Racconti di albori e tramonti

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Racconti di Albori e Tramonti Introduzione “Nessuno potrà bagnarsi due volte nello stesso fiume”. Così diceva Eraclito. Questo perché il fiume scorre, è in continuo cambiamento, e diventa quindi una metafora per il mondo che ci circonda e per la nostra vita, che cambiano in modi sempre sorprendenti ed inaspettati. Non potrebbe però essere l’uomo a cambiare? In contatto con un ambiente così imprevedibile l’uomo sa evolversi, svilupparsi, adattarsi, e proprio in questa sua natura mutevole può trovare il suo pieno compimento. Un uomo che non evolve mai è comunque un uomo? L’uomo può cambiare. Può cambiare se stesso e può cambiare quello che lo circonda, in un’interazione infinita e caotica tra due sfere in continuo cambiamento, dalla quale nasce la vera armonia tra uomo e natura. E se l’uomo decide di non cambiare più? Si rompe l’armonia. Tutto è destinato ad evolvere, il nuovo diventa vecchio, ciò che era importante viene dimenticato, ciò che è giovane invecchia, ciò che è vivo muore. Ma se si riesce a capire il vero valore del cambiamento, si capisce che il cambiamento avviene in entrambi versi. E così ciò che era vecchio è sempre nuovo, ciò che era dimenticato deve essere riscoperto, da ciò che è morto può nascere nuova vita. Così, anche quando sta per arrivare l’oscurità della notte, e ci sembra di non trovare soluzione, dobbiamo ricordare che dopo ogni tramonto c’è sempre un’alba, e credere che per quanto possa essere imprevedibile, il cambiamento è quello che ci rende esseri umani. _______________________________________________________________________________________

La Malattia dell’Imperatore C’era una volta, oltre i continenti, oltre gli oceani, oltre le nuvole e oltre il tempo un impero vasto e prospero. Era tanto esteso che quando il sole tramontava sul confine occidentale, iniziava a sorgere su quello orientale, sarebbe stato quindi possibile attraversare tutto l’impero in un costante tramonto, o in una costante alba. Si potrebbe pensare che un impero di tali dimensioni non potesse essere controllato da un solo uomo, al contrario l’imperatore era come la chiave di volta del suo reame, senza di lui sarebbe crollato. Aveva unito tutte quelle terre da giovane, senza combattere neanche una guerra, grazie alla sua precoce saggezza e intelligenza. Aveva fatto capire a tutti i popoli che se fossero stati uniti avrebbero dato vita alla società più florida mai esistita, la cultura avrebbe raggiunto picchi mai raggiunti, non ci sarebbero state guerre, e con il tempo i nemici sarebbero diventati fratelli. La sua eloquenza ed il suo carisma erano stati tali che tutti i suoi oppositori si erano infine chinati ai suoi piedi per adorarlo come supremo imperatore di tutte le terre e tutti i mari. Grazie alla sua mente matura e alla sua giovane fiducia nel mondo, l’imperatore riusciva ad amministrare i suoi domini in modo eccezionale, mai tanta ricchezza si era vista in quelle terre. Ogni tipo di prodotto veniva commerciato in ogni città: dalla capitale alla più sperduta e piccola delle isole. Le strade dei villaggi erano lastricate di marmo, e nelle città i palazzi erano placcati Marco Zuaro (1488237171326)


d’oro e le fontane ornate da pietre preziose. Il popolo era felice, e in continuazione c’erano feste in onore dell’imperatore e dell’impero, e con il passare del tempo le due entità si confusero: l’impero e la sua stabilità venivano unite alla bellezza e alla saggezza dell’imperatore, finché non diventò abitudine chiamare l’impero con il nome dell’imperatore. Dal canto suo l’imperatore, volendo dare esempio ai suoi sudditi, cercava di condurre una vita che fosse il più umile e sobria possibile, tanto che viveva in una piccola casa di pietra ai margini di una lussureggiante foresta. Ma ormai i sudditi stessi iniziavano ad adorarlo come un dio. In suo onore costruirono una reggia immensa e magnifica, grande come una città, con grandi sale decorate da arazzi, giardini con alberi da frutto, parchi con statue di bronzo e argento, torri alte fino al cielo e vetrate colorate come l’arcobaleno. Per costruire una meraviglia simile era stato necessario abbattere una foresta, prosciugare un lago e scavare un fianco intero di una montagna. L’imperatore considerava tutto ciò uno spreco, ma sarebbe stato impopolare rifiutare un dono tanto bello, e in più la reggia era tanto meravigliosa che avrebbe tentato anche gli angeli. Così si insediò nel palazzo immenso, gioiello dell’architettura, e sebbene vivere in quel dedalo di opere d’arte e suppellettili riempisse quotidianamente gli occhi e lo spirito di gioia, da quel momento iniziò a dare segni di una malattia misteriosa: spesso gli mancava il fiato come se il torace gli si fosse riempito di sabbia, anche per un irrilevante taglietto perdeva sangue a fiotti, e gli capitava di sentire tanto caldo da pensare di stare andando a fuoco per poi gelare un momento dopo . L’imperatore però cercò di nascondere questi sintomi, volendosi mostrare forte agli occhi del suo popolo e della corte. Sapeva bene che tutti associavano la sua salute alla salute dell’impero, e anche se si trattava di una sciocchezza, era certo che se si fosse diffusa la notizia della sua misteriosa malattia, in tutte le sue terre sarebbe dilagato il panico e l’isteria avrebbe preso il sopravvento, mandando all’aria la pace e la prosperità che aveva ottenuto con il lavoro di tutta la sua vita. Preferì quindi momentaneamente tenere nascosto il suo disagio, e continuò la sua vita politica, e se era possibile anche più attivamente di prima. Iniziò a far costruire ovunque ponti, strade, scuole e ospedali e biblioteche. Incrementò la produzione di legname e l’estrazione di pietra e marmi. L’impero era sempre più ricco, il popolo sempre più agiato e acculturato, e sempre più folle per il proprio sovrano. Ma dietro ai sorrisi e ai discorsi ispiratori dell’imperatore si nascondevano le peggiori sofferenze che schiacciavano il sovrano sempre più violentemente. Ormai bastava posargli una mano sulla spalla per lasciargli un livido, e spesso si svegliava di soprassalto di notte senza riuscire a respirare, come se un orribile mostro invisibile gli stringesse le mani introno al collo. E più stava male e più si dava da fare per rendere il suo impero prospero e felice, in modo che nessuno sospettasse nulla. Un giorno stava inaugurando una nuova miniera in montagna. Il viaggio era stato abbastanza piacevole e sereno: quella era una regione particolarmente selvaggia delle sue terre, e lì l’aria era fresca e pulita, il panorama maestoso, e l’unico suono che si sentiva era quello delle cascate in lontananza e delle fronde scosse dal vento. Sembrava che improvvisamente fosse guarito da ogni suo malanno, e si sentiva nuovamente forte e sano come un tempo, tanto che, andando contro i consigli delle sue guardie e dei suoi consiglieri, scese dalla portantina e si avviò da solo verso la miniera da inaugurare. Quando arrivò era raggiante e bello come mai, e fece uno dei discorsi più eloquenti e appassionati mai sentiti. A dodici minatori esperti era stato dato l’ordine di compiere l’atto simbolico di piantare il piccone nella pietra ancora scabra, come si era soliti fare quando veniva aperto un nuovo centro d’estrazione. Al cenno dell’imperatore dodici picconi inesorabili e pesanti si abbatterono contro la pietra viva, e fu come se dodici pugnali affondassero nel ventre del sovrano. Egli sgranò gli occhi mentre il sangue macchiava la veste di seta verde e dorata, e si Marco Zuaro (1488237171326)


accasciò al suolo perdendo i sensi. Subito scoppiò il caos, gli spettatori si struggevano, sussultavano e gridavano. Mentre le guardie contenevano il pubblico dall’affollarsi intorno al sovrano pallido ed inerme come un agnello addormentato, quest’ultimo fu subito soccorso e portato al riparo da inservienti terrorizzati e piangenti. La notizia del tragico evento si diffuse in lungo e in largo in tutte le città dell’impero, e a breve si venne a sapere che l’imperatore era malato da tempo e iniziarono a girare le voci più assurde: c’era chi sosteneva che avesse tenuto segreto il suo malanno perché gli era stato causato da un amore illegittimo non corrisposto; chi diceva che fosse una stregoneria, lanciata da qualche antico nemico dell’impero; chi ancora parlava di complotto e cospirazione. Tutte quelle storie erano ovviamente infondate, e come aveva previsto il sovrano ci furono mostruosi fenomeni di isteria di massa, tumulti e follia generale. Il concetto di impero e imperatori erano così legati che ormai pensavano che tutto stesse per venire alla sua fine, che il regno fosse destinato a sgretolarsi, che fosse il tramonto di un’era, se non l’Apocalisse stessa. Nel frattempo l’imperatore, sopravvissuto a malapena all’evento della miniera grazie alle cure prodigiose dei suoi medici, passava i suoi giorni disperando nella sua stanza sulla cima della torre più alta della sua reggia. Poteva vedere il suo operato sgretolarsi nelle sue mani senza poter fare niente, e rispetto al dolore che questo pensiero gli provocava, la malattia che non faceva che peggiorare sembrava un malanno passeggero. I suoi consiglieri più fidati cercavano di ristabilire la pace nell’impero e di trovare qualcuno che potesse guarire il loro sovrano, fallendo però in entrambi i loro obiettivi. Accade però che un giorno, senza che nessuno se ne accorgesse, una vecchia dai lunghissimi capelli bianchi e dalla veste grigia stracciata, entrò nel palazzo, e altrettanto abilmente riuscì ad entrare nella stanza del sovrano, che spaventato chiamò subito le guardie. Proprio mentre queste entravano l’anziana disse con una voce tanto forte da essere ancora più sorprendente del suo aspetto: “io conosco la cura al malanno dell’imperatore, se mi uccidete lui morirà di certo”. Il sovrano era sconvolto dall’insolenza della vecchia e inquietato dalla sua sgradevole presenza, ma comunque fece cenno alle guardie di allontanarsi. La vecchia allora, senza che nessuno le avesse dato il permesso si avvicinò all’imperatore malato, gli prese le mani e lo guardò negli occhi dicendo:” io vivo su queste terre da molto prima di chiunque altro, prima dell’impero, prima dei regni, prima delle tribù e prima ancora che gli uomini arrivassero qui, io c’ero e in quei tempi lontani la natura produceva armonie ancora più prodigiose di questo palazzo o di un regno vasto quanto il tempo. L’equilibrio tra natura e uomo è sempre precario e gli antichi re capivano questo, e adoravano le foreste e il cielo, e le tradizioni erano state tramandate fino alla tua conquista” il sovrano sembrava ipnotizzato dalle parole della vecchia e le guardie iniziavano ad agitarsi, più la vecchia parlava più l’imperatore sembrava poter vedere nei suoi occhi le meraviglie della natura di cui parlava, e ogni parola si concretizzava nella sua mente come un sogno “quando hai fondato il tuo impero l’armonia è stata spazzata via” proseguì “la natura soffre per le grandi opere che aggradano l’avarizia e la vanità del tuo popolo, tu hai soddisfatto solo la parte umana del tuo dominio trascurando il valore di ciò che è selvaggio e puro, e le ferite che hai imposto alla terra si mostrano ora sul tuo corpo, ogni colpo che hai inflitto alla terra lo hai inflitto a te stesso, devi smettere questo scempio e tornare sui tuoi passi, tornare alle tradizioni antiche, allora guarirai” la vecchia si staccò dall’imperatore, tornando ad essere l’abbietta creatura che era sembrata ad un primo sguardo, e prima che si potesse fare qualcosa per fermarla saltò dalla finestra, assumendo le sembianze di un rapace e volando incontro al tramonto in lontananza. Le guardie, che non erano riuscite a distinguere neanche una delle parole dette dalla megera, chiesero al sovrano cosa le Marco Zuaro (1488237171326)


avesse detto. Lui aveva un’espressione inebetita sulla faccia, e tutto ciò che disse fu:”dobbiamo tornare alle antiche tradizioni, dobbiamo tornare alle antiche divinità” e dopo di ciò congedò le guardie e fece entrare nella sua stanza i suoi emissari più veloci. Il giorno seguente fu emanato in tutto l’impero un editto con il quale il sovrano invitava tutti i suoi sudditi a portare più offerte di ogni tipo possibile davanti alle mura della sua reggia, e che le offerte sarebbero servite a guarirlo. Tutto il popolo allora si adoperò, chi abbatteva alberi, chi mieteva i campi prima del tempo, chi raccoglieva pietra, chi fondeva i metalli, chi lavorava le ceramiche, e tutti che con carovane di prodotti si avviavano alla reggia. In tre giorni si formò una vera e propria montagna di doni davanti al palazzo, tanto alta da raggiungere la torre più alta del palazzo. Al tramonto l’imperatore si fece vedere, e dagli accampamenti uscirono orde e orde di cittadini che gli lanciavano benedizioni. In quei tre gironi la sua malattia era peggiorata terribilmente, e ormai anche l’aria poteva causargli ferite, e rischiava di ustionarsi solo guardando il fuoco da lontano. Soffriva come non mai, e i dottori sostenevano che la malattia aveva attaccato anche la mente, ma lui era sicuro che la megera non aveva mentito e che dopo l’offerta gigantesca che avrebbe fatto agli antichi dei sarebbe guarito e la prosperità sarebbe tornata in tutto l’impero. Uscì su un bastione, e amplificando la sua voce con una campana di bronzo pronunciò un discorso nel quale annunciava il ritorno degli antichi dei, e che erano furenti per non aver ricevuto offerte per decenni, ma che lui era pronto a far il sacrificio più grande che la storia avesse mai visto, e gli dei avrebbero riportato l’impero al suo splendore originario. Il popolo lo acclamava ed esultava, senza capire veramente le intenzioni folli del sovrano. Quando ebbe concluso la sua orazione, l’imperatore impugnò una torcia e la lanciò sulla montagna di offerte, che subito si accese. Il fuoco iniziò a divampare con rombi spaventosi, e la folla, dapprima affascinata dall’atto sacrificale, iniziò a scappare temendo di venire bruciata a sua volta. L’imperatore dopo aver lanciato la torcia aveva aperto le braccia e rivolto la faccia al cielo, aspettando la grazia divina, ma subito dopo, quando le fiamme avevano iniziato a divampare, era caduto a terra per il dolore tremendo che sentiva scaturire dalle membra, finché anche lui prese fuoco spontaneamente, e per quanto le guardie e i cortigiani si adoperavano per buttargli secchi e secchi d’acqua addosso, il fuoco era implacabile ed l’imperatore perì. Il fuoco era così tremendo che anche le mura di pietra della reggia presero fuoco, e nel giro di qualche ora, il palazzo era ridotto quasi in cenere. Tutti erano fuggiti ed il fuoco continuò a divampare indisturbatamente per tre giorni, finché una pioggia violenta non lo spense. L’impero andò in frantumi, e a poco a poco si riformarono gli antichi regni, e l’equilibrio fra natura e uomo fu infine ristabilito.

Le Melagrane del Cantastorie Lungo le contorte strade di una città di una terra lontana, si avviava, prima che sorgesse il sole, un giovane. Dal modo in cui camminava, sicuro ed impettito, dall’espressione di sdegno che rivolgeva ai mendicanti ancora addormentati ai margini delle vie, ma soprattutto dal modo in cui era vestito si poteva capire che proveniva da una famiglia agiata, probabilmente una di quelle facoltose dinastie di mercanti arricchiti che possedeva una piccola flotta di navi che solcava in lungo e largo i sette mari di giorno, e intasava i porti di città come questa di notte. Sarebbe quindi sorto spontaneo chiedersi cosa faceva un giovane ricco vestito di tutto punto in giro a quell’ora, quando neanche il panettiere aveva ancora iniziato ad infornare le pagnotte preparate la notte precedente. Ancora maggiore sarebbe stato lo stupore se, osservando attentamente, ci si fosse accorti che sotto al mantello verde smeraldo di seta si poteva scorgere la forma di una lira. Con passo sicuro il ragazzo si avviò all’imponente cancello delle mura di arenaria candida che circondavano quasi totalmente la città. La guardia era appoggiata contro il parapetto del torrione, il volto stanco Marco Zuaro (1488237171326)


illuminato dalle fiamme danzanti di una torcia. Il giovane si avvicinò fino ad entrare nel raggio di luce proiettato dalle torce alla base del cancello, pensando che la guardia gli avrebbe rivolto la parola una volta visto, ma questo non sembrava muoversi. Spostando il peso da una gamba all’altra un po’ a disagio, il ragazzo si schiarì la voce, cercando di farsi notare senza grande successo. Irritato dall’indolenza dell’armigero, al quale era affidata l’incolumità della città, e che se ne stava a sonnecchiare in bilico su una torre, con un tono sicuro e perentorio che neanche lui si aspettava di avere, il giovane disse: “Buongiorno, vorrei che mi lasciasse uscire”. Il volto della guardia si arricciò in una smorfia infastidita, e con un grugnito disse: “Non è ancora giorno, non si può uscire prima dell’alba. Torna quando il sole sarà sorto”. Il giovane si ritrovò spiazzato, era consapevole che durante il viaggio che lo aspettava avrebbe dovuto affrontare molti ostacoli, ma non pensava che avrebbe incontrato il primo così presto. Doveva uscire dalla città prima dell’alba o si sarebbero accorti della sua assenza, e questo avrebbe mandato all’aria i suoi piani. Doveva essere lontano fra i vigneti prima che il campanile svegliasse la città, e all’orizzonte, oltre i campi e le montagne blu in lontananza, poteva già intravedere le nubi assumere un colore purpureo. Non sapendo più che fare decise di farsi valere e disse: “Se non mi lasci passare immediatamente andrò dal capo delle guardie, lo sveglierò e gli dirò che la sentinella che dovrebbe avvistare possibili nemici della nostra splendente città dorme, mettendo a repentaglio le nostre vite”. Sentendosi accusato la guardia si scrollò dal suo torpore e rimbeccò il ragazzo: “A chi credi che crederà il capo delle guardie, ad un misterioso ragazzo che si aggira prima dell’alba per la città, o ad una guardia? Per quanto ne so potresti anche essere una spia, ed è mio compito tenerti all’interno della città fino a mattina. A quel punto valuterò se farti uscire o meno.” Volendo concludere la conversazione, la guardia si girò di spalle, e stava per rientrare nella torre, quando il giovane disse: “A chi credi che crederà il capo delle guardie, ad una sentinella qualunque o al figlio del mercante della città?” Non voleva ricorrere al suo titolo, ma dato che non c’era altra scelta e che il guardiano sembrava scosso da quell’affermazione proseguì: “Credimi, se volessi che ti impiccassero, saresti già stato impiccato”. La guardia avrebbe anche potuto non credere alle sue parole, infondo poteva essere davvero un giovane mercante qualunque, addirittura poteva anche essere davvero una spia, ma allo stesso tempo rischiava di essere impiccato per il capriccio di un ragazzo viziato. Nonostante la scarsa luce, il giovane poteva vedere nei suoi occhi consumarsi il dilemma, quando improvvisamente la faccia cambiò completamente, rivelando una sfumatura di scherno. In tono ilare proferì: “Se è vero che sei chi tu dici di essere, vuol dire che sei lo stesso ragazzo che l’anno scorso è uscito in pompa magna dalla città per andare a caccia del bue bianco del deserto per onorare la sua città e mostrare il proprio valore. Lo stesso che dopo dodici ore è tornato strisciando a casa, ridotto ad uno straccio d’uomo, se uomo si può dire, pregando la madre di riaccoglierlo a casa, e non portando altro che scherno sulla sua famiglia”. Il ricordo di quell’evento riportava l’amaro in bocca al giovane, e gli sembrava di vedere le facce della folla che rideva al suo miserabile ritorno. Era stato troppo ambizioso, aveva consumato subito i viveri e le esche, e durante il confronto con la belva era stato sconfitto terribilmente, sopravvivendo solo per fortuna. Se quello era il prezzo da pagare per scappare, però, era pronto a pagarlo: “Sono io. E nonostante la mia reputazione sia rovinata, ho ancora il potere di far impiccare una guardia. Apri il cancello”. Nonostante la minaccia, la guardia rideva. Dopo poco, rientrò nella stanza e aprì i cancelli. Mentre usciva dalla città e il sole iniziava a sorgere davanti a lui, il ragazzo, coperto di vergogna per le affermazioni della sentinella, ripensava a come avrebbe potuto riconquistare l’onore infangato, suo e della sua famiglia. Intraprendendo quel viaggio sperava di incappare in un’avventura che desse la possibilità di ottenere un bottino magnifico o salvare la principessa di un regno lontano. Nel frattempo avrebbe vagato per terre e mari, guadagnandosi da vivere come Marco Zuaro (1488237171326)


cantastorie, lontano dagli agi della sua ricchezza, redimendosi nella povertà. Era consapevole che sarebbe stata dura, ma era determinato a riuscire nella sua impresa. Dopo poche ore di viaggio era già stremato, abituato alle strade lastricate della città, sentiva attraverso i calzari di cuoio ogni singola pietra della via sterrata che percorreva tra le piantagioni. Sedette sotto ad un albero di cedro, ed iniziò a strimpellare qualche vecchio motivetto sulla sua lira, cercando di mendicare qualche moneta dai passanti per comprare un mulo. Ma non essendo molto bravo a suonare o cantare, e non avendo neanche vagamente il fascino che contraddistingueva alcuni talentuosi cantastorie, riuscì a racimolare abbastanza monete per comprare un solo sandalo. Disperato e affamato, verso sera raggiunse la casa di un vecchio contadino, e bussando alla porta a capo chino, implorò per un po’ di ospitalità. Il vecchio gli disse che il suo tugurio era troppo piccolo per ospitarlo, ma che avrebbe potuto prendere tutti i frutti che voleva dall’albero dietro alla capanna. Il ragazzo sconsolato, si avviò verso la pianta, dalla quale pendevano frutti coriacei con sfumature rosate, tanto grandi e pesanti che piegavano i rami sottili della pianta. Non aveva mai visto niente del genere. Aprendo i frutti si scopriva che erano pieni di piccoli semi rossi come rubini, dal sapore acidulo. Curioso, bussò alla porta della capanna e chiese al contadino di cosa si trattasse. Il contadino gli spiegò che suo figlio, come il ragazzo, aveva deciso di fare il cantastorie, scelta che non approvava, ma che poi aveva messo in mostra i talenti del figlio, dandogli agiatezza e stabilità presso la corte di una città aldilà del mare. Una volta era tornato in visita, portando questi strani frutti, chiamati melagrane, donandole al padre, affinché vendendo tali prodotti esotici si arricchisse a sua volta. Ma ormai, spiegò l’uomo, egli era troppo vecchio e stanco per lanciarsi in commerci, e sia per questa ragione, che per il fatto che il giovane gli ricordava vagamente suo figlio, gli aveva lasciato la possibilità di cogliere i frutti dalla pianta. Il ragazzo era emozionato, non era un’impresa eroica, ma l’istinto di mercante che caratterizzava la famiglia gli faceva fiutare affari straordinari. Ringraziò il vecchio contadino per la sua generosità e colse tutti i frutti dall’albero, deponendoli a terra in una fila ordinata e contandoli uno ad uno. Tredici, erano tredici in totale. Se li avesse venduti ognuno per un bisante, come aveva visto fare dal padre per altri frutti così esotici, sarebbe stato apposto per un anno e mezzo. In più il fatto che ce ne fossero solo tredici da questo lato del mare li rendeva quasi un bene esclusivo, elitario: immaginava già i nobili della città fare a gara per accaparrarsene uno. Mentre faceva questi sogni di gloria, raccoglieva i frutti e li metteva nel mantello che teneva con l’altro braccio a formare una sacca. Distrattamente gliene cadde uno, che andò in frantumi sulla terra del giardino del contadino. Il ragazzo imprecò aspramente e prestò molta più attenzione all’operazione, dimenticando momentaneamente le ricchezze che prevedeva. Decise di viaggiare di notte per tornare alla città il prima possibile. “Comunque,” pensò, “non riuscirei a dormire per l’eccitazione”. Camminando fra i campi, rinvigorito dalla prospettiva di tornare ad essere ricco nel giro di un giorno, trovò la strada molto meno difficile dell’andata, e in appena due ore poteva di nuovo scorgere in lontananza le mura bianche della città che riflettevano la luce della luna, e le alte torri delle case e dei palazzi che sembravano voler raggiungere le stelle con i loro tetti aguzzi. Proprio quando iniziava a pensare di essere ormai arrivato, gli fu imposta una lezione che gli fu utile per vari anni a seguire. Per quanto viaggiare di notte può preservare dal sole cocente e dalla calura del giorno, ciò espone a incontri quantomeno spiacevoli. Quando meno se l’aspettava, dall’ombra di un piccolo boschetto uscì un uomo basso e tarchiato, con un’incolta barba ed uno sguardo atrocemente feroce. Brandiva una mazza, e mulinandola nella fioca luce lunare si rivolse al giovane, che era pietrificato da quella visione: “Bene, bene, bene, sembra che qualcuno sia uscito per un giretto notturno. Che cosa porti in quel bel mantello verde?” 
 Il ragazzo quasi non riusciva a parlare per la paura: “N-niente, solo dei frutti.” 
 Marco Zuaro (1488237171326)


Il brigante sembrò sorpreso; in effetti non aveva molto senso andarsene in giro di notte con dei frutti infagottati in un mantello di seta. Comunque il giovane ragionò che sembrava molto più interessato al mantello che ai frutti, e, se fosse stato abbastanza convincente, sarebbe riuscito a consegnarglielo e a scappare verso la città con le melagrane nei pantaloni e nella camicia. Raccogliendo tutto il coraggio che gli restava proferì: “Il mio mantello è di grande valore, se mi lasci andare liberamente te lo cederò con piacere.” 
 Il ladro sembrava sconcertato: “Fammi vedere qua,” grugnì, avvicinandosi. Esaminò, inizialmente senza toccare, il mantello, poi non soddisfatto tirò la stoffa, strattonando il ragazzo che cadde con tutte le sue melagrane che si ruppero a terra. La lira, che teneva ancora legata dietro la schiena, gli salvò la testa da un masso che avrebbe potuto ucciderlo, scheggiandosi sulla cassa. 
 In quel momento l’attenzione del giovane era però rivolta ai frutti caduti che rivelavano tutti i loro semi dispersi sul suolo: “Stolto!” Gridò furioso al bandito, sempre più concertato: “Erano frutti preziosi! Ora sono inutili, nessuno comprerebbe dei frutti mezzi spappolati e rotti!” 
 Afferrando un momento dopo l’offesa, il brigante colpì con violenza la testa del ragazzo, che svenne cadendo nuovamente al suolo. Si risvegliò ai primi albori, spogliato del mantello e dei calzari. Anche ciò che restava dei frutti era stato portato via. Gli restava soltanto la sua lira ammaccata. A denti stretti maledisse il brigante, e gli augurò di rimanere strozzato con uno dei semi delle melagrane. Sconsolato, raccolse la lira, e riprese la strada verso la casa del contadino, sperando di aver lasciato qualche melagrana attaccata all’albero. 
 Purtroppo non era così. Però per terra c’erano ancora i semi della melagrana caduta il giorno prima mentre le raccoglieva, così nella sua mente si affacciò un’idea. Mentre il vecchio contadino non era in casa, interrò i semi, e vi versò sopra un po’ d’acqua. Poi riprese il suo viaggio, verso il sole ormai sorto.
 Sei anni dopo quell’evento, un uomo adulto, un cantastorie in realtà, con un mantello blu di lana e con una vecchia lira ammaccata, bussò alla porta del vecchio contadino. Ma egli era morto molto tempo prima, e la casa e il giardino erano ormai abbandonati da anni. 
 L’uomo si diresse sul retro della capanna e trovò un magnifico giardino di melograni in frutto. Le melagrane pendevano pesanti dagli esili rami e riflettevano la luce del sole sulle loro scorze rosate. 
 Il giorno seguente l’uomo si recò nella città vicina, mostrando il raro frutto a corte, ed il re, stupito dal sapore aspro dei chicchi, essendo abituato al dolce succo dei frutti colorati tipici della zona, acquistò tutte le melagrane dell’uomo, che con il ricavato iniziò a coltivare la pianta, e divenne l’uomo più ricco della città. Gli altri mercanti divennero invidiosi di lui, anche suo padre, che accecato dalla furia per essere stato surclassato, non si rese neanche conto che il cantastorie con il mantello di lana blu era in realtà il figlio che aveva disprezzato e perso più di sei anni prima.

La Carpa e l’Artigiano In una piccola città che sorgeva in un’insenatura di un lago, viveva un facoltoso artigiano di ceramiche con la sua faglia. Tutti i nobili delle altre città del lago erano disposti a farsi traghettare al piccolo porto sull’insenatura per osservare e comprare i vasi più raffinati, le teiere dai colori più sgargianti e i piatti con i disegni più belli. L’artigiano era tanto ricco da potersi permettere due case adiacenti, una per abitare, e l’altra esclusivamente dedicata alla lavorazione della porcellana, con addirittura un forno che nonostante raggiungesse temperature estremamente calde, non aveva mai causato un incidente. Durante la giornata l’artigiano si occupava di vendere i suoi prodotti, preparare modelli da cuocere durante la notte, e l’attività che più lo dilettava: insegnare ai sei figli, tre bambini e tre bambine, l’antica arte della modellazione della creta, e nonostante i loro vasi uscivano tutti storti e irregolari dal forno, poteva già intravedere in loro la meraviglia del poter trasformare la terra in oggetti preziosi ed eleganti, tipica di ogni buon artigiano. Le figure ritratte Marco Zuaro (1488237171326)


erano però sempre le stesse, e a poco a poco la clientela iniziò a stufarsi. Per molto tempo l’artigiano era stato considerato da tutti un artista al pari di scultori e architetti, ma dopo anni ed anni tutti si erano abituati alle qualità impressionante delle sue creazioni, e iniziarono a considerarlo un vasaio comune, non diverso da molti altri. I motivi geometrici, i classici fiori intrecciati, addirittura i dragoni che tanto avevano stupito la classe nobiliaria ormai sembravano semplici e scialbi agli occhi addirittura della gente comune. A poco a poco la fortuna dell’artigiano andò scemando, e anche se era comunque capace di mantenere la famiglia e le due case, fu costretto a licenziare i suoi sottomessi assumendo come sostituti i figli, che nonostante avessero imparato i rudimenti di quell’arte, erano ancora inesperti, e i loro lavori molto più grossolani di quelli dei vecchi lavoratori. Anche se sembrava che tutto andasse per il verso sbagliato, l’artigiano manteneva la sua superba dignità. Aveva perso il suo status e non poteva più ritenersi ricco, ma conversava comunque con l’alta borghesia della città come avrebbe fatto un tempo, e camminava a mento alto lungo le strade sicuro nel suo portamento. Addirittura interrompeva l’amministratore della gilda dei ceramisti durante le riunioni, affrontandolo come un suo pari, essendo stato lui stesso amministratore in passato. Proprio questi però, durante un’assemblea cittadina, vedendosi nuovamente interrotto dall’artigiano, gli lanciò una sfida per disonorarlo e metterlo in vergogna davanti ai suoi pari e ai cittadini più illustri. Sfoggiando il suo tono più perentorio e con fare altero l’amministratore disse:- Vedo che rimpiangi la tua vecchia posizione tanto da prendere parola senza la concessione o la richiesta di alcuno. Se aspiri così tanto alla mia carica devi però dimostrare il tuo vero valore di lavoratore delle porcellane, creando un pezzo d’arte come non ne produci ormai da anni. Se riuscirai a stupire il re della nostra città, che farà da giudice imparziale alla nostra contesa, io ti cederò il mio posto, ma se entro un mese non avrai ancora prodotto un oggetto abbastanza raffinato, tu e tutta la tua faglia dovrete lasciare la città ed i vostri averi- un silenzio pesante e carico di tensione calò nella piazza in cui i cittadini di rilievo erano radunati. Lo stesso re, che in un primo momento si era alzato dal trono, cercando di far tacere l’amministratore con un gesto autoritario, ora sedeva, con le braccia poggiate sul suo bancone e le mani intrecciate davanti alla bocca, e gli occhi che correvano dall’amministratore all’artigiano, ancora seduto al suo posto e ostentando una sicurezza orgogliosa che stonava con la modestia degli abiti che indossava. Lentamente si alzò dal suo posto, si schiarì la voce, e senza pensarci due volte proferì:- Se aggrada sua maestà, accetto la sfida e le sue condizioni- e senza rivolgere neanche uno sguardo allo sfidante sedette con le braccia conserti. A quel punto il re si alzò dal suo scranno, con le mani chiuse a pugno sul bancone e notando che ormai tutti erano emozionati da quella disputa, ed essendo in fondo anch’egli curioso del possibile risultato, con tono autoritario sancì:- E sia. Nel prossimo mese potrai portarmi le tue opere, se ne reputerò anche solo una sufficientemente sofisticato, allora sarai a capo della gilda dei ceramisti, se così non fosse io stesso bandirò te e la tua famiglia dalla nostra città- e così si concluse l’assemblea cittadina. Rigonfio d’orgoglio l’artigiano si rese davvero conto del patto che aveva accettato solo quando ormai al tramonto raggiunse la sua vecchia casa, dove moglie e figli lo aspettavano ansiosi per avere notizie sull’assemblea. Come sarebbe riuscito a guardarli negli occhi e dirgli che aveva messo a repentaglio tutto quello che avevano per la sua irruenza e superbia? Senza contare che non era certo di riuscire nell’opera affidatagli, le sue mani non erano più ferme come un tempo, la sua vista si era indebolita, già ottenere un vaso che quantomeno non fosse deforme. Disperato si passò una mano sul volto, quasi per scrollarsi di dosso quei pensieri angoscianti, si raddrizzò sulla schiena, ed entrò in casa. Come si aspettava fu accolto da un marasma di domande, grida e richieste. Generalmente avrebbe gradito tutte quelle attenzioni, ma tormentato dal suo stesso errore, con un gesto severo della mano mise la famiglia a tacere. Con fare funereo si diresse al tavolo da legno dove consumavano i pasti, che un tempo era stato un mobile robusto e prezioso, ma ormai si era Marco Zuaro (1488237171326)


scheggiato e le gambe traballavano al minimo movimento. I figli e la moglie si sedettero accanto a lui, e quest’ultima, costernata per l’atteggiamento del marito, temendo che ci fossero cattive notizie chiese cosa fosse successo. Egli iniziò a raccontare con tono neutrale la storia, quasi cercando di renderla un fatto banale, ma più andava avanti, più poteva vedere l’espressione docile della moglie tramutarsi in puro disprezzo. Concluse quindi la storia con tono vacillante, senza rivolgere uno sguardo ai figli disperati, e cercando di evitare quello della moglie. Proprio mentre stava per alzarsi il maggiore dei figli disse:-Come faremo? Siamo spacciati! È da tempo che non produciamo un vaso che stupisca un contadino, figuriamoci il re della città!e seguirono gli altri fratelli:-Siamo spacciati!-Dovremo lasciare la città!-la casa!-il laboratorio!- L’artigiano, per la seconda volta nella giornata si sentì ferito nell’orgoglio:- Beh, non pensavo che aveste perso il rispetto per vostro padre, che vi ha concesso di imparare la sua arte raffinata, ora pensate di essere molto migliori di me? Pensate che in questa città, o anzi, su tutte le città che si affacciano sul lago ci sia un ceramista migliore di me? Mi sembra ovvio che niente di tutto ciò avverrà, non perderete la vostra casa- -No di certo!- proruppe con tono perentorio la moglie:- Figlioli non perderete la casa, il re sarà misericordioso nei confronti dei figli e della moglie di uno scellerato! Alla fine del mese, quando vostro padre non avrà concluso un nonnulla, imploreremo umilmente in ginocchio il nostro sovrano, che ci comprenderà e salverà.dicendo questo, si alzò e se ne andò dalla stanza, lasciando l’artigiano con la bocca aperta e le gote rosse per l’imbarazzo. Nei giorni seguenti l’artigiano tenne il laboratorio in funzione giorno e notte, producendo centinaia di oggetti di ceramica tra piatti vasi e statuine, ma nessuno soddisfaceva il suo metro di giudizio. I figli lavoravano costantemente, mentre lui passava il tempo a giudicare i lavori e criticarli con crudeltà. Il maggiore dei figli un giorno, stanco per il duro lavoro e stufo del comportamento del padre, prese con se i fratelli e le sorelle e se ne andò dal laboratorio, lasciando il padre dicendogli:- se i nostri prodotti non ti soddisfano è perché tu non ci hai insegnato come lavorare bene la ceramica, dato che tu ti senti tanto talentuoso, sono certo che potrai fare a meno del nostro sostegno-. Così l’artigiano dovette riprendere a lavorare, con le sue mani tremolanti, il suo orgoglio ferito, e pensando di aver cresciuto un branco di incapaci ingrati. Quando il sole stava ormai calando sul ventiquattresimo giorno dei trenta che gli erano stati concessi, l’artigiano, frustrato per le imperfezioni e per la banalità della sua ultima teiera a decorazione floreale, prese l’oggetto e lo lanciò con violenza a terra, rompendola in mille pezzi. Ormai mancavano solo sei giorni, e non aveva ancora portato nulla al re della città. Tra le classi borghesi si vociava che stesse nascondendo il suo pezzo forte per l’ultimo giorno, e ovviamente lui non pensava vagamente a smentire questi pettegolezzi, anzi gli aveva anche dato man forte, troppo gonfio d’orgoglio per demordere e ammettere la sua impertinenza e incompetenza. Gli restava ben poco da fare, e vigliacco come era contemplò la fuga. Era disperato, la sua famiglia gli aveva girato le spalle, non poteva chiedere aiuto ai suoi amici e parenti o sarebbe stato evidente che aveva perso la sua abilità di un tempo, così si trovava nel cuore della notte a raccogliere pochi vecchi vestiti e due pagnotte in un modesto fagotto. Con molta cautela, cercando di non farsi sentire da nessuno, scese in strada, e tenendosi nell’ombra si avviò di nascosto verso il porticciolo sul lago.

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L’acqua gorgheggiava tenebrosamente contro lo scafo del piccolo gozzo rubato, sul quale l’artigiano si era addormentato. Le onde lo sospingevano sempre più lontano dalle luci della città natale, che in lontananza era sempre più buia. Si svegliò di soprassalto quando la piccola imbarcazione si incagliò sulle coste di una isola rocciosa. Si alzò e si guardò intorno: l’isola era poco più che uno scoglio, le poche piante che vi crescevano sembravano quasi aggrappate instabilmente al quel fazzoletto di terra che si buttava direttamente in acqua. Non c’era molto di interessante per un vecchio artigiano in fuga, e proprio mentre stava per spingere la barca per rimettersi in viaggio, i primi raggi del sole squarciarono la notte oltre le lontane coste del lago, illuminando di un colore rosa chiaro le acque che andavano calmandosi. La visione lasciò l’artigiano di stucco, tanto che per vedere meglio oltre le rocce della scogliera, scivolò cadendo in acqua. Lì gli si rivelò la vera meraviglia: un pesce solitario, dalle squame lucide di colore bianco rosso e blu scuro, nuotava fra le alghe appena sotto la superficie dell’acqua. L’artigiano si rialzò e osservò per qualche minuto la creatura sconosciuta. Aveva una coda che si muoveva aggraziatamente ma comunque repentinamente, un muso curioso, con due lunghi baffi che ondeggiavano ad ogni movimento. Era un animale che nessuno nella sua città aveva mai visto, né era cero, i pesci che si avvicinavano alla costa erano grigi o marroncini, e privi di qualsiasi grazia. Mentre cercava di scrutare tra i riflessi del sole, che nel frattempo s stava alzando, fu folgorato da un’idea: il suo nuovo soggetto poteva essere quel pesce misterioso, sicuramente avrebbe stupito il re ed i suoi cortigiani, e con quei colori magnifici avrebbe potuto realizzare uno dei lavori più raffinati mai visti. In fretta e furia ritornò sul gozzo, prese il remo, e sperando che fosse la direzione giusta, si avviò nel senso opposto al quale era orientata l’imbarcazione. Nel giro di poche ore avvistò nuovamente il porticciolo, senza farsi notare rimise la barchetta dove l’aveva trovata, e come se nulla fosse, con i vestiti ancora zuppi e i capelli arruffati, filò in laboratorio. Proprio mentre il sole tramontava, uscì dalla sua seconda casa con un piatto di ceramica avvolto in un fagotto di iuta. Mentre si avviava a lunghi passi verso il palazzo del suo signore, poteva sentire il vociare dei curiosi alle finestre, e anche se non si era girato, era certo che dietro di lui si stesse formando un piccolo corteo. Non aspettò neanche di essere annunciato, semplicemente proruppe nella sala del trono, dove il re stava consumando un banchetto con dei suoi ospiti. Il re offeso si alzò in piedi e furente disse:- Come osi entrare senza neanche farti annunciare! Giustizierò le guardie che ti hanno lasciato passare…- ma proprio mentre parlava, senza dire nulla, l’artigiano tolse il telo dal piatto. Dal suo piccolo corteo e dalla mensa del re si alzò un sussulto di stupore: il piatto ritraeva un pesce multicolore che saltava su uno specchio d’acqua rosa, con un sole sorgente sullo sfondo contro un cielo azzurro. Preso in contropiede il re si avvicinò all’artigiano, prese in mano l’oggetto prezioso, lo soppeso e ne tastò la superficie. La tensione era palpabile, tutti erano ammutoliti in attesa di un verdetto. Ad un certo punto il re fece cenno ad un paggio di avvicinarsi, gli consegnò il piatto e rivolto all’artigiano disse:- accetto con piacere il tuo gentile dono, ma in passato ho visto dei tuoi prodotti migliori di fattura.- con questo torno al suo banchetto e fece scortare fuori la piccola folla. Rosso di imbarazzo l’artigiano se ne tornò a casa. Era furibondo, non capiva cosa pretendesse di più il re. Nottetempo si convinse che la colpa doveva essere per il fatto che aveva dovuto lavorare senza avere il soggetto disponibile alla sua vista, ma era deciso a rimediare. Il giorno dopo si rimbarcò, anche se questa volta non poté ricorrere al piccolo gozzo (la sua bravata era stata scoperta e alimentava gli ultimi pettegolezzi nella città), quindi dovette pagare un traghettatore per accompagnarlo. Senza tanta fatica ritrovò la piccola isola del giorno prima, e con Marco Zuaro (1488237171326)


sorpresa del rematore, si tuffò in acqua con una sua vecchia e grande teiera. Tra le alghe intravide il pesce misterioso della giornata precedente, e con sveltezza lo rinchiuse nella teiera. Una volta a casa si procurò una ciotola più grande e vi mise dentro la bellissima creatura, che spaventata per la situazione nuotava velocemente contro le pareti del catino, cercando ogni tanto di saltare fuori senza successo. L’artigiano lavorò ininterrottamente per il resto della giornata, la notte seguente, e anche tutto il giorno che venne dopo. Proprio quando il sole stava calando, di nuovo l’artigiano uscì dal laboratorio con un fagotto più piccolo di quello della volta precedente, di nuovo camminò lungo la strada senza girarsi, e di nuovo si formò un corteo di curiosi, che come poté constatare in seguito era maggiore di quello della volta precedente. Arrivato al palazzo fu però fermato dalle guardie, che consce del destino dei loro predecessori, lo obbligarono ad annunciarsi. Il re poté così prepararsi senza farsi prendere alla sprovvista. Nella sala del trono, oltre alla folla portata dall’artigiano c’era anche un discreto numero di cortigiani e nobili che allungavano il collo per scrutare cosa nascondesse l’artigiano dentro l’involucro. Dopo i convenevoli il re disse:- vedo che porti un dono per me, per favore mostralo a me alla mia corte- l’artigiano sciolse l’involucro e sollevò sopra la propria testa una teiera dai colori sgargianti e dalle decorazioni intricate, ma ciò che colpiva di più era la bocca dell’oggetto magnifico, lavorato a forma dello stesso pesce colorato che era rappresentato sul piatto. Il re si alzò, prese l’oggetto e lo valutò attentamente. Tutti trattenevano il fiato in attesa del responso. Dopo un po’ il re fece cenno ad un paggio, gli diede la teiera e disse:- accetto con piacere il tuo gentile dono, ma in passato ho visto dei tuoi prodotti migliori di fattura.- Dalle folle si alzò un coro di dissenso. Il re diede l’ordine del silenzio e fece uscire la plebe dal palazzo. L’artigiano si sentiva bruciare per la furia e l’imbarazzo. Era offeso oltremodo, non concepiva minimamente la critica del sovrano. Tornò a casa, e nottetempo maturò la convinzione che fosse colpa del pesce, che si era mosso tutto il tempo, senza dargli la possibilità di ritrarlo al suo meglio. La mattina seguente entrò nel laboratorio e non uscì per tre giorni. Era ormai il tramonto, l’assemblea cittadina si era riunita come di consueto a fine mese. Era ormai l’ultimo giorno che restava all’artigiano per stupire il re, ma non si era ancora visto. Dato che oggi sarebbe stato decretato il destino dell’artigiano e dei suoi familiari, era stato concesso a tutti i cittadini di presenziare alla riunione, e tutti erano accorsi per godersi lo spettacolo, dal capo della gilda degli artigiani, sicuro di sé, alla famiglia stessa dell’artigiano, timorosa. Proprio mentre il re stava per mandare le guardie a prenderlo, l’artigiano si presentò nella piazza con una carriola che sosteneva un oggetto coperto da un lenzuolo. Subito calò il silenzio sull’assemblea, e senza aspettare il consenso del re, l’artigiano si diresse davanti al palco dove stava il sovrano, prese il lenzuolo per un lembo, e rivelò il magnifico vaso che vi era celato: era alto più di un bambino, aveva un lungo collo stretto come un anfora, era lucido e coloratissimo, ma quando il re vide cosa vi era rappresentato sulla pancia, il suo volto raggelò. Il soggetto della rappresentazione principale era sempre quel bellissimo pesce, ma questa volta la posa era sgraziata e contratta, e mostrava la pancia su cui si apriva una ferita, che essendo lucida per la porcellana, risultava estremamente realistica. Il sovrano diede subito ordine di ricoprire il vaso e gridò contro l’artigiano:-Cosa hai fatto a quella bellissima creatura- l’artigiano parve sconcertato:- Bé era necessario che fosse ferma, perché io potessi rappresentarla al mio meglio, così ho dovuto ucciderla- Il re appariva provare puro ribrezzo, ma ritrovando la sua compostezza disse:- sciocco, il problema non era il pesce che si muoveva, quanto il fatto che tu nella tua superbia, hai voluto cercare di sfidare te stesso, solo che ora non hai più le mani ferme di un tempo, essendo tu vecchio. Stabilisco che tu e la tua famiglia siate banditi dalla città, le vostre case saranno bruciate, e se mai vi rivedremo qui vi farò giustiziare

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immediatamente.- Vane furono le preghiere della madre e dei figli, che furono cacciati insieme all’artigiano superbo. Mai più fu vista un creatura tanto bella, né nella città, né in tutto il lago.

Luci In una valle lontana, abbracciata da basse montagne verdi, vicino ad un piccolo fiume dalle acque cristalline, sorgeva un piccolo villaggio. Per quanto non si trattasse di un grande regno, e neanche una città fortificata, il villaggio vantava una storia antichissima ricca di tradizioni. L’evento più importante che riguardava tutti i pochi cittadini cadeva in piena estate, quando il cielo si ricopriva di comete dalle lunghe code luminose, e dopo un po’ anche i campi iniziavano a brillare di una luce giallognola, e i cittadini credevano che si trattasse della terra e del cielo che si riappacificavano prima dell’arrivo dell’inverno. Più era la luce che veniva dai campi e dal cielo, più la cattiva stagione sarebbe stata mite. I cittadini ritenevano inoltre che il loro comportamento potesse compromettere l’equilibrio tra il cielo e la terra, quindi si impegnavano con tutti i loro miseri mezzi per vivere in armonia con la natura che li circondava: le loro case erano poco più che capanne di legno, cacciavano solo se il fiume era congelato e impediva la pesca, coltivavano la terra con amore e dedizione. Per secoli la vita del villaggio era proseguita indisturbata, nessuno veniva e nessuno se ne andava, ma tutto cambiò poche notti prima della notte delle luci. Un uomo arrivò al loro villaggio e in principio ne furono tutti spaventati: la sua pelle era bianca come quella dei morti, gli occhi neri come la pece, l’abbigliamento stravagante. In quel periodo dell’anno tutti portavano semplici vesti leggere di pelle o di lino, l’uomo indossava vestiti stretti che ne impedivano movimenti aperti ed ampi, portava un copricapo di pelle che copriva l’acconciatura assurda. Pensando che fosse una prova degli spiriti, i cittadini provarono ad accoglierlo come un ospite d’onore, offrendogli il loro cibo, i loro vestiti e anche un posto dove dormire. Ma l’uomo misterioso non capiva la loro lingua, disprezzava il loro modo di vivere, e quindi se ne andò poco dopo essere arrivato. Gli abitanti si chiesero se l’avrebbero mai rivisto, non sapevano che sarebbe tornato prima di quanto si aspettassero, e che se la sua visita poteva aver portato inquietudine e timore, la sua seconda venuta sarebbe stata mille volte peggiore. Proprio durante la notte delle luci, quando ormai il sole stava per sorgere all’orizzonte e le luci stavano per spegnersi, i cittadini iniziarono a vedere qualcosa muoversi lontano nei campi, fra le luci. Immersi in quella brillante luce gialla, gli uomini che l’attraversavano sembravano ombre oscure, demoni che tagliavano la luce e che avanzavano verso i cittadini, spaventati per la presenza di quelle creature e per il sacrilegio che commettevano attraversando i loro campi proprio in quel momento dell’anno. Uomini e donne del villaggio corsero verso le capanne a mettere al sicuro i bambini e a prendere gli archi e le lance che raramente usavano per la caccia. Era loro compito proteggere la loro terra e cercare di mantenere l’equilibrio tra le luci del cielo e della terra, e più gli uomini oscuri procedevano, più le luci fra i campi si disperdevano. I cittadini calarono nella valle, con coraggio strenuo volevano difendere la loro valle, ma niente potevano contro i mezzi degli invasori che procedevano imperterriti, calpestando e distruggendo. All’alba il fuoco del sole nascente si confuse con quello delle case del villaggio, e in tutta la valle risuonarono le grida tetre dei feriti e dei genitori divisi dai figli in catene, il fiume anche che un tempo era stato azzurro e limpido, si tinse di rosso. Helan era solo un bambino di appena due anni quando il villaggio fu raso al suolo. Con il passare degli anni però quella notte svanì nei suoi ricordi, lasciando soltanto il bacio sulla fronte della madre di cui non riusciva neanche a far riaffiorare il volto fra i ricordi, e lo scintillio della luce gialla, spazzata via dal fuoco. Come tutti gli altri bambini era stato cresciuto dagli stessi uomini Marco Zuaro (1488237171326)


che avevano distrutto la sua libertà, costringendolo a diventare il loro servo, convincendolo che valesse di meno, che perché la sua pelle non era bianca, perché la sua cultura era inferiore, perché le usanze e le abitudini del suo popolo erano barbare e involute. Appena poterono, lo sbatterono in una miniera a raccogliere il carbone, insieme a bambini come lui. I conquistatori conoscevano l’attaccamento di quel popolo per la luce e la natura, per questo li costrinsero a vivere al chiuso e al buio, dandogli la possibilità di uscire dalla miniera solo di notte. L’unica luce che conoscevano era quella delle lanterne che pendevano nelle gallerie, e spesso Helan si soffermava ad osservarle, perché gli ricordavano la luce che brillava prima del fuoco nei suoi sbiaditi ricordi, ma ogni volta che provava ad allungare la mano per staccarne una e osservarla più da vicino, veniva frustato dalle guardie, e questa proibizione, considerando da chi proveniva, accresceva terribilmente la sua curiosità. Con il passare degli anni, i bambini crebbero e divennero adolescenti, e se il volere di un bambino può essere piegato con il terrore, questo può solo accendere la sete di libertà di un giovane represso, così una notte, Khan, il più vecchio fra tutti decise di organizzare una fuga. Quando arrivarono le guardie per portarli in miniera, attaccarono in massa i loro carnefici e a spallate ruppero il cancello. Ebbri per la piccola vittoria riscontrata dopo anni di schiavitù e paura iniziarono a correre verso il fiume, senza badare a non fare rumore, convinti che il peggio era passato e che sarebbero potuti essere finalmente liberi. In tutti quegli anni erano vissuti segregati, al buio, senza poter capire cosa stesse succedendo intorno a loro. Proprio mentre correvano il sole iniziò a sorgere, e si resero conto che quella che un tempo era la loro casa era molto cambiata: i campi erano lasciati incolti ed erano diventati aridi e spogli, ovunque sorgevano strutture di pietra e mattoni che sputavano colonne di fumo nero dai camini, ma quello che più li spaventava erano le alte torri di avvistamento dalle quali in quel momento risuonavano gli allarmi. Proprio come era successo per anni addietro, nella luce rossa del sole all’orizzonte, poterono intravedere gli uomini che cavalcavano verso di loro con le loro terribili armi, circondarli e colpirli come bestie con le fruste, fino a che tutti furono costretti a rientrare nel cancello, coperti di tagli, sangue e terra. Helan poteva vedere i suoi compagni boccheggiare a terra, e gli assalitori infierire ancora su di loro con calci e frustate. Anche lui fu ferito, anche lui fu buttato a terra e menato. Ma la sorte peggiore spettò a Khan. I conquistatori dovevano aver capito che era lui che aveva spronati gli altri alla rivolta, e quindi dopo averlo colpito, ferito, coperto di lividi e sangue, costrinsero tutti noi a vedere mentre lo impiccavano alla recinzione. Lì lasciarono il corpo per giorni, insieme ai prigionieri, senza acqua né cibo, troppo deboli per fare altro che piangere per la sorte di Khal. I più adulti fra noi ricordarono che quando qualcuno moriva nel vecchio villaggio, per assicurasi che tornasse alla terra, veniva bruciato su una pira mentre gli altri intonavano canti d’addio, ma dato che la salma del loro capo rimaneva a decomporsi all’aria aperta, il suo spirito non avrebbe mai trovato pace. Il quinto giorno senza vivere, mentre i più deboli del gruppo iniziarono a morire, arrivarono insieme al tramonto gli invasori, che legarono i prigionieri e li misero su dei carri, per poi scaricarli nella miniera. Distrussero però la scala che rappresentava l’unico accesso o uscita della miniera, e costruirono un sistema di carrucole, attraverso il quale mandarono giù dei miseri viveri che i poveri prigionieri si contesero come animali. Dopo di che calarono i picconi per farli lavorare e gli imposero di raccogliere tre carichi di carbone al giorno, altrimenti avrebbero fatto saltare in aria la miniera con loro dentro. Tutti erano spaventati e atterriti per il loro destino, e con il passare degli anni molti dei vecchi compagni Helan morirono, chi perché non poteva sopportare l’aria della miniera, chi perché il cibo fornito non bastava per preservarsi dalle malattie, chi semplicemente si lasciò morire pur di non accettare quel destino infame. Chi sopravvisse non ebbe però un destino molto migliore dei Marco Zuaro (1488237171326)


compagni: lavorare tutti i giorni all’oscurità, con la sola luce delle lanterne che mandavano i conquistatori, e restare soli quasi tutto il tempo portò quei giovani uomini a diventare come bestie, ormai molti non parlavano più, dormivano in modo irregolare, anche quando gli veniva dato il cibo spesso non mangiavano, e così divennero abbietti e miseri. Helan però riuscì a mantenere la sua umanità e la sua dignità. Cercava di stare lontano dai suo compagni che un tempo aveva amato, temendo che in uno scatto d’ira (che capitavano frequentemente e sfociavano in risse violente), i suoi amici lo attaccassero. Questo lo portò a desiderare di esplorare le parti più oscure e remote della miniera. Spesso questo gli era impossibile a causa dell’oscurità, quindi quando si poteva riposare passava il tempo pensando a come fare per portare la luce nei meandri più bui, e passava ore intere ad osservare le lanterne di vetro da cui proveniva la luce. I loro padroni gli facevano rimandare le lanterne che si erano spente insieme al carbone, ma un giorno Helan ne nascose una con l’intenzione di aprirla quando nessuno poteva vederlo. Così fece, mentre era in una zona ancora illuminata ma abbastanza appartata, spaccò la lanterna per terra, e vi trovò dei piccoli insetti morti. La scoperta lo sorprese moltissimo, e si ripromise di rompere una lanterna accesa la volta successiva. Così mentre gli altri dormivano, si avviò verso i tunnel e con il suo piccone spaccò una lanterna accesa. Ne fuoriuscirono tanti piccoli insetti brillanti che svolazzarono intorno a lui, per poi avviarsi lungo il tunnel. Helan curioso iniziò a seguirli, e per quanto temeva di perdesi per sempre in quel dedalo oscuro, la luce di quegli insetti gli ricordava il bacio della madre, che era tutto quello che di felice c’era stato nella sua vita, e quindi sperava che quegli animaletti fossero in realtà magici e che l’avrebbero aiutato. Li seguì e li seguì, finché si accorse che gli insetti non erano più l’unica fonte di luce che poteva scorgere, anzi ne poteva vedere una molto più intensa, forte, provenire dalla fine del tunnel in cui lo avevano condotto quelle farfalle scintillanti. Ad un certo punto scalò una roccia, e mentre gli insetti si liberavano nella luce del giorno appena nato, Helan ammirò l’alba sulle creste delle montagne lontane.

Il canto della Foresta All’alba, sostengono alcuni, quando le creature dormono ancora, e il sole irrora le selve con la prima luce, e il vento della notte ancora non si è placato, l’aria si insinua fra le fronde e nasce un’armonia segreta, mai sentita prima, nuova ma antichissima, sconosciuta da chi non vuole sentire. Si compiangeva, in un tempo molto lontano, un povero liutista. Il suo sogno era incantare il mondo con le sue canzoni, avrebbe voluto che gli uomini, gli animali e anche le piante apprezzassero la bellezza delle sue canzoni. Ma il suo liuto era vecchio e scordato, la sua voce roca ed insicura, e per quanto nella sua mente fiorissero idee brillanti e innovative, le sue capacità non gli permettevano di compiersi, di esaudire i suoi sogni. Per questo si compiangeva, e compiangendosi non migliorava la sua condizione né provava altro. Chi lo conosceva lo biasimava. Era considerato dai più un buono a nulla, un pazzo che voleva suonare agli animali, ma allo stesso tempo erano certamente contenti che preferisse esercitare il suo estro nella foresta piuttosto che vicino a loro. Il suo canto era soporifero quando non arrivava ad essere raccapricciante. Chi sentiva la sua musica si vergognava di lui almeno tanto quanto lui si vergognava di vedere il suo pubblico coprirsi le orecchie e contorcere il volto in espressioni di disgusto e disturbo. E così si compiangeva, senza speranza di poter mai avverare i suoi sogni. Così faceva lunghe passeggiate nella foresta, guardava la natura e ne era ammaliato. Riempiva il suo cuore con il i selvaggi colori della natura, ristorava il suo spirito e nella sua mente risuonava una musica Marco Zuaro (1488237171326)


bellissima che non aveva mai sentito prima. Cantava a piena voce, e il suo liuto sembrava più dolce della più dolce delle arpe. E si commuoveva della bellezza di quei momenti, e per quanto l’esperienza gli avesse insegnato che nessuno avrebbe capito quelle melodie, non poteva che voler provare a condividerle con gli altri, mettendosi nuovamente in ridicolo, e ricominciando un ciclo eterno, che sembrava congeniato per farlo disperare. Una volta provò anche a non andare più nella foresta, ma come l’odore di una rosa di maggio spinge gli uomini a coglierla, così lui di notte, nel silenzio della sua piccola casa sentiva quelle musiche chiamarlo, e non era abbastanza forte da resistere, né abbastanza debole da farsi vincere dalla pigrizia. E per questo si compiangeva, e proprio in uno qualunque di quei giorni in cui passava il tempo a compiangersi sul limite della foresta (aspettando segretamente e con brama che melodie che causavano la sua rovina lo richiamassero) che vide qualcosa che lo scioccò. Un uomo stava tagliando un albero, e dietro a lui ce ne erano altri pronti con le asce sollevate che brillavano di una luce violenta nella giornata assolata. L’ascia si abbatté sulla pianta, ancora ed ancora, e l’immagine di quell’atto così violento, su qualcosa di così incontaminato e puro si accompagnò ad un suono terribile, un grido di sofferenza che squarciò l’aria e rimase sospeso ed ignorato dai falegnami. Il liutista si contorse e cadde a terra per la sofferenza. Quel suono aveva risuonato per tutto il suo corpo e gli aveva causato una sensazione orribile: era come se qualcuno avesse provato a strappargli l’anima direttamente da corpo. Il dolore era terribile ma mentre stava a terra con una mano sul petto ed una sulla fronte, iniziò a calmarsi ed il dolore a placarsi. Riuscì ad alzarsi, e a rimettere a fuoco la situazione. Doveva fermare i taglialegna non poteva lasciagli continuare quello scempio. L’ascia si abbatté, e tutti gli altri taglialegna iniziarono ad abbattere altri alberi. Di nuovo quel suono orribile riempì l’aria, era soffocante, come un profumo troppo forte, e il liutista sentì quelle grida amplificarsi infinite volte nelle sue orecchie, un suono assordante che sentiva dentro di sé, e questa volta sembrò che anche i falegnami l’avessero sentito, ed esitarono un momento. Vedendo il liutista a terra si avvicinarono s gli chiesero che cosa gli succedesse, ma poi vedendo che si trattava del tragicamente celebre musicista lo lasciarono stare, e un po’ irrequieti tornarono a lavoro, proprio mentre il povero musicista si stava riprendendo, e vedendoli con le asce alzate si preparò a quello che stava per succedere. Rimanendo a terra portò le ginocchia al petto, chiuse gli occhi e si schiacciò le mani contro le orecchie. L’ascia si abbatté, e questa volta il grido fu ancora più forte che il secondo, e nonostante le precauzioni prese il liutista pensò di esplodere, e il capo dei falegnami, buttando a terra l’ascia si gli si avvicino, e con un tono burbero e rabbioso gli chiese cosa stesse combinando. Il liutista approfittò del momento di sollievo per rialzarsi e riprendersi un momento, poi, guardando negli occhi il falegname disse :- è la foresta- . Il taglialegna alzò gli occhi al cielo e riprese la sua ascia, con l’intenzione di proseguire senza ulteriori interruzioni, ma il liutista lo seguì e lo pregò di fermarsi, lo implorò con tutte le sue forze, e cercò anche fisicamente di fermarlo, ma niente fermò l’uomo. L’ascia si abbatté, ma questa volta la lama assaggiò il terriccio. Mentre provava a colpire un’altra pianta il liutista lo aveva spinto facendogli perdere l’equilibrio. Il falegname, furente più che mai iniziò a sbraitargli contro insulti e gli chiese perché causasse tanti problemi, agitando pericolosamente l’ascia in aria. Il liutista non sapeva come spiegare la situazione, quello che sentiva era inspiegabile, non si poteva esprimere con la musica figuriamoci con le parole. Stette

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qualche secondo ad aspettare, poi vedendo che tutti lo guardavano prese il suo liuto ed iniziò a suonare. Ovviamente il suono era orribile. Il falegname spintonò il musicista e si rimise a lavoro. Il suono che sentì mentre nuovamente le lame tagliavano il legno fu terribile. Come il grido di cento persone tutte insieme , ma sta volta il liutista fece risuonare quelle grida attraverso il liuto e attraverso il suo canto. Il suono prodotto dal liutista fu così struggente e tragico che anche solo una nota avrebbe fatto commuovere qualsiasi cantante lirico. I taglialegna rimasero a bocca aperta, mentre il liutista continuava a suonare e lentamente il suo canto tornava stonato e imperfetto. Quella melodia era così triste e potente che a qualcuno era caduta l’ascia per la sorpresa e lo stupore. Il capo però, che era stato sbalordito come tutti gli altri, non si volle dare per vinto, ed ordinò ad i sui compagni di proseguire ignorando quel liutista così di poco valore. Sbigottiti i falegnami ripresero le loro asce, e intanto il liutista continuò a cantare, commosso per esser riuscito anche solo per un momento nell’obiettivo al cui ambiva da una vita. Il suono che pervase i taglialegna mentre cercavano di abbattere quegli alberi fu ancor più suggestivo, e per quanto cercassero di continuare le lacrime iniziarono a scorrere e ad offuscare la vista, e non potendo pensare ad altro che a quella musica così triste si gettarono a terra nascondendosi il viso o si abbracciarono per confortarsi l’un l’altro. Così anche il loro capo, con una lacrima che attraversava la sua guancia, gettò l’ascia a terra ed arrabbiato puntò un dito sul petto del musicista e disse:-per il momento ci fermeremo, dato che il sole sta tramontando e comunque non riusciremmo a combinare niente, ma non potrai ostacolarci per sempre, domani all’alba saremo qui, e taglieremo questi alberi-. Detto questo si ritirò con i suoi compagni, lasciando solo ed entusiasta. Il suono della foresta, per quella notte fu più gioioso che mai, e il liutista passò tutta la notte con le creature che amava, deciso a fermare chiunque mai volesse rovinare la maestosa bellezza della natura. All’alba, i falegnami si diressero all’argine della foresta, proprio mentre il primo raggio di luce irrompeva all’orizzonte. Si avvicinarono alle piante, e non vedendo il liutista pensarono di avere la strada libera. Proprio in quel momento, si alzò una melodia potentissima, che inondò l’anima di quegli indegni spettatori. La musica non sembrava essere percepita dalle orecchie, ma risuonava direttamente nei loro corpi, ed era di un’armonia così straordinaria che sembrava che nessuno strumento potesse mai riprodurla. Era un suono inconsistente e solido allo stesso tempo, i taglialegna non erano neanche certi di star ascoltando musica, ma se era musica era la più bella che avessero mai sentito. Era come se li possedesse, come se li avesse immobilizzati. Il sole infine sorse e la musica come era apparita sparì, forse addirittura non c’era neanche mai stata, ma di certo i falegnami abbandonarono le loro asce, e mai pensarono di riprenderle. Nessuno rivide più il liutista, ma molti sostennero di aver sentito una voce familiare ridere alle loro spalle quando gli capitò di trovarsi a dover attraversare la foresta. Se effettivamente fosse lui chi può dirlo, di certo avrebbe ragione di ridere ed essere felice, aveva fatto ascoltare chi non voleva sentire.

Marco Zuaro (1488237171326)


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