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DIRETTORE RESPONSABILE

BERNARDO DE PIETRI DIRETTORE EDITORIALE

GABRIELE CANTARELLI TESTI A CURA DI

ALESSANDRA LOVATTI BERNINI PROGETTO GRAFICO E IMPAGINAZIONE

MASSIMO GALETTI GRAFICHE

BEATRICE FAGAN

REPORTER Srl - Via Acerbi, 10/12 - 46100 Mantova - Italy Tel. 0376 1813480 - Fax 0376 1813481 e-mai: reportersegreteria@gmail.com Supplemento a “Reporter Mantova” n. 6 del 25 MARZO 2016 Fotocomposizione in proprio Stampa Litocolor - Guastalla (RE) E’ vietata la ripoduzione parziale o totale in qualunque forma del testo e delle immagini, senza l’autorizzazione dell’editore.


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Pag

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Presentazione

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Incontro Palazzi – Renzi Teatro Bibiena, 23 gennaio 2016

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Personaggi storici

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Isabella d’Este

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Maria Teresa d’Austria

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Luca Fancelli

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Vittorino da Feltre

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Barbara di Hohenzollern

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Publio Virgilio Marone

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Giuseppina Rippa

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Matilde di Canossa

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I Martiri di Belfiore

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Roberto Ardigò

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Gli Eventi di Mantova Capitale della Cultura 2016

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La capitale da vivere

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Eventi a Palazzo Ducale

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Viaggio a Palazzo Te

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Conclusioni

Indice

MANTOVA

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MANTOVA CAPITALE ITALIANA DELLA CULTURA 2016

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eporter ha pensato di celebrare l’elezione di Mantova a Capitale italiana della cultura per l’anno 2016 con una rivista patinata dedicata a questo tema. In questo volume, in primis, troverete il discorso tenuto dal primo cittadino di Mantova, Mattia Palazzi, in occasione della visita del presidente del consiglio Matteo Renzi, presso il teatro Bibiena. A seguire un’antologia di personaggi storici – cinque donne e cinque uomini - che hanno reso Mantova quella che è: da Isabella d’Este ai Martiri di Belfiore. Potrete poi leggere una carrellata di eventi che si terranno a Mantova per il 2016 e un racconto di come vivere la città dei Gonzaga. In seguito troverete tutti gli eventi previsti a Palazzo Ducale: mostre e conferenze la faranno da padrone per tutto l’anno. Per finire vi condurremo per un viaggio immaginativo all’interno di Palazzo Te, la perla del Rinascimento. Questo gioiello non è solo il fiore all’occhiello della città di Mantova, ma senza dubbio il più importante esempio di arte rinascimentale a livello mondiale. Buona lettura!

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DISCORSO DEL SINDACO DI MANTOVA MATTIA

PALAZZI

Teatro Bibiena, 23 Gennaio 2016

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aluto a nome della città il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, il Ministro della Cultura, Dario Franceschini, Saluto sua Eccellenza Il Prefetto, Monsignor Busti, Vescovo di Mantova, i parlamentari, consiglieri regionali, Saluti i Sindaci e assessori, La presidente di Confindustria Europa, Emma Marcegaglia e tutte le autorità civili e militari... Caro Presidente, Caro Ministro, grazie per essere a Mantova, la città del bello, che ha l’ambizione di porsi al centro dell’attenzione nazionale ed internazionale. Mantova, città capitale italiana della cultura. Alle mie spalle vedete l’anteprima della applicazione che stiamo ultimando. Abbiamo voluto raccogliere il testimone di Expo, la sua piattaforma digitale e adottare le più sofisticate tecnologie al servizio di chi vive Mantova, cittadini e turisti. In sintesi, pensate ad una mole di dati dettagliati che descrivono i luoghi intorno a noi (musei, opere d’arte, eventi), ad un sistema che li incrocia con i nostri gusti e preferenze, che ci consiglia e accompagna nella nostra visita. Le più avanzate tecnologie di intelligenza artificiale che analizzano ed elaborano i big data per un continuo miglioramento della mappatura dei luoghi e delle loro caratteristiche. Attraverso il nostro smartphone, con l’applicazione Mantova 2016, in continua comunicazione con una serie di devices distribuiti nella città, saremo in grado di vivere i luoghi, arricchiti con video 3d, video 360° e molteplici altre informazioni.

L’evoluzione del concetto di smart city, che diviene sintesi tra l’esperienza “fisica” e l’esperienza “digitale”. Oggi lanciamo Mantova come prima “Phygital City” d’Italia e sono contento di comunicare che tra poche settimane sigleremo anche l’accordo con Google per la digitalizzazione del nostro patrimonio artistico. Mantova è una città che ha vissuto e che ancora vive fasi difficili. A partire dal sisma del 2012, che ancora ci impegna nel recupero di parte del patrimonio, come Palazzo del Podestà. Mantova ha davanti a sé sfide enormi, dalla necessità di rafforzare e innovare la sua dimensione industriale, alla necessità “storica” di dotarci di infrastrutture e collegamenti veloci e moderni. Sfide che impongono e richiedono tre ingredienti fondamentali: capacità di fare squadra, innovazione e coraggio. Voglio approfittare di questo solenne appunta-

Il sindaco di Mantova Mattia Palazzi

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Discorso del sindaco di Mantova

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mento per ringraziare tutte le Istituzioni, le autorità, le delle facciate orientali di Palazzo Te, a dimostrazione forze economiche, sociali, le associazioni. Vi ringrazio Ministro, che le buone leggi producono anche buona per quanto insieme stiamo facendo e vi chiedo di fare economia. E nei prossimi giorni avremo le risposte di squadra, perché il futuro della nostra città dipende in Fondazione Cariplo, Regione Lombardia, Fondazione buona parte dalla qualità del nostro comune impegno. Cariverona... Vedo qui alcuni dei loro rappresentanti… Dal 27 Ottobre scorso, giorno della nomina a capitale portateci buone notizie, mi raccomando. della cultura, non abbiamo smesso un attimo di lavoMa non ci siamo limitati a questo, in questi sette mesi rare con passione ed energia, sia per costruire il proPresidente abbiamo voluto dimostrare che la città capigramma degli interventi, sia per tornare ad investire tale della cultura è una città che vuole essere più forte, sulla città. Questo riconoscimento ha dato energia ed più bella, più giusta. entusiasmo ai mantovani e già oggi ci sta consentendo Per questo, grazie anche al superamento del patto di di tessere relazioni importanti in Italia e in Europa. stabilità, abbiamo sbloccato 20 milioni di tasse dei Dal rilancio del Centro Internazionale di Palazzo Te, mantovani e già deliberato un piano opere pubbliche che oltre a centro espositivo che qui non si vede da decencon le mostre in programma, ni. Stiamo finendo i progetti e dalla riscoperta dell’800 e porteremo a gara entro l’anno 900 mantovano, alle mostre 5 milioni di euro sul recupero di arte contemporanea, sarà del patrimonio storico artianche teatro di performance stico, da Palazzo Te, a questo artistiche, alla rinnovata e magnifico teatro, inaugurato bella collaborazione con Pada un giovanissimo Mozart, lazzo Ducale, Museo autonoall’età di 14 anni, alla Torre mo, col quale stiamo condidella Gabbia, che tornerà ad videndo importanti progetti, aprirsi dopo due secoli, a 1 midalla mostra di Daniel Burén lione di euro per riqualificare a quella di Durer, alla moil nostro centro storico, e tra 3 stra con il Museo Archeolosettimane inaugureremo il prigico, che racconterà come il mo intervento permanente di patrimonio storico artistico illuminazione artistica di una è stato vittima di catastrofi, porzione del centro storico, guerre, terrorismo e come lo anche qui con un imprenditore si è ricostruito, al ventennale illuminato come Guzzini. del Festivaletteratura, ai FeE da pochi giorni, grazie stival musicali e teatrali, ai all’impegno della Chiesa Manprogetti sul gusto che stiamo Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi tovana, delle Istituzioni, Foncondividendo con l’Accademia dazioni e privati si è concluso dei giovani ristoratori d’Europa, al convegno internalo splendido restauro di Sant’Andrea. zionale dei siti Unesco, Mantova Architettura, Mantova Ma una città più bella e forte è innanzitutto una città Ebraica, ai grandi concerti, saranno oltre MILLE gli più giusta e sicura, per questo abbiamo appena deciso eventi di questo 2016 e centinaia le collaborazioni che un milione di euro per l’edilizia residenziale pubblica, stiamo attivando. oltre un milione per sistemare e rendere belle le nostre Sono fiducioso di poter dire tra poche settimane che scuole, il 40 per cento in più di risorse per l’assistenl’obiettivo che ci eravamo dati, ossia quello di raddopza ai bimbi disabili nelle scuole, l’esenzione Irpef copiare il milione di euro, frutto della nomina a capitamunale per i redditi medio bassi, 400 mila euro in più le, si può raggiungere. Voglio per questo ringraziare per il welfare, la riorganizzazione della polizia locale, la Camera di Commercio (il presidente Zanetti) per il che porterà dal 1 febbraio i vigili di quartiere in ogni suo importante contributo e ringrazio Confindustria quartiere della città, l’apertura serale delle biblioteche, (il presidente Marenghi), che proprio ieri ha deliberato che partirà da Marzo e 800 mila euro per sistemare gli un contributo di 100 mila euro, per aiutare il restauro impianti sportivi di base della nostra città. Abbiamo


Mattia Palazzi

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Il teatro Bibena di Mantova

deciso di investire sul futuro, dove crescono i nostri figli, dove fanno sport, dove si formano. Racconto queste scelte Presidente anche perché più di una volta hai sottolineato che “fare il Sindaco” rappresenta un’esperienza unica, faticosa ma avvincente, al servizio della propria comunità e mi sto accorgendo che è proprio cosi, ma credo anche che oggi, dopo i criminali attentati di Parigi, le città, i Sindaci, abbiano una responsabilità in più, inedita…unire la comunità, per concorrere a contrastare quella naturale paura che si è prodotta. Oggi, a fianco dello straordinario lavoro che le forze dell’ordine fanno ogni giorno, sono convinto che la cultura non rappresenti solo bellezza, creatività, economia, ma anche l’antidoto più forte per far si che la vita vinca sulla paura. Anche per questo aspetto, sono importanti e dicono molto i dati, sia dei musei che dei pernotti, che segnano in città, da Novembre al 6 Gennaio, un più 41% di turisti rispetto allo scorso anno. Far vivere le città, le nostre piazze, i cinema, i musei, i locali rappresenta l’obiettivo di una comunità che vuole sentirsi dalla parte buona della vita, che accoglie e non

si chiude, come faremo con le centinaia di volontari, giovani tra i 15 e 25 anni e studenti stranieri, che ci aiuteranno a gestire le iniziative di quest’anno. In questi giorni, diverse persone e alcuni giornalisti, mi hanno domandato cosa avrei chiesto al Presidente. Naturalmente Presidente so bene di cosa ha urgenza Mantova, cosa chiedere al Governo ed alla Regione, per il lavoro, il risanamento ambientale, per le infrastrutture, per il recupero del patrimonio e non sarò timido nel chiedere di aiutare la città, ma oggi voglio semplicemente dirle che sentiamo nostre le sfide del Paese, che vogliamo fare la nostra parte, orgogliosi di vivere in una città unica, in un Grande Paese. Grazie! Mattia Palazzi Sindaco di Mantova


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Isabella d’Este

Signora del Rinascimento

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sabella d’Este è una figura immortale ed universale della cultura dell’umanità. La sua storia interessa in toto la produzione intellettuale, dalla ricerca storica, grazie all’attenzione per la conservazione di un eterogeneo materiale documentario, alla letteratura, alla mitologia, fino mitografia. Per questo, a buon diritto, le viene assegnato il titolo di “prima donna del mondo”. Reale incarnazione della virtù, ideale di un’età dell’oro della storia culturale dell’umanità intera. Isabella fa parte dell’immaginario collettivo mondiale, patrimonio comune dell’umanità proprio come lo è il Rinascimento che lei incarna e rappresenta, e per questo è una figura universale. Donna versatile, poliedrica, sempre contraddistinta dall’omerico multiforme ingegno, capace di vivere massimamente tutte le vicende che l’esistenza offre, ed ogni sfumatura del materiale e dello spirituale; blasonata regina e grande statista; collezionista di oggetti che richiamino lo splendore di quell’antichità rimasto immutato nella Storia, e di opere d’arte capaci di raccontare la sua virtù intellettuale e – non solo - quella del mondo: leggere, scrivere, parlare di tutto, ma quando è possibile, delle cose migliori e delle cose belle. Sviluppò gusto e facoltà artistiche grazie all’ambiente raffinato e colto in cui passò la sua infanzia. I tratti regolari, i capelli chiari, la carnagione bianca e gli occhi neri: “donna più bella assai che il sole”, come disse l’umanista di Vicenza Giorgio Trissino, citando Petrarca. Di singolare fascino personale, che farà di lei la donna più seducente del suo tempo, la vediamo nel suo ritratto, che alcuni storici dell’arte ritengono sia il più bello di tutto il Rinascimento, attualmente conservato presso il museo di Vienna, in cui è ritratta da Tiziano, ecco Isabella in quella sua ricca acconciatura – che lei stessa ha inventato ed ideato - che fa di lei un idolo. Sul suo

capo un turbante prezioso, perle ai lobi, abbracciata da una pelliccia, di quelle che ella stessa faceva ricercare a qualsiasi prezzo: le maniche larghe, con grevi ricami, coprono quasi le dita. La marchesa in atteggiamento quasi giudicante, con lo sguardo duro e fiero, da grande statista e condottiera: seduta eretta sulle spalle, con le mani posate sulle ginocchia, sembra sia nell’atto di scrutare chi la sta ammirando. Tra la dolcezza del mento, come di bambina, e il viso paffuto, sbocciano gli occhi neri, disciplinati e duri, nonché la bocca piccola chiusa. Isabella d’Este nasce il 18 maggio 1474 dal duca Ercole d’Este, grande condottiero che in giovinezza si era distinto a Napoli come per le sue doti di guerriero e di comandante. Durante una malattia, Ercole d’Este ebbe l’opportunità di leggere tra gli altri Plutarco, Senofonte, Euripide, e Seneca. Tradusse in lingua italiana le commedie di Plauto e di Terenzio, che ordinò di rappresentare poi a Ferrara sotto la sua direzione. Nella stessa città, Ercole ampliò la biblioteca ducale, rifornendola di numerose opere. La madre Eleonora era figlia di Ferdinando I d’Aragona ed anch’essa era amante della letteratura. Tra le sue letture predilette c’erano gli autori francesi e bretoni, le leggende spagnole, Plinio, Giulio Cesare, San Francesco e Boezio. Isabella fu educata nell’arte. Si distinse da subito per il gusto innato per la musica che coltivò grazie al maestro don Giovanni Martino, prete tedesco di Costanza, maestro della cappella ducale. Ferrara, infatti, era diventata un centro di arti e di scienze, dove poeti e dotti erano chiamati a corte e a corte protetti. E’ in questo clima che Matteo Boiardo scrive il suo Orlando Innamorato. Oltre che nella letteratura, Isabella visse nell’arte: capolavori dei migliori maestri italiani e fiamminghi, come Jacopo Bellini, Piero della Francesca, e il Pisanello adornavano i vani della

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Il Ritratto di Isabella dÕ Este • un dipinto a olio su tela (102x64 cm) di Tiziano, databile al 1534-1536 e conservato nel Kunsthistorisches Museum di Vienna.

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Isabella d’Este

sua reggia e poi ancora, nelle stanze del palazzo si potevano ammirare tappeti preziosissimi, medaglie, armature, maioliche di Faenza e di Urbino e capolavori di oreficeria. Isabella, di fatto, visse in un museo d’arte. In questo ambiente Isabella ornava la sua mente e il suo cuore. Frequentava già dall’infanzia ospiti illustri, principi, signori e ascoltava – e partecipava - a conversazioni colte. Il suo spirito diveniva così sempre più raffinato ed era ingentilito. Un episodio che segnò l’infanzia di Isabella d’Este fu la congiura contro il padre quando ella aveva due anni, ordita da Nicolò, nipote di Ercole e senza dubbio questo forgiò il suo spirito e il suo animo, tanto da fare di lei una grande statista. I suoi contemporanei dicono fosse bella vivace intelligente di grazia incomparabile – centro lei stessa di quel mondo raffinato e cultore di ogni cosa bella. A sei anni venne promessa sposa a Francesco Gonzaga, all’epoca quattordicenne, figlio di Federico II marchese di Mantova. Il futuro sposo era già stato immortalato da Andrea Mantegna nella Camera Picta, tra il nonno e lo zio cardinale. Isabella entrò alla corte di Mantova a dodici anni, e il matrimonio si sarebbe dovuto consumare l’anno successivo, sebbene la madre Eleonora fosse turbata da questa decisione, forse perchè già intravedeva i tratti pervertiti del futuro genero. Dopo il fidanzamento, che venne celebrato a Ferrara il 28 maggio 1487 e a cui i due nubendi non furono presenti, Isabella incontrò Francesco a Ferrara e i due si piacquero. Nei tempi successivi al fidanzamento, i due giovani continuarono i loro studi. Isabella imparò il latino grazie a Battista Guarino, figlio del grande umanista che aveva portato a Ferrara la primavera del movimento classico. Francesco invece amava precipuamente la caccia, l’equitazione e le giostre, forgiando così un carattere indomito, tanto che quando il padre Federico morì nel 1484 egli lo sostituì senza alcun indugio. Francesco fu da subito molto attento nei confronti di Isabella, tanto da inviarle numerosissimi regali preziosi. A causa della salute cagionevole della sposa, le nozze fra Isabella e Francesco verranno rimandate di tre anni. Al momento del matrimonio, Isabella avrà infatti sedici anni. Dominò sempre il matrimonio, nonostante le divergenze con il marito, che era più anziano di lei di otto anni, e con cui ebbe otto figli. Questa fu Isabella: abituata ad accogliere da pari a pari i potenti, ad avere la meglio nei travagli e negli ostacoli dell’esistenza, ed infine ad erigersi ad arbiter elegantiarum; un idolo che rispondeva pienamente

all’idea prima ed astratta della creatura. D’intelletto vivace, divise la propria esistenza tra la passione per il bello e la virtù. Di saggia coerenza, marcata dal fermo proposito del buon uso dei giorni, sottilmente femminile tra le più dure necessità del dominio e del comando, libera di opinioni e di giudizi, e sempre saldamente agganciata a Ferrara. A lei tocca in sorte il Rinascimento italiano che volge al declino della stabilità e della pace, epoca di timori e fragili alleanze, poiché, morti i fautori dell’equilibrio fra i piccoli e i grandi stati della penisola, dal 1494 l’Italia entra nelle mire politiche dei re francesi e spagnoli i quali scendono a combattere per spartirsela. In questi tempi, Isabella è chiamata a dar prova di sé come marchesa, e si dimostra degna dei nobili nomi che porta senza mai tradirli. Generosissima di sforzi e di attenzioni verso il popolo e la città di Mantova, si destreggia abilmente tra la corte, i dispotici papi, ed i sovrani facili alla guerra. Riesce a dare, inoltre, allo stato gonzaghesco un senso rinnovato di fiducia, sicurezza, e di energia, sa tenere libere le sue terre da ogni tutela straniera, abile a governare anche meglio di un uomo, doti che il marito le invidierà sempre e non le perdonerà mai. “Nec spe, nec metu” - senza speranza, senza timore – è la sua impresa. La marchesa la fa propria e ne rivendica la paternità, sebbene probabilmente derivasse da un’impresa dei Borbone “N’espoir ne peur”, che rende comunque l’altezza del suo ingegno e del suo animo. Amore inesauribile per la vita e della bellezza: apparire ed essere la più elegante non è solo una debolezza della sua vanità in quanto donna, ma è anche un dovere. Regina di eleganza, forgiatrice estrosa e fantastica di nuove mode, inventrice di droghe, di profumi e pomate per la bellezza del viso. I suoi vestiti di seta intessuti d’oro e dalle tinte cupe furono celebri e celebrati. Spesso le sue maniche riportavano le sue imprese. Proprio ad Isabella si deve l’invenzione della capigliatura. Pesante e fastosa essa sta fra la parrucca e l’acconciatura: rotonda esageratissima, ricca di ornamenti, portata all’indietro in modo che le bande dei capelli sulla fronte restino scoperte, formata da capelli veri o da stoffe preziose arricciate. La notorietà di questo tipo di acconciatura è testimoniato da numerose lettere, da parte di Lucrezia Borgia, che si rivolse ad Isabella per avere particolari sulle acconciature. Lucrezia stessa cercò di imitarla. Isabella d’Este morì a Mantova il 13 febbraio del 1539, lasciando un’impronta indelebile nella città di Mantova.

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MARIA TERESA D’AUSTRIA L’imperatore è donna

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i grande bellezza, intelligenza, forza d’animo e di carattere: sono queste le caratteristiche della donna che tanto dovette lottare e combattere per avere ciò che le spettava per diritto, ossia un impero. Nata nel 1717 dal matrimonio fra Carlo VI e Cristina di Brunswick – Wolfenhuttel, Maria Teresa d’Austria era destinata a diventare imperatrice ben prima della sua nascita. Nel 1713 Carlo VI, suo padre, con la Prammatica Sanzione, aveva stabilito che in mancanza di un erede maschio potesse succedergli anche una donna. Appena ventitreenne Maria Teresa rimase orfana del padre e la Prammatica Sanzione non bastò a farla salire al trono. Le potenze europee, infatti, si coalizzarono per impedire che l’Austria fosse governata da una donna e cercarono di smembrare l’impero, approfittando dell’apparente debolezza di Maria Teresa, e richiedendo il possesso di alcune regioni. La guerra di successione austriaca durò ben otto anni e si concluse nel 1748 con la pace di Aquisgrana. L’Austria venne privata di alcuni territori, come ad esempio la Slesia che divenne un possedimento della Prussia, ma in cambio Maria Teresa salì al trono diventando “imperatrice dei Romani, regina apostolica d’Ungheria e Boemia, imperatrice d’Austria, Granduchessa di Toscana, Signora del Milanese e del Mantovano”. Il motto adottato in occasione della sua incoronazione fu “Iustitia et Clementia”. La giovane imperatrice si distingueva per le ottime capacità intellettive e fin da piccola era stata educata per regnare. Dai quattordici anni in poi, infatti, Maria Teresa seguì i lavori del Consiglio della Corona accanto al padre Carlo VI, mostrando chiari segni di interesse e rigore intellettuale per il Diritto e la Filosofia. Ella era ben conscia del fatto che avrebbe dovuto regnare su di uno stato multinazionale ed era dunque un’esperta

filologa. Oltre al tedesco e all’ungherese, conosceva l’italiano, il latino, il francese e lo spagnolo. Era, inoltre, una brava musicista ed “una amazzone”. Di intelletto poliedrico e flessibile,imparò molto presto l’arte del governo. Maria Teresa d’Austria fu quella che si può definire una “sovrana illuminata”. Riuscì, infatti, a creare uno stato unitario, aggregando mediante una ferrea amministrazione tutti i territori che componevano il suo immenso impero, supportata da una politica economica moderna, con una visione lungimirante che fa sì che oggi Maria Teresa sia indicata come la prima imperatrice di ispirazione europea, sempre attenta ai fenomeni storici che viveva e alle differenze culturali che un impero multietnico e multinazionale doveva tenere insieme. Maria Teresa fu anche un’abile stratega: consapevole dei frequenti insuccessi dell’esercito austriaco e della minaccia prussiana, ella potenziò lo strumento bellico delle sue truppe, trasformandolo in un esercito modernamente armato e addestrato. A tal proposito, istituì un’accademia militare che portava il suo nome. Maria Teresa fu una delle poche sovrane a sposare l’uomo che amava, ossia Francesco Stefano di Lorena che sarebbe diventato il Granduca di Toscana. Fra i coniugi l’affetto e la stima erano reciproci, tanto che Francesco Stefano non interferì mai con le decisioni politiche della moglie. Il matrimonio venne celebrato nel 1736, quando Maria Teresa aveva poco meno di vent’anni, e dalle nozze nacquero ben sedici figli, cinque maschi e undici femmine, tra le quali anche Maria Antonietta che sposò Luigi XVI e venne ghigliottinata durante la Rivoluzione Francese. Lungimirante quale era, l’imperatrice mise in atto un’attenta politica matrimoniale, utilizzando i figli e le figlie per far loro contrarre matrimoni politici – strategia assolutamente normale all’epoca e non solo - che garantissero lunghi

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Ritratto dellÕ Imperatrice di Austria e Ungheria Maria Teresa dÕ Austria, in giovane etˆ. In questo quadro possiamo notare i bei lineamenti di Maria Teresa.

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Maria Teresa d’Austria

periodo di pace all’Austria, neutralizzando i sovrani che avrebbero voluto neutralizzarne la potenza e l’importanza. Maria Teresa venne così soprannominata “la suocera d’Europa”. In tre generazioni nacque, di fatto, l’impero più grande del mondo su cui “non tramontava mai il sole”. Su questo impero doveva regnare Maria Teresa d’Austria, che si distinse per le sue straordinarie doti di sovrana e di imperatrice. Il suo regno fu caratterizzato da una serie di riforme che le consentirono di realizzare una organizzazione fra le più moderne del suo tempo. L’imperatrice fu anche una dei primi sovrani a subire il fascino delle idee illuministiche, che lasciarono in lei un’impronta di laicismo che portò all’emanazione di leggi che abolivano i privilegi per la Chiesa, pur essendo Maria Teresa cattolicissima, e che esclusero i Gesuiti dal circuito dell’istruzione; nello stesso tempo, l’ordine fu soppresso. In questo modo, l’imperatrice attuò una validissima riforma della scuola, dalle elementari all’università di cui potenziò le facoltà di scienze e di economia. Nella sua visione, inoltre – e questo fa di lei una sovrana illuminata – l’istruzione era aperta a tutte le classi sociali, andando contro la concezione tradizionale dei monarchi secondo i quali “se il popolo non sa, non può neanche ribellarsi”. Maria Teresa, invece, sosteneva che “il popolo va tolto dall’ignoranza, ad esso va data istruzione al fine di poter migliorare la propria condizione, essere utile a sé steso, allo Stato ed alla prosperità collettiva”. Nell’idea dell’imperatrice, dunque, era presente la convinzione che il popolo dovesse e potesse partecipare al miglioramento dello Stato, concezione per nulla scontata, neppure ai giorni nostri. Quello di Maria Teresa, dunque, era quello che si definisce un “dispotismo illuminato”, retto da una donna che riteneva che per avere uno stato moderno e coeso fosse necessario promuovere la qualità della sua vita, non solo a livello materiale, ma anche a livello sociale e culturale. L’imperatrice d’Austria curò molto anche l’aspetto esteriore del suo regno, restaurando molti monumenti e palazzi di varie città, anche al di fuori del territorio austriaco. Chiamò alla sua corte pittori ed artisti per affrescare pareti, dipingere ritratti di lei e della sua famiglia e scultori. Come si diceva poc’anzi, la sovrana non si preoccupò solo dei territori austriaci. L’odierno sviluppo della Lombardia prende le mosse proprio dalle riforme di Maria Teresa, che era anche imperatrice di alcuni territori dell’Italia del nord. Milano, notoriamente capoluogo della regione lombarda, era il centro di maggior diffusione delle

idee illuministiche. Aperta alle novità, la città fu il faro della cultura italiana del tempo, dove il progresso la faceva da padrone. L’Accademia dei Pugni e il Caffè, giornale che prendeva il nome dalla bevanda che proprio in quel periodo aveva preso piede, erano solo alcune delle pietre miliari dell’epoca. Nei “caffè”, la gente si recava per incontrarsi e per discutere, per scambiarsi idee che andavano dalla cultura alla politica. E’ in questi luoghi che si potevano incontrare Cesare Beccaria, noto giurista autore del volume dal titolo “Dei delitti e delle pene”, contro la pena di morte, e Alessandro e Pietro Verri. L’economista Gian Rinaldo Carli nel 1765 fu incaricato dal governo austriaco di presiedere il Consiglio Economico di Milano. L’Austria infatti favoriva lo sviluppo della cultura e proteggeva le persone che si distinguevano per le proprie capacità. Proprio a Milano, inoltre, Maria Teresa d’Austria fece progettare dall’architetto neoclassico Giuseppe Piermarini il teatro alla Scala. In quel di Mantova, invece, in conformità con il vasto programma di laicizzazione e riforma, il 30 marzo 1780 venne inaugurata l’Imperial Regia Biblioteca. In tutta l’area della Lombardia, infatti, venne creata una rete di biblioteche pubbliche, quasi sempre in ex edifici conventuali della Compagnia di Gesù, soppressa nel 1773. La nascita e lo sviluppo della Biblioteca oggi detta “Teresiana” è da valutare in relazione agli altri edifici culturali ad essa attigui, ridisegnati a questo scopo proprio dagli Asburgo. La biblioteca fu fondata come istituto “sussidiario” rispetto alla Reale Accademia di Scienze e Belle Lettere – attualmente Accademia Nazionale Virgiliana – e al Liceo Ginnasio. Nei primi anni vennero messi a disposizione del pubblico volumi dell’Accademia, del collegio gesuitico, dei conventi carmelitani e certosini da poco soppressi e librerie provenienti da lasciti privati. Furono inoltre acquistate opere naturalistiche, grazie ad una dotazione annua e a stanziamenti straordinari emessi dall’amministrazione asburgica. “Fondare biblioteche è un po’ come costruire granai pubblici” sosteneva la scrittrice francese Marguerite Yourcenar, e la Biblioteca è certamente il regalo più bello e lungimirante che Maria Teresa abbia fatto a Mantova, di cui ancora tutti possono godere.

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LUCA FANCELLI

“Il tagliapietre dei Gonzaga”

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iglio dello scalpellino Iacopo di Bartolomeo, Luca Fancelli nacque a Settignano, nei pressi di Firenze, nell’anno 1430. Solo supposizioni possono farsi sugli anni della sua formazione e della prima attività di tagliapietre perché, in mancanza di dati certi, le notizie riportate da Giorgio Vasari intorno al 1550 appaiono assai contraddittorie; il biografo aretino è, però, la sola fonte del cognome del maestro, noto attraverso i documenti come Luca Paperi o, più spesso, come Luca Fiorentino. Dal giugno del 1451 Luca Fancelli compare, in qualità di tagliapietre, nei documenti relativi al palazzo che Ludovico Gonzaga stava portando a termine a Revere, sul fiume Po. La sua presenza alla corte dei marchesi di Mantova, città alla quale restò sempre legato, s’inquadra nei rapporti politici e commerciali intercorrenti, nel Quattrocento, tra i Medici e i Gonzaga. A Revere il Fancelli realizzò finestre e camini, procurandosi la pietra necessaria sia a Ferrara che nel Veronese. Negli anni che seguirono si recò spesso a Firenze, ingaggiando manodopera e riscuotendo o rimborsando somme di denaro per conto dei Gonzaga, dei quali aveva acquistato la piena fiducia. Nel palazzo di Revere approntò porte e camini, si recò poi a Riva del Garda a procurare pietre e, ancora tornato a Revere, disegnò cornici “all’antica” e capitelli. Nell’aprile 1458 si recò a Padova per invitare Andrea Mantegna a porsi al servizio del marchese Ludovico. Nel gennaio 1460, fu ospitato il papa Pio II, già a Mantova per il concilio dell’anno precedente; nei Commentari egli scrisse: “il palazzo pur non finito mostra nella sua struttura e negli ornamenti il singolare ingegno dell’architetto”. Uguali elogi tributò all’opera il Filarete, che vi riconobbe una riproposizione del “modo antico” dell’edificare, voluta dal marchese di Mantova, definito

“intendentissimo” in materia di architettura; mentre, in un altro passo del suo Trattato, incluse Luca Fancelli tra i principali esponenti dell’arte fiorentina dell’Umanesimo. In realtà l’edificio di Revere è ancora un palazzo-castello d’impronta tardogotica, in cui le concessioni al nuovo gusto rinascimentale sono rappresentate dalle arcate a tutto sesto del portico del cortile, dalla simmetria delle aperture e dal lessico adottato per il portale d’ingresso, che ripropone motivi compositivi e decorativi desunti da Michelozzo 23

La Torre dellÕ orologio di piazza Erbe a Mantova

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Il Tempio di San Sebastiano in Mantova. I lavori di realizzazione furono seguiti dallo stesso Luca Fancelli


Luca Fancelli

e da Leon Battista Alberti, per alcune porte interne e per le finestre. Dal 1460, il Fancelli diresse almeno fino al 1479 i lunghi lavori per la costruzione della chiesa di S. Sebastiano a Mantova, progettata da Leon Battista Alberti, e proseguì l’opera seguendo fedelmente le indicazioni albertiane e, nel 1464, il Gonzaga riconobbe l’importanza del suo ruolo in tale cantiere. Provvide alla ricerca ed alla fornitura della pietra, nonché al taglio ed alla squadratura dei pezzi destinati al portico, i plutei del quale, presentando bassorilievi riecheggianti motivi insieme tardoantichi e donatelliani, sono stati non concordemente attribuiti alla mano del Fancelli. Tra il 1462 e il 1468 eseguì opere in pietra per il palazzo gonzaghesco, oggi distrutto, e per la rocca, di cui rimane una sola torre, di Cavriana, località in cui costruì una casa per sé ed acquistò terreni, e, a Mantova, per il palazzo del podestà, per la casa di Antonello Facipecora, un gentiluomo napoletano della corte gonzaghesca, per il castello di S. Giorgio, costruito su progetto di Bartolino da Novara, dove, a più riprese, realizzò anche lavori in legno, consolidamenti di murature, la costruzione di una scuderia, restauri di ambienti, e soprattutto, edificò un loggiato nel cortile su progetto di Andrea Mantegna. Dal 1468 il Fancelli partecipò ai lavori per il completamento del palazzo marchionale di Gonzaga - oggi quasi totalmente distrutto- intensificando la sua attività nel 1471, per terminarla l’anno successivo, ed occupandosi della sistemazione degli interni, anche in collaborazione col Mantegna, che vi eseguì affreschi e decorazioni. Dirigendo fino a 150 operai, scrisse che, su quel cantiere, gli pareva d’essere “a lavoro a la gran Babilonia”. Altra opera andata distrutta è il palazzo di Saviola, eseguito direttamente dal marchese Ludovico, che si considerava scherzosamente “discipulo” del Fancelli e ne chiedeva la costante collaborazione. Il Fancelli fu anche occupato, saltuariamente, in lavori di pavimentazioni stradali in quel di Mantova, dove nel 1472, iniziò a dirigere i lavori della chiesa di S. Andrea, eseguita su progetto dell’Alberti, morto in quello stesso anno. Si ritiene che Luca Fancelli seguisse fedelmente, soprattutto per quanto riguarda le proporzioni, i disegni albertiani: alla sua iniziativa potrebbero riferirsi particolari decorativi che, in ogni caso, rientrano nel repertorio dell’insigne umanista. Nel corso dei lavori, condotti almeno fino al 1490, il Fancelli dovette superare alcuni disaccordi con gli operai e, significativamente, nel 1477 Ludovico Gonzaga, definendolo “nostro inzegnero”, scrisse a

proposito della chiesa di S. Andrea che “non se po’ far senza Luca perché non gli è altro che la intenda che lui”. Ancora nel 1472, sempre a Mantova, si occupò della torre dell’Orologio, per la quale l’Alberti aveva disegnato i caratteri dell’epigrafe celebrativa; eseguì inoltre restauri al castello di Sermide. L’anno successivo lavorò al monastero mantovano del Corpo di Cristo o di S. Paola, eseguì restauri al palazzo di Rodolfo Gonzaga a Luzzara ed a quello, pure gonzaghesco, di Marmirolo. Fu inoltre impegnato in rilevamenti topografici dei confini tra Mantovano e Ferrarese, collaborando con l’ingegnere ducale di Ferrara Pietro Benvenuti. Dal maggio al novembre dell’anno 1478 un’epidemia di peste colpì Mantova e ne restarono vittime anche sua moglie Elena e lo stesso marchese Ludovico. Del 1482 è il concorso per il monumento funebre, nel duomo di Mantova, in memoria della marchesa Barbara di Brandeburgo, al quale il Fancelli partecipò in concorrenza con Mantegna; l’opera, che doveva essere iniziata nel 1489 forse su suo disegno, non venne probabilmente mai eseguita. Il Fancelli si dedicò in questi anni alla sistemazione di canali e di chiuse nel territorio mantovano, dimostrandosi anche esperto ingegnere idraulico. Non si hanno altre notizie certe su Luca Fancelli, tanto che non si sa se morì a Firenze o a Mantova, né se fu verso la fine del 1495 o qualche anno più tardi. Tagliapietre e scultore, il Fancelli si è limitato spesso a completare con parti decorative opere già pressoché terminate o a dirigere lavori, come nel caso delle opere albertiane. Le sue capacità, insieme con la conoscenza del disegno e dell’antico, gli consentirono, col tempo, di acquisire il titolo di “ingegnario”, ossia quel tipo di maestro artigiano ad altissimo livello chiamato a risolvere i più svariati problemi di carattere tecnico, e, ancora più tardi, quello di architetto. Sempre legato a Firenze, godette della protezione dei Medici e fu in contatto con alcuni dei più celebri architetti ed artisti del suo tempo. Insieme col Filarete portò in Lombardia la nuova cultura architettonica rinascimentale, confrontandosi con il dominante gusto tardogotico. Nonostante tutto questo, la sua opera sfugge ad un giudizio globale che possa qualificarlo al di sopra del ruolo, pur non secondario, di diffusore del linguaggio brunelleschiano ed albertino che sostanzialmente ebbe. In ogni caso, proprio al Fancelli dobbiamo tante delle bellezze di Mantova.

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VITTORINO DA FELTRE E la sua Ca’ Zoiosa

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iglio di Bruto de’ Rambaldoni, di nobili origini feltrine e di Monda, Vittorino da Feltre nacque nel 1378, da famiglia con scarsissime possibilità economiche. Più tardi, Vittorino si trasferì nella città di Padova “nutrice delle lettere” - così le definisce Carlo de’ Rosmini, biografo di Vittorino – per continuare la sua formazione. In questa città, per mantenersi intraprese il mestiere di pedagogo, assai poco remunerativo. Fu discepolo per ciò che riguarda le lettere e l’eloquenza, di Giovanni da Ravenna, celebratissimo professore di Padova, a sua volta allievo di Francesco Petrarca. Tra gli altri precettori di Vittorino da Feltre è necessario ricordare Gasparino Barzizza, anch’egli professore di retorica nella città veneta, dal quale attinse l’amore per l’eloquenza latina e per Cicerone e fu così che Vittorino divenne grande oratore. Acquisita la scioltezza dell’eloquio, si dedicò alla dialettica e alla filosofia. Al termine degli studi conseguì in quel di Padova la laurea e diventò, così, dottore senza mai ostentare le “insegne del dottorato” poiché egli era “nemico dell’ostentazione, dicendo che l’uomo dovea andar in traccia di virtù, non ad ornamento del corpo, ma sì dello spirito”, come racconta il de’ Rosmini. Oltre ad un grande retore, Vittorino da Feltre fu anche un insigne teologo, che amava lo studio indefesso. Decise in seguito di erudirsi anche di matematica per “perfezionare l’intelletto”, sotto il maestro Biagio Pelacane da Padova, il quale era così taccagno e crudele che si rifiutava di insegnare matematica, se non dietro previo – e profumato – pagamento. Vittorino da Feltre, che disponeva solo delle magre entrate di pedagogo, divenne per sei mesi suoi servo. Al termine di questo periodo, decise di continuare da solo lo studio della matematica e iniziò a studiare Euclide. Del resto, “rado è chi che, nato e

cresciuto nelle delizie, divenga grand’uomo”, come commenta lo stesso Carlo de’ Rosmini. Per studiare le scienze matematiche, Vittorino da Feltre rinunciò senza indugio al sonno ed ai piaceri. La formazione di Vittorino è quella che si può a buon diritto definire “a tutto tondo”, tipica degli uomini colti dei tempi antichi, quando il sapere non era settoriale – come è ai giorni nostri – bensì concatenato. Nel 1423 Vittorino da Feltre fondò a Mantova la sua Ca’ Zoiosa, ribattezzata da lui stesso in seguito Ca’ Giocosa, dietro invito di Gianfrancesco I Gonzaga ed in tale istituzione gli ideali umanisti si fusero con il cristianesimo. Il simbolo della Ca’ Zoiosa era il pellicano, volatile che per nutrire i suoi piccoli si incide con il becco il petto. Quest’immagine era la metafora del precettore, che per nutrire di sapere e di cultura i suoi allievi si sottopone ad ogni sacrificio. Presso la Ca’ Zoiosa vennero educati i rampolli – maschi e femmine - di nobili famiglie, come i Gonzaga, come pure lo stesso Federico da Montefeltro, Gilberto da Correggio e tanti altri discepoli, non solo italiani, ma anche stranieri e quel che colpisce di più è che appartenevano tutti a classi sociali diverse. Persino i poveri venivano accolti alla Ca’ Zoiosa, purchè meritevoli di ricevere un’educazione di altissimo livello. L’istruzione, in questo modo, non fu più appannaggio solamente della classi sociali più abbienti, ma di tutti, seguendo il criterio - come diremmo noi oggi – del merito, o dell’inclinazione e della predisposizione. In una parola, dell’amore per il sapere, l’unico requisito veramente indispensabile per il quale si dovevano contraddistinguere gli uomini colti d’un tempo. All’interno della Ca’ Zoiosa, le giornate erano caratterizzate da una rigida disciplina e da un intenso lavoro. La fatica intellettuale si alternava alla fatica fisica, poiché gli alunni erano


Vittorino Da Feltre

{ Il dipinto, raffigurante l’umanista Vittorino da Feltre (1378-1446), fa parte di una serie che comprende 28 ritratti di Uomini Illustri, dei quali 14 conservati al MusŽ e du Louvre e 14 alla Galleria Nazionale delle Marche nel Palazzo Ducale di Urbino

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tenuti ad eseguire esercizi ginnici e “guerreschi” oltre alle lezioni. Nella sua scuola Vittorino da Feltre insegnò oltre al latino, retorica, dialettica, greco, aritmetica, geometria, astronomia e musica – ossia il trivio ed il quadrivio – anche una cultura letteraria e scientifica nuova. Vittorino da Feltre morì a Mantova nell’anno 1446 e la sua Ca’ Zoiosa formò dotti ed intellettuali per oltre vent’anni ancora. Ciò che colpisce di più della figura di

questo grande intellettuale del Rinascimento, è senza dubbio la modernità sia del personaggio che degli insegnamenti da lui impartiti. Non c’è nulla di più moderno e di democratico, infatti, di un maestro che scelga di insegnare a degli alunni meritevoli, seppur provenienti da famiglie poco abbienti o addirittura povere. Un modello che anche l’istituzione scolastica contemporanea, non solo italiana, ma anche mondiale, dovrebbe prendere come esempio e come meta.


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BARBARA DI HOHENZOLLERN La grande statista

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iglia primogenita di Giovanni l’Alchimista e di Barbara di Sassonia, Barbara di Hohenzollern, più conosciuta come Barbara di Brandeburgo, marchesa di Mantova, nacque il 30 settembre 1422. Cinque soli anni dopo la nascita, in occasione della pace conclusa tra il Brandeburgo e la Pomerania, Barbara fu promessa sposa a Joachim di Stettin, figlio del duca di Pomerania. Il matrimonio fra i due non si celebrò mai, perchè Joachim non sposò mai Barbara, ma la sorella di lei, Elisabetta. Nel 1433 si presentò a Barbara un altro progetto matrimoniale, se è possibile più vantaggioso del precedente. Nel luglio di quell’anno, infatti, si conclusero i patti nuziali tra Barbara e il figlio primogenito del marchese di Mantova Gian Francesco Gonzaga, ossia Ludovico Luigi detto il Turco. A soli undici anni, Barbara di Brandeburgo raggiunse la corte di Mantova e ivi si celebrarono le nozze, in pompa magna, con i festeggiamenti che si addicevano ad una corte italiana del Rinascimento. Data la sua giovanissima età, Barbara venne educata presso la corte dei Gonzaga, insieme con gli altri figli del marchese Gian Francesco. Proprio in questo periodo era precettore il grande umanista Vittorino da Feltre. Fu sotto la sua guida che Barbara di Brandeburgo potè raffinare il suo intelletto e divenire donna di cultura. La saggezza, il senso pratico, l’abilità di parlare ben quattro lingue furono solo alcune delle caratteristiche che fecero di lei una donna famosa, nonché una grande statista. Quello tra Barbara e Ludovico Luigi fu un matrimonio di reciproco rispetto e di stima. Nel 1444 Gian Francesco Gonzaga morì ed il figlio Ludovico dovette succedergli al trono. Barbara, divenuta marchesa, si occupò personalmente, accanto al marito di tutte le faccende dello Stato mantovano, diventando il suo braccio destro. Come attestano le

numerosissime lettere conservate nell’archivio di Stato della città di Mantova, Barbara si seppe destreggiare senza alcun problema nelle faccende di natura non solo politica, ma anche economico-finanziaria. Dimostrò grande abilità nel disbrigo di affari di stato, dando prova di essere una donna poliedrica e d’intelletto flessibile, tanto che il marito affidò a lei senza indugio il governo del marchesato durante le sue frequenti assenze, legate all’attività di condottiero al servizio di Milano e di Venezia. Barbara di Brandeburgo si distinse per il grande senso pratico. A prova di questo, è bene ricordare che proprio in questo periodo di tempo, tra il 1445 ed il 1455 lo Stato mantovano potè rafforzare e consolidare le sue basi economiche. La presa di Costantinopoli di parte del sultano Maometto II nel 1453, diede una scossa politicoeconomica ma anche morale all’Occidente intero. L’impero ottomano era ormai inarrestabile e andava sostituendosi all’antico impero romano nei territori e questa grande abilità militare fece letteralmente tremare l’Occidente. Cinque anni dopo la presa di Costantinopoli, papa Pio II preparò una dieta generale dei prìncipi cristiani, con la finalità di organizzare una spedizione contro i Turchi. In questa occasione, Barbara di Brandeburgo vide una possibilità per la sua famiglia e per il suo Stato. Ella si adoperò attivamente, infatti, per ottenere che la dieta fosse convocata proprio in quel di Mantova e a tal fine sollecitò anche lo zio Alberto Achille di Brandeburgo, perchè facesse pressioni per la designazione dello Stato gonzaghesco. Gli sforzi di Barbara furono ampiamente ripagati e il 26 settembre 1459 Pio II inaugurò la dieta a Mantova. L’ospitalità concessa al pontefice e l’appoggio diplomatico fruttò a Babara l’elevazione a cardinale di suo figlio Francesco nel 1461, all’epoca solo diciassettenne. Con la stessa caparbietà e con


Barbara Di Hohenzollern

{ In questo affresco • ritratta Barbara di Brandeburgo, ed • lÕ unico ritratto che ci • pervenuto di Barbara. Il frammento di affresco fa parte della rappresentazione della famiglia della Camera degli Sposi.

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un fortissimo senso della politica matrimoniale Barbara riuscì a sistemare anche gli altri suoi nove figli. Il 7 giugno 1463 fu celebrato il matrimonio del primogenito Federico con Margherita di Wittelsbach, sorella del duca Giovanni di Baviera. Allo stesso modo, anche una delle sue figlie, di lei omonima, venne data in sposa ad un principe tedesco il duca Eberhard I di Wurttemberg. Con un’attenta politica matrimoniale, Barbara potè rafforzare il suo potere e creare legami fra le più importanti casate dell’epoca. I suoi contemporanei lodarono la cultura e l’amore per le arti di Barbara. Ella stessa, infatti, contribuiì a rendere Mantova uno dei più importanti centri dell’arte e della cultura di tutto il Rinascimento. Barabara nel 1461 licenziò Belbello da Pavia, l’artista che aveva iniziato

per lei un messale in stile tardo gotico. La marchesa preferì a lui l’artista rinascimentale Gerolamo da Cremona. Tale svolta di gusto alla corte dei Gonzaga era dovuta all’influenza di Andrea Mantegna, che, entrato al servizio dei Gonzaga nel 1459, divenne ben presto consigliere artistico di Ludovico e Barbara. Ad Andrea Mantegna dobbiamo anche l’unico ritratto tramandato di Barbara di Brandeburgo, che venne ritratta nel 1474 nel celeberrimo affresco della Camera degli Sposi nel Palazzo Ducale di Mantova. In quel ritratto vediamo Barbara che spicca con il suo abito giallo oro al centro della famiglia. I tratti del viso sono duri e lo sguardo è rigido, quasi mascolino. Sono i tratti, però, di una “iron lady” ante litteram.


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PUBLIO VIRGILIO MARONE Il poeta del potere

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ato ad Andes, l’attuale Pietole Vecchia nel comune di Borgo Virgilio, nel 70 a.C., Publio Virgilio Marone è certamente il più grande poeta latino, tanto che viene scelto come guida da Dante Alighieri per il suo viaggio agli inferi nella Divina Commedia. Figlio di piccoli proprietari terrieri, si trasferì a Cremona per iniziare i suoi studi di retorica e successivamente a Milano e a Roma. Ivi completò la sua formazione retorica ed entrò in contatto con importanti personaggi politici e letterati, come Cornelio Gallio, Alfeno Varo e Asinio Pollione. Interessato alla filosofia si trasferì a Napoli, dove aderì alla corrente dell’epicureismo. Entrò a far parte del circolo di Mecenate, al quale più tardi dedicò il poema “le Georgiche”. Il suo ultimo componimento sarà l’Eneide, che lo prese a tal punto da compiere un viaggio in Grecia, nelle terre in cui il poema stesso era ambientato, che aggravò la sua salute. Morirà a Bridisi nel 19 a.C. e le sue spoglie verranno trasportate a Napoli, dove sono tuttora, sulla collina di Posillipo. La sua lapide reca la famosissima locuzione “Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope; cecini pascua, rura, duces”, che può essere tradotta come “Mantova mi generò, la Calabria mi rapì, ora mi tiene Napoli; cantai i pascoli, le campagne, i condottieri”. Virgilio visse in un periodo storico di estrema instabilità, forse paragonabile a quello che stiamo vivendo ora. Le istituzioni repubblicane si indebolivano sempre di più, e le guerre civili attanagliavano molti dei territori romani. Il desiderio di pace, che lo condusse a scegliere di seguire l’epicureismo come dottrina filosofica, è sempre presente nelle opere di Virgilio, per le quali il poeta sceglie un linguaggio comune, semplice, equilibrato, raffinato e colto, frutto di un “labor limae” lungo e intenso. Virgilio presta

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Busto di Publio Virgilio Marone

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molta attenzione all’ordine delle parole all’interno dei versi ed è pienamente partecipe alla narrazione, inserendo anche elementi soggettivi. Le Bucoliche Scritte su modello Teocriteo, e redatte tra il 42 e il 39 a.C., le Bucoliche sono un componimento in esametri di argomento pastorale. Nelle dieci ecloghe, Virgilio canta le vite dei pastori, ma non mancano i riferimenti alla storia a lui contemporanea e la sottile lode e la celebrazione di Augusto come garante e protettore della pace. Eccone l’incipit, con il dialogo fra i due pastori, Titiro e Melibeo: MELIBOEUS ... Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi silvestrem tenui musam meditaris avena; nos patriae fines et dulcia linquimus arva; nos patriam fugimus: tu, Tityre, lentus in umbra formosam resonare doces Amaryllida silvas.

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TYTYRUS ... O Meliboee, deus nobis haec otia fecit. Namque erit ille mihi semper deus; illius aram saepe tener nostris ab ovilibus imbuet agnus. Ille meas errare boves, ut cernis, et ipsum ludere quae vellem calamo permisit agresti. MELIBOEUS Non equidem invideo, miror magis: undique totis usque adeo turbatur agris. En ipse capellas protinus aeger ago; hanc etiam vix, Tityre, duco. Hic inter densas corylos modo namque gemellos, spem gregis, ah, silice in nuda conixa reliquit. Saepe malum hoc nobis, si mens non laeva fuisset, de caelo tactas memini praedicere quercus. Sed tamen iste deus qui sit da, Tityre, nobis. TYTIRUS Urbem quam dicunt Romam, Meliboee, putavi stultus ego huic nostrae similem, quo saepe solemus pastores ovium teneros depellere fetus: sic canibus catulos similes, sic matribus haedos noram; sic parvis componere magna solebam. Verum haec tantum alias inter caput extulit urbes, quantum lenta solent inter viburna cupressi.

Mosaico le cui tessere compongono il ritratto di Publio Virgilio Marone, come si legge nellÕ iscrizione latina

–––––––– MELIBEO ... Titiro, tu riposando sotto la chioma di un ampio faggio studi sull’esile zampogna una melodia silvestre: noi lasciamo i confini della patria e i dolci campi Noi fuggiamo dalla patria: tu, Titiro, riposando nell’ombra fai risuonare le selve del nome della bella Armellide. TITIRO ... Oh Melibeo, dio fece per noi questa pace. Infatti io avrò sempre quel dio, spesso un tenero agnello dei nostri ovili bagnerà l’altare dello stesso. Quello permise, come vedi, ai miei buoi di errare e a me stesso di suonare ciò che voglio con un flauto agreste. MELIBEO ... In verità non ti invidio, mi stupisco di più; dappertutto si crea disordine a tal punto in tutti i campi. Ecco, io stesso afflitto senza sosta


Publio Virgilio Marone

conduco le caprette; conduco anche questa a fatica, Titiro. Questa infatti poco fa ahimé ha lasciato sulla nuda pietra, qui, nel folto dei noccioli, dopo averli partoriti a fatica, due gemelli, speranza del gregge. Spesso ricordo le querce colpite dal cielo predire a noi questi mali, se la mente non fosse stata stolta. Allora, Titiro, dì a noi chi è questo dio. TITIRO Io stolto ho creduto che la città che chiamano Roma, Melibeo, fosse simile a questa nostra, dove noi pastori siamo spesso soliti cacciare i teneri piccoli di capra: Conoscevo così i piccoli simili ai cani, così i capretti alle madri, ero solito confrontare così i grandi ai piccoli. Ma tuttavia questa città ha sollevato talmente le altre tra quelle importanti, quanto sono soliti tra i flessibili viburni. Appare estremamente al passo con i nostri tempi il poema didascalico dal titolo “Le Georgiche”, scritto da Publio Virgilio Marone tra il 38 ed il 29 a.C. I quattro libri sono divisi per argomento: la coltivazione dei cereali e degli alberi da frutto per il primo ed il secondo e l’allevamento degli armenti e l’apicoltura nel terzo e nel quarto. Il libro, dedicato a Mecenate, si apre con un proemio in cui viene analizzata la coltivazione degli ulivi e della vite. Data l’attualità dei temi “ecologici” e i ragionamenti che si fanno sulla produzione del cibo nell’epoca che stiamo vivendo, le Georgiche risultano essere estremamente “moderne”. Chiudiamo questo breve profilo di Virgilio parlando dell’Eneide, senza dubbio la sua opera più famosa ed anche l’ultima che scrisse, restando incompiuta. L’Eneide è, di fatto, un elogio ad Ottaviano Augusto e alla gens Iulia, dal momento che Virgilio fa discendere la stirpe direttamente da Venere, raccontandone così le origini divine. L’Eneide è, in buona sostanza, il poema che legittima il potere di Ottaviano Augusto, visto come restauratore del mos maiorum, ossia dei valori della romanità. L’ultima opera di Virgilio, scritta tra il 31 ed il 19 a.C. è un poema epico in dodici libri in esametri dattilici, che narra la storia di Enea, figlio

di Anchise, sfuggito da Troia, che viaggiò per tutto il Mediterraneo fino ad approdare nel Lazio, per poi diventare il progenitore del popolo romano. Di seguito riportiamo l’incipit dell’Eneide, nella convinzione che sia il modo migliore per concludere questa breve presentazione del poeta che rese celebre Mantova non solo nella latinità, ma in tutto il mondo.

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Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris Italiam fato profugus Laviniaque venit litora, multum ille et terris iactatus et alto vi superum, saevae memorem Iunonis ob iram multa quoque et bello passus, dum conderet urbem inferretque deos Latio; genus unde Latinum Albanique patres atque altae moenia Romae. Musa, mihi causa memora, quo numine laeso quidve dolens regina deum tot volvere casus insignem pietate virum, tot adire labores impulerit. Tantaene animis caelestibus irae?

–––––––– Canto le armi e l’uomo che per primo dai lidi di Troia venne profugo in Italia per fato e sui litorali lavini molto quello travagliato e per terra e per mare dalla forza degli dei, a causa dell’ira memore della cattiva Giunone molto patì anche in guerra, finché fondò una città e portò nel Lazio gli dei – da cui ebbero origine la stirpe latina, i padri albani e le mura della superba Roma. Musa, ricordami le cause, per quale offesa al nume, per che cosa la dolente regina degli dei costrinse un uomo insigne per pietà a soffrire così e a sopportare tali fatiche. Di tanta ira sono capaci i celesti?

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GIUSEPPINA RIPPA

Eroina mantovana del Novecento

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l secolo che si è appena concluso è forse il periodo storico più doloroso e difficile da raccontare. Afflitto da due guerre mondiali e da svariati genocidi più o meno sconosciuti, è impossibile raccontare il Novecento senza malinconia e commozione. Il personaggio che stiamo per raccontare è sconosciuto ai più, mentre meriterebbe ben più ampia memoria da parte dei posteri. L’8 settembre del 1943, il re era scappato ed il proclama di Badoglio aveva lasciato allo sbando le truppe italiane, senza ordini precisi di fronte ad un repentino cambio di alleanza. L’esercito tedesco, fino a poco prima alleato, colse l’occasione per disarmare e catturare un grande numero di soldati italiani, che sarebbero stati in seguito inviati nei campi di concentramento in Germania. Camion stipati di uomini venivano lasciati nelle piazze delle città italiane, allo scopo di intimidire la popolazione italiana, per poi condurli sui treni che li avrebbero portati in Germania. L’11 settembre 1943, uno di questi autocarri stazionava in piazza Martiri di Belfiore a Mantova. I prigionieri affamati e senza acqua da giorni, stremati, si lamentavano. Una giovane donna di soli ventotto anni, di nome Giuseppina Rippa, che prestava servizio come domestica in un palazzo signorile lì vicino, portò acqua e pane ai soldati italiani che stavano morendo di stenti. Un militare tedesco le sparò addosso un colpo di rivoltella e Giuseppina Rippa morì, in un atto di singolare eroismo, tipico di una donna che non subisce la Storia, ma che ne è partecipe e che la fa. L’episodio muove ancora rabbia e lacrime in chi la ascolta, sia per la palese ingiustizia che questa giovane donna subì, sia per la bellezza del gesto di nutrire degli uomini affamati, pagato con la propria vita. Giuseppina Rippa sapeva perfettamente che compiendo quel gesto sarebbe stata assassinata,

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Uno dei pochi documenti fotografici che ritraggono la giovane Giuseppina Rippa

anche perchè i soldati tedeschi le avevano intimato di non avvicinarsi al convoglio, ma a lei non importò e diede il pane e l’acqua alle persone che avevano fame e sete. Questo è il vero eroismo. In ricordo di quell’episodio rimane una targa in via Principe Amedeo 1 a Mantova, che ad ogni 25 aprile, festa della Liberazione, viene onorata. La targa recita così: “A Giuseppina Rippa l’umile ed alta popolana uccisa da piombo nazista il giorno 11 settembre 1943 in piazza Martiri di Belfiore per aver offerto pane a soldati ed ufficiali italiani fatti prigionieri dall’invasore nemico – La città di Mantova U.D.I. di Mantova 25.4.1950”.


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MATILDE DI CANOSSA

La prima “Iron Lady” della storia

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rima donna di potere in epoca medioevale, Mathilde von Tuszien, meglio nota come la grancontessa Matilde di Canossa, nasce a Mantova nel 1046. Potente feudataria, contessa, duchessa, marchesa e regina, è passata alla storia come la più ardente sostenitrice del Papato nella famosa lotta per le investiture e artefice assoluta della conversione di Enrico IV. Padrona incontrastata di tutti i territori italici situati a Nord dello Stato papale, incoronata regina dalle dirette mani dell’imperatore, dopo essere entrata in possesso, nel 1076, di un vastissimo territorio comprendente le odierne Lombardia, Emilia-Romagna e Toscana, al cui centro si trova Canossa, nell’Appennino reggiano, vive in un periodo straordinario caratterizzato da aspre battaglie, intrighi, scomuniche papali, lotte intestine e religiose. Riesce a dominare un panorama politico, dove mai nessuna donna prima ha trovato spazio, grazie alle sue doti innate di saggezza, lungimiranza e attitudine al comando. Una Iron Lady ante litteram, insomma. Matilde è figlia di Bonifacio III detto il “Tiranno”, della potente famiglia feudale dei Canossa, marchesi di Toscana e discendenti dal ceppo Longobardo, e di Beatrice di Lotaringia, imparentata con i più nobili casati del suo tempo tra cui quello dei duchi di Borgogna, dei duchi di Svevia, degli Imperatori Enrico III ed Enrico IV, e dei papi Stefano IX e Leone IX. Il casato nobiliare di Beatrice è superiore a quello di Bonifacio e così la madre è in grado d’impartire alla figlia un tipo di educazione decisamente inconsueto per la sua epoca, tanto che alla piccola viene insegnato fin da subito a padroneggiare sia il tedesco che il francese. Matilde vive nel castello di Canossa tra banchetti e feste sontuose, fino all’età di sei anni, quando assiste al primo dramma della sua vita. Il 6

maggio 1052 il padre Bonifacio viene ucciso in un agguato durante una battuta di caccia e muore la sera del giorno dopo tra orribili agonie, con la gola trapassata da una freccia avvelenata. Impossibilitata a governare da sola, con tre figli ancora piccoli, Beatrice si appoggia ai pontefici e all’imperatore Enrico III, ma nonostante queste altolocate protezioni, nel 1053, quasi simultaneamente muoiono avvelenati i due fratelli maschi di Matilde. Le lotte per il potere ignorano ancora le donne, che non sono mai state considerate un pericolo. Morto il papa Leone IX, il maggior protettore di Beatrice e Matilde, il potere papale passa nelle mani di Vittore II e l’imperatore Enrico III prende con sé in Germania madre e figlia, sottraendo loro le terre. Alla sua morte, le due donne riescono a rientrare nei loro possedimenti e a porsi sotto la vigilanza di Goffredo il Barbuto, cugino di Leone IX, che contrae matrimonio con Beatrice e promette Matilde in sposa a Goffredo il Gobbo, suo figlio naturale. Questi progetti vengono però ostacolati dal nuovo imperatore del Sacro Romano Impero, Enrico IV, che costringe il novello sposo a fuggire, lasciando madre e figlia alla guida di possedimenti ancora più estesi. Nel 1057 muore papa Vittore II mentre era ospite dei Canossiani e gli succede papa Stefano IX, imparentato con Goffredo, il patrigno di Matilde. È questo l’anno in cui il pontificato introduce il conclave dei cardinali, il solo abilitato alla nomina del nuovo pontefice, secondo una consuetudine in atto ancora oggi, e si allontana dalle politiche del Sacro Romano Impero. Per non perdere del tutto l’appoggio delle potenze esterne, il nuovo papa si affida all’alleanza dei Canossa che acquisiscono ufficialmente il diritto-dovere di protezione dei pontefici, con tutto quel che ne consegue. Nel 1061 muore, sempre alla corte dei Canossa, il nuovo Papa Benedetto X e a quel

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Ritratto di Matilde di Canossa

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Matilde di Canossa

punto il Sacro Romano Impero tenta di riacquisire il controllo sul papato, nominando autonomamente un nuovo pontefice, Onorio II, in contrapposizione ad Alessandro II che è il candidato dei Canossa. In un breve e confuso periodo regnano così due papi contemporaneamente e infine, per dirimere la questione, si organizza un conclave nel feudo dei Canossa al quale Onorio II non si presenta nel timore di perdere la vita, lasciando così libera la strada alla piena legittimazione di Alessandro II. Nel 1069, alla morte del patrigno costretto in esilio, Matilde onora gli accordi matrimoniali presi da quest’ultimo quando lei era ancora bambina e per convalidare il diritto a titoli e possedimenti, convola a nozze forzate con il figlio di questi, Goffredo il Gobbo, raggiungendolo in Lotaringia. Da lui ha una bambina che però muore poco dopo il parto. Matilde, gravemente provata dalla gravidanza e sentendo la sua vita in pericolo, fugge nel 1072 e ripara dalla madre, a Canossa. Dopo un tentativo vano di riconquistare la moglie, anche Goffredo il Gobbo perde la vita in un attentato, nel 1076, lasciando Matilde vedova e libera, proprietaria di un regno sempre più vasto, di cui rimane l’unica sovrana incontrastata alla morte della madre che avviene nello stesso anno. A soli 30 anni di età, domina su un regno che dai confini del Lazio si estende fino alle rive del lago di Garda e comprende la marca di Tuscia, i ducati di Modena, Reggio e Mantova, i vasti territori di Parma, Brescia, Bologna, tutto il Veronese e la città di Ferrara. Dopo numerose vittorie, tra le quali quella sui Sassoni, l’imperatore Enrico si prepara nel 1090 alla sua terza discesa in terra italica, per infliggere una sconfitta definitiva alla Chiesa. La battaglia si accentrò presso Mantova. Matilde si assicurò la fedeltà degli abitanti esentandoli da alcune tasse. La città resistette fino al tradimento del giovedì santo, nel quale i cittadini cambiarono fronte in cambio di alcuni ulteriori diritti concessi loro dall’assediante Enrico IV. Matilde si arroccò nel 1092 sull’appennino reggiano attorno ai suoi castelli più inespugnabili. Nonostante l’esercito imperiale fosse temibile, fu distrutto dalla vassalleria matildica dei piccoli feudatari ed assegnatari dei borghi fortificati, che mantennero intatta la fedeltà ai Canossa anche di fronte all’Impero. La conoscenza perfetta dei luoghi, la velocità delle informazioni e degli spostamenti, la presa delle posizioni strategiche in tutti i luoghi elevati della Val d’Enza, avevano avuto la meglio sul potente imperatore. Pare che la stessa contessa avesse

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Matilde di Canossa sul trono

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partecipato, con un manipolo di guerrieri scelti e fedeli, alla battaglia, galvanizzando gli alleati all’idea di combattere una guerra giusta. Matilde morì nel 1115 a Bondeno di Roncore, oggi Bondanazzo di Reggiolo. Era il 24 luglio, vigilia di San Giacomo, il santo cui Matilde negli ultimi mesi aveva fatto erigere una chiesa proprio davanti alla sua camera da letto, per poter assistere alle funzioni in quanto era inferma e ammalata. Venne sepolta in San Benedetto in Polirone, in quel di San Benedetto Po.


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I MARTIRI DI BELFIORE

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opo la caduta di Napoleone, a Mantova, la maggior parte della popolazione restò indifferente di fronte al ritorno degli austriaci, anche se il ripristino immediato delle consuetudini conservatrici asburgiche si fece sentire quando entrò a far parte del Regno del Lombardo-Veneto sotto l’Impero. Venne privilegiata la sua funzione di fortezza, che insieme a Peschiera, Verona, Legnago, formava il cosiddetto “Quadrilatero”. L’Austria, vinta la Prima Guerra d’Indipendenza e repressi i moti del ‘48-’49, seguì nel Lombardo -Veneto le indicazioni del Cancelliere dell’Impero, Felice di Schwartanberg, che sosteneva, per scoraggiare qualsiasi tentativo d’autonomia, il bisogno di qualche “salutare impiccagione”. Infatti ben novecentosessantuno condanne a morte vennero eseguite nel regno in un anno, inoltre ai funzionari civili e militari era permesso applicare pene corporali; infine vennero imposti pesantissimi tributi alle popolazioni. Di fronte ad una stretta così dura, il malcontento cresceva, alimentando le file dei movimenti di rivolta. In questo senso, l’impero Asburgico rivelava il suo lato feroce. Il movimento Mantovano amalgamò le differenze ideologiche esistenti fra i rivoluzionari riconoscendo che era necessario prima di tutto organizzarsi per preparare una coscienza civica. Le basi dell’organizzazione vennero poste in una riunione tenutasi il 2 novembre 1850 in un’ abitazione nell’odierna via G.Chiassi al numero 10,per decidere di creare un comitato insurrezionale allo scopo di raccogliere armi e denaro, creare collegamenti con altre organizzazioni ed infine di contrastare l’Austria. Diciotto mantovani parteciparono a questa storica seduta, tra cui Giovanni Acerbi, Carlo Poma, Achille Sacchi, don Enrico Tazzoli, il vero organizzatore e coordinatore del moto,

ed altri rivoluzionari. Tra i più attivi, don Enrico Tazzoli, aveva stretti contatti con Tito Speri uno dei più audaci protagonisti delle dieci giornate di Brescia del 1849, Antonio Scarsellini di Venezia, il conte Carlo Montanari di Verona, i fratelli Lazzati e Pezzotti di Milano ed inoltre era in accordo con Mazzini, esule a Londra, per lanciare le cartelle del prestito interprovinciale mazziniano per la raccolta di monete di piccolo taglio. L’audacia dei mantovani era tale che le cartelle venivano offerte pubblicamente nei bar senza temere la polizia.

Il Monumento ai Martiri di Belfiore

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Tito Speri, Angelo Fattori, il pittore Boldrini, Angelo Giacomelli, Antonio Lazzati, Francesco Montanari detenuti nelle carceri di Mantova (1853) A fianco, la targa commemorativa dedicata ai Martiri di Belfiore in via Chiassi a Mantova


I Martiri di Belfiore

Il 5 novembre 1851, fu giustiziato presso Belfiore, il sacerdote don Giovanni Grioli, che non faceva parte della congiura ma fu accusato falsamente di aver tentato di corrompere due soldati ungheresi e per questo condannato alla pena capitale. Nel gennaio del 1852, la congiura venne scoperta per una circostanza fortuita: durante la perquisizione in casa di Luigi Pesci, esattore comunale di Castiglione delle Siviere, alla ricerca di banconote false, vennero trovate alcune cartelle del prestito mazziniano. Pesci interrogato, svelò che un professore del Seminario di Mantova, don Ferdinando Bosio, gli aveva venduto le cartelle. Questi, dopo aver resistito per ventiquattro giorni agli interrogatori, confessò che il coordinatore del movimento mazziniano era un suo collega, don Enrico Tazzoli che fu arrestato il 27 gennaio del 1852 . Egli si considerò estraneo alle accuse di don Bosio e non rivelò la chiave di lettura del quaderno su cui annotava, secondo un codice segreto i nomi degli affiliati e le somme raccolte che gli avevano sequestrato. Tra gli altri, venne arrestato anche Luigi Castellazzo, segretario del comitato mantovano che confessò la trama della congiura. Forse diede la chiave per decodificare, anche se non vi è la prova certa, il codice segreto chiamato Pater Noster con cui venivano cifrati i documenti dal Tazzoli. Il 24 giugno, in carcere, don Tazzoli seppe che gli austriaci avevano decifrato la chiave di lettura del suo quaderno. Vennero arrestati: Carlo Poma, Tito Speri, Carlo Montanari e altri iscritti di Mantova, Verona, Brescia e Venezia, poiché il centro della congiura era Mantova qui furono condotti tutti i prigionieri. Quasi tutti i prigionieri confessarono; anche don Tazzoli, ritenne assurdo negare l’evidenza, cercò di minimizzare la responsabilità degli altri ma non rivelò i nomi di quelli che si celavano sotto pseudonimo. Furono tutti rinchiusi e sottoposti a torture morali e fisiche, organizzate dallo spietato giudice istruttore tedesco Krausn, nelle carceri del castello di San Giorgio o in quello tremendo della Mainolda.Alcuni non resistettero e morirono in seguito alle sevizie ed alla somministrazione massiccia di belladonna; furono processate 110 persone. Il 7 dicembre 1852 furono eseguite le prime condanne a morte per impiccagione.A seguito della sentenza il Vescovo di Mantova, monsignor Corti tentò inutilmente di intervenire affinché si evitasse per don Enrico Tazzoli la sconsacrazione. Fu costretto, su ordine del Papa, a procedere alla mortificante cerimonia:

la lettura della formula di condanna, il ritiro dei paramenti sacri tolti di dosso e la raschiatura con un coltello della pelle delle dita che sorreggono l’ostia durante la comunione. La tragedia poteva essere evitata, se solo avessero negato le accuse, infatti l’articolo 443 del codice penale austriaco prevedeva nei casi di alto tradimento vent’anni di prigionia e non la forca, riservata solo a chi si dichiarava reo. Unico patriota che non fu condannato a morte fu Giuseppe Finzi che aveva sempre negato di fronte alle accuse dei compagni, e in base al predetto articolo fu condannato a 18 anni di carcere duro. Il primo ad essere impiccato fu Giovanni Zambelli,di seguito Angelo Scarsellini, don Enrico Tazzoli, Bernardo de Canaled infine il medico Carlo Poma. Sui muri delle celle, nell’odierno Convento attiguo alla Chiesa di Santa Teresa trasformato in prigione dove trascorsero gli ultimi giorni, don Tazzoli scrisse di perdonare tutti sperando per sè il perdono di Dio mentre Bernardo de Canal annotò angoscioso “Chi avrebbe detto a mia madre, quando me dié la vita: costui aspetta il carnefice? povera madre! Viva l’Italia”. Il processo contro gli altri rivoluzionari prosegue e nel marzo del 1853, in piazza Sordello, davanti ad uno schieramento imponente composto da due battaglioni schierati con due cannoni in batteria venne letta la sentenza. Il colonnello Kraus, in grande uniforme, lesse le lunghe disposizioni che commutavano a vent’anni di carcere, la pena di morte per venti dei venitrè condannati, mentre diviene esecutiva per Carlo Montanari, don Bartolomeo Grazioli, arciprete di Revere e Tito Speri che il 3 marzo del 1853 vennero impiccati a Belfiore. Il 16 marzo viene emessa un’altra sentenza di morte, riguarda Pietro Frattini. Venne impiccato il 19 marzo, poche ore prima che fosse notificato un proclama di amnistia a tutti i condannati, edito per il compleanno dell’imperatore, da Radetzky. Infine, fuori città, nei pressi dell’incrocio tra la via Legnaghese con Strada Cipata il 4 luglio del 1855 fu giustiziato Pier Fortunato Calvi. Dalla fine del 1848 al 1854 nel Lombardo Veneto vi furono proteste contadine, sfociate a volte in vere rivolte. La reazione austriaca fu sempre spietata: una prima commissione nel mantovano, nominata da Gorzkowski mandò a morte sedici contadini nel periodo tra il 1848-1850. Mantova non è dunque una terra che abbia bisogno di eroi.

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ROBERTO ARDIGÒ

Filosofo del Positivismo

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gli inizi del Novecento Roberto Ardigò era ancora considerato, nell’ambito del positivismo italiano, l’autore di una sintesi in grado di superare gli opposti punti di vista del materialismo e dell’idealismo, ma la rapida trasformazione dei paradigmi epistemologici delle scienze e i mutamenti del quadro filosofico ne annunciavano il tramonto. Influenza più duratura, almeno fino all’affermazione dell’egemonia neoidealistica, ebbe la sua opera etico-politica: per il legame con il Risorgimento e il ripensamento dei fondamenti della morale e della società, essa aveva stimolato un ampio dibattito, lungo un trentennio, tra le correnti interessate a una prassi riformatrice e all’evoluzione democratica del nuovo Stato. Ardigò nacque a Casteldidone, in provincia di Cremona il 28 gennaio 1828. Trasferitosi con i familiari a Mantova nel 1836 per le gravi difficoltà economiche del padre, frequenta il seminario. Ordinato sacerdote nel 1851, fu ospite fino al 1860 di monsignor Luigi Martini, rettore del seminario e ‘confortatore’ dei martiri di Belfiore, che ne seguì l’educazione; nel 1863 fu nominato canonico della cattedrale; divenne quindi docente nel ginnasio e, con l’abilitazione ottenuta nel 1866, nel liceo. Gli studi lo condussero alla svolta della sua vita, maturata in una crisi religiosa e nell’apostasia. Le premesse di questa scelta risultarono evidenti nel discorso su Pietro Pomponazzi letto nel marzo 1869 presso il liceo mantovano: l’audacia delle posizioni ivi espresse provocò, insieme a vivaci polemiche da parte clericale, la sospensione a divinis e la messa all’Indice della pubblicazione. Falliti i tentativi di dimostrare la compatibilità delle opinioni scientifiche con la condizione ecclesiastica, la successiva dichiarazione contro l’infallibilità del papa e la pubblicazione di “La psicologia come scienza positiva” nel 1870, resero la sua posizione insostenibile: da qui la decisione di svestire l’abito. La condizione laicale e l’improvvisa notorietà favorirono le relazioni

con gli esponenti del nascente movimento positivistico, in particolare con Pasquale Villari. Mentre attendeva alla stesura delle sue opere principali, partecipò anche marginalmente alla vita politica locale, entrando in rapporto con l’area repubblicano-radicale e fu membro del circolo democratico “Benedetto Cairoli” di Padova. Nel 1881, dopo aver subìto la censura del segretario generale della Pubblica istruzione (che giudicava il suo insegnamento, improntato al naturalismo positivistico, offensivo per le credenze delle famiglie), il nuovo ministro Guido Baccelli lo promosse alla cattedra di storia della filosofia dell’Università di Padova. Si ritirò dalla vita attiva nel 1909, dopo aver stampato le sue opere in undici volumi. Di se stesso, scrittore prolifico e instancabile, e del suo austero carattere, aveva scritto: “Lavoreremo finché avremo fiato. Anche a morir di fame. Anche se tutti sono contro di noi. E faremo vedere a quella gente grassa, che dice sé morale e tutti gli altri immorali, che possano i repubblicani Ritratto di Roberto Ardig˜ positivisti”. I suoi settanta e ottant’anni furono celebrati solennemente da uno stuolo di allievi, ricevette onori pubblici, compresa la nomina a senatore nel 1913, come un decano della cultura italiana e un maestro del positivismo. Sopravvisse alla Prima Guerra Mondiale, lucidamente, anche se in condizioni psicofisiche penose, che lo condussero a due tentativi di suicidio negli ultimi anni della sua esistenza. Morì a Mantova il 15 settembre 1920. Presso la Biblioteca Teresiana di Mantova è ancora conservata la barba di Roberto Ardigò.

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MANTOVA

Eventi

Viaggio nella Mantova del Settecento - Museo del Tempo e della Misura Gli amanti di Valdaro – concorso nazionale per accademie di Belle Arti Il tempo di Mozart a Mantova con Maria Teresa imperatrice - Faccio p-arte Ciclo di manifestazioni dedicate agli elementi naturali - Foresta blu Mantov-a-mano - Perform premio europeo di fotografia e videoarte, rituali di memoria europea - Mantova comics and games - Mantova creative lab Gonzaga, una dinastia al potere - Bazzani e Bottani - Arlecchino d’Oro MantovaDanza - MantovaCineweb - I giardini e i parchi dal Rinascimento ad oggi - International chamber music festival - Un’idea di città - Viaggio alla scoperta delle testimonianze di grandi architetti - Masterplan dei riusi - MantovaArchitettura - MantovaCreativa - MSA Mantova street art festival - Delizie in musica - Viaggio nella Mantova rinascimentale Mantova festa a corte - 35° Mantova Jazz - Pubblico Dominio - Mantova International Children Right Festival - Animando Mantova - Mantova Festival del saper fare artigiano - Mantova film festival - 20° Festivaletteratura - Mantova family friendly - Cibo per la mente - Viaggio con Virgilio - Edizione speciale del premio Virgilio - #fattidicultura - Incontri con il gusto – ERG: European Region of Gastronomy - Mostra Rinascimento - Viaggio nella Mantova risorgimentale - 150° Anniversario dell’annessione di Mantova al Regno d’Italia - Museo del Risorgimento presso San Sebastiano - Segni d’infanzia - Man-tovah, la città dalla manna buona - La kabala spiegata ai profani - Viaggio nella Mantova ebraica

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La Capitale da Vivere

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a città di Mantova è stata proclamata Capitale Italiana della Cultura 2016. Molte le proposte ideate e organizzate anche per il pubblico internazionale alla scoperta delle attrattive culturali, ma anche ambientali ed enogastronomiche, che hanno reso celebre la città nel mondo. Arte, architettura, archeologia, musica, natura, tipicità culinarie: Mantova durante l’anno svelerà attraverso percorsi tematici inediti tutti i suoi tesori. Dal complesso di Palazzo Ducale, una vera “città nella città” che si estende dal Castello di San Giorgio a Piazza Sordello e conserva meraviglie come la Camera degli Sposi del Mantegna, a Palazzo Te, villa rinascimentale costruita e decorata da Giulio Romano. Dalla Basilica di Sant’Andrea progettata da Leon Battista Alberti al Teatro Scientifico del Bibiena e alla Basilica Palatina di Santa Barbara. Le visite però non si concentreranno solo sui monumenti e le piazze del centro storico: Mantova è anche Parco del Mincio, un’area protetta che circonda la città con tre laghi e sponde verdi da percorrere, riserve naturali e habitat da scoprire con itinerari in barca, in bicicletta o a piedi che permettono di ammirare la flora e la fauna tipica delle zone lacustri e di vedere i borghi rivieraschi che la circondano. Altre mete come Sabbioneta e San Benedetto Po completano le proposte di itinerari. Da non perdere anche i percorsi tra cultura ed enogastronomia, per conoscere le tipicità dei prodotti e delle ricette di Mantova, la cui cucina è stata definita “di principi e di popolo”. I turisti potranno acquistare la Mantova card a 20 euro, valida 72 ore, che garantisce l’accesso a 15 musei di Mantova e Sabbioneta, l’utilizzo di bus e bici pubbliche e offerte in ristoranti e hotel. I visitatori potranno inoltre sperimentare, grazie all’app creata appositamente per Mantova Capitale, un’inedita interazione tra mondo fisico e mondo digitale: la Phigital City, tutta da scoprire.

Uno scorcio di piazza Sordello, con la facciata di Palazzo Ducale


La Capitale da Vivere

La rotonda di San Lorenzo in piazza delle Erbe

GLI ITINERARI: 1 - Mantova e Sabbioneta, patrimonio dell’umanità dell’Unesco Le due città rinascimentali con l’impronta dei Gonzaga Mantova e Sabbioneta, splendori del Rinascimento (1 giorno) Mantova, Sabbioneta e Castellaro Lagusello (3 giorni)

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4 - Enogastronomia d’eccellenza Assaggi e lezioni per conoscere una cucina raffinata, che esalta i prodotti del territorio Alla tavola dei Gonzaga – City Break con cooking class (2 giorni) 5 - Arte e fede Un percorso tra basiliche, santuari e reliquie sacre Edifici religiosi e arte sacra (2 o 3 giorni)

2 - Mantova, città d’arte, città di cultura Oltre duemila anni di storia hanno lasciato testimonianze uniche, dagli etruschi alle opere di artisti come Andrea Mantegna, Giulio Romano e Leon Battista Alberti Mantova e i suoi tesori (1 o 2 giorni) Il Percorso del Principe, lo spirito del Rinascimento (1 giorno) Il centro storico, la città romana e medievale (½ giornata) Mantova e i borghi più belli d’Italia (3 giorni) Mantova e il Settecento (1 giorno) Mantova archeologica (2 giorni) 3 - Un viaggio tra la natura Percorsi a piedi, in bicicletta o sull’acqua alla scoperta dei laghi e della Riserva Naturale Valli del Mincio Luce di Luna (½ giornata) Mantova e i laghi (½ giornata) Terra Acqua e Cielo (1 giorno)

Tramonto sulle sponde del Lago Inferiore


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PALAZZO DUCALE

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12 maggio • Conferenza Eduardo Souto de Maura Sala di Manto

ALTRI EVENTI

20 maggio • Conferenza e seminario il disegno. Età moderna Sala degli arcieri

9 aprile • Inaugurazione restauro campanile S. Barbara, Diocesi di Mantova

23 maggio • Presentazione volume in onore di Paolo Carpeggiani – Sala degli Arcieri

16 marzo, 15 aprile, 29 aprile e 13 maggio • Assaggi di Festival, con l’Orchestra da Camera di Mantova

26 maggio • Chiusura Sala di Manto, ospiti internazionali

4 maggio • Inaugurazione mostra Appartamenti di Isabella d’Este MANTOVA ARCHITETTURA 6 maggio • Presentazione volume Federico II Gonzaga Sala degli arcieri

1 – 5 giugno • Festival internazionale di Musica da Camera “Trame sonore” 3 settembre • Presentazione libro Edgarda Ferri su Isabella d’Este 7 – 11 settembre • Festivaletteratura

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Viaggio a PALAZZO

TE

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L

asciatevi guidare per le meravigliose stanze di Palazzo Te dalle descrizioni che tra poco andrete a leggere. Usate tutta la vostra immaginazione per immergervi in questo viaggio che vi farà rivivere le incantevoli atmosfere che solo un capolavoro del Rinascimento sa regalare. Appena giungete di fronte a Palazzo Te, notate le linee eleganti e perfettamente inserite nella natura. Così, infatti, era stata concepita la reggia che i Gonzaga utilizzavano per i loro svaghi e i loro momenti di ozio, nonché per ricevere i loro ospiti più importanti. Il contesto nel quale era stato desiderato Palazzo Te dai Gonzaga era quello della campagna, della natura. Nel Cinquecento, infatti, Mantova non era altro che

un’isola contornata da quattro laghi formati dal fiume Mincio. Accanto all’isola che ospitava la città di Mantova ve ne era un’altra, che portava il nome di “Teieto”, che successivamente divenne “Te” ed è da qui che il palazzo prende il nome. L’etimologia del termine “Teieto” è ancora incerta: potrebbe riferirsi, infatti, sia a “tiglieto”, cioè “il luogo dei tigli” o “tegia” cioè “capanna. Qualsiasi sia la derivazione del nome, sappiamo per certo che l’isola fosse verdeggiante, ed era quella che oggi potremmo definire “la campagna” per i Gonzaga. Nel 1502 Francesco II Gonzaga, marito della colta mecenate Isabella d’Este fa costruire su quest’isola le stalle per i suoi amatissimi cavalli. E’ sulle “spoglie” di queste scuderie che Giulio Romano costruirà Palazzo Te.

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Inizio del percorso

I

mmaginate ora di avvicinarvi all’entrata di Palazzo Te. Appena giunti nell’atrio potete notare un ambiente sereno ed elegante, adornato da un gioco di vera e finta pietra, specchio del connubio fra natura ed artificio che è il filo rosso che unisce ogni ambiente del palazzo. Sia all’esterno che all’interno, l’architettura mostra un’eleganza che bene inserisce tutta la struttura all’interno di un contesto naturale. Il senso del limite, l’evitare sempre di peccare di tracotanza è l’altro tema ricorrente del palazzo, che sia a livello simbolico, sia da un punto di vista dell’architettura, mira costantemente al rispetto dei limiti.

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Appena passate l’atrio, giungete nella biglietteria. La stanza successiva, in cui potete notare un plastico in scala dell’intera struttura, è dedicata al committente e all’artista che ha creato Palazzo Te. • Il committente di Palazzo Te è Federico II Gonzaga (1500 – 1540), figlio di Francesco II e di Isabella d’Este. Nato e cresciuto nella bellezza, fa di essa la sua principale passione. Reggerà Mantova come marchese dal 1519 al 1530, poi in quell’anno, Carlo V d’Asburgo giungerà nella terra di Virgilio per proclamarlo duca. E’ proprio in questa occasione che l’imperatore soggiornerà e verrà ospitato presso Palazzo Te. Federico II, non distinguendosi per le doti da condottiero, nella sua vita si dedica al governo della città e al suo amore per l’arte. Con la complicità di Baldassarre Castiglione, riuscirà a far venire a Mantova il miglior pupillo di Raffaello, quel Giulio Romano che tanto farà per le terre

In alto, la pianta di Palazzo Te A fianco, il ritratto di Federico II Gonzaga, committente di palazzo Te


dei Gonzaga. Di Federico II abbiamo un ritratto, attualmente conservato al Museo del Prado di Madrid, dipinto da Tiziano, in cui il marchese vezzeggia un cane, simbolo di fedeltà. • Giulio di Piero Pippi de’ Iannuzzi, detto Romano, di cui si può notare il ritratto fatto da Tiziano all’interno di una teca, nasce a Roma tra il 1492 e il 1499 (la data di nascita non è certa) ed era uno dei principali collaboratori e discepoli di Raffaello e da lui acquisisce i segreti. Da Michelangelo però prende il dinamismo delle figure. Giulio Romano giunge a Mantova nel 1524 e nel 1526 diventerà prefetto delle fabbriche e vicario di corte presso i Gonzaga. Lo vediamo ritratto da Tiziano che mostra il disegno di un progetto di un edificio mai identificato. La luce illumina magistralmente la sua fronte, artifizio tipico del Rinascimento, dove la ragione umana acquista una posizione centrale.

Ritratto di Giulio Romano che mostra la pianta di un palazzo mai identificato. Sotto, unÕ immagine aerea di palazzo Te

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Camera di OVIDIO o delle METAMORFOSI

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a stanza, seppur di piccole dimensioni, e per questo detta “camarino”, prende il nome dalle rappresentazioni dei miti raffigurati nei fregi, tratti dalle Metamorfosi di Ovidio. L’atmosfera intima, con la luce fioca proveniente dall’unica finestra mette in risalto i temi delle scene raffigurate della decorazione parietale: la musica apollinea, l’ebbrezza, l’erotismo. Apollineo e dionisiaco, caos e ordine, ragione e sentimento si alternano, tenendo sempre presente il senso del limite e il timore di peccare di tracotanza. I temi mitologici sono alternati a paesaggi. Il tutto evoca la pittura antica, che gli artisti del Cinquecento utilizzavano come modello ispiratore. Nelle rovine sepolte della Domus Aurea di Nerone in Roma, si trovava l’ideale. Tra le scene tratte da Ovidio troviamo l’abbraccio sensuale tra Bacco e Arianna, il cruento Apollo e Marsia, ma anche Orfeo agli inferi, Il giudizio di Paride, Danza di satiri e menadi, La sfida tra Apollo e Pan, Dioniso ebbro, Menadi che tormentano un satiro. Gli artisti ricordati per aver lavorato alla sua decorazione sono Anselmo Guazzi e Agostino da Mozzanica. La decorazione pittorica risulta essere realizzata intorno al 1527, tra le prime dell’intero palazzo.

riprese a suonare lo strumento, ma vedendo il suo volto riflesso nell’acqua capì il motivo dell’ilarità delle due dee: soffiando nelle canne del flauto, infatti, il viso della dea si gonfiava, arrossava e deformava. Adirata, Atena gettò via lo strumento musicale maledicendo chiunque l’avesse raccolto. L’aulòs fu trovato e raccolto da Marsia, un satiro di origine frigia, che esercitandosi divenne abilissimo nel suonarlo. La fama acquisita era tale che un giorno il satiro osò lanciare una sfida ad Apollo, dio della musica, certo di poterlo battere. Il dio accettò e chiamò le Muse a giudicare la contesa. In un primo momento la giuria rimase molto colpita dalle melodie dell’aulòs di Marsia; Apollo quindi – temendo una sconfitta – iniziò a suonare la sua lira e a cantare contemporaneamente, sfidando il rivale a fare altrettanto: chiaramente, la natura stessa dello strumento a fiato del satiro non gliel’avrebbe consentito, e così la vittoria fu assegnata al dio. Come punizione per aver osato sfidare un dio, mettendosi in competizione, Apollo sottopose Marsia ad una tortura atroce (ed è proprio da questo punto che parte il racconto ovidiano): legatolo ad un albero, lo scorticò vivo. Satiri, ninfe e fauni accorsero per piangere un ultima volta il compagno, e dalle loro lacrime nacque un fiume che prese il suo nome.

IL MITO DI MARSIA Racconta il mito che un giorno Atena, per riprodurre il lamento lanciato dalle Gorgoni quando Perseo decapitò la sorella inventò uno strumento a fiato, l’aulòs, un flauto a doppia canna. Qualche tempo dopo, al termine di un banchetto degli dei, la dea per compiacere Zeus e gli altri convitati, prese il suo strumento ed iniziò a suonare. La musica era piacevole, ma ciò nonostante Era e Afrodite scoppiarono a ridere, prendendosi gioco di lei. Offesa, Atena fuggì dall’Olimpo, fermandosi nei pressi di un lago; qui

Particolare dellÕ affresco della Camera di Ovidio o delle Metamorfosi

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Camera delle IMPRESE

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a stanza, così come la precedente, presenta ridotte dimensioni e prende il nome dal soggetto principale del fregio che la decora: le imprese della famiglia Gonzaga. L’impresa non è da intendersi, naturalmente, come “res gestae”, bensì come un emblema composto da una immagine - il corpo - e da un motto – ossia l’anima. L’impresa costituisce un elemento di cui fregiarsi per esprimere dei valori cari, per raccontare vicende importanti legate alla propria vita o segreti amorosi. Il significato spesso criptico e la lingua del motto (latino o lingua straniera) rendono l’impresa accessibile solo a una cerchia di amici o a visitatori di elevata cultura. Adottare un’impresa, trasmetterla di padre in figlio o regalarla ad amici cari e fedeli, diventa, tra Medioevo e Rinascimento, una vera e propria moda presso le corti e gli ambienti umanistici. A Palazzo Te, così come in tutte le residenze della famiglia Gonzaga, le imprese vengono rappresentate molto di frequente. Nella camera delle Imprese esse sono tenute da putti, che come telamoni in miniatura le reggono con le braccia spalancate tra girali d’acanto: alcune imprese sono connesse al committente, il marchese Federico II (monte olimpo, salamandra, boschetto); altre fanno parte del repertorio della casata (ali, tortora, guanto, cane, sole); almeno due sono legate al padre di Federico, Francesco II (crogiolo, museruola) mentre sono completamente assenti in questa sala le imprese della madre Isabella, della quale ricordiamo l’impresa che così recita: “nec

spe nec metu”, ossia né con la speranza, né con la paura. L’impresa forse più famosa che caratterizza la figura del committente del Palazzo Te, Federico II è quella della salamandra e recita così: “quod huic deest, me torquet” - “ciò che ad essa manca mi tormenta”. Ciò che tormentava tanto Federico II erano le passioni amorose e carnali. La leggenda vuole che la salamandra, gettata nel fuoco, non possa bruciare, simbolo e sinonimo dell’innomoramento. La decorazione pittorica, databile al 1530, è limitata alla parte alta della sala mentre nella parte inferiore sono dipinte finte incrostazioni marmoree. Invenzione originale è quella di sostituire i tradizionali telamoni con putti, in una sorta di parodia del tema antico, presente in tutto il palazzo, che fa di Giulio Romano un maestro celebrato e imitato. 61

Particolare dell’affresco raffigurante dei putti che reggono gli stemmi in piedi sui cornicioni


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Camera del SOLE e della LUNA

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mmaginiamo ora di proseguire la nostra visita entrando nella Camera del Sole e della Luna. Dopo la Camera di Ovidio o delle Metamorfosi e in quella delle Imprese, stiamo per immergerci in un altro ambiente ricco di richiami e di storia. Questa camera viene ricordata come “salotto” nei documenti, e aveva la funzione di introdurre gli ospiti alle camere riservate delle Imprese e di Ovidio. Da questo si deduce che gli ospiti entrassero dalla Loggia delle Muse, ambiente che vedremo fra poco e che non seguissero il percorso che seguiamo noi oggi. La Camera del Sole e della Luna presenta un affresco nel centro del soffitto che rappresenta, appunto, il carro del sole e quello della luna. La volta è a “carena di nave rovesciata” e presenta compartimenti a losanga in stucco bianco che racchiudono figurine, anch’esse in stucco, tratte prevalentemente da monete e gemme antiche, di cui Giulio Romano era collezionista, ma anche dal repertorio dei più alti maestri del ‘500 italiano, Raffaello e Michelangelo. In alcuni punti si può notare che il colore dello sfondo originale era il rosso pompeiano e non quello che vediamo ora. Non mancano, negli scomparti triangolari, all’imposta della volta e ai bordi del riquadro centrale, emblemi e imprese dei Gonzaga. Al centro di questo omaggio all’antichità classica domina un lungo riquadro dedicato alla rappresentazione allegorica del Sole e della Luna. Dal basso verso l’alto, è rappresentata l’ora del tramonto con Apollo, sul suo carro che esce di scena mentre alle

sue spalle giunge Diana, la luna tirata da due cavalli: quello bianco simboleggia il giorno e quello nero la notte. La tradizione vuole che l’affresco sia stato eseguito, su disegno di Giulio Romano, dal suo più brillante allievo, Francesco Primaticcio. Pur non essendoci riscontri certi nei documenti, la qualità dell’affresco sembra confermare questa ipotesi mentre la differenza di stile tra i diversi stucchi testimonia la compresenza di più mani: probabilmente Nicolò da Milano, Giovan Battista Mantovano e lo stesso Primaticcio. La decorazione della sala, analogamente alle altre decorazioni di quest’ala del palazzo, è ascrivibile al 1527-28. L’ardito scorcio adottato per l’affresco del Sole e della Luna suscita l’interesse di molti pittori del Cinquecento: ne sono prova il diffondersi di disegni e stampe e la testimonianza di artisti di grande levatura, come Paolo Veronese, che accolgono l’invenzione di Giulio Romano reinterpretandola in modo nuovo e originale. La decorazione presente nella parte inferiore della sala è invece più tarda. Nel 1790 i maestri dell’Accademia di Belle Art, che curano il restauro del palazzo, deliberano di ornarne le pareti, giudicate spoglie, con riproduzioni di stucchi cinquecenteschi che si trovano in altre parti del palazzo e due calchi da sarcofagi antichi conservati a Palazzo Ducale L’affresco del soffitto che rappresenta il carro del sole e il carro della luna

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Viaggio a Palazzo Te

Sala dei CAVALLI

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Veduta della Sala dei Cavalli

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ntriamo ora nel “vivo” del palazzo. Senza dubbio da qui in poi gli affreschi vi colpiranno a tal punto da non poterli più dimenticare. La ricchezza delle decorazioni è un unicum in tutta l’arte rinascimentale. La Sala dei Cavalli è l’unica “sala” del palazzo, perchè è quella di dimensioni maggiori rispetto alle altre. Era anche lo spazio pubblico per eccellenza. E’ qui che si svolgevano feste e balli, come quello che vide protagonista l’imperatore Carlo V nella sua visita a Mantova nel 1530. La sala prende ovviamente il

nome dalla decorazione pittorica: gli amati cavalli delle scuderie gonzaghesche, infatti, sono raffigurati a grandezza naturale, su uno sfondo di paesaggi lontani. Le dimensioni, le posture, gli sguardi li rendono vivi e partecipi dell’ambiente, e quasi sembra che i loro occhi seguano quelli del visitatore. Tuuto questo è a testimonianza dell’amore che i Gonzaga nutrivano per questi animali. Le effigi sono veri ritratti di cavalli che abitavano le scuderie dei Gonzaga. Di quattro è persino tramandato il nome: Morel Favorito, Glorioso, Battaglia, Dario. Il primo e l’ultimo recano ancora


traccia della scritta che li identifica. Federico II, così come il padre e i suoi avi, allevava cavalli nelle celebri scuderie di famiglia. Essi erano il dono più pregiato che si potesse fare ad un amico, come Giulio Romano, o a un sovrano, come l’imperatore Carlo V. Non è un caso dunque che i cavalli siano protagonisti della stanza di rappresentanza della villa. L’ambiente è illuminato da cinque finestre e lo spazio è scandito da un’architettura classica dipinta, di ordine corinzio, impreziosita da coloratissimi finti marmi. Al centro della parete meridionale spicca l’imponente camino di marmo rosso, pensato come una commistione tra elementi perfettamente rifiniti e conci di pietra rustica. La raffigurazione dei cavalli, ad esaltarne l’eleganza e la solennità, è intervallata da nicchie che fingono statue di divinità e busti di personaggi antichi. Al di sopra di queste sono dipinte, a mo’ di bassorilievi di bronzo, sei Fatiche di Ercole. La decorazione si conclude fastosamente nel fregio a variopinti girali di acanto, popolato di putti e puttine che giocano sul capo di beffardi mascheroni, elementi briosi che spezzano la cadenzata solennità della finta architettura. La committenza è celebrata nelle aquile

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gonzaghesche dipinte agli angoli e nel pregevole soffitto a cassettoni, dove in oro su fondale blu sono intagliate le imprese del Monte Olimpo e della salamandra. La salamandra è l’impresa che abbiamo visto poc’anzi, mentre il monte Olimpo simboleggia la fedeltà (all’imperatore, ovviamente) e la calma. Data la sua altitudine, infatti, il monte ellenico viene risparmiato da ogni perturbazione atmosferica. Essendo, però, anche la residenza dei dodici dei, esso rappresenta anche la sacralità e la trascendenza. La sala si ritiene che sia stata decorata tra il 1525 e il 1527.

Ritratti di cavalli


Camera di AMORE e PISCHE

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ccediamo ora nell’ambiente più sontuoso del palazzo, dove gli affreschi coprono ogni centimetro visibile delle pareti. Ecco era destinato ad accogliere solamente gli ospiti più illustri per banchetti e cene, come appunto Carlo V d’Asburgo nelle sue visite in quel di Mantova. La camera prende il nome dal mito di Amore e Psiche (che riporteremo tra poco), dipinta sulla volta e nelle lunette, e i ventidue passi illustrati da Giulio Romano a Palazzo Te sono tratti dalle Metamorfosi di Apuleio, scrittore latino del II secolo d. C. Il tema centrale dell’intera decorazione è Amore: divinità “mostruosa”, il più potente tra tutti gli dei, temuto dallo stesso Giove, al quale nessuno può sottrarsi, dal potere destabilizzante. Sulle pareti sono dipinte altre favole mitologiche, che narrano di amori contrastati, clandestini, tragici, non corrisposti. Numerose le relazioni tra gli dei e gli uomini (Venere e Adone, Bacco e Arianna, Giove e Olimpiade), ma si narrano anche le passioni fra divinità (Marte e Venere, Aci e Galatea) come anche quelle tra uomini e animali (Pasifae e il toro). Le pareti sud e ovest coinvolgono il visitatore nei preparativi di un sontuoso banchetto che richiama l’idea delle feste lupercali, al quale partecipano gli dei, nonché satiri e putti. Protagonisti dell’evento Amore e Psiche, sdraiati sul klìne e tra loro la figlia, Voluptas. Si tratterebbe del banchetto che si svolge sull’isola di Venere, così come descritto nel testo umanistico dell’Hypnerotomachia Poliphili, idealmente paragonata paragonata all’isola del Te. Pur non essendoci una stretta connessione logica tra tutti gli episodi, pare degna di rilievo l’interpretazione che vede una relazione tra i temi trattati nella decorazione pittorica e la vicenda personale del

Particolari del soffitto e della parete nord della Camera di Amore e Psiche

committente. Sembra esserci un parallelo tra la passione di Amore per Psiche, contrastata dalla madre del dio, e quella nutrita da Federico per Isabella Boschetti, avversato dalla madre del Gonzaga, Isabella D’Este. Così anche nell’amore di Giove per Olimpiade che, come la Boschetti, era sposata. La sontuosità della decorazione non si manifesta solamente nella varietà dei temi trattati, ma anche nelle tecniche adottate. Le pareti, dipinte ad affresco, presentano rifiniture a tempera e incorniciature a stucco; la volta è realizzata con una struttura in legno, rivestita da un sottile strato di intonaco e decorata con pittura a olio di grande lucentezza e intensità cromatica. Sulla volta sono stucchi dorati più elaborati incorniciano le


Viaggio a Palazzo Te

diverse scene. Nella sala è possibile leggere la maturità artistica di Giulio Romano, il suo controllo assiduo sulla realizzazione dell’opera, gli interventi diretti e l’indipendenza stilistica rispetto alla scuola romana di Raffaello. Giulio manifesta un linguaggio innovatore nelle pose artificiose, nelle inquadrature vertiginose, nello sconcertante realismo di alcuni dettagli e nella rappresentazione della sensualità, così come anche nel gioco delle luci sulla volta, dove si associano colori crepuscolari ed effetti di controluce. Il percorso cerimoniale prevedeva, come accade oggi nel percorso di visita, l’ingresso dalla Sala dei Cavalli. Sulla fascia dorata posta sotto le lunette corre un’iscrizione in caratteri romani che spiega la funzione dell’intero palazzo: “FEDERICVS GONZAGA II MAR<chio> V S<anctae> R<omanae> E<cclesiae> et REIP<ublicae> FLOR<entinae> CAPITANEVS GENERALIS HONESTO OCIO POST LABORES AD REPARANDAM VIRT<utem> QVIETI CONSTRVI MANDAVIT” ovvero “Federico II Gonzaga quinto marchese di Mantova capitano generale della Santa Romana Chiesa e della Repubblica Fiorentina ordinò di costruire per l’onesto ozio dopo le fatiche per ritemprare le forze nella quiete”. La decorazione della camera è realizzata tra il 1526 e il 1528; le fonti registrano interventi diretti di Giulio Romano, coadiuvato da Gianfrancesco Penni, Girolamo da Treviso, Rinaldo Mantovano, Benedetto Pagni, Fermo Ghisoni.

IL MITO DI AMORE E PSICHE Un re ed una regina avevano tre figlie, una delle quali si chiamava Psiche. Psiche era di una bellezza rarissima tanto che alcuni pensavano che fosse l’incarnazione di Venere, perciò tutti l’adoravano come se fosse una dea trascurando la dea Venere. Venere, che era invidiosa e gelosa di Psiche, chiese aiuto al suo figlio prediletto, Amore, o meglio conosciuto come Cupido. La vendetta consisteva nel fare innamorare Psiche dell’uomo più brutto e sfortunato della terra, in modo da ricoprirla di vergogna a causa di questa relazione. Amore però appena vide Psiche rimase incantato dalla sua bellezza e fece cadere la freccia preparata per Psiche nel suo stesso piede, così che lui si innamorò perdutamente di lei. Non poté più stare lontano dalla sua amata e con l’aiuto di Zefiro, Psiche fu portata nel meraviglioso palazzo d’Amore. Ogni notte Amore andava da Psiche senza mai farsi vedere in volto perché si voleva nascondere per evitare le ire della madre Venere. Amore aveva detto alla sua amata che era il suo sposo e che lei non doveva chiedergli chi fosse e non doveva nemmeno vederlo. Un giorno le sorelle di Psiche la istigarono a scoprire il volto del suo amato ed allora Psiche prese una lampada a olio e un rasoio per paura che fosse un orribile mostro: Psiche raggiunse Amore mentre dormiva e avvicinò la lampada al suo volto e rimase così incantata dalla sua bellezza che se ne innamorò. Stava per baciarlo quando lui si accorse di quello che era successo e di colpo sparì. Venere appena seppe

Particolare dellÕ affresco che ritrae Amore, Psiche e la loro figlia, Voluttà

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dell’accaduto scatenò la sua ira su Psiche. La sottopose a diverse prove terribili che lei superò brillantemente, ma Venere, ancora insoddisfatta, le diede la prova più difficile di tutte, che consisteva di scendere negli inferi e chiedere alla dea Proserpina un po’ della sua bellezza. Psiche scese negli inferi, come ordinato, e ricevette un’ampolla dalla dea Proserpina, ma questa ampolla

non doveva essere aperta. Psiche incuriosita dal contenuto l’aprì e scoprì che dentro non c’era la bellezza, bensì il sonno più profondo e così cadde addormentata. Giove mosso a compassione fece in modo che i due amanti potessero stare insieme e aiutò Amore a risvegliare Psiche. Psiche e Amore si sposarono e dalla loro unione nacque una figlia, di nome Voluttà.

In alto, particolare dellÕ affresco che raffigura le feste lupercali A fianco, particolare dello stesso affresco

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Camera dei VENTI e dello ZODIACO

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a camera è dedicata ai segni zodiacali, che decorano buona parte del soffitto con stucchi presenti nelle unghie della volta, e grottesche su fondo rosso scuro e da un tondo, al centro, raffigurante la personificazione di un vento che soffia. Ogni maschera ha una particolare caratterizzazione e l’insieme si configura come una sorta di antologia di caricature. Il ruolo dei venti è quello di separare la volta celeste, con le divinità e i segni zodiacali, dal mondo terreno dove, influenzate dalle stelle, si svolgono le vicende umane. L’ambiente veniva denominato anche Camera de’ Pianeti, delle Medaglie, dello Zodiaco. Il motivo centrale della decorazione della sala è quello astrologico, e sottolinea l’influsso che le stelle esercitano sull’uomo, come spiega l’epigrafe sopra la porta meridionale “DISTAT ENIM QVAE SYDERA TE EXCIPIANT” , motto di Giovenale, che significa: “dipende infatti da quali stelle ti ricevano (alla nascita)”. L’articolazione della volta in pannelli tiene conto del tema: lo schema geometrico vede la raffigurazione, al centro, dell’impresa del Monte Olimpo attorno al quale si dispongono le dodici divinità olimpiche, affrescate o modellate a stucco, preposte alla tutela dei segni zodiacali. Questi ultimi sono presentati nella fascia perimetrale della volta come bassorilievi e si alternano a dipinti con le personificazioni dei mesi. L’influsso delle diverse costellazioni, associate ai segni zodiacali, è invece raffigurato nella fascia alta delle pareti. Le storie sono racchiuse in una cornice circolare a finto marmo, dipinta in prospettiva. I Gonzaga, come moltissime altre dinastie, erano molto interessati all’astrologia e presso la corte risiedevano maghi ed indovini. Giulio Romano illustra le attitudini e le attività indotte negli uomini non tanto dal segno zodiacale, quanto dalle costellazioni “extrazodiacali” presenti alla nascita, i così detti “paranatellonta”. L’intero ciclo è ispirato alle teorie astrologiche presenti nei testi antichi di Firmico Materno e Manilio. Interessante anche il tema decorativo dei peducci della volta, sorretti da satiri e satiresse con le braccia alzate che

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Il soffitto della Camera dei Venti

svolgono il compito di telamoni. La camera si qualifica come ambiente riservato; qui si intrattenne, nel corso della sua visita nel 1530, l’imperatore Carlo V, dopo aver pranzato nella camera di Amore e Psiche. La decorazione viene realizzata tra il 1527 e il 1528. Vi partecipano lo scultore Nicolò da Milano (stucchi di figura e festoni), lo stuccatore Andrea di Pezi (foglie d’acanto sui peducci e incorniciature a stampo) e i pittori Anselmo Guazzi, Agostino da Mozzanica, Benedetto Pagni e Girolamo da Treviso. In marmo di Brentonico le mostre delle porte e il camino, che presenta sull’architrave una scritta dedicatoria relativa al committente.


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Camera delle AQUILE

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Particolare della volta della Camera delle Aquile

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a camera presenta quattro grandi aquile ad ali spiegate agli angoli all’imposta della volta ed è da qui che prende il suo nome. Chiamata anche Camera di Fetonte, dal tema dell’affresco nell’ottagono centrale, era la stanza da letto di Federico Gonzaga. La ricchezza della decorazione colpisce lo sguardo del visitatore dato anche lo spazio tanto limitato. Tale decorazione è caratterizzata pure dalla varietà materica: sulla volta troviamo, infatti, affreschi, stucchi - molti dei quali un tempo erano ricoperti da foglia d’oro zecchino - e marmi. Lo schema della volta è complesso, al centro vediamo l’ottagono che riporta la Caduta di Fetonte, figlio di

Apollo che, conducendo il carro del Sole senza esserne in grado, provoca gravi danni alla terra, tanto che Giove deve farlo precipitare con un fulmine. Giulio Romano propone la scena dell’apparizione di Giove e della caduta di Fetonte dal basso, con forti effetti di controluce. Attorno all’ottagono centrale la volta viene suddivisa in otto lunette da tralci di vite in stucco abitati da putti giocosi, eseguiti da Primaticcio. Appena entrati, se alziamo lo sguardo, possiamo vedere un puttino che, scherzosamente, urina. Agli angoli si trovano quattro conchiglie dorate che fungono da sfondo alle aquile araldiche di colore nero, rese con tratti naturalistici ricavati da modelli antichi, sempre presenti in tutto

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il palazzo; è opportuno tenere presente che in tutto il Rinascimento, l’antichità era vista come il “faro”, non per niente i dotti del tempo affermavano di essere solo “nani sulle spalle dei giganti”, dove i giganti erano i classici greci e latini. Le lunette sono impostate su peducci dorati che sorreggono le temibili arpie. Nello spazio tra le lunette minori e l’ottagono trovano posto in riquadri quattro bassorilievi di stucco, attribuibili a Primaticcio, raffiguranti Nettuno che rapisce Anfitrite, Giove che rapisce Europa, Mercurio dinanzi a Giove, Giunone e Nettuno, Plutone che rapisce Proserpina, di cui parleremo tra poco. Di notevole qualità anche le quattro fasce dipinte alla base delle lunette maggiori con battaglie mitologiche. Al di sotto di questa già ricca decorazione corre un fregio dove si alternano trofei a stucco con un ampio repertorio di armi, corazze, scudi, elmi, rostri e strumenti musicali, cammei (posti negli angoli sotto le grandi aquile) e busti femminili in marmo dentro clipei. Anche gli elementi architettonici si distinguono per la qualità dei materiali utilizzati. Il camino è di una bella varietà di marmo lumachella delle prealpi 74

L’affresco centrale che raffigura la caduta di Fetonte

trentine, mentre le mostre delle porte sono di un marmo greco chiamato “portasanta” perché utilizzato per intagliare, nella ricorrenza giubilare del 1525, la porta Santa della Basilica di San Pietro a Roma. I documenti attestano che i portali di Palazzo Te furono realizzati nello stesso anno e dallo stesso maestro di marmi che realizzò quello di San Pietro. Le scritte sul camino e sugli architravi delle porte commemorano il committente.

IL RATTO DI PROSERPINA La dea Demetra era particolarmente amata dagli uomini. Proteggeva il lavoro dei campi, faceva maturare i frutti e biondeggiare il grano, ricopriva la terra di fiori e di erbe. Ella aveva una figlia, Proserpina, una fanciulla bionda e soave, sempre sorridente, con due grandi occhi fiduciosi e profondi. In un mattino sereno in cui il sole illuminava ogni cosa Proserpina, in compagnia di altre ninfe, si divertiva a correre sui prati ricoperti di erba rugiadosa e di fiori multicolori. Le splendide creature ridevano, scherzavano, gareggiavano nel raccogliere rose, giacinti, viole per fame ghirlande e adornarsi le vesti. Ad un tratto avvenne un fatto prodigioso, un terribile boato lacerò l’aria. La terra si spaccò e dal baratro balzò fuori, su un cocchio d’oro trainato da quattro cavalli nerissimi, un dio bello e vigoroso ma dallo sguardo triste. Con le sue braccia possenti afferrò Proserpina e la trascinò con sé incitando i cavalli a correre velocemente. Era Plutone il dio delle tenebre che, preso dalla bellezza di Proserpina, si era innamorato perdutamente di lei. Aveva chiesto e ottenuto da Giove di poterla sposare, perciò era venuto sulla terra e l’aveva rapita. La fanciulla atterrita levò in alto terribili grida, ma nessuno udì la sua voce. Implorò il padre Giove ma questi, avendo permesso il ratto, non poté aiutarla. I cavalli intanto galoppavano veloci. Proserpina, prima di entrare nel grembo della terra, rivolse alla madre un’ultima e disperata invocazione. Il suo grido fu così forte che montagne, boschi e prati fecero eco alla sua voce. Demetra l’udì dall’Olimpo. Sconvolta dall’ansia, scese volando in terra. Cercò ovunque l’adorata figlia, vagò per nove giorni e nove notti. Visitò gli angoli più


Lunetta con stucchi ed affreschi

nascosti e lontani senza mai assaggiare né ambrosia né nettare tanto era il suo dolore. La cercò persino negli antri marini, chiese notizie all’aurora, al tramonto, ai fiumi, ma nessuno volle dirle la verità. All’alba del decimo giorno, quando ogni ricerca risultò vana la dea, in preda alla più folle angoscia, interrogò il sole. - Dimmi la verità - implorò - tu, che dal cielo tutto illumini, dimmi chi l’ha rapita e in quale luogo la vedesti. Il sole ebbe pietà di lei e volle rassicurarla: - È stato Plutone, il dio delle tenebre, a rapire la tua diletta figlia per farla sua sposa. Ora Proserpina è laggiù e con il suo sorriso rallegra quel tristissimo luogo. Demetra, sempre più disperata, si allontanò dall’Olimpo e si rifugiò ad Eleusi, in un tempio a lei consacrato, dimenticandosi della terra che aspettava la sua protezione. Così a poco a poco i frutti marcirono, le spighe seccarono, i fiori e i prati ingiallirono e infine la terra divenne brulla e riarsa. Allora Giove ebbe compassione degli uomini, chiamò Iride e la mandò da Demetra perché l’invitasse a tornare tra gli dei. Ma la dea messaggera non riuscì ad ottenere nulla. Tutti gli dei, uno dopo l’altro, andarono a supplicarla offrendole doni magnifici, ma Demetra non si lasciò convincere. Rispondeva che non avrebbe donato né messi né ricchezze ai campi se prima non avesse riavuto sua

figlia. Giove mandò allora Mercurio dal re degli inferi affinché lo persuadesse a rendere la fanciulla alla madre. Plutone non osò disubbidire al volere di Giove, ma meditò in cuor suo di non restituire Proserpina per sempre. Esortò la fanciulla a salire sul carro che doveva ricondurla sulla terra. Prima che ella si allontanasse però le offrì alcuni chicchi di melograno. Proserpina li accettò, ignorando che per un’antica legge divina i rossi chicchi di quel frutto l’avrebbero per sempre legata agli inferi. Insieme a Mercurio la fanciulla ritornò nel mondo della luce e si recò nel tempio di Eleusi, dove trovò Demetra. Al solo vederla la dea si trasfigurò in volto, corse incontro alla figlia, l’abbracciò teneramente. Si consolarono a vicenda, parlando a lungo tra loro. Allora Demetra comprese che il legame tra la sua amata figlia e Plutone era ormai indissolubile e perciò chiese a Giove di poterla avere con sé almeno per una parte dell’anno. Il dio dell’Olimpo acconsentì, così Demetra ritornò finalmente fra gli dei e la natura si risvegliò. Da quel giorno, ogni volta che Proserpina torna nel mondo, i prati si coprono di fiori, i frutti cominciano a maturare sugli alberi e il grano germoglia nei campi. È la stagione della Primavera.

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Loggia di DAVIDE

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a loggia di Davide, totalmente esposto all’esterno, è uno spazio di passaggio tra gli appartamenti signorili, il cortile d’onore e il giardino. È uno degli ambienti più ampi dell’intero palazzo, dove si poteva soggiornare ammirando il giardino, un tempo ricco di fiori e piante, e le peschiere: per questo motivo ben rappresenta l’idea rinascimentale della vita in villa, fatta di ozio e riposo dalla responsabilità di governo, proprio come si recita nel fregio della Camera di Amore e Psiche. La struttura architettonica colpisce per l’ariosità dello spazio, che si apre verso il giardino con tre ampie arcate, poggianti su gruppi di quattro colonne, e con un fornice su pilastri quadrati, affiancato da due arcate cieche, verso il cortile d’onore. Notevole la ricchezza degli ornati plastici, tratti dal repertorio classico, come sempre. La decorazione della loggia segue vicende complesse che si protraggono sino al XIX secolo. La ricca documentazione in proposito permette di sapere che inizialmente essa doveva ospitare busti di condottieri, tanto da essere citata anche come “Loggia dei Capitani”. Il nome attuale deriva invece dalla decorazione, fatta di stucchi e affreschi, che si svolge nelle due lunette di testa, nelle lunette del lato ovest e nei lacunari della volta a botte. La realizzazione delle scene dedicate alla storia biblica di Davide si protrae tra il 1531 e il 1534. Il protagonista di questo spazio del palazzo è dunque un eroe ebreo esaltato per le sue virtù di condottiero e guerriero - Davide e Golia, Davide lotta contro un orso, Davide lotta contro un leone, L’incoronazione di Davide - ma anche per le attitudini poetiche - Davide suona la cetra. I tre ottagoni della volta narrano la storia di Davide e Betsabea: il re vedendo Betsabea al bagno se ne innamora e, non potendo sopportare di dividerla con il marito, manda quest’ultimo a morire in battaglia. Come già nella camera di Amore e Psiche, sono forti i riferimenti alla vicenda personale del committente. Federico II Gonzaga infatti, innamorato di Isabella Boschetti, già sposata, come Betsabea,

77 Particolare della volta della Loggia di Davide

accusa di complotto il marito di lei Francesco di Calvisano. Questi fugge, ma viene pugnalato di lì a pochi giorni, su probabile mandato di Federico. L’intero ciclo dunque può essere interpretato come una sorta di legittimazione, visto il precedente biblico, dell’adulterio e dell’omicidio commessi dal principe. La loggia rimane a lungo incompiuta, come testimoniano disegni con specchiature e nicchie vuote, e nei secoli successivi numerosi sono gli interventi volti a completarla. Nel XVII secolo viene realizzata la maggior parte delle statue di virtù poste nelle nicchie, opera poi completata nel 1805 con l’aggiunta di altre cinque statue la cui iconografia è tratta, come in precedenza, dall’Iconografia del Ripa. Tra il 1808 e il 1809 vengono realizzate, ad opera di Giovanni Bellavite, le specchiature sopra le nicchie e le porte. È qui arricchito, con bassorilievi a imitazione del bronzo, il tema principe delle Storie di Davide.


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Camera degli STUCCHI

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a camera si contraddistingue dalle altre perché è ornata interamente da stucchi senza alcuna pittura; si tratta di un ambiente raffinato con forti legami con la cultura antica. I rilievi a stucco imitano il marmo sia nella levigatezza plastica del modellato che nel colore bianco. Lungo le pareti corrono due fregi sovrapposti: l’idea è innovativa, ma lo sviluppo del motivo decorativo trae ispirazione dalle colonne coclidi di Traiano e di Marco Aurelio. Viene così raffigurato e minutamente descritto un esercito romano in marcia, astratta rievocazione storica, svincolata da precisi riferimenti, nella quale Giulio Romano dà prova della perfetta conoscenza archeologica dell’iconografia militare antica. I riferimenti alla contemporaneità sono limitati a due stemmi, quello degli Asburgo e quello dei Gonzaga. Così i valori esemplari degli antichi nell’arte bellica sono trasposti nella tradizione militare dei Gonzaga e negli eserciti dell’Impero. Anche in questo caso vediamo che il richiamo al mondo latino è sempre presente. Le figure occupano quasi completamente il fregio, lungo oltre sessanta metri. Le azioni e le pose degli innumerevoli personaggi sono tanto varie da rendere la parata multiforme e avvincente, mentre l’ambientazione è ridotta a pochi elementi architettonici o naturalistici. La maniera antica è ripresa in modo originale nella volta a botte a cassettoni, dove venticinque riquadri sono decorati a bassorilievo in stucco

bianco su fondo nero quasi ad imitare, nella finezza delle figure, cammei di pietre dure. Gli stessi soggetti effigiati sono tratti dalla storia classica e dal mito, fatta eccezione per una scena, inspiegata, di battesimo. Le lunette, anch’esse decorate in stucco su fondale di finto marmo, riprendono il tema bellico del doppio fregio con Ercole, l’eroe guerriero seduto sulla pelle di leone e appoggiato alla clava in quella orientale, e Marte, modellato quasi a tutto tondo, nella nicchia occidentale. La decorazione è sicuramente realizzata da Francesco Primaticcio, con la collaborazione di Giovan Battista Mantovano, prima della partenza del Primaticcio per la corte di Francia nel 1531. 79

Particolare della Camera degli Stucchi


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Camera degli Imperatori o di CESARE

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La volta della Camera dei Cesari

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a camera degli Imperatori è detta anche di Cesare per il soggetto della scena che caratterizza il centro del soffitto. La decorazione originale si concentra sulla volta ed è organizzata con un pannello piano centrale, due grandi pannelli rettangolari sui lati lunghi separati da un tondo e un pannello rettangolare sui lati brevi. Qui trovano spazio le scene figurate che danno il nome alla camera e che rappresentano attraverso esempi antichi le virtù proprie di un principe rinascimentale. La scena principale è dedicata all’episodio di Cesare che ordina di bruciare le lettere di Pompeo, narrato da Plinio come esempio di assoluta correttezza militare. I sei pannelli rettangolari sono interamente occupati da grandi figure di imperatori e guerrieri. Sono stati individuati: Alessandro Magno, Giulio Cesare,

Augusto, Filippo di Macedonia. I tondi sui lati lunghi della volta presentano episodi storici legati alla magnanimità dei sovrani antichi: Alessandro Magno che ripone l’Iliade e l’Odissea in uno scrigno da un lato e “La continenza di Scipione” dall’altro. Gli angoli della volta sono invece ornati a ottagoni intrecciati su fondo azzurro, bordati di bianco e con palmette dorate al centro e ospitano, nella parte inferiore, medaglioni ovali con le imprese gonzaghesche del boschetto, della salamandra, dell’Olimpo e dello Zodiaco, sostenute da putti e vittorie alate. Al di sotto della volta corre un fregio dipinto con putti e medaglioni realizzato nel 1788-1789 dal pittore accademico Felice Campi in sostituzione di un rifacimento di inizio secolo e con l’intenzione di restituire quello che doveva essere il motivo cinquecentesco originale.


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Camera dei GIGANTI

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Un particolare dell’affresco che raffigura la caduta dei Giganti

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a Camera dei Giganti è certamente l’ambiente più famoso e stupefacente di Palazzo Te. E’ qui che Lorenzo Jovanotti ha girato il video della sua canzone “L’ombelico del mondo”. Tale camera costituisce un vero e proprio unicum nella storia dell’arte moderna, poiché Giulio Romano vi propone una sperimentazione pittorica originale e ineguagliata per secoli. L’ambiente è concepito come un insieme spaziale continuo, ove l’invenzione pittorica interagisce con la realtà e lo spettatore si sente catapultato nel mito. I limiti architettonici sono dissimulati dalla pittura, che si stende senza soluzione di continuità su pareti e volta e, in origine, coinvolgeva anche il pavimento. Vasari infatti ci informa che questo era formato da

ciottoli di fiume che proseguivano, dipinti, alla base delle pareti. La vicenda che viene messa in scena è quella della Caduta dei Giganti, tratta dalle Metamorfosi di Ovidio. Abitanti della terra scellerati e presuntuosi, i Giganti volevano sostituirsi agli dei. Per fare ciò tentarono di conquistare il monte Olimpo accostando tra di loro i monti Pelio e Ossa e iniziarono a scalarli. Giulio Romano fissa il racconto al concitato momento seguito alla reazione di Giove, che punisce i Giganti scatenando contro di loro la furia degli elementi e colpendoli con i fulmini infallibili, aiutato da Giunone. Lo spettatore è trasportato nel mezzo di questa scena, con la schiera numerosa degli dei dell’Olimpo, Giove alla testa, su nel cielo e la rovinosa e violenta caduta dei Giganti qui sulla terra. Il cielo è descritto con un


magnifico sfondato prospettico al cui centro si trova un tempio circolare visto da sott’in su e il trono di Giove presieduto dall’aquila. A dividere il cielo dalla terra stanno ai quattro angoli del globo, o meglio della camera, i venti che soffiano tra le nubi. Più in basso crollano montagne, palazzi e templi sotto le cui rovine giacciono in pose scomposte i Giganti. Come detto, la decorazione si svolge in modo continuo e unitario, ma ciascuna parete ha una propria ambientazione. Sul lato orientale trovava spazio un camino, ora tamponato. L’invenzione di Giulio Romano sfruttava anche questo suggestivo elemento architettonico, poiché il fuoco sprigionato dal camino proseguiva, nella finzione pittorica, nelle fiamme che escono dalla bocca del gigante Tifeo, qui dipinto sepolto sotto le rocce delle Sicilia: è lui la causa delle eruzioni dell’Etna. Le pareti sud, ovest e nord giocano sulla presenza in primissimo piano delle mastodontiche figure dei giganti, delle rocce e delle architetture che rovinano al suolo, ma aprono a scenari lontani, spazi aperti dove è possibile verificare l’orrore e il disastro provocato dalla reazione delle divinità davanti alla presunzione dei Giganti. La rappresentazione è da interpretare in chiave politica, come sommo omaggio alla potenza dell’imperatore Carlo V, ed etica, quale esempio di superbia punita e monito per gli stessi sovrani. I documenti attestano che la maggior parte delle figurazioni è realizzata, tra il 1532 e il 1534, da Rinaldo Mantovano, aiutato sui paesaggi e sugli elementi architettonici da Luca da Faenza e Fermo Ghisoni. Da notare come tutt’intorno, ad altezza uomo, corrano lungo la camera scritte graffite, non eliminate

nel corso dei restauri negli anni ottanta perché considerate documento storico: le prime iscrizioni risalgono addirittura al XVI secolo. Interessante notare come la particolarità e l’eccezionalità della sala abbia nei secoli destato le più svariate reazioni, dall’ammirazione totale mostrata dal Vasari alla repulsione per tanto orrore e violenza descritta da Charles Dickens. Anche in questo caso la temperanza è il tema centrale. L’evitare di peccare di “ivris” e il non essere tracotante, il rispetto dei limiti sono i messaggi fondamentali che la decorazione di tutto il palazzo vuole trasmettere.

In alto un particolare dell’Olimpo e i suoi abitanti nella volta della Camera dei Giganti Sotto gli dei scatenano la furia degli elementi scagliando fulmini contro i Giganti

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...prosegue il nostro viaggio

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tiamo ora per entrare negli ambienti che vi stupiranno meno. Le decorazioni sono meno ricche rispetto al resto del palazzo e gli ambienti sono di ridotte dimensioni. Questi salottini, inoltre, hanno subìto numerosi restauri e rimaneggiamenti nel Settecento e nell’Ottocento. 1 - IL CAMERINO A CROCIERA Questo ambiente di modeste dimensioni separa l’ala monumentale del palazzo da quella delle stanze private, meno riccamente decorate. La volta a crociera, da cui prende il nome, è decorata tra il 1533 e il 1534. Gli stucchi a stampo sono eseguiti da Biagio de Conti e Benedetto di Bertoldo, mentre le finiture a mano delle foglie d’acanto dei peducci sono realizzate da Andrea de Conti. La volta è dipinta a grottesche da Gerolamo da Pontremoli, in tonalità cangianti sul rosa, rosso, giallo dorato e verde argentato; la composizione propone erme di Diana Efesina inquadrate da sfingi su due vele opposte, e sulle altre da coppie di amorini che reggono un medaglione. La parte inferiore della stanza è decorata nel 1813, a finto marmo e rilievi a stucco, dal ticinese Gerolamo Staffieri.

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2 - IL CAMERINO DELLE GROTTESCHE Piccolo camerino quadrato rivolto a meridione, coperto da una volta a padiglione ottagonale, decorato nel 1533. Le incorniciature a stucco sono opera di Andrea di Conti, mentre Luca da Faenza si occupa della decorazione a grottesche che si sviluppa sulla volta e dalla quale la stanza prende il nome. In ogni vela le grottesche si compongono attorno a un riquadro con aggraziati giochi di putti in bassorilievo su fondo nero o rosso, come piccoli cammei sorretti da putti più grandi. Tutt’attorno un repertorio di mascheroni, fiori, insetti, uccelli, animali fantastici, figurine mitologiche, nei toni del bianco e del giallo dorato. Nel sottarco della finestra rimane una fascia dipinta a grottesche che reca al centro un tondo con l’immagine di Amore, assegnabile a Gerolamo da Pontremoli. 3 - IL CAMERINO DI VENERE Il camerino di Venere è un ambiente di piccolissime dimensioni che immetteva attraverso una scala alla stufetta, bagno privato di Federico II, nel mezzanino. Il nome deriva dal tondo affrescato al centro della volta, raffigurante la Toeletta di Venere. La dea, tiene in mano uno specchio ed è in compagnia di Amore. Il tema iconografico è completato da amorini che

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porgono in volo alla dea oggetti da toeletta: piumino e pennello, fiala di profumo, salvietta, specchio, pettini, turbante. Le figure si inseriscono in modo grazioso in una più ampia decorazione a grottesca con rettangoli dai fondali ocra e rosso dalle vivaci cromie. Nelle fasce perimetrali dal fondo bianco la decorazione presenta spade, scudi, faretre che alludono alle virtù marziali del signore. La scomparsa della decorazione a stucco alla base della volta limita fortemente la lettura dell’affascinante ambiente, dipinto nel 1534 da Gerolamo da Pontremoli. 4 - LA CAMERA DEI CANDELABRI La camera presenta nel suo complesso un’impostazione neoclassica dovuta alle decorazioni parietali e del soffitto dello Staffieri, datate 1813. Originale, e dovuto al disegno di Giulio Romano, è invece il fregio scandito da candelabri in stucco, da cui la camera prende il nome. Agli angoli trionfi di armi e barbari prigionieri di grande risalto plastico. Il contrasto dei bianchi rilievi sui fondi scuri verdi e rosso dona grande intensità cromatica al fregio, che vede il succedersi di stucchi e scene dipinte raffiguranti personaggi della mitologia classica, biblici (David e Giuditta) e della storia romana (Tarquinio e Lucrezia). Vi si trova un’alternanza di esempi virtuosi e viziosi, sintetizzati dalla scena con Ercole al bivio. Come attestano gli atti di pagamento, gli stucchi vengono realizzati, nel 1527, da Giovan Battista Scultori e Nicolò da Milano; le decorazioni pittoriche sono invece attribuibili ad Agostino da Mozzanica. 5 - LA CAMERA DELLE CARIATIDI È l’ambiente del palazzo che ha subito le trasformazioni più radicali. La decorazione della sala è frutto di una mescolanza di apparati originali, di ornati neoclassici e di stucchi cinquecenteschi provenienti da Palazzo Ducale e qui reimpiegati. Pertinenti alla decorazione originale sono gli stucchi racchiusi entro tondi della fascia più alta del fregio, probabilmente opera di Nicolò da Milano, mentre le cariatidi (da cui la camera prende il nome), i telamoni e i pannelli raffiguranti le tre parti del giorno della

fascia sottostante vennero realizzati su disegno di Giulio Romano per l’appartamento vedovile di Isabella d’Este e per l’appartamento di Troia, nel palazzo Ducale. La decorazione neoclassica e l’inserimento dei rilievi provenienti da Palazzo Ducale sono il frutto di un intervento dello Staffieri del 1813. 6 - LA LOGGIA MERIDIONALE Questa sala di ampie dimensioni trae il nome dalla destinazione originaria nel progetto di Giulio Romano. L’ambiente viene infatti concepito come loggia, speculare a quella delle Muse che si trova, verso nord, dalla parte opposta del cortile. Alla fine del Cinquecento tuttavia l’ambiente risultava ancora incompiuto e la sistemazione attuale è il risultato di interventi di restauro messi in campo dagli accademici mantovani su progetto di Paolo Pozzo nel 1790. 7 - LA CAMERA DELLE VITTORIE La camera delle Vittorie prende il nome dalle due Vittorie alate che, insieme a due figure allegoriche della Fama reggenti lunghe trombe, stanno agli angoli dell’ambiente. Il fregio si compone di una raffinata decorazione pittorica a grottesche, su campo colorato a imitazione di pietre dure, come annotava un documento coevo. Le partizioni di forma ovale contengono croci di stucco che inquadrano busti clipeati, anch’essi a rilievo. Gli stucchi sono attribuiti a Nicolò da Milano mentre la decorazione pittorica ad Agostino da Mozzanica. L’intera decorazione della sala è ascrivibile al 1528. Degna di particolare nota è la decorazione del soffitto dove, fatto unico in tutto il palazzo, i lacunari in legno sono decorati con scene di vita quotidiana scorciate da sott’in su, con evidenti citazioni della mantegnesca Camera picta di Palazzo Ducale. Vi si ritrovano una donna che spulcia un bambino, un’altra donna che stende una camicia, una giovane che si pettina e una fanciulla che posa un vaso di garofani sulla balaustra, mutuato direttamente dal precedente mantegnesco.

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Cortile D’ONORE e girdino dell’ESEDRA

In alto, veduta del Cortile d’Onore Sotto, le Peschiere del giardino dell’Esedra

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L’Esedra del giardino di Palazzo Te

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uando usciamo dalla Camera delle Vittorie, ci troviamo necessariamente all’esterno del palazzo. Troviamo il cortile d’onore e, di fronte a noi, la Loggia di Davide. Se decidiamo di attraversare questo vestibolo, arriviamo alle peschiere, e subito dopo in un grande giardino che termina con l’esedra, da cui si possono vedere i giardinetti pubblici del Te.

Dobbiamo immaginare che tutti questi ampi spazi, che ora hanno un semplice prato verde, nel Cinquecento fossero invece decorati da fiori e piante rigogliosi. In estate, nel giardino, di fronte all’esedra, si tengono concerti. Se decidiamo di attraversare questo spazio verde, giungiamo nella zona più intima e raccolta del palazzo.

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L’appartamento del GIARDINO SEGRETO

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tiamo per entrare nella zona più intima privata e, per certi versi, sensuale del palazzo. Se già la Camera di Amore e Psiche vi era parsa densa di sensualità, in questo blocco di Palazzo Te, vivrete una sensazione anche maggiore di trasporto dei sensi. L’appartamento del giardino segreto di Palazzo Te è un luogo intimo e riservato, come si diceva, progettato specificamente come rifugio spirituale di Federico II, sull’esempio del giardino segreto della madre, Isabella d’Este, in Palazzo Ducale. Si accede da un vestibolo a pianta ottagonale allungata con volta a spicchi affrescata, probabilmente per mano di Luca da Faenza, con motivi a grottesche, che richiamano la Domus Aurea di Nerone, motivo quasi onnipresente nell’intero edificio; nella decorazione è presente anche l’impresa del monte Olimpo, che come si diceva poc’anzi, simboleggia la calma e l’assenza di perturbazione. Il pavimento è realizzato con ciottoli di fiume multicolori; tra i ciottoli affiorano bocchette di piombo, che facevano parte dei giochi d’acqua e degli scherzi che caratterizzavano gli ambienti. Immaginate i suoni che quest’acqua poteva produrre all’interno di questi ambienti, e la sensazione di benessere e tranquillità che qui si poteva vivere. La porta di fronte all’ingresso immette nella camera detta di Attilio Regolo, di cui parleremo tra poco. Il nome è tratto da una delle scene rappresentate nella volta che ha come protagonista il famoso condottiero romano. Il tema generale che viene proposto è di carattere morale, come dimostra l’ottagono centrale dove è raffigurata l’allegoria delle virtù del principe. Nelle vele angolari a foggia di pentagono sono dipinti episodi tratti dalla storia antica come “Il supplizio di Attilio Regolo”, “Il giudizio di Zaleuco”, “La clemenza di Alessandro”, ed in ultimo “Orazio Coclite”, mentre nei rettangoli che ad essi si alternano compaiono personificazioni delle virtù riferite agli episodi narrati. Appartengono alla decorazione originale sia gli stucchi che gli affreschi della volta - entro il terzo decennio del 1500 - mentre sono di fine Settecento le decorazioni geometriche alle pareti, il camino e il pavimento.

IL SUPPLIZIO DI ATTILIO REGOLO Ecco una delle storie rappresentate nella volta dell’appartamento del giardino segreto. “Un giovane console romano, che portava il nome di Attilio Regolo, fu fatto prigioniero durante la guerra tra Cartagine e Roma. Un giorno i Cartaginesi decisero di mandare a Roma Attilio Regolo con il compito di convincere il Senato ad arrendersi. Il Romano, invece, appena si presentò all’assemblea pronunciò un discorso col quale esortava a continuare la guerra perché a suo parere Cartagine era allo stremo. Il console poi ritornò a Cartagine per mantenere la promessa fatta al nemico. I Cartaginesi, avendo saputo quali consigli Regolo avesse dato al Senato, lo fecero precipitare da un’altura chiuso in una botte irta di chiodi. Il sacrificio del Console non fu vano, infatti i Romani continuarono a combattere sconfiggendo definitivamente i Cartaginesi”. LA LOGGETTA La loggia occupa buona parte del giardino segreto e si affaccia su quest’ultimo con tre aperture rette da due colonne di marmoree. La decorazione, tripartita, occupa le pareti e la volta a botte. Nella volta e nelle lunette è rappresentata una storia, di cui non si conosce la fonte letteraria, che narra vicende legate al corso della vita umana, dalla nascita alla morte. Ciascun episodio è contornato da cornici a motivi floreali, contenenti piccole figurazioni a stucco entro tondi, quadrati o losanghe. La lunga parete meridionale è tripartita: nei comparti laterali si trovano scenette dipinte entro cornici di stucco (Sileno sulla biga, ispirato a un marmo antico custodito a Palazzo Ducale, e Bacco e Arianna); nella parte centrale domina una lunga scena, molto logora, con corteo di divinità marine. Sopra e sotto questo riquadro le imprese del monte Olimpo e del boschetto. Il pavimento, analogo a quello del vestibolo, è un

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Ingresso alla grotta che ospitava giochi d’acqua e fontane

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mosaico di ciottoli di fiume, diviso in scomparti fregiati da emblemi gonzagheschi. La presenza dell’impresa della quercia legata a Vincenzo Gonzaga (1587-1612) sposta la datazione del manufatto alla fine del Cinquecento o all’inizio del Seicento. Buona parte della decorazione è caratterizzata dalle grottesche prese, come si diceva poco fa, dalla Domus Aurea di Nerone. Ogni piccolo dettaglio doveva necessariamente avere la funzione di creare serenità e dare tranquillità. IL GIARDINO La decorazione delle pareti che circondano il giardino appare notevolmente consunta specialmente per quanto riguarda le pitture, sebbene migliore sia la conservazione degli stucchi. In origine la parete a destra della loggia e quella di fronte erano dipinte con finte prospettive di cui restano solo labili tracce. Il fregio delle pareti più alte, scandito da erme e nicchie, è invece conservato: le nicchie alternano decorazioni a stucco e dipinte che narrano soggetti tratti dalle fiabe di Esopo. Anche qui la maggior parte degli affreschi è lacunosa o scomparsa, mentre gli stucchi sono discretamente conservati. Il bassorilievo con la tomba di un piccolo cane dal pelo lungo, al centro della parete sovrastante la loggia, si collega al desiderio di Federico II di avere un monumento disegnato da Giulio in memoria della cagnolina prediletta, e giustifica la scelta del tema iconografico dedicato agli animali. Negli angoli inferiori delle nicchie compaiono imprese gonzaghesche. La decorazione del giardino è ascrivibile

al 1531 circa e il gusto espresso nella lavorazione a stucco rimanda allo stile di Giovanni Battista Mantovano. LA GROTTA Questo ambiente venne creato per volontà di Vincenzo Gonzaga a partire dal 1595 e terminato poi all’epoca del figlio, il duca Ferdinando, tra il 1612 e il 1626. La creazione di una grotta che ospita giochi d’acqua e fontane risponde a una moda diffusa al tempo, specie in ambito mediceo, e alla volontà di proporre una rivisitazione del tema del ninfeo classico. La grotta oggi rappresenta, molto parzialmente, il vivo effetto che doveva essere creato dal rumore dell’acqua e dalla commistione di presenze vegetali, come felci, muschi, capelvenere, a elementi architettonici. Era qui che Vincenzo portava le sue amanti. Dalla parete di fronte alla loggia, attraversato il giardino segreto, si accede alla grotta passando per un portale di rocce naturali e scendendo tre gradini, a simboleggiare la discesa in un ricetto scavato nelle profondità della terra. La decorazione interna è varia sia nelle forme che nei materiali; dominante è il tema delle concrezioni rocciose al quale si accostano con grande estro conchiglie, pietre colorate, stucchi, madreperla. L’ambiente è composto di due aule: la prima che si incontra, la maggiore, ha un perimetro rettangolare con angoli smussati e nicchie semicircolari dove trovano posto imprese gonzaghesche; la seconda termina in un abside dal catino di madreperla e marmi e presenta sulla volta tre episodi della storia di Alcina,


Viaggio a Palazzo Te

tratta dal VII libro dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, che potrete leggere tra poche righe. Le nicchie sottostanti sono dipinte con simboli dei quattro elementi (terra, fuoco, aria, acqua); la presenza di queste decorazioni e degli episodi ariosteschi alludono al tema alchemico della trasformazione della materia attraverso la magia.

CANTO VII DELL’ORLANDO FURIOSO DI LUDOVICO ARIOSTO 1 - Chi va lontan da la sua patria, vede cose, da quel che già credea, lontane; che narrandole poi, non se gli crede, e stimato bugiardo ne rimane: che ‘l sciocco vulgo non gli vuol dar fede, se non le vede e tocca chiare e piane. Per questo io so che l’inesperienza farà al mio canto dar poca credenza. 2 - Poca o molta ch’io ci abbia, non bisogna ch’io ponga mente al vulgo sciocco e ignaro. A voi so ben che non parrà menzogna, che ‘l lume del discorso avete chiaro; et a voi soli ogni mio intento agogna che ‘l frutto sia di mie fatiche caro. Io vi lasciai che ‘l ponte e la riviera vider, che’n guardia avea Erifilla altiera. 3 - Quell’era armata del più fin metallo, ch’avean di più color gemme distinto: rubin vermiglio, crisolito giallo, verde smeraldo, con flavo iacinto. Era montata, ma non a cavallo; invece avea di quello un lupo spinto: spinto avea un lupo ove si passa il fiume, con ricca sella fuor d’ogni costume. 4 - Non credo ch’un sì grande Apulia n’abbia: egli era grosso et alto più d’un bue. Con fren spumar non gli facea le labbia, né so come lo regga a voglie sue. La sopravesta di color di sabbia su l’arme avea la maledetta lue: era, fuor che ‘l color, di quella sorte ch’i vescovi e i prelati usano in corte.

5 - Et avea ne lo scudo e sul cimiero una gonfiata e velenosa botta. Le donne la mostraro al cavalliero, di qua dal ponte per giostrar ridotta, e fargli scorno e rompergli il sentiero, come ad alcuni usata era talotta. Ella a Ruggier, che torni a dietro, grida: quel piglia un’asta, e la minaccia e sfida. 6 - Non men la gigantessa ardita e presta sprona il gran lupo e ne l’arcion si serra, e pon la lancia a mezzo il corso in resta, e fa tremar nel suo venir la terra. Ma pur sul prato al fiero incontro resta; che sotto l’elmo il buon Ruggier l’afferra, e de l’arcion con tal furor la caccia, che la riporta indietro oltra sei braccia. 7 - E già, tratta la spada ch’avea cinta, venía a levarne la testa superba: e ben lo potea far; che come estinta Erifilla giacea tra’ fiori e l’erba. Ma le donne gridàr: -- Basti sia vinta, senza pigliarne altra vendetta acerba. Ripon, cortese cavallier, la spada; passiamo il ponte e seguitian la strada. -8 - Alquanto malagevole et aspretta per mezzo un bosco presero la via, che oltra che sassosa fosse e stretta, quasi su dritta alla collina gía. Ma poi che furo ascesi in su la vetta, usciro in spaziosa prateria, dove il più bel palazzo e ‘l più giocondo vider, che mai fosse veduto al mondo. 9 - La bella Alcina venne un pezzo inante, verso Ruggier fuor de le prime porte, e lo raccolse in signoril sembiante, in mezzo bella et onorata corte. Da tutti gli altri tanto onore e tante riverenzie fur fatte al guerrier forte, che non ne potrian far più, se tra loro fosse Dio sceso dal superno coro. 10 - Non tanto il bel palazzo era escellente, perché vincesse ogn’altro di ricchezza, quanto ch’avea ...........

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on questo libellum speriamo di avervi condotto in un viaggio sensazionale per la Storia di una piccola città che galleggia sull’acqua, speriamo di avervi presentato i personaggi che l’hanno resa quella che è, e di avervi fatto vivere le loro vite, seppur in poche pagine, e per pochi minuti. Con questa rivista speriamo di aver gettato una luce nuova su una vecchia città, in modo che essa smetta di essere una città vecchia. Speriamo anche di avervi fatto sognare, di avervi fatto immaginare di conversare di profumi con Isabella d’Este, di avervi fatti discutere di filosofia con Roberto Ardigò, e di avervi fatto ricordare quanto meravigliosi siano i versi di Virgilio. Speriamo di avervi fatto desiderare di tornare a Mantova se non ci abitate o di vederla con occhi nuovi se ci siete nati. Abbiamo voluto offrirvi l’immagine di una Mantova che non sia “la bella addormentata”, ma la Signora del Rinascimento. Abbiamo pensato, anche, di farvi ricordare di come questa cittadina bagnata da tre laghi, quasi sospesa fra il tempo e lo spazio, sia stata anche la patria di tanti eroi che hanno sacrificato la loro vita perché credevano nella libertà, anche se in modi diversi. Abbiamo voluto farvi vedere una Mantova che “sprizza cultura da tutti i pori”, con i suoi palazzi, le sue biblioteche, i suoi centri di studio. Abbiamo voluto farvi allontanare, anche se solo per qualche istante, da una Mantova sempre più immobile e ripiegata su sé stessa, dalla quale i giovani vogliono scappare o ne sono costretti. Vi abbiamo voluto far pensare ad una Mantova “centro dell’universo”, come un tempo era. Speriamo di non avervi delusi o annoiati, e nel salutarvi, dopo questo tuffo nella storia, non ci resta che proiettarvi e proiettarci nel futuro. Ad maiora.

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