RINALDI C., Una pedagogia dell’ascolto, in “Bambini in Europa”, n.1, settembre 2001, pp.4-7; ROSATI L., Il tempo delle sfide, Editrice La Scuola, Brescia, 1993; SACCHI G. (a cura di), Laboratori, Napoli, Tecnodid, 2007.
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La Gelmini fa 30
di Renèe Mortellaro Nella scuola, come in altri ambiti del panorama italiano, la presenza di alunni aventi diverse origini culturali, ha reso visibili carenze e limiti, ma nello stesso tempo, ha stimolato il cambiamento e la riprogettazione, secondo modalità adeguate alla nuova realtà sociale. L’8 Gennaio 2010 è stata diramata dal Ministero dell’Istruzione una circolare che prevede un numero limite di stranieri in ciascuna classe scolastica a partire dall’anno scolastico 2010/2011. Secondo la Gelmini il tetto massimo di stranieri per classe, che non dovrà superare il limite del 30%, servirà ad ottenere una equilibrata distribuzione degli allievi con cittadinanza non italiana tra istituti che esistono sullo stesso territorio. Questo provvedimento modificherà in modo sensibile la fisionomia delle classi e più in generale la struttura della nostra futura società. L’introduzione di tale limite avverrà gradualmente a partire dal primo anno di ciascun grado di studi, e potrà essere innalzato a fronte della presenza di alunni stranieri nati in Italia, ma non cittadini italiani, già in possesso delle adeguate competenze linguistiche, con lo scopo di “garantire un equilibrato e funzionale assetto delle realtà scolastica ed effettive condizioni di parità e di generalizzata e piena fruizione del diritto allo studio” 1. Il numero di alunni di cittadinanza non italiana che hanno frequentato la scuola nel 2008/2009 è salito a 628.937, con 54.800 iscritti in più rispetto allo scorso anno, valore che ha determinato un incremento annuale del 9,5%. Cresce rapidamente anche il numero di
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studenti di origine straniera con cittadinanza italiana, che sono diventati 233.051, quasi 34.000 in più dello scorso anno. Il dato lascia intendere che, l’aumento annuale complessivo di iscritti sia riconducibile a ragazzi nati nel nostro paese e che questa quota non potrà che diventare progressivamente sempre più rilevante2. Il Ministro Gelmini ha precisato che i ragazzi nati in Italia saranno esclusi dal computo del 30%. Di fatto all’interno di ogni singola classe saranno facilmente individuabili tre sottogruppi: i ragazzi nati in Italia da genitori italiani; i ragazzi nati in Italia da genitori stranieri; ragazzi nati all’estero da genitori stranieri. Tuttavia, sta già avvenendo la revisione in chiave più restrittiva di questa disposizione, come dimostra la recente circolare diffusa dal Ufficio Scolastico Regionale del Lazio. Quale dovrebbe essere la differenza sostanziale fra i tre gruppi? E fra i due gruppi di figli di stranieri 3? Il processo di integrazione certamente prescinde dal luogo di nascita di un individuo, e la scuola ha un ruolo fondamentale nel processo si socializzazione 4, in particolare sulla costruzione dell’identità. Queste disposizioni finirebbero per compromettere questo ruolo. Il Ministro ha posto l’accento su una differenza basata sull’apprendimento della lingua italiana, ma il rischio è che questo provvedimento ponga piuttosto l’accento sulle distinzioni sociali. Tali distinzioni potrebbero finire per influire sullo sviluppo dell’identità dei bambini, che nel caso delle seconde generazioni si compone di identità culturale associata alla famiglia di appartenenza e identità personale acquisita attraverso la socializzazione nella società di accoglienza 5. Il Ministro Gelmini ha inoltre precisato che tali quote d’ingresso nelle classi sono state introdotte con il fine ultimo di evitare che si possano formare delle classi “ghetto” costituite solo da stranieri, facilitando il processo di integrazione di quelli che i demografi definiscono “il futuro del nostro paese”. “Sono questi i presupposti e i requisiti irrinunciabili che consentono di coniugare efficacemente l’obiettivo della massima inclusione con quello di una offerta formativa qualitativamente valida, che tenga conto delle
situazioni di partenza e delle necessità di ciascun alunno” 6. Questa suddivisione aprioristica, non potrebbe già di fatto creare una forma di discriminazione? Non si finirebbe per costituire un piccolo “ghetto” all’interno della classe stessa? Una divisione mette in evidenza delle differenze all’interno di un gruppo influendo negativamente sul sentimento di appartenenza ad una comunità – l’intera classe – piuttosto che ad una piccola parte, sentimento che ogni studente dovrebbe possedere. Quando un soggetto si riconosce in un contesto collettivo, vuole trovare la sua collocazione. Affinché questo avvenga per i ragazzi appartenenti a minoranze culturali, è necessario che si riconosca che la differenza culturale non è sempre fonte di allontanamento e ghettizzazione, non impedisce necessariamente ogni inserimento delle persone nella società 7. La presenza di alunni stranieri nelle scuole può però rendere più evidenti alcuni meccanismi di etnocentrismo: sono infatti frequenti i pregiudizi, che altro non sono che opinioni, atteggiamenti e preconcetti condivisi da un gruppo rispetto alle caratteristiche di un altro gruppo. Forme di etnocentrismo e pregiudizi possono fare da elemento scatenante alla xenofobia nelle sue varie forme e livelli. La scuola ha il compito di affrontare questi problemi senza tacerli o sottovalutarli. La classe rappresenta un contesto sociale in cui si rende possibile il dialogo, è un luogo di mediazione fra culture. La scuola quindi ha un preciso ruolo di mediazione e socializzazione. E’ perciò importante che la riprogettazione della scuola sia adeguata alla nuova realtà sociale, guardando alle persone non come categorie ma come sog-
getti, tenuto conto che la classe interculturale è uno spazio di costruzione identitaria per tutti gli alunni. E’ lecito quindi domandarsi se sia questa la direzione presa da questa circolare oppure no. Di sicuro essa lascia spazio a molteplici interrogativi: cosa succederà nei piccoli centri? Spesso si tratta di centri con un’unica scuola: cosa ne sarà degli studenti in eccesso? Chi ne pagherà veramente le spese, non solo in termini pedagogici ma anche economici? Articolo tratto da: www.immigrationflows.net Note: 1 Circolare del Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca n.2 dell’8 Gennaio 2010. 2 Dossier statistico Caritas/Migrantes, 2009. 3 In merito è interessante la riflessione di Sergio Talamo in “Il tetto e il ghetto”: “Una precisazione più che importante: è storica. Sancisce cosa sia in concreto la cittadinanza. Ciò che non si vuole ammettere come concetto generale, riaffiora come complemento di una norma: nascere in un paese vuol dire già essere, almeno potenzialmente, un pezzo di quella comunità e di quella storia. E quindi, specie se sei un bambino, quel paese ha il dovere e l’interesse a tenderti la mano” Stranieriinitalia.it, 15.01.2010. Varrebbe la pena chiedersi se ciò non valga anche per chi nel paese non vi nasca, ma vi cresca. 4 A. Touraine, Libertà, uguaglianza, diversità. Si può vivere insieme?, Milano, edizione Il Saggiatore, 1998. 5 M., Wieviorka, La differenza culturale: una prospettiva sociologica, Roma/Bari, edizione Laterza, 2002. 6 Circolare del Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca n.2 dell’8 Gennaio 2010. 7 M., Wieviorka, op. cit., 2002.
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Fatti e Norme
di Gianfranco Zucca 1. A dieci anni dall’emanazione della direttiva europea sulla discriminazione razziale (2000/78/CE) può essere utile tentare un primo bilancio dell’applicazione di quello che con il tempo è diventato un corpus normativo articolato e capace di coprire la maggior parte degli ambiti della vita sociale. È di per sé complesso valutare come un’innovazione legislativa cambi le relazioni sociali per la regolazione delle quali è stata pensata; tale considerazione è a maggior ragione valida per un fenomeno strisciante e pervasivo come la discriminazione razziale. Stando a quanto si ha modo di riscontrare quotidianamente, per le strade come sui mezzi di comunicazione (che come è noto fanno la loro parte, spesso in negativo), il razzismo anziché mitigare la sua violenza sembra invadere settori della società sempre più vasti. In altre parole, se ci si fida della percezione quotidiana, la discriminazione razziale è una componente stabile della società. Il differenzialismo e l’iniquità di trattamento si rinnovano e cominciano a prendere strade impensate e impensabili: i rapporti di un ente governativo come l’Unar (http://www. pariopportunita.gov.it), i documenti di soggetti terzi come l’European Network Against
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Racism (http://www.enar-eu.org/) o il recente Rapporto sul razzismo a cura di un gruppo di studiosi e attivisti vicini a Lunaria 1, sino ad arrivare agli studi della European Union Agency for Fundamental Rights (http://fra. europa.eu/) e dello European Monitoring Centre on Racism and Xenophobia (http://www. efms.uni-bamberg.de/) documentano con inquietante dovizia di luoghi e situazioni come il razzismo sia diventato un fenomeno ordinario che permea il nostro quotidiano. A fronte di un’attenzione istituzionale senza precedenti, la discriminazione sembra aver rotto gli argini; nemmeno il paravento del politically correct tiene più: tanto che la campagna politico-mediatica contro gli immigrati vede per protagonisti e propugnatori di rozze pseudoargomentazioni securitarie politici di primo piano e opinionisti di grido. Si respira un’aria pesante, la piena legittimazione sociale del razzismo è ormai dietro l’angolo. Ma cos’è che non ha funzionato? Dov’è che l’imponente impianto normativo comunitario ha fallito? Colmare lo sfasamento tra fatti e norme nel campo della discriminazione razziale è il compito che attende chiunque sia interessato alla parola democrazia, conviene quindi analizzare il problema alla radice cominciando con il chiedersi se l’applicazione italiana della normativa europea sia stata adeguata. 2. Il MIPEX misura le politiche per l’integrazione degli immigrati nei 25 Stati membri dell’Unione europea e in tre paesi extra-UE. Si tratta di un indice giuridico-normativo costruito su oltre centoquaranta indicatori, all’interno di un progetto guidato dal British Council e dal Migration Policy Group. Tra le diverse aree coperte dall’indice c’è anche la discriminazione razziale 2. Il MIPEX 3 rappresenta un primo termine di paragone per comprendere dove si è inceppato il meccanismo di contrasto alla discriminazione razziale. Scorrendo il Country report italiano si legge: se la legge vietasse la discriminazione per associazione o in base a caratteristiche presupposte, l’Italia raggiungerebbe la miglior pra-
tica in materia di definizioni e concetti. Come altri 9 paesi MIPEX, l’Italia raggiunge già la miglior pratica in materia di campi d’applicazione punendo la discriminazione razziale, etnica, religiosa e nazionale in diversi ambiti della vita. A tali definizioni e campi viene data attuazione in modo favorevole offrendo alle parti civili l’accesso a svariate procedure, al sostegno legale e a una vasta gamma di sanzioni possibili. Tuttavia le politiche di pari opportunità correlate fanno troppo poco per potenziare l’Ufficio Nazionale Contro le Discriminazioni Razziali o per obbligare lo Stato ad affermare il principio di uguaglianza nel proprio operato. Il punteggio dell’Italia migliorerebbe se l’agenzia per le pari opportunità potesse fornire assistenza alle vittime di discriminazione nazionale e religiosa conducendo indagini e promuovendo azioni giudiziarie. Lo Stato dovrebbe, per esempio,
diffondere informazioni, guidare il dialogo e introdurre misure di discriminazione positiva . Il giudizio degli esperti MIPEX presenta vari motivi di interesse. L’Italia è uno dei paesi europei che negli anni ha definito uno tra i migliori approcci normativi alla discriminazione: le definizioni legali e i campi d’applicazione previsti indicano una spiccata sensibilità verso la tutela dei diversi tipi di soggetti a rischio. Anche gli strumenti a disposizione per far valere le ragioni degli individui vittime di discriminazione e le sanzioni correlate sembrano essere adeguati. I problemi sono altri. Una prima questione riguarda il ruolo dell’Unar. Sin dalla sua costituzione, in molti si sono domandati se il fatto di incardinare uno servizio del genere all’interno di un organo di governo (la Presidenza del Consiglio dei Ministri) fosse una buona scelta. Tanto più che, come rilevano, con cadenza annuale, i
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rapporti Unar, in Italia la discriminazione istituzionale è uno degli ambiti dove la disparità di trattamento è più marcata. Stando all’analisi del MIPEX il problema non è questo, bensì che l’Unar al momento non dispone degli strumenti giuridici necessari; in pratica, non può portare un caso davanti alla legge. A differenza di altri corrispettivi europei, che hanno legittimità ad agire in giudizio, l’Unar non può intervenire in modo diretto: nell’ordinamento italiano l’azione legale è demandata alla vittima stessa o a una delle associazioni legittimate (art. 5 D.lgs 215/03) ad agire in giudizio in nome e per conto delle vittime di discriminazione. È evidente che, nonostante la diffusione del gratuito patrocinio e la buona volontà delle associazioni – che spesso prestano la loro tutela a titolo gratuito – un individuo vittima di discriminazione possa essere scoraggiato sia dai costi che dalla durata di un’eventuale processo. 3. Allargando il discorso, è possibile fare un altro appunto rispetto alla situazione italiana. L’approccio sviluppato sinora sconta una scarsa attenzione verso le dinamiche reali. Come ben sanno gli psicologi sociali, la discriminazione non è un fatto individuale; ad essere vittimizzati e oggetto di discriminazione sono innanzitutto interi gruppi sociali: ieri gli albanesi, oggi i romeni, i rom, i migranti centro-africani che tentano la traversata del mediterraneo. Che cosa ci si attende, quindi, che ogni cittadino rumeno intenti una causa contro i gestori dei bar che non gli servono il caffè? O che ogni singolo rom adisca le vie legali contro ignoti, per le scritte infami che trova sui muri della città dove vive? Un approccio alla discriminazione tutto centrato sulla giurisprudenza, ecco cosa non ha funzionato nel contrasto alla discriminazione razziale. Il razzismo si combatte anche, ma non solo, nelle aule dei tribunali. Articolo tratto da: www.ImmigrationFlows.net
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Note: 1 Cfr. Grazia Naletto, (a cura di), Rapporto sul razzismo in Italia, Roma, Manifesto libri, 2009. 2 L’indice si riferisce a sei aree, modellate sul percorso che un immigrato si trova a percorrere verso la piena cittadinanza: accesso al mercato del lavoro, ricongiungimento famigliare, soggiorno di lungo periodo, partecipazione politica, accesso alla cittadinanza e antidiscriminazione. La miglior pratica per ogni indicatore viene fatta corrispondere al massimo standard europeo, ricavato dalle Convenzioni del Consiglio d’Europa o dalle Direttive della Comunità europea; laddove queste definiscono solo standard minimi, vengono utilizzate le raccomandazioni politiche a livello europeo. Per ulteriore precisazioni tecniche consiglio di consultare http://www.integrationindex.eu/. 3 MIPEX, Indice delle politiche per l’integrazione degli immigrati, Italia, 2007, p. 22. http://www.integrationindex.eu/multiversions/2789/FileName/MIPEXItalian-abridged-reduced.pdf
Recensione A “Persone, organizzazioni, lavori”
di Stefania Capogna 1 Ci sono diversi modi per interpretare la relazione tra persone, organizzazioni e lavoro. Nella via prescelta da Antonio Cocozza 2, curatore del testo, si assegna una primaria importanza alle persone, alle quali seguono le altre due dimensioni di analisi. La questione centrale che si affronta consiste nell’analisi della relazione esistente tra: l’evoluzione delle culture e dei modelli organizzativi; la crescente pervasività dell’innovazione tecnologica; lo sviluppo delle politiche relative alle Human Resources Management e la comunicazione di impresa, tutto alla luce degli attuali cambiamenti socio-economici. Il volume cerca di mostrare attraverso l’analisi teorica e la presentazione di casi virtuosi, sia di natura aziendale che istituzionale, la tendenza al superamento di un approccio istituzionale, produttivo, comunicativo e di marketing orientato a logiche uniformi di carattere collettivo, generico e indistinto. Superamento che orienta sempre più tali interventi verso una personalizzazione delle politiche, delle scelte commerciali e della gestione organizzativa. Assunto centrale del volume è dato dalla focalizzazione sulla persona intesa come soggetto concreto
e particolare, capace di agire nel suo contesto storico sociale e culturale come titolare di diritti e doveri di cittadinanza, e attore cor-responsabile nel raggiungimento di migliori risultati in campo produttivo e lavorativo. Secondo questa prospettiva si guarda al mutamento in atto nel sistema economico e sociale, attraverso il passaggio da una logica politico-organizzativa di tipo collettivo e indistinto a una diversa politica, tendente alla personalizzazione degli interventi e alla segmentazione della domanda in ordine alle singole persone, intese come soggetti capaci di autodeterminazione e scelte selettive. Unico comune denominatore di un testo che presenta una varietà di casi di studio, tanto in ambito produttivo e commerciale, quanto in contesto pubblico e di servizio, è dato dal modo in cui, all’interno delle esperienze considerate, viene interpretato il concetto di persona, e cioè come “attore protagonista, espressione e risultato di una propria storia sociale e culturale, portatore di un particolare sistema di valori e di uno specifico sistema di aspettative, che condiziona le proprie scelte personali, indirizza l’agire organizzativo e determina il sistema relazionale e comunicativo” (p. 18). Dopo una lunga e articolata introduzione finalizzata a definire il quadro concettuale che indirizza tutto il lavoro, il testo si dispiega nell’illustrazione di undici casi di studio scelti in ordine alla loro significatività, in quanto capaci di rappresentare una serie di politiche ed esperienze di particolare rilievo a livello nazionale e internazionale nella gestione dei processi comunicativi e organizzativi o di governo delle relazioni di lavoro. Il filo rosso che attraversa tutti i casi esposti è proprio nel modo in cui viene concettualizzato il soggetto destinatario degli interventi, non più un individuo genericamente astratto ma persona in carne ed ossa, in qualità di collaboratore, consumatore, fruitore e titolare di diritti di cittadinanza. Soggetti dunque capaci di scelte consapevoli e responsabili, in virtù di un preciso sistema di valori e di un background culturale, partner interessati e interessabili a dialogare su obiettivi comuni.
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I saggi presentati possono essere ricondotti all’interno di tre distinte aree tematiche: • la ricerca di un processo di comunicazione di impresa efficace, finalizzato al coinvolgimento degli sthakeholder; • lo sviluppo di nuovi modelli organizzativi per la valorizzazione delle persone; • il tentativo di promuovere interventi di policies innovativi e personalizzati in funzione dei diversi target di destinatari. Secondo questa linea, il testo si suddivide in tre parti, ciascuna delle quali cerca di rappresentare attraverso i diversi casi di studio le più innovative e rilevanti tendenze nell’ambito considerato. La prima parte è dedicata alla comunicazione e alle strategie di coinvolgimento degli stakeholders e racchiude quattro saggi, ognuno dei quali dedicato ad un tema specifico. Antonio Ragusa, autore del saggio “La comunicazione come processo di business: un modello teorico e applicativo”, si concentra sull’analisi della comunicazione interna, proponendo un modello concettuale per la costruzione di un processo di comunicazione efficace. L’autore indica che la comunicazione d’impresa può essere concepita come un processo in senso tecnico, intendendo la tipica configurazione input-operations-output. Tuttavia, egli sostiene che tale strategia può rappresentare anche un processo di business in grado di influire sui risultati economici dell’impresa, apportando benefici organizzativi e costituendosi come fattore di vantaggio competitivo. Egli giunge a riconoscere che “persone, organizzazione e lavori trovino nella comunicazione un essenziale e vitale collante sistemico” (p. 84), in quanto una comunicazione di qualità è in grado di produrre effetti positivi tanto per i soggetti (motivazione, appartenenza, fiducia ecc.), quanto per l’organizzazione (miglioramento della produttività, qualità del servizio ecc.). Per questo motivo, si considera l’approccio process-based particolarmente indicato per gli strumenti concettuali e applicativi che offre a garanzia di un’efficace analisi e gestione dell’intero processo comunicativo.
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Fabrizio da Dafano riflette sulla trasformazione dalla comunicazione attraverso l’esperienza della American Express. Il suo saggio “Dalla comunicazione interna alla comunicazione organizzativa” si propone di fornire alcuni spunti di riflessione sul modo di concepire la comunicazione organizzativa in ordine al superamento della tradizionale comunicazione interna, esterna e di prodotto. Egli giunge a considerare la comunicazione organizzativa come “la linfa vitale di un’organizzazione”, lavoro accurato e costante di cui il management si deve prendere responsabilmente cura. Sul tema della comunicazione all’interno di un ente pubblico di prestigio si cimenta Germana Galoforo con il saggio “Spazio alla comunicazione: le attività di relazioni esterne in un settore di eccellenza”. Dopo una breve riflessione sul modo in cui si è evoluta la comunicazione nell’ambito dell’amministrazione pubblica, si approfondisce la dimensione relazionale della comunicazione. Il saggio affronta la questione della comunicazione da una prospettiva particolare quale può essere quella del rapporto tra scienza e società, e quella della difficile comunicazione degli esiti della ricerca scientifica. Il valore del saggio è dato anche dalla sua lettura critica che non esita a mettere in evidenza le problematiche ancora diffuse nell’ambito dell’amministrazione pubblica in ordine all’urgenza di considerare la comunicazione come un fattore di cambiamento culturale e manageriale. In continuità con le analisi precedenti anche in questo caso si riconosce che la comunicazione interna tende a trasformarsi in comunicazione organizzativa, ampliandosi fino ad incorporare aspetti importanti di comunicazione esterna e di comunicazione di marketing. Il quarto saggio di Chiara Santarelli conclude questa prima parte soffermandosi su un altro tema di rilievo: “La brand identity e le strategie di rebranding nella comunicazione di impresa”. La ricerca tenta di mettere in evidenza l’importanza attribuita al brand quale fattore in grado di determinare il successo o l’insuccesso di un’organizzazione. Il saggio vuole di-
mostrare come i soggetti in grado di affrontare una coerente riflessione sulle proprie politiche di brand identity possono affrontare le sfide del mercato auspicando a rilanciare e rafforzare la propria posizione. Il brand name di un’azienda non ha soltanto un significato denotativo utile alla sua identificazione, ma può divenire elemento fondativo della sua identità, della bontà e della qualità dei suoi servizi e prodotti. In questo senso, l’impresa viene riconosciuta come portatrice di una propria personalità, capace di inserirsi in maniera strategica in un ambiente costituito di “persone”; in altri termini consumatori sempre più selettivi ed esigenti. La seconda parte del volume si focalizza su “nuovi modelli organizzativi e valorizzazione delle persone”. Questa sezione del volume consta di cinque saggi, ciascuno dei quali affronta un tema di rilievo nella governance di un’organizzazione di natura sia pubblica che privata. Il primo saggio, di Concetta Mercurio, si sofferma sul tema della leadership e del cambiamento organizzativo intrapreso nell’esperienza del Comune di Reggio Emilia. Dopo un breve excursus sulle principali teorie della leadership, l’autrice analizza il processo relazionale innescato nel Comune oggetto di analisi, dal mutamento organizzativo attivato in risposta al cambiamento socio-culturale, e come tentativo di stabilire una nuova relazione dialettica tra mondi tradizionalmente distinti: istituzioni, imprese, famiglie e cittadini. Mutamento organizzativo finalizzato a rendere più coerenti i servizi forniti alla cittadinanza nell’ottica di uno sviluppo economico, sociale e civile dell’intera comunità. Cristina Garasi si concentra su “Il miglioramento della qualità dei servizi attraverso i circoli della qualità nell’Agenzia del territorio”. Nel suo lavoro, l’autrice cerca di mettere in evidenza il valore che le risorse umane acquisiscono ad ogni livello dell’organizzazione in ordine ad attività di miglioramento organizzativo. Nell’analisi del progetto front office realizzato nel 2006 dall’Agenzia del territorio per favorire il miglioramento dei servizi, giunge a riconoscere come il vero mutamento non si ottiene
attraverso la normativa e le procedure, bensì per mezzo di un’attenzione costante e forte sul trasferimento dei valori guida dell’organizzazione, attraverso una logica di life long learning e mirate azioni di comunicazione organizzativa. Tra gli strumenti di gestione delle risorse umane non può mancare il richiamo alla selezione. Anna Benini e Sabrina Nulli, nel loro saggio, “La selezione come strumento di pianificazione e sviluppo delle risorse umane in aziende multinazionali” chiariscono le sfide attuali che devono essere affrontate da quanti svolgono questa attività nell’ambito delle Human Resources. Lo studio giunge a mettere in evidenza come le aziende non possano essere competitive se non riescono ad interrogarsi sui propri processi di selezione e se non riescono a considerare il reclutamento come un processo dinamico, volto sin dalle primissime fasi all’identificazione di un percorso di crescita e di carriera del soggetto all’interno dell’azienda. Daniela Bolognino, Luigi Mazza e Catherine Tonini si soffermano sulle “Politiche formative e il nuovo ruolo del dirigente pubblico nell’esperienza del Consorzio Comuni trentini”. Un breve excursus sul modo in cui si è modificato il ruolo del dirigente pubblico a partire degli anni ‘90 introduce la problematica dell’efficacia e dell’efficienza nella prospettiva del New Public Management che con gli anni ‘90 si è affermata anche nel nostro paese. Il lavoro prosegue con la ricostruzione dell’esperienza dei Comuni trentini prestando particolare attenzione al ruolo del dirigente nella crescita e nella valorizzazione del personale, attraverso lo sviluppo di attività formative considerate come “leva strategica per l’evoluzione professionale e per l’acquisizione e la condivisione degli obiettivi prioritari del mutamento culturale e organizzativo” (p. 41). Il saggio cerca di mostrare come una politica di formazione mirata possa svolgere un ruolo fondamentale nel potenziamento di competenze professionali strategiche in ruoli dirigenziali e in figure professionali di coordinamento. Il quinto saggio che conclude questa seconda parte, ad opera di Mario Iannaccone, Franco
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Moraldi e Alessandro Peluso, si sofferma su “La diffusione dell’e-work nelle organizzazioni”, un tema particolarmente attuale nel panorama delle trasformazioni organizzative. Essi affrontano il tema dell’e-work ricostruendo il dibattito scientifico che si è sviluppato attorno al concetto di telelavoro a partire dalla metà degli anni ‘60 per poi ricostruire una sperimentazione virtuosa di telelavoro domiciliare realizzata in Telecom Italia. Il saggio mostra l’estensione del concetto di telelavoro che assume oggi, con lo straordinario sviluppo delle nuove tecnologie informatiche e della comunicazione, connotazioni assai diverse, orientate prevalentemente in direzione della cooperazione a distanza e della collaborazione on-line. Il caso Telecom dimostra che il telelavoro può svolgere un ruolo sia dal punto di vista organizzativo, sia come leva strategica di gestione delle risorse umane, mettendo la persona al centro dell’organizzazione. La terza parte del volume contiene due saggi volti a presentare le nuove sfide per l’innovazione e la personalizzazione delle politiche. I due saggi affrontano temi di grande rilevanza nel dibattito attuale, la questione della responsabilità sociale e quella del diversity management. Luigi Mazza si sofferma sul primo tema ricostruendo l’esperienza del gruppo Terna S.p.A.. L’autore esplora l’evoluzione teorica del concetto di responsabilità sociale d’impresa, a partire dalla ricostruzione del quadro teorico di riferimento, dalla definizione del concetto di responsabilità sociale, dei suoi ambiti di applicazione e dei suoi strumenti. Egli giunge a considerare la responsabilità sociale come un driver strategico per la valorizzazione delle persone. L’ultimo saggio, che chiude la terza parte del lavoro, è elaborato da Chiara Cilona e Domenico Famà e affronta un tema molto importante, “Le politiche di diversity management: criticità e prospettive. Una comparazione in aziende multinazionali”. Il saggio avvia la sua riflessione con la spiegazione del concetto stesso di gestione delle differenze, portando alla luce le evoluzioni sostanziali che hanno modificato il modo di intendere il concetto di differenza negli
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ultimi cinquant’anni. Si cerca inoltre di individuare quali differenze più di altre possano porsi come sfida o opportunità per il sistema Italia, proponendo uno schema utile a comprendere come la presenza di differenze interagisca con i processi aziendali e come possano influire sui risultati complessivi dell’organizzazione. Gli autori giungono ad affermare che il diversity management sia destinato ad avere un ruolo sempre più importante in società multietniche e multiculturali dove è sempre più necessario perseguire la piena e completa valorizzazione di tutte le risorse culturali e professionali senza percorrere pratiche discriminatorie. Per concludere, si può dire che il file rouge che accompagna tutto il lavoro sia l’idea che “l’evoluzione dei nuovi processi comunicativi, culturali e organizzativi, non solo tende al superamento di una logica gerarchica, prescrittiva, deterministica e finalistica, ma contribuisce a delineare un certo grado di indeterminismo vitale, dovuto all’agire personale, che favorisce e fa progredire le nostre società” (p. 453). In questo nuovo paradigma interpretativo, il rispetto per la dignità della persona viene ad assumere un ruolo fondamentale nell’esercizio della libertà di azione soggettiva che non si gioca più esclusivamente su uno scambio di tipo materiale ma richiama sempre più dimensioni simboliche e valoriali. Il merito del lavoro è senza dubbio quello di aver riportato all’attenzione l’importanza di una visione strategica e lungimirante nella gestione e nelle politiche delle risorse umane quale fattore decisivo nel determinare anche, (e forse soprattutto), in tempo di crisi, il successo o l’insuccesso di un’impresa. Note: 1. Professore di Sociologia dell’educazione, Master Mundis, Scuola Iad-Università di Roma “Tor Vergata”. 2. A. Cocozza (a cura di), Persone, organizzazioni, lavori, Milano, Franco Angeli, 2010.
Frontex. Il controllo dei confini dell’ UE1
di Pietro Vallone Nel 2004 per coordinare gli interventi operativi di controllo dei confini dell’Unione Europea la Commissione europea costituì un’Agenzia sovranazionale denominata Frontex. Oggi di fronte al continuo fenomeno degli sbarchi clandestini, ed ancora di più, di fronte alle tragedie che avvengono nel Mediterraneo, ci si domanda quale sia il ruolo dell’Unione Europea e in particolare quali siano le evoluzioni del processo di armonizzazione del controllo delle frontiere posto in essere con la costituzione di Frontex. Gli scopi dell’Agenzia Frontex Negli anni, i differenti interessi degli stati membri dell’UE, la forte pressione migratoria, e lo spostamento ad EST dei confini dell’Unione, hanno creato i presupposti per l’istituzione di un’Agenzia sovranazionale che fornisse assistenza tecnica volta a rafforzare la cooperazione operativa nel controllo delle frontiere dell’Unione. Dalle intenzioni della Commissione Europea è nata l’Agenzia sovranazionale Frontex. Frontex non si sostituisce agli stati ma, come viene indicato nelle premesse del regolamento costitutivo,
si occupa di come “Il controllo e la sorveglianza delle frontiere esterne ricadono sotto la responsabilità degli stati membri.” Gli Stati non delegano il controllo, piuttosto si affidano all’Agenzia perché armonizzi e semplifichi “l’applicazione delle misure comunitarie presenti e future in materia di gestione delle frontiere esterne, garantendo il coordinamento delle azioni intraprese dagli stati membri nell’attuare tali misure”. Gli stati membri collaborano con Frontex per migliorare la cooperazione nella gestione delle frontiere esterne, poiché, come ci mostrano i recenti scontri tra Italia e Malta sul controllo dei confini marittimi, la cooperazione può avere dei risultati migliori se sviluppata a livello comunitario. Risultati di Frontex In base al rapporto redatto dalla Commissione Europea nel 2007, l’Agenzia tra il 2006 e il 2007 ha dato il via a 30 operazioni congiunte svolte tra più stati membri. In queste operazioni congiunte sono stati respinti o trattenuti alla frontiera circa 53.000 immigrati illegali. Questo dato va confrontato con le azioni di respingimento fatte dai singoli stati membri (nel 2007 sono stati respinti 163.903 immigrati irregolari). Se poi rapportiamo il dato alle stime dell’immigrazione irregolare presente nei paesi degli stati membri dell’UE è evidente che le azioni congiunte hanno prodotto ben poco in termini di risultati effettivi. La sola immigrazione irregolare in Italia è stimata intorno a 650.000 individui nel 2008. Nonostante ciò, il processo di armonizzazione del controllo dei confini ha fatto degli ulteriori passi in avanti, infatti, le 30 operazioni congiunte hanno consentito ‘lo scambio di migliori prassi e informazioni tra stati membri e l’incentivazione alla cooperazione quotidiana tra autorità nazionali di controllo delle frontiere”. Obiettivi di lungo periodo e resistenze degli stati L’obiettivo della Commissione Europea è quello di fare di Frontex il cardine su cui costruire un sistema europeo unico di sorve-
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glianza delle frontiere. Le implicazioni di questa espansione farebbero con molta probabilità sfociare l’azione di Frontex nelle competenze territoriali proprie degli stati membri, e ciò fa pensare che le prospettive di una delega totale degli stati membri all’Agenzia sia ancora incerta. In futuro è fondamentale che il ruolo dell’Agenzia venga ampliato, seguendo un approccio graduale e rafforzando progressivamente la sua capacità amministrativa, anche e soprattutto in relazione alle resistenze degli stati membri. Gli obiettivi della Commissione, però, sono la semplificazione e l’efficienza dei sistemi di controllo delle frontiere. Ad esempio, è totalmente impossibile pensare ad una gestione integrata dei confini marittimi dell’UE se ad operare sono gli otto stati membri la cui sorveglianza di frontiera è affidata a circa 50 autorità appartenenti a 30 diverse istituzioni, spesso con competenze e sistemi paralleli. Ciò fa presumere che l’azione della Commissione sarà quella di puntare verso la costituzione di un sistema uniforme della gestione delle frontiere. Nel tentativo di forzare le resistenze degli stati membri, la Commissione ha emanato il regolamento RABIT, che costituisce delle squadre di intervento rapido alle frontiere. Nel regolamento è prevista la costituzione di un team sovranazionale, alle dipendenze di Frontex, formato da personale selezionato composto da 500-600 guardie di frontiera. Uno stato che presenti ai confini una situazione critica nella gestione dei flussi migratori può richiedere all’Agenzia l’intervento delle squadre RABIT, che saranno formate da guardie di frontiera di altri stati membri. Le squadre di frontiera possono, nei casi in cui vengono chiamate ad intervenire, svolgere compiti di controllo delle persone alle frontiere esterne e di sorveglianza di tali frontiere. Nonostante in alcuni casi, come in Italia, ci siano state delle emergenze ai confini, mai nessuno stato membro ha chiesto l’intervento dei RABIT, e ciò fa riflettere sul fatto che, benché sia uno strumento di contenimento dei flussi migratori accettato dagli stati membri, risulta evi-
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dentemente una possibile limitazione della sovranità dello stato membro richiedente. Un altro punto importante su cui fino ad ora l’Agenzia ha fatto ben poco è quello della cooperazione con gli stati terzi. Frontex ha un mandato molto limitato, che non gli consente di poter intervenire con progetti diretti nei paesi terzi. Fino ad ora Frontex ha solamente concluso accordi di lavoro per istituire una cooperazione a livello tecnico con le autorità preposte al controllo delle frontiere in Svizzera, Croazia, Russia, Georgia e Moldavia. I paesi terzi hanno partecipato direttamente alle attività operative. Si ritiene quindi che la cooperazione con i paesi terzi sia fondamentale per ottenere dei risultati contro l’immigrazione irregolare. E’ quindi imprescindibile che la Commissione e gli stati membri diano la possibilità all’Agenzia di partecipare alle missioni europee di controllo delle frontiere svolte nei paesi terzi. Note: 1. Tratto da: www.ImmigrationFlows.net Bibliografia di Riferimento: 1. http://www.frontex.europa.eu/annual_report; 2. Council regulation (EC) No 2007/2004, “Che istituisce un’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea”, 26 October 2004; 3. COM(2008) 67, Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e Al Comitato delle Regioni, “Relazione sulla valutazione e sullo sviluppo futuro dell’Agenzia FRONTEX”, Bruxelles, 13.2.2008; 4. Regolamento (CE) N. 863/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 luglio 2007 che istituisce un meccanismo per la creazione di squadre di intervento rapido alle frontiere e modifica il regolamento (CE) n. 2007/2004 del Consiglio limitatamente a tale meccanismo e disciplina i compiti e le competenze degli agenti distaccati; 5. Lords “FRONTEX: the EU external borders agency”, 9th Report of Session 2007–08 Report with Evidence, Authority of House of Lords, London, 2008.
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Calais, una via clandestina verso l’Inghilterra1
di Marie Françoise Pitteloud La regione di Calais rappresenta uno dei confini dello Spazio di Schengen. Situata sul litorale francese, è un passaggio obbligato per i clandestini afghani, iracheni, eritrei o sudanesi in attesa di attraversare la Manica. Un viaggio dal Corno d’Africa a Calais può durare dai sei mesi a un anno, e costare fino a diecimila dollari. Londra e Parigi si rimpallano la responsabilità, ma il problema è che i migranti non ne vogliono sapere di chiedere asilo in Francia o in Italia: il sogno di molti di loro è raggiungere l’eldorado britannico. Nel 1999, la Croce Rossa francese aprì un centro di ricovero in un deposito dell’Eurotunnel ubicato a Sangatte vicino a Calais, con il fine di offrire un aiuto di emergenza agli esiliati di passaggio. A quell’epoca, il tempo di attesa per riuscire ad attraversare la Manica era di qualche giorno; ma con il rafforzamento dei controlli intorno al tunnel e al porto di Calais la durata media è diventata di circa 4 settimane. Nel 2002, sotto la pressione dell’Inghilterra e della società Eurotunnel, il governo francese ha smantellato il campo di Sangatte. Secondo il registro della Croce Rossa, 67.611 migranti sono transitati per il campo durante i 3 anni di attività. Nicolas Sarkozy, Ministro dell’Interno nel 2002, dichiarò che la chiusura di Sangatte era “un segnale al mondo intero, per dire che non bisogna più venire in questo deposito alla fine del mondo”.
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L’Inghilterra si impegnò ad accogliere la maggior parte dei residenti del campo, in cambio la Francia promise di rinforzare i controlli a Calais e nelle principali stazioni ferroviarie. Lo smantellamento di Sangatte è stato fortemente criticato sia in Francia sia a livello internazionale e il ministro è stato accusato di fare « politica-spettacolo » senza affrontare i problemi reali. Infatti, quest’azione molto pubblicizzata non ha fermato l’affluenza di migranti nella regione. Le associazioni umanitarie che operano nella zona di Sangatte affermano che mediamente arrivano ogni settimana tra i 30 e i 40 immigrati. Questa affluenza continua ha fatto sì che nascessero campi informali lungo tutto il litorale, fra i quali il campo battezzato dai suoi abitanti la “Jungle”. La “Jungle” era un campo fatto di baracche di fortuna senza elettricità, ed è diventato il simbolo dell’indigenza dei clandestini che cercano di passare in Inghilterra a tutti i costi. Il campo ospitava circa 800 persone nel 2009. Lo smantellamento della «jungle» Eric Besson, Ministro francese dell’Immigrazione ha messo la zona di Calais al centro delle sue priorità. Il 16 settembre 2009, ha annunciato ufficialmente lo smantellamento della “jungle”. L’obiettivo di quest’azione era di «rompere il principale strumento di lavoro delle filiere clandestine della regione». Secondo le associazioni umanitarie, centinaia di migranti hanno lasciato il campo in seguito a quest’annuncio per evitare l’arresto, disperdendosi nei territori circostanti. Altri sarebbero riusciti a raggiungere l’Inghilterra. Il 22 settembre, l’operazione di smantellamento è stata eseguita. L’intervento è durato due ore. I pullman della CRS (Compagnies Républicaines de Sécurité) hanno circondato il campo un po’ prima delle ore 07:30. I migranti sono stati avvertiti attraverso i megafoni e si sono subito trincerati dietro delle banderuole, preparate in anticipo e scritte in inglese e in pashtun “Abbiamo bisogno di un rifugio e di protezione. Vogliamo l’asilo e la pace. La giungla è la nostra casa”
proclamava una di loro. I residenti del campo aspettavano l’intervento dei poliziotti in un grande silenzio, in presenza di un nugolo di giornalisti e volontari delle associazioni. I migranti non hanno opposto nessuna resistenza ai poliziotti che avanzavano per arrestarli. In compenso, erano protetti e ‘trattenuti’ dai volontari, che hanno costretto i poliziotti ad usare la forza. In totale, 276 migranti sono stati fermati, fra i quali 135 minorenni. Dopo l’evacuazione, le squadre specializzate hanno iniziato a sgomberare le baracche con dei bulldozer. Eric Besson ha annunciato che un’audizione separata sarebbe stata organizzata per ogni clandestino, precisando che “quelli maggiorenni se rifiuteranno le nostre proposte saranno mandati nei centri di detenzione, mentre i minorenni saranno messi in centri di alloggio”. Per di più, il ministro si è impegnato a non rimandare i migranti di forza nei loro paesi di origine, almeno gli Afghani. Questi avrebbero avuto, secondo le affermazioni del ministro, la scelta di presentare una richiesta di asilo o accettare un ritorno volontario. Nonostante ciò, il 7 ottobre è stata annunciata l’intenzione della Francia di organizzare dei voli charter per rimandare, con l’appoggio dell’Inghilterra, cittadini afghani rintracciati nei pressi di Calais.
quale i richiedenti asilo non dovrebbero essere rimandati indietro. L’organizzazione «Human Rights Watch» il 25 settembre scorso ha dichiarato che numerosi migranti arrestati a Calais rischiavano di essere espulsi verso la Grecia. Secondo il Regolamento Dublino II dell’Unione Europea, il primo paese dove una persona è transitata per entrare nello spazio dell’UE è generalmente responsabile dell’esame della richiesta di asilo, e questo indipendentemente dal fatto che abbia presentato una richiesta. Gli stati europei prendono le impronte digitali di tutti i migranti arrestati e queste sono registrate in una banca dati europea. Questo registro permette di determinare il primo paese di ingresso di un migrante nello spazio dell’UE e di rinviarlo verso questo Stato. Il regolamento Dublino II è basato sull’idea che tutti gli Stati membri dell’UE abbiano le stesse pratiche nell’ambito dell’asilo e dell’immigrazione; in realtà, esistono grandi disparità in seno all’UE, poiché alcuni paesi come la Grecia non offrono praticamente nessuna protezione. Queste differenze sottolineano la necessità di riformare il Regolamento di Dublino e di ritenere gli stati membri responsabili in caso di violazioni dei loro obblighi, in nome della legislazione europea sull’accesso all’asilo.
Reazioni e inquietudini internazionali L’ONG “Medici del Mondo” si è mostrata estremamente preoccupata per la sorte dei numerosi migranti dispersi dopo l’annuncio dell’operazione di smantellamento, in quanto molti residenti della “jungle” soffrivano di gravi problemi di salute, infatti, nell’agosto del 2009 un’epidemia di scabbia aveva costretto la prefettura ad un intervento di emergenza nel campo. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, Antonio Guterres, ha riconosciuto le sfide poste dalle migrazioni irregolari e la pressione esercitata dalle reti di trafficati nella regione di Calais. Tuttavia, Guterres ha rilevato che fra i migranti irregolari arrestati, molti erano minorenni non accompagnati, e ha ripetuto la posizione dell’UNHCR secondo la
Una soluzione paneuropea Le numerose reazioni internazionali espresse a seguito dello smantellamento della “jungle” mostrano la necessità di un nuovo accordo sull’armonizzazione e sulla collaborazione delle azioni fra i paesi dell’Unione Europea. Senza quest’accordo operazioni come quella del governo francese a Calais non fanno che rendere invisibile un problema che perdurerà, si rinnoverà e si sposterà. Jacques Barrot, commissario europeo alla Giustizia, durante l’incontro dei Ministri con delega all’immigrazione svoltosi a Bruxelles, ha commentato duramente l’operazione francese: «Alcuni paesi non hanno capito che nell’ambito del diritto di asilo, è necessaria una solidarietà europea. Le soluzioni nazionali non sono accettabili».
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L’idea, avanzata a Bruxelles, di un’armonizzazione delle procedure di asilo è tuttavia in panne. La Commissione Europea ha proposto di modificare la regola del paese di ingresso per permettere ad un richiedente asilo di vedere la sua richiesta istruita nel paese dove si trova, anche se non è il primo paese di accoglienza. Ma il Regno Unito, destinazione di molti migranti clandestini, si oppone a questa proposta. Niente da fare: la solidarietà comunitaria non funziona nel contesto della gestione dell’immigrazione, e le singole azioni non trovano un coerenza a lungo termine, come fa giustamente notare il quotidiano inglese “The Guardian”: «Attualmente i paesi si rimpallano le responsabilità e, nella pratica, molti rigettano tutte le domande di asilo che ricevono. Per risanare la situazione, i politici dovrebbero preferire una diplomazia tranquilla ad un’azione rumorosa. Come ci ha fatto ricordare la chiusura della “jungle”, quello che conta nel campo dell’immigrazione è di essere visti agendo, qualunque siano gli effetti perversi dell’azione».
CALAIS, UNE ESCALE CLANDESTINE VERS L’ANGLETERRE de Marie Françoise Pitteloud Frontière de l’espace Schengen, la région de Calais, sur le littoral français, est un passage obligé pour les clandestins afghans, iraquiens, érytrhéens ou soudanais qui attendent de traverser la Manche. Un voyage de la Corne de l’Afrique jusqu’à Calais peut durer entre 6 mois et une année, et coûter 10′000 dollars à donner aux passeurs et à la police, pour sortir de prison en cas d’arrestation. Londres et Paris se renvoient la balle, mais le problème est que les migrants ne veulent pas demander l’asile en France ou en Italie : leur rêve à tous est de rejoindre l’eldorado britannique. En 1999, un centre d’hébergement est ouvert par la Croix-
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Rouge à dans un hangar d’Eurotunnel situé à Sangatte près de Calais, pour offrir une aide d’urgence aux exilés de passage. A cette époque, selon la CFDA (Coordination française pour le droit d’asile), le temps d’attente pour réussir la traversée de la Manche clandestinement est de quelques jours ; mais, avec le renforcement des contrôles autour du tunnel et du port de Calais, la durée moyenne de séjour dans le camp passe à 4 semaines environ. En 2002, sous la pression de l’Angleterre et de la société Eurotunnel, le gouvernement français démantèle le camp de Sangatte. La Croix-Rouge a enregistré 67 611 étrangers ayant transité par ce camp en 3 ans. Pour Nicolas Sarkozy, alors ministre de l’intérieur, la fermeture de Sangatte est « un signal au monde entier, pour dire que ce n’est plus la peine de venir dans ce hangar du bout du monde ». L’Angleterre s’engage à accueillir la majeure partie des étrangers du camp ; en contrepartie la France promet de renforcer ses contrôles dans le Calaisis ainsi que dans les principales gares ferroviaires. Le démantèlement de Sangatte a été fortement critiqué par les organisations non-gouvernementales, accusant le ministre de faire de la « politiquespectacle » sans s’attaquer aux problèmes de fond. En effet, cette action très médiatisée n’a pas arrêté l’affluence des migrants dans la région : environ 30 à 40 personnes par semaine selon les associations présentes sur place. De nouveaux campements informels ont ainsi vu le jour sur tout le littoral, dont le village clandestin baptisé la « jungle » et situé dans la zone industrielle de Calais. La « jungle » était devenue le symbole de la détresse des clandestins cherchant à tout prix à passer en Angleterre. Le campement abritait environ 800 personnes pendant l’été 2009. Le Demantellement de la « Jungle » Eric Besson, ministre français de « l’immigration, de l’intégration, de l’identité nationale et du développement solidaire » a placé la zone de Calais, qu’il qualifie de « concentré exceptionnel des enjeux migratoires » au centre de
ses priorités. Le 16 septembre, il annonçait officiellement que la « jungle » serait démantelée prochainement. L’objectif annoncé de cette action étant de « casser le principal outil de travail des filières clandestines de la région ». Selon les associations humanitaires, des centaines de migrants ont quitté le campement suite à cette annonce pour échapper à l’arrestation, se dispersant dans la nature. D’autres auraient réussi à rejoindre l’Angleterre. Le 22 septembre, le démantèlement annoncé a eu lieu. L’intervention a duré deux heures. Des cars de CRS ont encerclé le camp peu avant 7h30. Les migrants ont été prévenus par des mégaphones. Ils se sont aussitôt placés derrière des banderoles, préparées à l’avance et rédigées en anglais et en pachtoune (langue afghane) : «Nous avons besoin d’un abri et de protection. Nous voulons l’asile et la paix. La jungle est notre maison», proclamait l’une d’elles. Les résidents du camp attendaient l’intervention des policiers, dans un grand silence, en présence d’une nuée de journalistes et de militants associatifs. Ils n’ont opposé aucune résistance aux policiers qui avançaient pour les interpeller. En revanche, ils étaient protégés et retenus par des militants, qui ont contraint les policiers à les extraire un à un de façon musclée. En tout, 276 migrants ont été interpellés. Parmi eux : 135 mineurs. Après l’évacuation, des équipes spécialisées, aidées de bulldozers, ont entamé les opérations de déblaiement des baraquements. Le ministre Eric Besson a annoncé que les clandestins arrêtés seraient entendus pour des auditions individuelles. «Les majeurs refusant toutes nos propositions seront ensuite placés en centres de rétention» a-t-il précisé, « tandis que les mineurs sont placés dans des centres d’hébergement. ». Après le démantèlement du camp, le ministre français s’est engagé à ne pas renvoyer les migrants de force dans leur pays d’origine, du moins pour les Afghans. Ces derniers auraient le choix entre présenter une demande d’asile ou d’accepter un retour volontaire. Cependant, le 7 octobre était annoncée l’intention de la France d’affréter des vols charters pour renvoyer, avec
l’appui de la Grande-Bretagne, des Afghans interpellés près de Calais. Reactions et Inquietudes Internationales Comme beaucoup d’autres associations, « Médecins du monde » s’inquiète du sort des nombreux migrants disparus dans la nature depuis l’annonce de l’opération par le ministre, ces derniers se retrouvant privés d’accès aux soins et livrés à la loi des mafias. Beaucoup de personnes résidant dans le campement souffraient de problèmes médicaux sérieux. De plus, une épidémie de galle avait obligé la préfecture à une prise en charge d’urgence au mois d’août 2009. Le Haut Commissaire des nations unies pour les réfugiés, Antonio Guterres, a reconnu les défis posés par les migrations irrégulières et la pression exercée par les réseaux de passeurs et de trafiquants sur la région de Calais. Il a toutefois fait remarquer que parmi les migrants en situation irrégulière, beaucoup étaient des mineurs non accompagnés et a notamment rappelé la position du HCR selon laquelle les demandeurs d’asile ne devraient pas être renvoyés vers la Grèce, compte tenu des défaillances du système dans ce pays. L’organisation « Human Rights Watch » déclarait cependant le 25 septembre que de nombreuses personnes parmi les centaines de migrants arrêtés à Calais risquaient d’être expulsées vers la Grèce. En vertu du Règlement Dublin II de l’Union européenne, le premier pays où une personne est passée pour entrer dans l’espace de l’UE
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est généralement responsable de l’examen de la demande d’asile de cette personne, et ce, indépendamment du fait qu’elle y ait présenté sa demande ou non. Les États européens prennent les empreintes digitales de tous les migrants interpellés et celles-ci sont enregistrées dans une base de données européenne. Ce fichier leur permet de déterminer le premier pays d’entrée d’un migrant dans l’espace de l’UE et de l’expulser vers cet État. Le Règlement Dublin II est fondé sur l’idée que tous les États membres de l’UE ont les mêmes pratiques en matière d’asile et d’immigration ; or il existe de grandes disparités au sein de l’UE, puisque certains pays comme la Grèce n’offrent pratiquement aucune protection. Ces différences soulignent la nécessité de réformer le système de Dublin et de veiller à ce que les États membres de l’UE soient tenus pour responsables en cas de violations de leurs obligations en vertu de la législation européenne sur l’accès à l’asile. Une Solution Paneuropeenne Les nombreuses réactions internationales exprimées suite à l’opération du ministre Besson mettent en avant la nécessité d’un nouvel accord sur le partage des tâches entre les pays de l’Union Européenne. Sans cela, des opérations comme celle du gouvernement français à Calais ne feront que de rendre invisible un problème qui perdurera, se renouvellera et se déplacera. Jacques Barrot, commissaire européen à la Justice, a commenté durement le démantèlement de la « jungle » lors de la rencontre à Bruxelles des ministres des Vingt-Sept chargés de l’immigration. Il a notamment déclaré : «Certains pays n’ont pas compris que face au droit d’asile il faut une solidarité européenne. Les solutions nationales ne sont pas jouables.» L’idée, avancée par Bruxelles, d’une harmonisation des procédures d’asile entre Etats membres est toutefois en panne. La Commission a proposé de modifier la règle du pays d’entrée pour permettre à un demandeur d’asile de voir sa demande instruite dans le pays où il se trouve, même si ce n’est pas le premier pays
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d’accueil. Mais le Royaume-Uni, destination de beaucoup de migrants clandestins, s’y oppose. Rien à faire : la solidarité communautaire en matière de gestion de l’immigration ne passe pas, comme le remarque justement le quotidien anglais « The Guardian » : « Actuellement, les pays se renvoient la balle et, dans la pratique, beaucoup rejettent toutes les demandes d’asile qui leur sont faites. Pour redresser la barre, les hommes politiques devraient préférer une diplomatie paisible à une action bruyante. Mais comme la fermeture de la “jungle” nous l’a rappelé, dans le domaine de l’immigration, ce qui compte, c’est d’être vu en train d’agir, quels que soient les effets pervers de l’action ». Note: 1. Tratto da: www.ImmigrationFlows.net Riferimenti Bibliografici: - Coordination française pour le droit d’asile (CFDA) : la loi des « jungles ». Rapport sur la situation des exilés sur le littoral de la Manche et de la mer du nord. Rapport de mission d’observation. Mai-juillet 2008; - Médecins du monde : Après Sangatte, l’inhumanitaire au quotidien. Rapport de mission auprès des migrants à Calais. 2005-2006; - Ministère français de l’immigration, de l’intégration, de l’identité nationale et du développement solidaire : Conférence de presse d’Eric Besson du jeudi 3 septembre 2009 : 8 mois au service du pacte républicain. Septembre 2008. Sitografia: - www.immigration.gouv.fr - www.unhcr.org - www.hrw.org - www.letemps.ch - www.lemonde.fr - www.rfi.fr - www.mdm.org - www.associationsalam.org - www.courrierinternational.com/article/2009/09/23 une-jungle-en-cache-forcement-d-autres - www.guardian.co.uk/uk/2009/jul/30/ calais-eritreans-asylum-seekers.
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