STORIE MUTE di Aureliana La Pusata
“Tutte le sere, alle sette e trentasette del martedì e del venerdì una ragazza con il cappotto a fiori prende il bus 14 in direzione Stadio. Tutti i giorni, alle otto e quarantatrè, o alle otto e cinquanta, una bici sfreccia verso la zona ovest della città. Tutti i giorni, alle sei e quarantacinque, un ragazzo sulla trentina apre la saracinesca del bar all’angolo, poi s’accende nervosamente una sigaretta e aspetta il primo cliente del mattino: è un professore sulla cinquantina con gli occhi grigio-ghiaccio, ordina un macchiato e lo beve amaro e bollente, ma prende sempre una bustina di zucchero. In ogni istante, a questo incrocio, si intrecciano segreti, si allacciano in un groviglio inestricabile migliaia di storie, migliaia di vite. Senza toccarsi, sfiorandosi appena o rimanendo legate per sempre. E noi, le Torri, stiamo qui, come giganti, a guardare il mondo scorrere sotto di noi, a vedere cambiare tutto, mentre restiamo erte sulle nostre possenti fondamenta, svettando tracotanti verso il cielo. E tu. Proprio tu, passante di cui non conosco neppure il nome. Fermati un momento. Fermati un momento e smetti di guardarti i piedi. Per un attimo, uno solo, alza gli occhi e ascolta. O lascia che io ti ascolti, se preferisci. Raccontami la tua storia, o ascolta una delle migliaia che hanno conservato le mie mura per così tanto tempo. Sono qui da quasi un millennio, e parlo solo del tempo che ho passato da Torre. E pensa a quante storie potrei raccontarti se tu fossi disposto a regalarmi un po' del tuo tempo. Pensa a quanti occhi ho conosciuto, e se puoi, regalami i tuoi. Ed ecco che allora rallenti, chiamato dalla mia voce muta, sfiorato dalla mia possente immobilità. Rallenti e vedo i tuoi occhi. Sono occhi scuri scuri. E forse penserai “occhi banali, dopotutto” ma so che sono occhi diversi da tutti quelli che ho visto in novecento anni, e so che dentro, in fondo in fondo, c’è una grande storia. Ma non sei qui per raccontarmela, vero? Sei qui per ascoltare. Come un bambino che cerca una storia della buonanotte perché teme le ombre della sera… e allora io assolvo il mio compito di raccontarti le stelle. Tempo fa un uomo indugiò proprio qui sotto, io volli raccontargli una storia e lui mi regalò poche intense terzine. Sai, non la racconto più da secoli, forse è ora di rispolverarla, puoi, se ti piace, chiamarla “La novella del Gigante”. In un anno così lontano che quasi sfugge alle leggi del tempo era re della Libia un gigante, figlio del Dio del Mare e della Madre Terra.
Era alto sessanta braccia e tutti lo pensavano invincibile, e lui certo non voleva che altro si pensasse. Ma la sua forza veniva tutta da colei che lo aveva generato, la Terra gli restituiva vigore ogni volta che lui toccava il suolo. Molti anni aveva trascorso chiamando a sé ogni straniero che toccasse il suolo della Libia, proprio come ho fatto io con te… ma certo non per raccontargli storie. “Ehi, straniero!” gridava col suo vocione possente “Avvicinati un po'!” E lo straniero si avvicinava, un po' intimidito da quella figura possente e autoritaria. “Dimmi, straniero, perché calchi il suolo di Libia senza il permesso del suo re?” Ma non era una vera domanda, era solo un modo per attaccar zuffa. Certo della sua invulnerabilità, Anteo, questo era il suo nome, sfidava ogni viandante a combattere. E così passavano i giorni e gli anni nel regno di Libia. “Ehi Straniero!” E quello si fermava, e si sfidavano, e Anteo vinceva. “Ehi, Straniero!” E una nuova battaglia. E una nuova vittoria. Ma un giorno a quel richiamo aveva risposto una voce diversa, era un uomo tutto muscoli, armato di una clava, e portava come mantello una pelle di leone. “Ehi, straniero!” lo aveva apostrofato Anteo. “Ehi, gigante.” Aveva ribattuto quello, e questa volta, era stato lo straniero a sfidarlo. Ed era cominciato il combattimento. E, immagina, immagina un uomo contro un gigante alto 60 braccia, immagina lo stupore di quell’uomo quando riuscendo per un momento a battere quel colosso, vedendolo accasciarsi sul suolo notava che subito riprendeva vigore, e ad ogni colpo che lo atterrava nuova linfa scorreva nelle vene del gigante. E lo straniero, dopo diversi colpi, aveva finalmente capito che a rigenerare il mostro non era altro che il contatto con la terra, e così lo aveva sollevato dal suolo, e colpito con la clava fino ad ucciderlo. Ovviamente, l’eroe, l’uomo, o meglio, il semidio coraggioso che sconfisse il gigante era Eracle, e questa storia me la racconta spesso piangendo quella stessa Madre Terra che generò Anteo così tanto tempo addietro. Me la racconta e dice che se gli avesse insegnato ad abbandonare il suolo forse sarebbe ancora il suo bambino. E quel senso di protezione che era scaturito da lei si era trasformato nella condanna a morte del Gigante. Era solo una madre dopotutto, che per tutta la vita aveva cercato di proteggere il proprio figlio… me lo dice piangendo la Terra “Quando generai il mio bambino…” e lo ripete all’infinito “… credevo di poterlo proteggere per sempre. E per perderlo sono bastate poche spanne.” E tu, passante senza nome, mi guardi con i tuoi occhi muti, e a me non resta che chiederti: quanto lontani siamo dalla Madre Terra? Possiamo resistere ai colpi di Eracle? Chissà se riesci a sentire le parole nel mio silenzio. Magari stai pensando a te, ai mille segreti che non vuoi raccontarmi perché temi diventino storie
per altri. Perché hai paura che da segreti si trasformino in leggende. Dopotutto ti ho appena venduto il dolore di una madre in cambio di qualche attenzione, ma la verità, amico mio, è che noi siamo le nostre storie. E per quanto quello che siede oggi accanto a me col naso all’insù non sia lo stesso uomo che con gli stessi occhi, tutti gli altri giorni, ha scelto di guardare in basso, sono state le storie che ha vissuto a trasformarlo. Anche quest’ultima leggenda probabilmente ti cambierà… sei sicuro di non voler raccontare..? Capisco, non ti fidi ancora… Cosa c’è dentro i tuoi occhi? Perché non riesco a leggerci dentro? Perché hai chiuso le porte? Perché sento la risacca del mare dell’anima ma lo vedo coperto da uno scoglio? Da cosa ti proteggi? Da cosa stai scappando? Ti invidio, sai? Io non posso scappare. Tempo fa ci provai, a scappare. Ed eccomi ad essere una Torre mozzata. Il Mondo corre in fretta, dovresti essere a studiare forse, o forse a lavoro. Dovresti essere da qualche parte, certo, qualcuno ti aspettava dall’altra parte della strada: un’amicizia? Un amore? Un’opportunità? Ti ho visto esitare quando ti ho chiesto di fermarti ad ascoltare, so che hai pensato di essere folle, di stare solo immaginando la voce di una torre… eppure sei qui. Non so nulla di te, ed è la prima volta che mi capita. Gli altri occhi mi parlano, i tuoi no, sono restii a confessarsi. Tempo fa una piccola rondine dalle piume spettinate mi ha raccontato del volo di un aquilone. Quel giorno d’autunno sembrava venuta da me per custodire una storia che temeva potesse andare perduta con lo scorrere del tempo: “Ehi, Garisenda” mi aveva detto “Ho saputo che conservi le storie, ed io ne ho una po’ triste, ma prima di partire volevo che si conservasse, tra noi rondini si sta perdendo l’abitudine di tramandare vecchie leggende, me la raccontava al nido mia nonna, ma oggi mia madre mi ha detto che qualcosa è cambiato, e se il mondo cambia cambiano le storie…” Ed io le avevo chiesto di parlare, di raccontarmi quella storia triste e mutevole. Ha volato intorno a me ad ampi giri senza fermarsi, e nel frattempo raccontava. “Tanto tempo fa una bambina dai capelli rossi aveva ricevuto in dono per il suo settimo compleanno un aquilone, e suo padre, nelle giornate di brezza leggera, la portava poco fuori città per far volare in cielo quell’aquilone di quattro colori con i nastri arcobaleno. C’era un campo molto grande e in mezzo ci passava un piccolo ruscello. Ci andavano tutte le domeniche di primavera e la bambina giocava ad inseguire le rondini. Il campo sembrava essere una specie di terra di nessuno, bastava allontanarsi un po' dalla città ed ecco che compariva all’orizzonte un angolo verde e terra, azzurro e blu. Noi rondini, su un vecchio ulivo, ci facevamo il nido.” Quando gli chiesi perché non cambiassero posto ogni anno, come molti altri uccelli lei rispose: “Oh, è vecchia abitudine ormai, tornare al vecchio nido, ci permette di sentirci a casa.” E poi continuò:
“Mia nonna rondine diceva che era un gioco di tutte le rondini gareggiare con gli aquiloni, e che quella bambina l’avevano vista crescere. E l’aquilone splendente e perfetto nella domenica del suo settimo compleanno s’era trasformato negli anni, e s’era riempito di toppe, e nuovi nastri s’erano aggiunti, e date cucite o scritte a pennarello. Avevano preso a chiamarlo “Arlecchino”, a noi rondini piacciono le maschere e qualche volta ci accomodiamo sui cornicioni dei teatri. E così a quella vela variopinta avevamo dato il nome della maschera, e al nido si diceva che le rondinelle, per imparare a volare, inseguivano Arlecchino. Quella bimba dai capelli rossi era venuta tutte le domeniche per sette anni, fino al suo quattordicesimo compleanno. Nonna rondine spiegava che di certo l’avevano assorbita tutte quelle faccende, quegli intrighi, quelle avventure, che attirano i bambini quando credono di essere grandi, e ci disse di non preoccuparci, e che ormai da molti anni le rondinelle imparavano a volare senza l’aiuto di Arlecchino.” Era una piccola, bella storia. Ed io, ingenua Torre, che sa del mondo soltanto quello che gli scorre sotto e quello che gli raccontano le voci degli altri, credevo fosse una storia finita. Ma la piccola rondine aveva ancora qualcosa da dire. “Non abbiamo mai smesso di fare il nido nello stesso posto…” la voce le usciva dal becco con un filo di malinconia, e continuando il suo volo circolare s’era andata posare su un muretto poco distante da me: proprio dove tu, passante dagli occhi indecifrabili, siedi adesso ad ascoltare la sua storia. “… o meglio, non hanno smesso di farci trovare un nido pronto. Non c’è più nulla lì, una grande distesa di asfalto a righe blu, è un parcheggio inglobato in una metropoli. Qualcuno sapeva di certo dove fosse la nostra casa prima che arrivasse il cemento e aveva appeso ai lampioni tristi nidi prefabbricati. E la nonna, che è una nostalgica, non vuole spostarsi. Vede che tutto è cambiato, che quello non è più il nostro ulivo, che se il primo volo va male non si cade sulla terra o fra i cespugli, ma su quella scacchiera grigia e blu. Però è sempre lì, ad aspettare il suo Arlecchino che le ha insegnato a volare.” Ma la rondinella non mi ha raccontato questa storia per dirmi della vecchia rondine nostalgica con un ciuffo di penne grigie sul capo, me l’ha raccontata per un altro motivo. Quel giorno, alla fine della storia, mi disse di aver visto una donna dai capelli rossi attraversare il parcheggio con un bimbo per mano, gli aveva appena comprato un aquilone. Raccontava al bambino una storia vecchia, vecchia come il vecchio aquilone rattoppato mille volte, raccontava di una bambina che danzava con le rondini, e il bambino non faceva che chiedere se potesse provare subito a far volare il nuovo gioco più in alto di quando la madre non avesse mai fatto. “Forse una domenica qualunque di tanti anni fa avremmo potuto giocare insieme anche qui” gli aveva risposto la donna “… ma adesso per imparare a volare, dobbiamo andare un po' più distanti.”
Ho visto un guizzo nei tuoi occhi. Forse stai cominciando a fidarti di me. Ma non sono qui per tradirti, te l’ho già detto. Tutte le mie storie sono tue, e di chi è pronto ad ascoltare.
Ti vedo mentre aggiusti il maglioncino blu, giochi con le dita della mano come se dovessi tenerne il conto, stai pensando, stai decidendo se questa vecchia imponente Torre merita… se merita il tuo tempo, o la tua storia. Vedo che ti stai alzando in piedi, in uno slancio di sicurezza improvvisa. Cerchi i miei occhi, ma non ci sono, dove sono gli occhi di una torre? “Quante storie conosci?” mi domandi, è quasi un grido. Qualcuno, tra gli altri sordi passanti si volta a guardarti, sente solo il tuo grido, non la mia voce, e allora soffoca una risatina in un colpo di tosse. “Quante storie conosci?” mi domandi appoggiando una mano alle mie mura. “Più di quante potresti ascoltarne restando qui seduto per una vita.” ti rispondo. “Sono soltanto io a sentire le tue storie? O tutti, anche quelli che non si fermano, riescono a sentirti?” “Chi comanda al racconto non è la voce, è l’orecchio.” Ti dico. “Ehi, ma questo è Calvino!” “Chi ti dice che Calvino non sia me?” “Ti ha ascoltata anche lui?” “Questo non te lo dirò mai.” “Quanti altri? Quanti altri si sono fermati?” “Tutti quelli che avevano una storia che gli premeva nel petto per gioia o per tristezza, tutti quelli alla ricerca di conforto, tutti quelli che avevano perso la strada, l’amore, le muse. E tutti quelli che avevano appena ritrovato una di queste cose o tutte insieme.” “Ed io, quale sono di questi?” Non so rispondere a questa domanda, mi spaventano gli occhi con cui mi guardi. Non sei qui per raccontare ma per nascondere, e ho paura. Paura che le mie storie non ti bastino, paura che sia questo il punto in cui finisce la storia, mi neghi il tuo racconto e le mie mille e una notte giungono all’ultima pagina. “Sei il primo di quelli che vogliono velare e non svelare.” Dico, rimanendo ferma sulle mie fondamenta. Sei ancora appoggiato con la mano alle mie mura, sembri diventato di ghiaccio, ma il tuo volto è scarlatto. “Non ho paura di nessuna delle mie storie” mi rispondi serrando le labbra. “Tu… tu non hai una storia tua; dici tanto che dovrei raccontarmi. Perché non ti racconti tu?” “Hai ragione, non ho una storia mia, o meglio, non potrei raccontarla ad uno sconosciuto.” Ti dico “Ma dopotutto… cos’ho da perdere? Cerco di essere forte adesso, non lo sono stata quand’ero ancora giovane. Ho temuto il cielo e me ne sono privata per sempre. Sarei potuta essere Arco, o Faro, o Porta. Ma qualcuno mi volle Torre. Avrei potuto vedere il trionfo, guidare le navi, difendere città. Sono nata vedetta per conservare le storie del mondo, ma ci vuole coraggio a guardare tutto dall’alto. Giorno dopo giorno i miei occhi si alzavano di qualche metro, e di qualche metro si allontanavano dalla realtà, e non potevo permettermelo, io che prima ero stata pietra e sabbia non potevo separarmi dalla terra, tanti secoli fa mi sentii tremare le fondamenta al solo pensiero di star diventando qualcosa per cui non credevo di essere nata. Tentai con tutte le mie forze di rimanere
ancorata alla terra, di avvicinarmi ad essa. E così qualcuno tra gli addetti ai lavori disse una frase che suonava più o meno così “Le fondamenta cedono, non possiamo farla più alta”, e mi avevano lasciata a metà. Non puoi aggiustare qualcosa che s’è incrinato alle fondamenta, bisogna abbatterlo e ricominciare da capo, oppure trasformare un’imperfezione in bellezza. E così, mentre la mia compagna cresceva diritta e alta verso il cielo, io mi accontentavo di restare mozzata e di raggiungere la perfezione per un’altra via.” Ti vedo perplesso, qualcosa ti tormenta. “Se l’altra torre è più alta di te, perché non è lei a raccontare storie?” Ecco cos’è. Perché io. Perché è la Torre mozza ad avere voce, e non la sorella perfetta. “Perché lei riesce a vedere il mosaico del mondo.” Ti dico. “E tu?” “Io guardo le tessere.” Taci. Ti sei allontanato da me di pochi passi. “Se… se oggi andassi via… ti troverei domani?” “Tutto cambia, io resto.” Vedo che ti allontani in un giubbotto verdastro, a passi lenti, come se sperassi che io, immobile Torre, potessi prendere vita per inseguirti, per porgerti una mano, per darti un abbraccio. Sei fuggito perché stavi per raccontare, hai imparato a fidarti, e so che tornerai. Sono le sette e trentasette, è la sera del martedì, una ragazza con il cappotto a fiori sta prendendo il bus 14 in direzione Stadio. È la mattina del mercoledì, otto e cinquanta, una bici sfreccia verso la zona ovest della città. Poco fa, alle sette, il solito ragazzo ha aperto la saracinesca del bar all’angolo, un po' in ritardo rispetto al solito, non ha tempo di fumare. Il prof questa mattina ha preso due caffè da portar via, uno lo ha zuccherato nella tazza. Si volta a guardarmi come si fa con una vecchia amica. “Andrà bene professore.” Gli sussurro. “Il tuo amico tornerà” mi risponde. “Come fai a sapere di lui?” gli domando. “Mi hanno fatto una domanda su di te, non ci si interessa da un giorno all’altro alla Garisenda se non ti ha parlato.” Sorrido con ogni trave ed ogni mattone. “Va’ da lei” lo intimo. Lui annuisce e va. Forse nessuno mi sta ascoltando in questo momento, forse sto raccontato al vento, ma a quasi mille anni la memoria perde colpi e per ricordare si deve ripetere, e ripetere ancora. E allora al vento affido un’altra storia. Un signore distinto sulla settantina in abito grigio passa di qui tutti i giorni all’alba. Viene sempre in orari in cui sa non troverà nessuno nella piazza che mi ospita, così da poter parlare. Qualcosa lo
preoccupa. Ha dedicato tutta la vita allo studio delle fonti di energia rinnovabile perché una volta, da bambino, un buffo giocoliere gli aveva detto che per salvare il mondo sarebbe bastato un raggio di sole. “Non sei più felice in un bel giorno caldo e luminoso?” gli aveva domandato, e a una sua risposta positiva aveva detto sicuro “E allora il mondo può vivere di luce.” Aveva scoperto con gli anni che il mondo non viveva di luce, ma che avrebbe potuto farlo, avrebbe potuto vivere di luce, di vento, vivere del proprio stesso calore e in mille altri modi. Ma il suo scopo, quando viene qui sotto, non è quello di raccontarmi l’ultima sua grande scoperta. Spesso si mette a raccontare avventure di gioventù, strane bravate di quando per salvare il mondo si vestiva di lino e andava in giro a fare l’hippy. Viene qui e mi dice di come le cose più belle le abbia vissute correndo o andando in bicicletta. Da qualche giorno però siede qui davanti e tace. Sa bene di potermi parlare, ma esita e rimanda. E rimane qui davanti per qualche minuto prima di scomparire chissà dove. Stamattina però ha deciso che merito un’altra delle sue storie e, stranamente, non si tratta di una storia di gioventù. Mi dice che è venuto da me perché nelle ultime notti è tormentato da incubi apocalittici. Sogna città cristallizzate in cui non si muove più nulla, con le auto ferme e vuote, e una gran folla riversata nelle strade, disorientata. Dice che tutti i sogni iniziano come se fossero reali, si alza e dovrebbe andare a lavoro in facoltà, prende la bici e si getta nella nuvola grigia dei fumi del traffico. Ma quella mattina c’è qualcosa di strano, tutti sembrano diretti ai distributori di benzina. Dice di vedere gli uomini combattere tra loro per recuperare una tanica, auto che si fermano perché a secco, e la città nel panico. Pian piano vede i volti degli uomini e delle donne svanire, trasformarsi in plastiche cere senza occhi, e vede le sagome confondersi nel fumo. Gli sembra che sia il fumo stesso a lottare. Schiere di fumo si contendono gocce di carburante. Guarda, da Torre, cosa mi tocca fare. Devo anche interpretare i sogni. Ma se invito i miei interlocutori a confidarsi con me devo poi dare tutta me stessa per aiutarli. So che quello che preoccupa il distinto dottore col passato da hippie che ho davanti non è certo una piccola città che rimane senza carburante per un giorno. Più si scervella sulle fonti alternative più immagina un mondo al limite. È questo che lo spaventa davvero, che si arrivi ad un punto in cui l’energia che ci porta avanti finisca… e sia troppo tardi per tornare indietro. Ed ecco che l’umanità pian piano perde i caratteri umani fino a scomparire in una nuvola di fumo. “Professore, le ho mai raccontato la novella della margherite?” gli domando. So che l’ho fatto, mille e mille volte. Ma mi piace l’espressione che assume il suo volto quando glielo chiedo, come se al solo ricordare quella storia le sue preoccupazioni perdessero di consistenza e le sue insicurezze si trasformassero in coraggio. “Grazie amica mia” si limita a dire, e lo dice ad alta voce. All’alba nessuno può sentire un vecchio professore parlare da solo con un rudere di mille anni. Poi lo vedo allontanarsi e so che almeno per un altro giorno, un piccolo angolo di mondo è al sicuro sotto le ali di quell’uomo vecchio vestito di grigio.
Sei tornato. Ma io taccio. Non ti chiamo. Non sussurro neppure. Sei tornato perché hai avuto fede in quella che so per certo hai creduto un’allucinazione. E allora voglio tacere. Voglio conoscere fin dove riesce a giungere il tuo coraggio. Ti appoggi alle mie mura, proprio sotto le terzine del Poeta, mi dai le spalle ma sei a contatto con me. È il tuo modo di dirmi che un po' ti sei affezionato a questa vecchia Torre. “Sono tornato. Ma tu ci sei ancora?” Non rispondo. Non è il momento. “Devo sapere se riesco ancora a sentire la tua voce. Se puoi ancora regalarmi le tue storie.” Vorrei sapere di più, ma hai bisogno di me, ed io sono amica di chi sa ascoltare. “Bentornato.” La mia voce sembra echeggiare nell’aria, chissà se qualcun altro mi ha sentita. Ti vedo sollevato. Il peso che grava sulle mie mura si è fatto più leggero. Ti allontani e ti metti a sedere per terra, con le gambe incrociate. Adesso siamo alla distanza giusta. Hai la trepidazione di chi attende una storia quando sotto le stelle si siede intorno a un fuoco. “Mi dispiace di averci messo tanto.” Mi dici “Ma…” Non ti lascio finire, sei tornato, è questo l’importante. I tuoi occhi sono ancora indecifrabili, ma la tua voce è più chiara, e mi guardi spesso. Non hai più paura di me, forse stai imparando a non temere te stesso. “Meriti un’altra storia.” Dico. E per tua fortuna proprio all’alba di questa mattina m’è tornata in mente la novella delle margherite. Sempre per tua fortuna i protagonisti stanno giusto passando mano nella mano qui accanto. Lei è in abito da sposa. Eh sì, che strana storia la novella delle margherite. È accaduta qualche anno fa, ma quante volte ho potuto raccontarla! “Vedi gli sposi che si stanno avvicinando?” ti domando. Tu annuisci, non vuoi parlare da solo di fronte ad una piccola folla di donne e uomini in abiti eleganti. Ho visto la storia di quegli sposi prima ancora che sapessero che sarebbero diventati tali, lei lavorava nella libreria qui di fronte, lui, invece, era solo un accanito lettore e studente di botanica. Era venuto alla libreria tutte le settimane per un intero anno, comprando sempre un libro diverso. Divorava romanzi con la stessa voracità con cui consultava i testi di botanica. Avrebbe saputo dire, se gli fosse stato chiesto, il nome di qualsiasi fiore, albero e frutto del pianeta, ma questo è abbastanza plausibile per un botanico. Ma avrebbe anche saputo recitare a memoria l’incipit di ogni romanzo che aveva letto. Che la sua memoria fosse fuori dal comune però non è la parte della storia che ci interessa. La cosa interessante è che quel lettore e studioso così vorace di conoscenza non avesse in un anno trovato il coraggio di chiedere il nome alla bella ragazza che ordinava i libri sugli scaffali ogni giovedì pomeriggio. E la cosa ancora più interessante è che lui, da quando l’aveva vista, i libri andava a comprarli solo di giovedì. Ma chiedere il nome… NO! Sarebbe stato troppo. Una volta le aveva chiesto consiglio per un libro. E l’aveva comprato. Salvo poi accorgersi una volta a casa che lo aveva letto e riletto talmente tante volte da non saperne a memoria solo l’incipit ma almeno un buon centinaio di pagine sparse.
E poi a presentarsi s’era decisa lei. Perché dopotutto, il giovedì, si mettevano spesso a parlare delle sue letture, mentre lei correva per gli scaffali e lui la seguiva tenendo in mano l’ultimo libro scelto. E quando lei gli disse di chiamarsi Margherita, lui pensò subito “Lei è la donna della mia vita.” Certo, è un po' strano decidere il destino su un nome, ma dopo un anno di chiacchierate anonime per gli scaffali di una libreria si arriva a conosce la persona che condivide con te gli istanti. E poi ci aveva visto giusto… e oggi è il giorno in cui la sta sposando. Si diedero il primo bacio che era un giorno di maggio, lo so perché vennero qui da via Castiglione e lui dal posto dov’erano stati, di certo i giardini, le aveva colto una margherita e gliel’aveva messa tra i capelli. Non pensai un solo istante fosse stata una mossa banale. Dopotutto: metti un fiore tra i capelli di lei, fingi di aggiustarlo, le fai una carezza, la guardi negli occhi, e scatta il bacio. Funziona così, ne ho visti a milioni, di baci, in novecento anni. E così era stato il loro. Qualche anno dopo lo vidi venire da solo e in lacrime. Era sera. Mi parlò lui per primo, senza che gli avessi mai parlato. “Hai visto il nostro primo bacio, ma forse tutto sta finendo” mi disse, e non si stupì quando gli risposi. “Cos’è successo?” “Non so… è come se stesse avvizzendo tutto il mondo intorno a noi…” E a me tornò in mente quel gesto, quella margherita colta chissà dove. “Sai… quando cogli un fiore devi tener conto che stai limitando il suo tempo.” Gli risposi quasi senza pensare. Lui s’alzò e non disse nulla. Imboccò via San Vitale e sparì all’orizzonte. Per un po' non lo vidi. Poi, in un giorno come tanti, lui la portò qui sotto, ed io capii che tutto era andato bene. Fece uno di quei gesti plateali, che diventano monumentali quasi come una Torre, che restano nella storia. Si inginocchiò di fronte a lei e le chiese di sposarlo. Dentro uno scrigno di legno intarsiato stava un anellino d’oro, e al posto della pietra vi era incastonato un seme di margherita. Lei si era commossa e gli aveva detto di sì. Ed ora eccoli lì, hanno appena coronato il loro amore. Il giorno della proposta mi raccontarono insieme il significato dell’anello con il seme. È loro la “novella delle margherite”. Dopo che il ragazzo, disperato, mi aveva parlato quella sera, le mie poche parole gli avevano fatto capire che per riconquistarla non sarebbe servito a nulla un mazzo di margherite, di rose o di chissàccosa. E la mia frase, quasi buttata lì sovrappensiero, aveva fatto scattare in lui un’idea che maturava già da un bel po' di tempo, senza saperlo. L’amore non si strappa, l’amore si coltiva. E nella sua mente s’era fatta strada l’idea che forse doveva solo rimediare allo strappo di una margherita il giorno del primo bacio per riconquistarla.
Per quanto ne sapevo io, immobile torre, avevano rotto da mesi. Non li vedevo più passare mano nella mano qui sotto, lei lavorava ancora in libreria, e lui andava ancora lì di tanto in tanto. Ma non c’era nessun bacio sulla soglia, nessuna carezza rubata tra gli scaffali. Quello che non sapevo era che ogni istante che lui aveva passato distante da lei stava preparando la più grande dichiarazione d’amore di cui io avessi mai sentito parlare fino al giorno della proposta di matrimonio. Lui non era mai sparito dalla vita di lei, come fosse una missione, andava lì per parlarle, scambiavano due parole con un po' di imbarazzo e poi lui fuggiva via. Ma agiva con determinazione, quasi fosse fiducioso per qualcosa che stava per accadere, che sarebbe di certo accaduta. Erano ormai passati mesi da quando non stavano più insieme, e lui era entrato in libreria con un’aria del tutto diversa. Indossava una camicia azzurra, un paio di jeans e il suo sorriso migliore. “Devi venire con me Marghe” le aveva detto. E lei aveva esitato… dopotutto avevano scelto di chiudere… per una qualche ragione che non mi dissero mai. Avevano scelto insieme, ma era evidente che nessuno di loro lo volesse, solo… da quella sera in cui lui mi aveva parlato qualcosa s’era incrinato e in quei lunghi mesi non avevano tentato di rimettere in piedi la loro storia. “Se ti fidi ancora un po' di me, seguimi, ti prego” aveva ripetuto lui, ma non era una supplica, era una richiesta felice, nei suoi occhi c’era solo speranza, nessun velo di tristezza, quasi una sicurezza celata. E lei l’aveva seguito con il timore di chi, innamorato, ha paura di soffrire ancora. E con la gioia di chi, innamorato, vede tacitamente ricambiato il proprio amore. Così lui l’aveva portata ai giardini e guidata di corsa oltre il ponticello. Di fronte a lei ecco un’immensa distesa di margherite bianche e gialle. “Ne ho piantata una per ogni ora che siamo stati distanti in questi mesi” aveva detto lui. Lei era rimasta in silenzio. “Non ho mai smesso di amarti Margherita.” Lei fissava ancora quel tappeto d’oro e di neve. Il cuore le batteva forte. Ma non riusciva a capire… non capiva perché… “Il giorno del nostro primo bacio ti ho colto un fiore… è stata una dichiarazione d’amore da ragazzini… non posso continuare a strappare eternità dal mondo che ci circonda, io voglio generarla. E finchè ci sarai tu con me non vorrò più strappare i germogli, ma permettergli di diventare bellissimi fiori. L’eternità è la cosa più fragile che esista, perché è tutta nelle nostre mani. Io non voglio regalarti tutti i fiori del mondo. Io voglio regalarti il tempo e i semi. So che cosa è andato storto. Da quel fiore colto il giorno del primo bacio ho continuato a raccogliere ogni cosa, senza seminare nulla. È per questo che tutto sembrava diventare arido tra noi e intorno a noi. Se colgo amore, devo seminare amore. Ed io ti prometto Margherita, che se sceglierai me, non coglierò nessun fiore quest’oggi. Ma seminerò un intero altro giardino.” Si erano rimessi insieme così. Ed erano stati felici per anni. Fino alla proposta con l’anello dal seme incastonato. Erano stati così felici che credevo si fossero scordati di questa vecchia Torre che di loro sapeva tutto…
E invece non mi avevano mai dimenticata, e avevano affidato a me la loro storia, non perché fosse un segreto, ma perché fosse di tutti. Forse qualcuno potrà vederci il “vero amore”, qualcun’altro ci vedrà una morale sull’importanza del nostro mondo, altri ancora ne coglieranno un dettaglio piuttosto che un altro, daranno un significato metaforico al seme o ai fiori, oppure non daranno nessun significato, semplicemente la leggeranno come una bella storia. Qualcuno forse correrà dalla sua amata, qualcun altro si metterà in testa di salvare il pianeta. Ma il mio compito è quello di raccontare storie, e tu, passante senza nome, puoi coglierla come più ti piace. Io sono la memoria di questo piccolo angolo di mondo, e a me arrivano le memorie da altri infiniti angoli. Chissà perché a quel professore che soffre d’insonnia piace così tanto la novella delle margherite. Forse perché finchè ci sarà qualcuno in grado di scegliere di non cogliere un fiore, ma di piantare un seme, non sarà soltanto il mondo ad essere salvo. So che questa storia è piaciuta anche a te, hai fatto un mezzo sorriso. Ma è un sorriso triste. Mi nascondi un amore perduto? Probabilmente non lo saprò mai. Ci sono segreti che neppure io riesco a far confessare. Ma sei lì che guardi i due sposi e continui a sorridere. Forse stai pensando che io mi sia inventata questa storia per regalare un lieto fine alle anime in pena. Magari è vecchia come il mondo e l’ho raccontata anche a Dante Alighieri! È tutta l’invenzione d’una torre che nella noia della sua immobilità si diverte a tessere storie mai esistite, non contenta di quelle che tutti i giorni gli passano sotto, fuggendo o fermandosi un istante per diventare eterne. Forse stai pensando che, in fondo, anche se non mi racconti nulla, anche tu diventerai una storia come le altre… e pensi che io abbia due opportunità: inventare una storia dietro ai tuoi occhi muti, o raccontare del passante che taceva. Di quello che sedeva senza svelarsi vivendo delle storie di altri, nutrendo di leggende e belle novelle una preoccupazione nascosta, un amore perduto, una strada mancata. Forse pensi che ti racconterò come il mio unico fallimento. Gli unici occhi che non si sono svelati. Oh, ma non sono gli unici. Solo che il tuo è un modo diverso di nasconderti. Sai bene che il mondo cambia, le stagioni corrono veloci, la scalata per la ricchezza fa gli uomini malvagi, l’avidità fa scordare di tutto quello che ci circonda. Due grandi motori muovono tutto ciò che esiste da quando mi hanno fatta Torre: l’ambizione e la paura. E tu... da cosa sei mosso? Credevo di stare pensando, e invece parlavo. È difficile distinguere le due cose quando la voce e il pensiero coincidono nell’autocoscienza. Mi stai guardando spaventato. Ambizione o paura? È una scelta ardua. A volte le cose non riescono nemmeno ad essere separate. Nessuno ti ha mai messo di fronte ad una scelta del genere, sei mosso dall’ambizione o dalla
paura? Scegli di scegliere o di non farlo?
“Nessuna delle due” mi rispondi infine. “Oh, una risposta diversa” dico “E allora, cosa ti muove?” “Semplicemente… credo in quello che faccio.” Mi rispondi. Ma non voglio sapere cosa fai. “Credo in quello che faccio” è una bella risposta. E poi so che non mi diresti se vai all’università o se lavori, se hai un sogno nel cassetto o se hai realizzato tutto, non mi dirai nemmeno il tuo nome, ed io non te lo chiederò. “Il mondo dovrebbe andare avanti così…” dici. “Andare avanti di fede?” ti domando. “Non nel senso stretto del termine.” “Anche nel senso ampio, è pericoloso.” “Cosa intendi?” “Lo sai come si è distrutta l’isola di Pasqua?” “Lo sanno tutti!” dici ridendo “… hanno tagliato tutti gli alberi per trascinare quelle stupide statue.” “Oh… “stupide statue”… questo non me lo aspettavo da te. Mi sento un po' offesa. Dopotutto anch’io potrei essere definita “stupida torre”… e chissà se lo dici ai tuoi amici: “Ah, la Garisenda, quella stupida torre.” Anch’io provo dei sentimenti, eh! Se non li provassi non sarei qui, sarei già crollata da tanto tempo. Come quei grattacieli alti fino al cielo di vetro e cemento… quelli, per quanto ne so, non hanno sentimenti. Certo, non ho mai parlato con uno di quelli. Le notizie me le portano gli uccelli, quelle rondini che mi raccontano le storie mi dicono anche che non sono mai riuscite e parlare con un grattacielo, l’unica conclusione che posso trarne è che siano semplicemente senz’anima… o magari hanno paura, o sono troppo ambiziosi per perder tempo a parlare con le rondini. Di certo loro non raccontano storie, ma quelle “stupide statue” sì che le raccontano, eccome! È forse uno dei ricordi più felici che ho, e anche uno di quelli più tristi. Fu un pugno di polline a raccontarmi della fine di Rapa Nui. Si posò sulle mie mura molti anni addietro, veniva da lontano e il vento lo aveva portato da me. Non sono tanti i monumenti che raccontano storie, di solito sono quelli imperfetti come me… le statue dell’Isola vivevano evidentemente d’un grado di imperfezione. Dunque, del polline venne a posarsi sulle mie mura ed io gli domandai da dove venisse. “Vengo da lontano, oltre il mare, ho attraversato i continenti” “Mi hai trovata o mi cercavi?” avevo domandato io. Lo chiedevo a tutti, alle api e alle farfalle, alle foglie e alla polvere, ai palloncini colorati sfuggiti alle mani d’un bambino. Alcuni venivano a cercarmi perché avevano sentito parlare di me da chi mi aveva già parlato, altri s’imbattevano per caso , perché il vento, o la stagione, o la fortuna li aveva guidati da me. “Ti ho trovata:” m’aveva detto il polline “Ma non vuol dire che non ti cercassi.” Avevo capito solo dopo che ero appena il secondo monumento che gli aveva parlato. Il primo era stato una grossa testa di pietra appena abbozzata e rovesciata sul suolo di Rapa Nui. Il polline mi disse che in coro, da secoli, quelle teste intonavano un canto funebre. E che la testa rovesciata recitava da sola parole di risposta al coro. Raccontavano la storia della fine. La partenza di una specie di principessa. La fine dell’Isola.
Io non so cantare. Sono stata costruita troppo di recente, so che sanno cantare le Teste di Rapa Nui, so che sa cantare Stonehenge, so che sanno farlo le Piramidi. Ma so che già qualche Arco di Trionfo non sa cantare più, mentre tra i Templi ad Atene riesce ancora a cantare appena qualche colonna. Ecco. Io non so cantare. E poi è passato troppo tempo. Non saprei ripeterti quella melodia. Ma se vuoi posso provare a ricordarne le parole, posso provare a mostrarti che a volte non basta la fede.” “Vai avanti” mi dici. Oh.. so bene che mi lasci raccontare del mondo e del passato perché vuoi allontanare da te la novella delle margherite. Hai proprio voglia di catastrofi oggi, il lieto fine ti rende triste. Chissà se capirò mai il motivo.
“Va bene, eccoti allora la canzone intonata da quelle “stupide teste”, come le chiami tu: Mahuru va via Sorretta dall’ultimo stelo. La perla nel blu si perde alla nuova luna. È la notte. Così cantano le teste sulla spiaggia all’infinito, e la testa rovesciata ripete all’infinito questa litania: Avevan creduto che avremmo vegliato Sul mare, sul tempo Presente e passato. Avevan creduto che fosse infinita Nei cuori, negli occhi la loro vita. Avevan creduto che teste di pietra Avrebber svelato una strada segreta. E quando ci fu più roccia che legno Mahuru fuggì portando via il tempo. Avevo chiesto al polline chi fosse questa Mahuru, lui aveva risposto che era la figlia del governatore dell’isola, e che quando aveva capito che l’isola era ormai destinata alla fine era fuggita su una zattera fatta con l’ultimo legno disponibile, aveva promesso che sarebbe tornata, ma così non era stato. Quella testa di pietra era rimasta così, rovesciata e abbozzata appena, sola lontana dai compagni sulle coste dell’isola. A cantare della fine di un piccolo mondo. A raccontare al polline e al vento, agli uccelli e alle api una storia che è poi arrivata fino a me. Forse è questo, amico mio, che intendevo con “pericoloso” quando parlavo di agire per fede…” “Un momento…” mi interrompi “Non credi di starmi parlando un po' troppo di come va il mondo, di quanto sia prezioso e cose del genere?” Quasi mi scappa una risata. “Non ti piacciono le mie storie?” ti domando. “Certo che mi piacciono… non rimarrei qui se mi annoiassi.” Rispondi “ …è che non capisco
perché se io non ti ho svelato quali siano le mie preoccupazioni, tu stia sempre a parlarmi più o meno dello stesso argomento… insomma, ci giri attorno, ma non fai altro che dire che tutto scorre, che tutto cambia, che il mondo è la nostra casa, parli di semi e di fiori… sembra che tu mi stia raccontando delle novelle a tema, ecco… non siamo mica nel Decameron, fuori non c’è la peste, e io e te non siamo un’allegra brigata. Mi sento un povero pazzo che parla con un oggetto inanimato.” Adesso rido di gusto. “Ti ho detto che parlo con tutti quelli che hanno perso qualcosa… e se tu non vuoi dirmi cosa hai perso non vuol dire che qualcun altro sia stato come te. La vedi quella ragazza con la gonna scozzese seduta sul muretto? Lei mi ha confessato di aver perso le muse. Mi ha chiesto aiuto e io beh, gli stavo solo raccontando le storie di cui aveva bisogno.” Sei arrabbiato. Un po' deluso. Pensavi parlassi solo a te, e adesso ti sembra di non essere più così speciale ai miei occhi. Oh… non lo capite mai… Io non posso preferire un passante piuttosto che un altro, voi ascoltate me e io ascolto voi, siete miei amici e mi regalate storie così come io le regalo a voi. Annuisci. “È che pensavo che fosse una cosa unica” mi rispondi. “Lo è.” Dico “Ogni amicizia è diversa. Ogni amicizia è unica.” Mi fai un sorriso. “Cosa dicevi riguardo all’agire per fede?” domandi. “Vuoi la morale della storia?” “No, la sta aspettando la ragazza sul muretto. Perché negargliela?” Dopotutto non sei il peggiore dei passanti che mi sia mai capitato. Ma sei certo il più ottuso. “La troverà da sola probabilmente, e la scriverà, o la lascerà in sospeso, ma adesso parliamo di te.” “Hai ancora qualcosa da raccontarmi? O da raccontarle? A questo punto non importa più, no?” “Vuoi una storia solo per te? Dovrai dirmi cosa ti preoccupa.” “Sai… in fondo non erano così male quelle storie, e poi lei ha bisogno di aiuto, no?” sorridi. “È generoso da parte tua.” Ti rispondo io, sto sorridendo ma non puoi saperlo. “Se puoi dimmi di lei.” “Cercava le Muse, e si è trovata a passare qui sotto. L’ho aiutata. Passerà anche lei, come tutti, quando non avrà più bisogno di me.” “Oh, se è vero che l’hai aiutata non andrà via… e nemmeno io me ne andrò.” “Che strano, l’unico che non mi racconta di sé mi dice che tornerà da me.” “Tutto scorre, io resto. Lo hai detto tu, no? Perché non dovrebbe valere?” “Perché, amico mio, potremmo essere amici per tutta la vita, ma io resto più a lungo di tutti voi. Io ho visto il mondo cambiare, ho visto cambiare la gente, ho visto cambiare la città. Quando mi hanno costruita ho imparato a parlare in latino e in volgare, ho fatto tante belle amicizie, e tutte, presto o tardi mi hanno lasciata. Nessuno di voi dura novecento anni. Io sarò tua amica per sempre, ma tu non potrai esserlo.”
“Non voglio affidarti le mie storie.” Mi dici. Non capisco perché. Mi sembravi quasi pronto a parlarmi. Ma scegli di no. Ho detto qualcosa di sbagliato? Gli uomini odiano che si parli loro della morte. “Non è perché mi hai ricordato che io, un passante qualsiasi, non sono eterno.” “Ah sì, non ti turba?” “No, c’è un’altra cosa. Io non voglio essere una delle tue storie, non voglio che tu dica di me “questa è la storia del passante che un giorno come tanti si è seduto qui sotto”, voglio che tu dica “questo è il passante”, non voglio che tu abbia una mia storia, voglio che tu abbia me. Voglio essere io la tua storia. Avevi ragione, avevo paura, paura di trasformarmi nel passante che non ha parlato, e in questo momento vorrei parlare più che mai con questa vecchia Torre che sembra volermi così bene. Ma non posso farlo, ci sono storie che sono mie e che vogliono rimanere nello scorrere delle cose, storie che non vogliono essere leggende. Piccoli segreti che custodirò per sempre perché sono abbastanza grandi ed importanti pur rimanendo in un frammento di quel vitale organo grande come un pugno.” Mi mostri la mano aperta, poi la chiudi e la avvicini al petto. “Voglio tenerle strette così certe cose. E così come questa mano è il mio cuore. Non ho chiuso le porte dell’anima amica Torre, non voglio negarti le mie storie. Ma se scegliessi di regalarti quelle… io diventerei solo un racconto, non l’uomo. E tale resterei nella tua memoria. Non racconterai la storia dell’uomo, quando parlerai di me dirai dell’uomo e basta. Ed è questo che desidero come regalo e come conforto, slegarmi dalla mia storia ed essere semplicemente me. In mezzo a questo mondo che cambia, io voglio restare finché non mi spazzerà via il tempo.” “Se è questo che chiedi, sarà fatto amico mio.” Il tuo volto s’è fatto sereno, nei tuoi occhi si districa qualche nube. “Ma adesso… “ mi dici indicando la ragazza con la gonna scozzese “…forse dovresti rivelarle la morale dell’ultima storia.” Ecco. Non mi resta che svelarti un ultimo segreto prima che tu vada: “Non sono io a scegliere la morale delle storie. Il punto è che ognuno ci vede una morale diversa.” Guardi lei, alzi gli occhi a guardare me e accanto a me la sorella perfetta. Qualcosa non ti preme più nel petto e non hai nemmeno avuto il bisogno di raccontare. Chissà, forse stavi solo cercando te stesso. È per questo che a volte lascio le morali delle mie novelle in sospeso. Perché dopotutto, palese o nascosta, la morale non è nella storia, ma nell’anima di chi l’ascolta. E se tu, sconosciuto passante, hai trovato te stesso ascoltando me, se la ragazza con la gonna scozzese ha scritto la sua storia, allora ho assolto al mio compito. Ora ti vedo allontanare, nel tuo solito cappotto verdastro. Le mani in tasca. Mi dai le spalle. Tornerai? Chissà. Ma mi fido della tua promessa. Non mi abbandonerai. M’hai ascoltato perché cercavi un frammento di te dentro ad ogni storia. È per questo che i racconti di solito riescono a trascinare un po' tutti fino alla fine.
Poi possono piacere o non piacere, ma di certo ti sei inseguito e cercato nelle mie storie, e chissà in quante altri racconti scritti o raccontati, rincorrendo te stesso fino all’ultima pagina o fino all’ultima parola. Fino al punto, o fino ai puntini di sospensione…