Nessuno parlava. Nell'aula regnava il silenzio. L'unico rumore che si poteva sentire era quello dello scorrere delle penne sui fogli. Era una cosa molto strana per una classe di un liceo. Dei ragazzi soprattutto all'età di 18 anni in grado di seguire con quell'attenzione il docente non si erano mai visti. Eppure I 25 ragazzi dello scientifico di Perugia non osavano mai parlare durante le spiegazioni di Belardinelli. Non si capiva il perché. Non credo fosse tutta causa dell'interesse per la materia che in una situazione del genere si sarebbe dovuto chiamare passione vera e propria. Non era neanche la paura per gli esami in cui scienze aveva un ruolo chiave e che ormai erano veramente vicini. La condizione oramai era la stessa da due anni. Forse era il terrore che quella testa pelata di prof suscitava in loro. Probabilmente era cosi'. Mario Belardinelli, anno di nascita 1985 e nato a Bergamo, era arrivato in quel liceo da due anni e si portava dietro una fama di ottimo insegnante, nonostante i soli 5 anni di cattedra. In effetti non era una persona infima e se lo avessi incontrato fuori da scuola probabilmente gli avrei anche offerto un caffè per scambiare due chiacchiere. Data la cultura che aveva, se la cavava veramente bene anche come professore e potrei giurarvi che non c'era studente che non capisse le sue spiegazioni. Parlava in modo chiaro e ripeteva gli stessi concetti attraverso diversi esempi, per permettere a tutti di schematizzare. Però la nostra era la prima classe del triennio che avesse mai avuto. Consideratelo perfetto quanto volete, ma il nostro odio era iniziato a crescere nel secondo mese dell'anno scorso da quando aveva introdotto le interrogazioni killer. Cosi si divertiva a chiamare alla lavagna ogni persona che disturbava le sue lezioni ed il voto partiva inferiore di uno rispetto a quello che avrebbe preso lo stesso studente in una interrogazione normale. Viene facile da intuire perché quell'odio si era subito trasformato in paura ed in un regime del terrore nessuno provava a fare un minimo rumore. Eppure quel giorno non ne potevo più della spiegazione. Sarà perché la sera prima ero andato a dormire tardi per uscire con gli amici o semplicemente perché della solita formula “l'uomo sta sfruttando il pianeta e presto si estinguerà per questo”, che sentivo ormai da dieci anni, me ne interessava poco perché avevo smesso di crederci. Vedevo che il prof mi stava osservando durante la spiegazione perché là dentro ero l'unico che non prendeva appunti. Però non diceva niente perché mi considerava un ragazzo così pieno di speranza da non credere neanche ai dati scientifici e preferiva lasciarmi perdere. Penso fosse passata mezz'ora, quando decisi di chiudere gli occhi per qualche minuto, tanto sapevo che il prof quel giorno mi avrebbe lasciato perdere. Quando mi risvegliai stranamente non era passato neanche un minuto. O almeno cosi' mi sembrava. Belardinelli stava ancora continuando a parlare
delle stesse identiche cose
e nessuno aveva provato ad interromperlo. Cosi' stufo decisi di chiedere al mio compagno Carlo quanto mancava realmente alla fine della lezione. A dire il vero mi scocciava sempre disturbarlo dato che era un mezzo secchione, ma anche lui quel giorno sembrava essere abbastanza stufo della lezione. Cosi' si girò e con un sorriso rassegnato mi indicò l'orologio. In effetti mancava ancora mezz'ora e non mi sbagliavo neanche di un minuto. La cosa straordinaria però non fu l'aver indovinato, bensì quello che accadde dopo. Carlo tutto un tratto si bloccò in quella posizione e non la cambiò neanche dopo che iniziai a dirgli ripetutamente di smettere di scherzare, dato che non ero in vena. Iniziai anche ad alzare la voce e stranamente nessuno disse niente. Incredibile, come il prof che continuava a spiegare. Mi girai allora verso gli altri, ma nessuno stava continuando a scrivere. Tutti si erano bloccati nella loro posizione di quando Carlo aveva toccato il suo orologio. Non capivo perché si comportassero cosi' e allora pensai si trattasse di uno scherzo. Mi girai verso il prof pensando fosse una sua “vendetta” per la mia pennichella alla sua ora: Belardinelli però continuava indisturbato a spiegare. Gesticolava con le sue braccia nelle maniche di un maglione rosso d'alta moda, rifletteva la luce nella sua testa e modulava la voce a seconda delle parole che diceva. Tutto un tratto però mi accorsi che i tre toni di voce corrispondevano alle stesse parole ripetute più volte. Urlava di disperazione che “gli idrocarburi finiranno presto”, per poi aggiungere con molta rabbia che “è tutta colpa dell'uomo” e finire con un tono speranzoso di bambino che ancora deve entrare nella fase adolescenziale “ ma ancora possiamo cambiare rotta”. Gli idrocarburi finiranno presto è tutta colpa dell'uomo, ma ancora possiamo cambiare rotta. Ripeteva queste parole in continuazione. Gli idrocarburi finiranno presto è tutta colpa dell'uomo ma ancora possiamo cambiare rotta. Modulava il tono esattamente nello stesso modo ogni volta. Gli idrocarburi finiranno presto è tutta colpa dell'uomo ma possiamo ancora cambiare rotta . Sembrava di stare in una rappresentazione del teatro dell'assurdo ed anche una di quelle fatte bene. Guardando il professore negli occhi si vedeva come il suo sguardo caratterizzato da pupille incredibilmente ingrossate si abbinava alle tonalità della sua voce rendendo la sua faccia realmente spaventosa. I compagni iniziarono a muoversi. Ma non era per ridere, insultare Belardinelli o per qualsiasi comportamento normale in quella circostanza. Fecero tutti una serie di movimenti ciclici. Iniziarono a muoversi adeguandosi alle parole del professore. “Gli idrocarburi finiranno presto” ed ognuno stappava la propria penna. “E' tutta colpa dell'uomo” ed iniziavano a strappare i fogli del proprio quaderno. “Ma possiamo ancora cambiare rotta” e non c'era nessuno che
non alzava la mano per chiedere la parola. Gli idrocarburi finiranno presto è tutta colpa dell'uomo ma possiamo cambiare rotta . Stappavano la penna, strappavano i fogli, alzavano la mano al cielo. E in tutto questo girandomi verso Carlo vidi che lui era ancora immobilizzato guardandomi e indicando il quadrante del suo orologio. Non ne potevo più. Era una situazione cosi' assurda che non sapevo neanche io cosa fare. Ero circondato da un ammasso di robot. I miei compagni muovendosi tutti all'unisono non erano più come delle persone. Io ero così turbato che stavo per scoppiare a piangere a dirotto. Afferrai Carlo per le spalle ed iniziai a scuoterlo con prepotenza per fare smettere almeno a lui quella recita. Perché uno dei miei migliori amici avrebbe dovuto giocarmi uno scherzo cosi' terrificante? Vidi che appena lo afferrai iniziò a sgretolarsi come una statua. Sul suo petto comparvero delle crepe. Era come se la sua pelle ed i suoi vestiti fossero uniti in un'unica cosa e si stessero rompendo contemporaneamente. Pensai che fosse veramente troppo. Gli rifilai un cazzotto colmo di rabbia. Sfogai tutta la mia frustrazione in quel gesto. Lo vidi scomparire davanti ai miei occhi. Diventò un grosso mucchio di detriti. Cadde a terra, leggero come polvere. Stavo impazzendo. Iniziai a pensare che non si trattasse più di uno scherzo. Iniziai a credere di avere realmente ucciso il mio migliore amico. Piansi. Rovesciai il banco. Iniziai a urlare. Aiuto! Aiuto! Aiuto! Niente da fare. Non cambiava niente. Gli idrocarburi finiranno presto è tutta colpa dell'uomo ma possiamo ancora cambiare rotta ripeteva Belardinelli. I miei compagni con le pupille ormai ingrossate e lo sguardo fisso nel vuoto stappavano le loro penne, strappavano i fogli dei loro quaderni ed alzavano il braccio verso il soffitto. Carlo era solo detriti e un mucchio di capelli inspiegabilmente rimasti tali. Mi alzai e corsi via verso la porta. Non mi importava più di quella storia. Non ero per niente lucido. Non mi passò neanche per la mente che si potesse trattare di un incubo. Aprii la porta pronto ad uscire dalla scuola. Ma al posto del corridoio c'era un muro. Cioè non era un muro, ma una specie. Era qualcosa di invalicabile. Avevo davanti a me un grandissimo addensamento di nebbia che non riuscivo ad oltrepassare, non sapevo spiegarmi il perché e ancora adesso non so definire cosa fosse. Intanto alle mie spalle continuava quell'orrore. Gli idrocarburi
finiranno presto è tutta colpa dell'uomo ma possiamo ancora cambiare rotta. Ero in trappola. Non sapevo come muovermi. Non capivo dove andare. Ero incapace di capire cosa fare. Il fatto che da quando mi ero diretto verso la porta avevano tutti girato la testa verso di me rendeva tutto più inquietante. Si erano accorti di me. Non fissavano più il vuoto. Stappavano le penne, strappavano i fogli e alzavano la mano. Anzi stavano diventando il vuoto. Mi accorsi che nel loro ciclo di movimenti la pelle stava diventando trasparente. Giacomo dall'altra parte dell'aula già non aveva più visibili la punta delle dita della mano destra. Continuava comunque il suo moto perpetuo. Lo stavo osservando. Lui osservava me. Stappava la penna, strappava i fogli ed alzava la mano che era quasi del tutto scomparsa. Eleonor, la bella ragazza
bionda con cui avevo da poco iniziato ad avere una storia, stava iniziando a scomparire in modo rapido. Stava nell'ultima fila del banco centrale ed era improvvisamente divisa in due. Dal petto alla linea della vita era ormai scomparsa. Si poteva notare come però nonostante la testa fosse separata completamente dalle gambe, continuava a vivere come se nulla fosse. Intanto Noemi, Francesco, Andrea e tutti gli altri stavano perdendo chi un braccio, chi un piede e chi ancora solo la punta dell'orecchio. Non accadeva allo stessa velocità per tutti. Ma tutti piano piano scomparivano. Tutti tranne il prof. Lui continuava imperterrito a spiegare e guardare dritto come se nulla fosse. Quando vidi che i miei compagni ormai praticamente se ne erano andati via tutti chissà dove, iniziai a preoccuparmi. Temevo che la stessa sorte fosse toccata prima o poi, anche a me come a tutto ciò che si trovava di fronte al prof. Di fronte a Belardinelli iniziarono a scomparire anche gli astucci, le sedie e persino un banco. Tentai allora la cosa più pazza che mi fosse mai passata per la testa. La nostra classe si trovava al terzo piano e dunque eravamo abbastanza distanti dal pavimento esterno di catrame. Però l'unica via di uscita sembrava essere la finestra. Cosi' l'aprii ma trovai la stessa spiacevole sorpresa della porta. Il cielo nella sua limpidezza di quel giorno e con le sue molteplici nuvole bianche sembrava essere come un muro dipinto al di là della finestra. C'era giusto lo spazio per salire sull'orlo della finestra, ma poi non si riusciva ad andare avanti e questo ostacolo, a differenza di quello della porta, oltre che non oltrepassabile era anche abbastanza duro. Cosi' capi con la musata che diedi cercando di correre via da quella dannata classe. Ma niente da fare. Eravamo rimasti solo io ed il professore. Gli oggetti erano quasi tutti scomparsi. I miei compagni erano o invisibili o chissà dove. Carlo era rimasto un mucchio di detriti tale e quale. Belardinelli iniziò ad agitarsi. I toni che usava si facevano via via più marcati.
Gli idrocarburi finiranno presto è tutta colpa dell'uomo, ma ancora possiamo cambiare rotta. La disperazione e la rabbia diventavano sempre più evidenti. Iniziavano ad uscirgli delle lacrime che anticipavano il suo colorarsi di un rosso simile ad un pomodoro maturo. Invece la speranza si faceva sempre minore, la voce era sempre più bassa, nelle parole c'era sempre meno convinzione. Poi tutto un tratto. Rumore di rottura di vetri. Come se qualcosa si fosse frantumato in mille pezzi. E poi buio. Buio totale. Buio pesto. “H-hey b-basta! S-siamo giunti ad un l-limite! A-ascolterò t-t-tutte le tue...ehm l-le s-sue s-scu-scusi- lez-lezioni!” provai a dire balbettando al professore. Non sapevo se lui avesse fatto la fine dei miei compagni, ma per me rimaneva la causa di tutto. Io iniziavo ad avere paura e volevo farla finita. Dunque la soluzione non poteva che essere quella di capire direttamente l'origine di tutto. Se fosse stato realmente Belardinelli, come era riuscito a fare qualcosa di paragonabile ai migliori effetti scenici di un film in quel momento mi interessava ben poco. La paura continuava a crescere in me, più cercavo di avere un contatto con il prof, più l'unica cosa che sentivo era un soffio di vento che sibilava alle mie spalle. Iniziarono a tremarmi le gambe e decisi di sedermi. Eravamo stati in quella classe per tre anni e ormai la
conoscevo quasi a memoria. Prima di quello strano rumore di vetri frantumati avevo la certezza di trovarmi vicino alla finestra ed essere rivolto verso il professore, con alla mia destra la sedia di Giacomo. Cosí, convinto, decisi di sedermi per capire cosa stesse all'incirca succedendo, o almeno provare a farlo. Ero agitato, preso completamente dalla paura. Ma soprattutto ero in trappola in una stanza 10 metri per 8. Per quanto poteva essere una cosa inquietante era l'unica mia certezza. Si sa, molte volte le certezze sono delle ancore di salvataggio, fino a quando la corda che le lega alla nave si spezza e l'imbarcazione parte trascinata dalle correnti o affonda. Ecco, io iniziavo ad affondare proprio sedendomi in quella che dovrebbe essere stata la sedia di Giacomo. L'ennesima sorpresa di cui avrei fatto volentieri a meno fu quella di trovarmi schiantato con il sedere per terra. La sedia non c'era più. Non perché prima erano scomparsi anche gli oggetti, cosa a cui non stavo pensando, neanche il pavimento era quello della classe. Non c'erano né le briciole che Nicola faceva sempre cadere ad ogni ricreazione né il mezzo metro di polvere che i bidelli non andavano mai a togliere. Sopratutto la consistenza non era quella dura del pavimento economico di una classe qualunque. Si trattava di qualcosa di estremamente scivoloso, quasi viscido e anche abbastanza bagnato. Ecco, ora la mia unica certezza era quella di non avere certezze. Mi trovavo sicuramente senza professore, senza compagni, non nella mia classe, non so dove e non solo il perché. Non fidandomi della consistenza del terreno decisi di rimanere seduto e di spostarmi con il sedere attaccato al suolo, verso destra e verso sinistra. Fu come se accorgendomi del pavimento, il mio passaggio in questo luogo si fosse completato: si riattivarono in me i cinque sensi, o meglio i quattro sensi dato che la vista al momento era inutilizzabile. Iniziai a percepire una elevata umidità, cosi' elevata da essere strana per i posti in cui ero abituato a vivere. Ovviamente insieme a questa sensazione arrivò presto anche quella del grande freddo che mi strinse e stritolò l'intestino causandomi qualche problema. Il dolore dei crampi presto iniziò a scomparire come tutto ciò che avevo intorno ultimamente, o meglio fu coperto dalla paura. Iniziai ad accorgermi che in quel luogo angusto regnava il silenzio. Però non era un silenzio di quelli che si richiamano in un'aula di tribunale o che si crede esistano in una foresta solo perché i rumori naturali non si mischiano con quelli dell'uomo e del suo progresso civile, era uno di quei silenzi cosi' profondi che fanno rumore e te accorgi proprio per quello. Riesci a sentire il suono di ogni minima cosa, perfino dell'aria. Era una di quelle situazioni in cui si riesce a capire veramente cosa è il vuoto, ma sembra persino che l'assenza di tutto sia presenza di qualcosa. La prima direzione verso la quale mi spostai fu sinistra. Rigorosamente con il sedere attaccato a terra feci dei piccoli movimenti per testare il pavimento: aveva una pendenza variabile da tratto a tratto. Ad un certo punto però sotto la mia mano sinistra non trovai nessun tipo di appoggio, mi sentii trascinare verso il basso. Non era però qualcosa a tirarmi da sotto, si trattava del mio peso che mi stava schiacciando. Pensavo di trovarmi sull'orlo di un dirupo. Era buio, non ne
avevo la certezza. Però anche quando non sai niente della tua situazione, capisci quando stai per affondare. In ogni circostanza puoi capire quando ti manca una base di appoggio solido, non avere più certezze a sorreggerti ti porta quello stato di ansia, angoscia e terrore a cui non puoi sottrarti. Cosi mi resi conto di essere veramente prossimo alla morte in un posto di cui non sapevo veramente niente. Provai con il tatto a percepire qualche informazione e sentii che il terreno aveva una forma strana, era costituito da vari strati ed aveva diversi spigoli, qualcuno anche molto pungente. L'olfatto mi segnalava qualcosa che però non riuscivo a decifrare, dato che erano odori che non mai sentiti finora. Soprattutto, si stava smorzando sempre di più dato il freddo che faceva. Credevo di essere veramente vicino ad ammalarmi. Avevo paura che tutto un tratto mi sarebbe mancata la forza e temevo di finire in quel “laggiù” che mi faceva cosi' tanta paura. Non ci pensai troppo e provai a rilanciarmi verso destra, dove si trovava la mia Itaca, l'unico posto dove ero fuori da ogni rischio. Fortunatamente facevo il portiere per una grande squadra di calcio ed avevo una buona dose di riflessi. Mi slanciai quindi con tutta la forza che avevo verso la mia meta, cercai un appiglio per il piede destro e cercai di afferrare quel pallone immaginario, sentii il suolo sotto il mio piede destro sgretolarsi rapidamente e perdendo parte dell'energia dello slancio sbattei il ginocchio contro una dura roccia. Quello che nella mia testa sarebbe dovuto essere un gran gesto atletico, si rivelò come una goffa rotolata. Oltre al danno anche la beffa, oltre alla caduta rovinosa anche l'urto al ginocchio dolorante che probabilmente mi avrebbe tenuto più tempo fuori dal campo di gioco. Provai ad allungare braccia e gambe in modo lento per vedere, stendendole, se mi trovavo completamente al sicuro. Sorrisi pensando al freddo che mi avvolgeva dai piedi alla testa, salendo dal terreno sotto di me. Per fortuna la conclusione fu la stessa del gesto tecnico che avevo in mente e nessuno vide la goffa esecuzione, almeno credevo che fosse cosí. L'importante però era proprio l'esito: ora non potevo muovermi in nessuna direzione, per evitare di trovarmi nella stessa situazione scomoda di prima con in più un ginocchio dolorante. Ero lí, fermo, rigido, immobile per evitare ogni rischio. L'unica cosa che mi faceva compagnia era quel ticchettio costante dell'acqua che dal soffitto andava a sbattere con cadenza regolare su una parte del terreno a me vicino. Tic. Toc. Tac. Tic. Toc. Tac. Tic. Toc. Tac. Concentrandomi meglio riuscii a capire che in realtà l'acqua stava cadendo in diversi punti. Tic. Toc. Tac. Erano almeno tre punti vicino a me. Iniziai a pensare che poteva trattarsi del formazione di stalagmiti, ma allo stesso tempo continuavo ad aver paura dell'ignoto. Tic. Toc. Tac. Era passata un'infinitá di tempo ed iniziavo a non sentire più neanche un muscolo del mio corpo. Non pensavo si potesse provar dolore a stare seduti, senza fare niente e lasciar il mondo intorno vivere la sua vita. Però non ne potevo più di quel dannato rumore. Tic. Toc. Tac. Quasi preferissi la voce del professore di scienze. Iniziai ad urlare. Se c'era qualcuno a guardarmi, che mi stava facendo uno scherzo e che si stava divertendo con la mia sofferenza, doveva capire che non ne potevo più.
Doveva terminare tutto. Non ebbi nessuna risposta. Sentii solo quel ticchettio prima diventare un rumore tremante e poi farsi sempre più veloce. Tsrtic. Tsrtoc. Tsrtac. Tsrtic, toc, tac. Tic, toc, tac. Tic, toc, tac, tic, toc, tac. Dopo poco tempo mi sembrò di sentire un altro rumore. Non sapevo se si trattasse sempre di acqua o di qualche allucinazione data dalla pazzia a cui mi stava portando quel battito. Non mi importava. La gioia di sentire qualcosa di diverso per una volta superava il terrore dell'ignoto. Sentii qualcosa trascinarsi alle mie spalle. Dal rumore penso fosse qualcosa di pesante. Dopo pochi istanti però scomparve ogni suono e sentii una folata di vento molto forte passarmi attraverso, quasi che non caddi in avanti. Subito una voce profonda e gutturale tuonava difronte a me. “Chi sei? Cosa cerchi in questa terra per aver svegliato il mio sonno? Se non hai un buon motivo dovrai pagare per aver fermato il sacro processo!”. Iniziai a provare una paura che non avevo mai sentito prima sulla mia pelle. Non sapevo cosa pensare. Chi avevo di fronte? Era lui che aveva prodotto quel rumore di un qualcosa pesante trascinato alle mie spalle? Ma soprattutto quale sacro processo? Cercai di prendere, non so da dove nel mio corpo, un po' di coraggio per dire qualcosa anche se neanche io sapevo cosa ci facessi là. “Cosa fai, non rispondi? Sei muto per caso? Ti ho sentito prima urlare! Ti diverti a prendermi in giro?” “N..N..No. Sc..scusi, non vole..evo svegliart..arla prima. Sinc..ceramenteabbassai la voce cercando di dire tutto nel modo più veloce possibile- non so neanche chi ho davanti” “Ma cosa stai dicendo? Prima eri muto, adesso sei cieco? Ah sarai uno di quegli stupidi umani catapultato qua. Aspetta...cerca di non cadere” Iniziarono a provenire grandi folate di vento da ogni lato di quell'ambiente. Nemffo tluafdne lliwsnob racord yheht . La voce difronte a me inizio a cantare questo inno tribale. Il vento aumentava sempre di più ed io stavo facendo fatica a non volare via. Nemffo tluafdne lliwsnob racord yheht. Iniziai a vederci qualcosa. Iniziai ad intravedere la figura. Era un enorme uccello umanoide che indossava una lunga veste grigia e riflettente come l'alluminio, che arrivava fino a terra, ed aveva in testa un copricapo fatto da strane piume. Muoveva le ali intorno a se e ripeteva quelle parole per accendere delle torce. Nemffo tluafdne lliwsnob racord yheht. Ero stato abituato a portare sempre rispetto per il potere e così pensai che la cosa più logica fosse quella di inchinarsi ai suoi piedi. Sembra però che là l'educazione non funzionasse allo stesso modo e il grande uccello non apprezzava quel gesto. Anzi mi invitò a rialzarmi e ad evitare stupidi comportamenti appartenenti al mio mondo. Volle sapere solamente chi fossi e cosa ci facessi là. Meravigliato dalla suo fare diplomatico non riuscì a dirgli niente: lo guardavo fisso, incredulo e non mossi' neanche un muscolo del mio corpo. “sei un soldatino per caso? Per tua fortuna non sei il primo umano a venire qua ed ormai ci ho fatto l'abitudine. So io perché sei qua: devi aprire gli occhi sulla realtà. Sei pronto? Ti premetto che è una cosa alquanto dura da vedere e potresti rimanere scioccato.”
Non dissi niente. Mossi tre volte la testa dal basso verso l'alto e viceversa. Non capivo di cosa stesse parlando, ma ero già scioccato, come diceva lui, dallo stare a sentire un uccello gigante in un luogo di cui neanche sapevo nulla. Nemffo tluafdne lliwsnob racord yheht. Riprese a pronunciare quelle parole ed a muovere nuovamente le ali in modo ancora più rapido e frenetico di prima. Muoveva il suo corpo per far arrivare il vento in ogni angolo di quel luogo che sembrava man mano più grande. “Fermo!” gli gridai ad un certo punto. Mi guardò male, diminuì la velocità delle sue ali, si fermò, alzò lo sguardo al cielo e scoppiò a ridere di gusto. “Ce l'hai fatta finalmente a sbloccarti! Sei più simpatico quando non sei un bambolotto...ora parla pure.” Lo stavo guardando meglio e sotto una luce più forte notai che gran parte del suo corpo erano ormai ossa e che le dita delle sue zampe sembravano essere carbone. “Chi sei tu?”. “Giusto hai ragione -sorrise in modo strano- ti ho chiesto di presentarti, ma non mi sono presentato io. Mi chiamo Liuth, sono il Dio della verità della vita qua sotto. O meglio, lo ero. Adesso sto subendo le conseguenze di voi uomini nel vostro mondo. Avete iniziando ad assumere comportamenti non troppo positivi verso il pianeta. Le conseguenze non le pagate voi, ma io” “ok..ok.. ma lo hai finito questo monologo? Mi puoi dire perché sei ridotto così , in questo stato, fatto più di ossa che di vita?”. Forse osai un po' troppo. “si, però calma. C'è un bel salto tra non parlare e rivolgersi cosi'...anzi sai che ti dico. Io non parlo, parlano loro.... Nemffo tluafdne lliwsnob racord yheht. Nemffo tluafdne lliwsnob racord yheht.” disse allargando le ali con un movimento ad aprire le spalle, come per mostrare ciò aveva dietro. Piano piano, il buio dietro di sé si faceva decisamente più chiaro. Quella che sembrava una grotta si andava ad espandere. Si iniziavano a sentire dei canti molto simili a quelli di cui mi parlava mio nonno degli anni in cui andava in miniera. Si cominciava a vedere vari tunnel, uno dentro l'altro, come in una bambola matriosca, ma non si vedeva la fine. Era un'intera parete con tantissimi tunnel. Si vedeva perfino lo sbrilluccicare di diamanti e pietre preziose. “Guarda anche ai lati- affermò il mio interlocutore vedendo il mio sguardo fisso in avanti quasi a pietrificarmi per lo spettacolo davanti a menon focalizzarti su solo una cosa.” Infatti ai lati era esattamente lo stesso spettacolo, se non che potrebbero essere state anche in numero maggiore quelle miniere. Se davanti a me si vedevano i diamanti e tutto ciò che era l'obiettivo di chi lavorava là dentro, ai lati c'erano i carrelli ed i picconi, gli strumenti con i quali si poteva lavorare e guadagnare qualcosa là dentro. Mi venne spontaneo da domandarmi cosa ci fosse allora dietro di me. Mi voltai, ma mi parve di vedere una semplice parete. Chiesi a Liuth il perché quella fosse l'unica parete senza niente da mostrare. “Ti devo fare i complimenti per essere arrivato a questa domanda. Si vede che in fondo hai un cuore positivo e devi solo credere di più in te. Per questo probabilmente sei dovuto stare tutto quel tempo al buio, senza sapere di trovarti in questo piedistallo sul mondo. Guarda, quante miniere hai davanti a te, alla tua destra ed alla tua sinistra. Non sono le stesse miniere riproposte
eh. Fai attenzione, ognuna di quelle è una miniera diversa ed il fatto che non riesci a vedere la fine del tunnel dovrebbe farti riflettere. Se vuoi vedere la parte dietro di te, devo tornare io là nel mio sacro processo. Come vedi ormai sono più ossa che altro, e poi tutto diventerà come le punta delle mie dita. State consumando cosi' tanto carbone, che ormai la terra deve ricrearlo in modo più veloce rispetto ai suoi standard. Cosi' il primo a perderci sono io. Sono prima passato da Dio della verità qua sotto a signore supremo del mondo oscuro e poi scomparirò negli anni per il vostro desiderio di progresso. Preparati allo spettacolo che state creando, poi quando sei soddisfatto prendi l'ingresso dritto davanti a te. Addio”. Questo monologo creó in me un effetto ben diverso dal primo. Non mi aveva annoiato, mi aveva quasi commosso. Un'antica divinità che per colpa di noi uomini aveva perso tutto, e stava continuando a perdere, non sarebbe dovuta essere cosi' gentile con me. Mi avrebbe dovuto uccidere, stritolare, scuoiare vivo. Invece mi aveva dato un segno di morale e poi era tornata al suo destino, senza neanche provare ad opporsi al fato. Aveva svolto il suo compito, senza dire né se né ma, ed una volta finito aveva deciso di ritornare in quel posto dove non lo aspettava altro che una triste morte, non degna di Liuth, senza neanche sapere se sarebbe arrivato qualcuno a svegliarlo. Mentre stava ritornando nella sua postazione in quella grande parete rocciosa, gli urlai di dirmi perché si comportava cosí: “perché ho fiducia nel cambiamento”. Non so se erano veramente le sue parole, non so neanche se mi disse qualcosa. Però mi piace ricordarla così quella scena. Del resto non è niente di troppo esagerato, no? Appena si rimise a posto comparvero in quello strato di roccia che prima stava alle mie spalle una serie infinita di miniere chiuse per vari tipi di incidenti e all'interno tutti i lavoratori sfruttati, feriti ed addirittura morti. Era la parte che non guardava nessuno, quella di cui nessuno osava parlare. Mi scese una lacrima alla sola visione. Notai poi che in poco tempo molte miniere erano passate da quelle altre tre pareti alla parete dei disastri dimenticati. Avevo intorno a me la situazione mineraria di tutto il mondo. Scoppiai a piangere. Era angosciante sapere che venivano in continuazione costruite nuove miniere e che dunque in ogni angolo del pianeta c'era uno sfruttamento della terra per ricavare qualche pietra preziosa o idrocarburi come il carbone. Ancora più drammatica la situazione dei disastri che accadevano in quei luoghi: per ogni tre miniere che venivano costruite una veniva abbandonata perché crollata o perché era accaduto qualche grave incidente a chi ci lavorava dentro. Sapere che a scontare la mancanza di rispetto di noi umani verso la Terra non eravamo noi, che a subire le conseguenze del nostro non sapere aspettare erano altri, che i nostri vizi e problemi si versavano su esterni alla nostra società mi faceva crescere una rabbiosa tristezza dentro. Liuth, un'antica divinità stava perdendo ogni cosa di sua appartenenza, perfino la vita, per colpa di noi stupidi umani che lassù, con i paraocchi che ci ha imposto chi ha solo interessi economici, non abbiamo più rispetto per niente e nessuno e maltrattando anche il tempo
siamo abituati ad esigere tutto subito e pretendiamo che chi ci circondi si abitui alle nostre condizioni. Il risultato? Sarà una momentanea ricchezza, con una durata molto inferiore rispetto a quel lasso di tempo, quasi infinito, di cui l'uomo non ha potuto vedere neanche il sorgere dei giorni. Crolleranno su di noi tutte le costruzioni che abbiamo fatto generando un effetto domino a cui prenderanno parte anche le miniere. Tutto ciò era quello che pensavo mentre continuava a scendermi una cascata di lacrime che, intervallata soltanto da sporadici singhiozzi sempre più frequenti, sembrava non cessare. Dovevo per forza abbandonare quel luogo o probabilmente sarei rimasto per sempre là dentro a piangere. Cercai quell'ingresso di cui mi aveva parlato Liuth in cui sarei dovuto entrare una volta “soddisfatto dello spettacolo che stavamo creando”. Completare la ricerca non fu difficile dato che sopra quell'entrata c'era addirittura la scritta luminosa “then”. Non era la fine, era un tramite. Del resto questo era il significato dei tunnel: portarmi da un luogo all'altro. Speravo vivamente che la mia destinazione fosse il banco di scuola, un desiderio veramente insolito per un ragazzo all'ultimo anno. Guardai attentamente ogni angolo di quella stanza per non dimenticarlo mai e, raccolta tutta la speranza nel cambiamento che mi aveva infuso Liuth, entrai dentro quel tunnel. L'ingresso era una porta cava, con i lati fatti di legno, ed era uguale a quelli di una miniera del Sud America che avevo visto qualche anno fa in un documentario. All'interno si percepiva un grande freddo, maggiore di quello che si trovava nella stanza principale. Si poteva procedere camminando solo molto lentamente data la luce poco diffusa che proveniva dalle candele sui muri e che faceva immaginare, più che vedere, il cammino. Non sembrava lunghissimo, dato che si notava una forte luce poco lontana. Sui muri si leggevano a malapena dei messaggi sbiaditi scritti in delle tavolette di legno bruciacchiate appese alle pareti. Sembrava si parlasse di un incendio: c'erano preghiere per essere salvati o per proteggere i propri cari rivolti a varie divinità, desideri e dichiarazioni per i posteri, disperati racconti di quello che stava accadendo riguardo la gente che stava cercando una fuga, urla che provenivano da ogni dove e scogliere di roccia intere che crollavano. La cosa che mi colpì di più però fu la scritta vicino ad una cunetta “ti ripongo qua maledetto demonio. Colpa mia che ti volli a tutti i costi e non ti seppi lasciare”. Come si fa in ogni film horror in cui chi lo guarda da casa pensa quanto è stupido il protagonista quando fa determinate azioni, senza pensarci due volte prelevai un sacchetto dalla cunetta e me lo misi in tasca, senza nemmeno preoccuparmi di cosa si trattasse. Pensavo fosse meglio dargli un'occhiata con più calma in un altro luogo e volevo abbandonare presto quello. Cosi' ripresi a camminare verso quella luce e più camminavo, più mi sembrava lontana. Era uno strano effetto ottico che mi fece iniziare a preoccupare dell'esistenza di una vera via di fuga. Mi guardai indietro e non si vedeva più l'ingresso. Iniziai a correre più veloce possibile in avanti fino a quando dieci minuti dopo, estenuato, mentre cercavo di riprendere fiato, notai che quel fascio di luce era lá fermo, aveva smesso di allontanarsi ed oltre a
non muoversi più si faceva sempre più forte. Non ero comunque tornato a vedere chiaramente ciò che avevo intorno: il predominio del buio era stato sconfitto in modo troppo netto e mi sentivo come quando ti puntano una torcia dritta in faccia. Forse era anche peggio di prima e mi trovavo a procedere quasi a tastoni. Camminavo in modo lento come è facilmente immaginabile. Ad un certo punto mi accorsi che le pareti accanto a me non c'erano più. Dato che la luce era sempre più forte pensai semplicemente che io non le vedessi. Quando capì che effettivamente le pareti non c'erano più....bum! Che botta! Mi accorsi che il pavimento sotto di me era finito quando già mi trovavo in aria, un po' come accade nei cartoni animati. Guardando sotto però il tutto mi ricordò un paesaggio rilassante come quello del Sahara. Se non fosse che, cadendo, mi accorsi che oltre alle oasi mancava anche la morbidezza del suolo sabbioso ed era decisamente più duro e doloroso. L'unica cosa tipica di un deserto che c'era in quel secondo luogo angusto era il caldo afoso e che ti porta quasi a respirare male se rimani lì per troppo tempo. Il terreno non era neanche una vera sabbia. Se passavi una mano vicino ai tuoi piedi riuscivi a sollevare veramente poco: erano pezzi grossolani, grandi sui cinque centimetri ed inspiegabilmente gelidi per un habitat del genere. Il colore sì, quello era giallo, un giallo esattamente uguale a quello dei deserti. Anzi guardando attentamente si poteva vedere che aveva zone più scure del normale e la parte che stava completamente a contatto con il terreno era puramente nera. Tralasciando quei dettagli di poco conto, andai a vedere un po' in giro per capire in quale ambiente mi trovassi. Inizialmente intorno a me non vedevo niente, oltre a una apparentemente infinita distesa di quella sabbia. L'aria doveva essere veramente densa di un nonsochè dato che non riuscivo a distinguerla dal terreno. Sembrava come se fosse riprodotto il sole in tantissimi soli di dimensioni infinitesimali attraverso un sistema avanzato di specchi. Si riusciva a guardare tranquillamente il sole senza doversi preoccupare di indossare occhiali da sole, o meglio i tantissimi soli che andavano a formare quella barriera monocromatica. Non sapevo bene in che posizione si trovassero, ma potevo immaginarmeli con un minimo di fantasia. Dunque in quell'habitat eravamo io, la distesa di sassi giallo-neri e quella strana barriera aerea. Dovevo essere felice perché almeno rispetto a prima riuscivo a vedere dove stavo. Anche se però si trattava di una visione che aveva lo stesso effetto del non vedere nulla: portare alla pazzia se non si cambiava qualcosa immediatamente. Vi posso assicurare che trovarsi in un paesaggio dove l'unica cosa che vedi è il colore dei campi di grano di Vincent Van Gogh non è per niente rassicurante. Quando l'anno scorso in gita ad Amsterdam guardai quel quadro da vicino riuscì a capire i turbamenti che assalivano quell'uomo, dal taglio del proprio orecchio alla morte suicida. Standoci dentro a delle situazioni simili non solo capisci i suoi problemi, ma capisci che non era pazzo o un visionario, ma una mente troppo geniale e che era solo nato in un periodo ed in un luogo troppo arretrati per lui. Capisci che in quelle situazioni anche tu avresti fatto la stessa cosa. Soprattutto se al posto del
precedente rumore di formazione di stalagmiti e stalattiti, senti una voce con un volume così basso che la percepisci solo quando non ti concentri nei tuoi pensieri. Una voce che però non si tratta della coscienza. Una voce che però non è interna alla tua mente. Una voce che viene da fuori. Una voce che viene da chissàqualeluogo. Riuscivo a malapena a percepire le lettere, era veramente troppo bassa per raccoglierle, metterle insieme, formare la frase e capirne il significato. Cercai allora di decifrare almeno la provenienza e di dirigermi verso di essa. Era l'unica cosa che emanava vita in quel luogo che era un riprodursi all'infinito di un mini sé stesso. Non potevo permettermi di sbagliare direzione dato che, non sapendo distinguere una zona dall'altra, non potevo in caso sfortunato tornare indietro sui miei passi e ricominciare quella ricerca. Dovevo indovinare con estrema precisione ogni singolo movimento. Quindi con estrema attenzione iniziai a muovermi. Non posso farvi capire il mio cammino con indicazioni spaziali di alcun tipo dato che il terreno era anche piatto e dunque neanche io capivo realmente quanto mi ero allontanato dal punto in cui ero caduto. La voce però iniziava a farsi più forte. Stavo camminando verso la direzione giusta. Riusci' a capire qualcosa più rispetto a prima. Capivo quasi tutta la frase. Avvicinandomi avevo capito tutto, solo non mi aspettavo di trovare questa visione. Incredibilmente. Sfortunatamente. Inesorabilmente. Tristemente. Mi arrivò un gran senso di sconforto. Ero disperato: un amaro malumore mi stava abbattendo nella mia depressione. Iniziavo a sentire dolore fisico, ero deluso. Gli idrocarburi
finiranno presto è tutta colpa dell'uomo ma possiamo ancora cambiare rotta. Quello che sentivo era una frase che non mi mancava neanche un po'. Soprattutto adesso causava un mal di testa incredibile il fatto che non c'erano più i toni, le variazioni di voce, la pronuncia nordica di Belardinelli. Avrei pagato per risentire la voce di quella testa pelata piuttosto che sentire quello stridulo rumore meccanico di una voce puramente robotica. Gli idrocarburi
finiranno presto è tutta colpa dell'uomo ma possiamo ancora cambiare rotta . Di là nel mondo di noi umani non ero nessuno, contavo quanto una persona qualunque e neanche come una di quelle di maggiore rilievo. Qua neanche la natura ha più valore di una persona singola. Quindi ero solamente io e quella voce. Che anche se mi ero fermato appena l'avevo riconosciuta scioccato, aumentava ogni volta il suo tono. Gli idrocarburi finiranno presto è tutta colpa dell'uomo ma possiamo ancora cambiare rotta. Però era diverso dalla voce che sentivo in classe. Ogni volte che finiva la frase si fermava, regnava il silenzio per qualche istante e poi si ripeteva la frase partendo in modo lento. Più la voce diventava alta, più il tempo tra una frase e l'altra aumentava. Si trattava di un'anomala relazione che sembrava urlarmi “muoviti a fare qualcosa prima che il volume diventi troppo alto anche per te”. Cosi' ripresi a correre verso il punto da cui proveniva la voce. Era un luogo preciso da cui arrivava. Veniva prodotta da un piccolo rettangolo di cristallo che sembrava avere l'aspetto di un carillon. L'utilità dell'oggetto era quella, ma mancava ogni tipo di ingranaggio o parte metallica strumentale e non
c'era neanche una manovella esterna. Era un carillon cavo. Mi fece tornare con la mente all'altro oggetto che insolitamente avevo trovato: quel sacchetto che era dentro la cunetta del tunnel all'uscita della miniera e che ancora non avevo curiosato all'interno. Presi allora il sacchetto dalla mia tasca dei pantaloni, tolsi l'elastico che era lì a chiusura e lo aprii con molta attenzione, o almeno quella che un tipo sbadato come me può riporci. Proprio il risultato fu pessimo: cadde tutto il contenuto per terra, mischiandosi con quei grandi sassi di sabbia giallo-nera e mi rimase in mano solo un foglietto che recitava così “Se sei arrivato fin qua hai visto già abbastanza. Non è da tutti trovare l'astuzia per giungerci e soprattutto avere il coraggio di reggere a ciò che vede. Direi che ti meriti un bonus: se vuoi puoi tornare nel tuo mondo, per finire questo strano viaggio più avanti negli anni. Oppure puoi andare avanti qua, cercare di capire cosa è quel fiume nero che si trova a 1000 metri da qua, studiare questo oggetto di cristallo che hai davanti, esaminare il contenuto del sacchetto che ho riposto io per te nella cunetta, incontrare magari qualcuno come Liuth, non sapendo se quel qualcuno sia buono o malvagio, e cercare di tornare in un altro momento alla tua vita. Non preoccuparti io ti guardo sempre e quando vorrai potrai trovare un modo per tornare qua, ma non posso assicurarti che potrai fare con certezza sempre il viaggio inverso. Se vuoi tornare dalla tua dolce Eleonor arriva al fiume e tutto sarà più facile. Firmato: il tuo caro anonimo”. Non ne potevo più di stare là ed aveva colpito il bersaglio chiunque fosse quell'anonimo: avevo bisogno di rivedere Eleonor. Raccolsi tutto quello che mi era caduto per terra, lo infilai nel sacchetto di e misi tutto nel parallelepipedo di cristallo. Mi diressi poi verso quell'insolito fiume di colore nero e denso, troppo denso per nuotarci dentro. Quello che accadde dopo non me lo ricordo. Il frame successivo nella mia memoria è un susseguirsi di immagini velocizzate al quadruplo della loro velocità di cosa era accaduto al mio corpo in quel giorno nel mondo degli umani: il rimanere fisso a guardare dritto davanti a me, l'iniziare ad urlare in mezzo alla classe, Belardinelli che mi fece portare all'ospedale, il mio cadere dalla macchina appena arrivato lì e poi tutti stupidi processi burocratici e visite inutili per capire quale fosse stato il mio problema. Fino ad adesso. Mi trovo senza maglietta seduto sul lettino del dottore Rimè, uno dei medici più prestigiosi al mondo venuto dalla Francia per studiare una determinata patologia secondo lui ritrovabile solo qua a Perugia. Io fisso a guardare davanti come per tutto il giorno e lui che prova a toccarmi in varie parti del mio corpo con i suoi strumenti da scienziato pazzo ed annota ogni mia reazione, o meglio non reazione, ai suoi stimoli. Appena riesco a tornare pienamente cosciente in me mi alzo dal lettino, prendo la maglietta appoggiata sulla sedia del dottore, ringrazio, e salutandolo con un occhiolino lascio il suo studio medico. Mi dirigo poi verso le scale antincendio dell'ospedale dove posso chiamare Eleonor. Uscendo però il mondo non mi sembra per niente uguale a quello di prima. Un mondo insolitamente cupo, con un cielo scuro per essere le cinque del pomeriggio di un giorno di metà primavera. Gli edifici della città emanano un'aura più triste degli altri giorni e
le voci della gente che passa di là mi sembrano solo un sommarsi di vari produttori di confusione misti a quei fastidiosi rombi di macchine. Vedo che Eleonor non mi aveva risposto e probabilmente era già negli spogliatoi per prepararsi per la gara di ginnastica ritmica. Rimetto il cellulare nella tasca della mia giacca, scendo le scale e mi incammino a piedi verso la mia casa distante poco più di mezz'ora da là.