Formazione continua, il caso italiano

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FORMAZIONE CONTINUA, IL CASO ITALIANO

Ritardi strutturali e possibilità d'innovazione Nei giorni scorsi l’ISFOL ha pubblicato il XV Rapporto sulla Formazione Continua, che analizza la situazione del nostro Paese in relazione al contesto europeo nel periodo 20132014. Il rapporto completo è consultabile qui. Lo studio evidenza la condizione di arretratezza dell’Italia rispetto allo sviluppo delle strategie di lifelong learning e, soprattutto, la stretta correlazione dei percorsi nostrani di formazione continua rispetto agli interessi a breve termine delle imprese.

Il ritardo strutturale dell’Italia Il dato principale citato dal Rapporto è anche quello più emblematico: nel 2013 solo il 6,2% della popolazione italiana tra i 25 e i 64 anni era coinvolta in un percorso di formazione. La media UE era del 10,2%, con picchi del 31,4% in Danimarca, del 28,9% in Svezia, del 17,7% in Francia, l’obiettivo previsto dalla strategia Europa2020 è fissato al 15%. Il dato più allarmante è che, per quanto riguarda il nostro Paese, il trend non è affatto in crescita: assistiamo infatti a un calo dal 6,6% del 2012 al 6,2% del 2013. Attualmente, dunque, in Italia sono coinvolti in percorsi di formazione continua circa 2 mln di persone contro una previsione parametrata sugli obiettivi di Europa2020 di circa 5 mln di individui. Il confronto tra macroregioni europee è ancora più impietoso. Contesti virtuosi come il West-Nederland (Paesi Bassi) (dal 17,6% del 2010 al 18,6% del 2013), il Centre-Est (Francia) (dal 5,2% al 20,8%, con un cambio nella modalità di classificazione statistica che ha ampliato la platea di interventi inclusi nella categorizzazione della formazione continua) o la Comunidad de Madrid (Spagna) (11,4%-12,8%) contribuiscono a far sfigurare tutti i contesti territoriali italiani monitorati (Lazio: 7,2%-7%; Toscana: 7,2%-6,8%; EmiliaRete della Conoscenza - Via IV Novembre, 98 - 00187 Roma info@retedellaconoscenza.it Tel. 06/69770332


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Romagna: 6,8%-6,6%; Veneto: 5,9%-5,6%; Campania: 5,6%-5,1%; Sicilia: 4,7%-4,4%; fa eccezione la Lombardia: 6,2%-6,6%). Nello stesso periodo la media dell’UE a 28 Paesi passava dal 9,1% al 10,5% di adulti coinvolti in percorsi di LLL. I provvedimenti del Governo degli ultimi mesi contribuiscono a confermare il trend stagnante, se non di contrazione, dell’offerta di formazione continua. Né la Buona Scuola né tantomeno il Jobs Act si occupano della questione; le risorse della Garanzia Giovani stanziate per finanziare percorsi di formazione ammontano solo al 20% del totale; in particolare la rimozione della questione del LLL nella lettura analitica ancora prima che nei provvedimenti del Governo in materia di istruzione risulta particolarmente emblematica. Infine, come sottolineato anche dal Rapporto, le politiche previdenziali di aumento dell’età pensionabile in buona parte dei Paesi europei, non agevolano affatto la prosecuzione dei percorsi formativi nelle fascie più anziane della popolazione, già strutturalmente meno coinvolte nei processi di LLL. Le dinamiche quantitative evidenziano una tendenza alla divergenza dei diversi contesti continentali: il cluster delle economie nordiche (area tedesca e scandinava) dimostra un alto livello di integrazione dei processi di apprendimento nelle dinamiche produttive; al lato opposto, i Paesi dell’Europa dell’Est e del Sud, ma anche la Gran Bretagna, sono contesti caratterizzati da una maggiore attenzione alla replicabilità delle produzioni, piuttosto che all’innovazione di prodotto e di processo.

Un’analisi in profondità: le disparità nella formazione continua L’approccio quantitativo non è sufficiente a delineare un quadro chiaro della situazione relativa alla formazione continua, né sul piano continentale né tantomeno su quello nazionale; e questo anche al netto dei fenomeni di clientelismo, corruzione e spreco relativi alla distribuzione dei fondi pubblici, in particolare di quelli europei (FSE e FESR). Come abbiamo già sottolineato, il sistema socio-economico del nostro Paese orienta le Rete della Conoscenza - Via IV Novembre, 98 - 00187 Roma info@retedellaconoscenza.it Tel. 06/69770332


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scelte produttive rispetto al principio della replicabilità, rinunciando in larga parte alle prospettive di innovazione di prodotto e di processo. Questo aspetto risulta evidente alla luce di alcuni dati sulle caratteristiche della popolazione coinvolta nei percorsi di formazione continua. Innanzitutto è utile osservare la condizione lavorativa: in Italia è coinvolto in processi di LLL il 6% degli occupati, il 5,1% dei disoccupati e il 6,7% degli inattivi. La media dell’UE è rispettivamente all’11,3%, al 10% e al 7,8%; in Danimarca i valori si attestano al 32%, al 33,5% e al 28,6%. Prima di comparare questi dati è utile evidenziare che nei valori relativi alla popolazione inattiva rientrano anche i maggiori di 25 anni coinvolti in percorsi di formazione (quindi, per quanto riguarda il contesto italiano, in particolare in quella universitaria). In Italia, dunque, il coinvolgimento della popolazione disoccupata è considerevolmente inferiore rispetto a quello della media europea: in sostanza, i percorsi di formazione continua sono maggiormente orientati a chi è già inserito in percorsi lavorativi. Analizzando invece il coinvolgimento della popolazione in relazione al titolo di studio precedentemente acquisito è possibile individuare un’altra tendenza significativa e particolarmente enfatizzata nel contesto italiano: sono coinvolti in percorsi di formazione continua il 14,6% dei laureati, il 7,5% dei diplomati, l’1,6% di chi ha solo la licenza media. La media UE è rispettivamente del 18,6%-8,7%-4,4%. La prospettiva che si delinea è dunque quella di un maggiore coinvolgimento di chi ha già un buon grado di istruzione e, di converso, di una progressiva esclusione di chi non è riuscito a proseguire nel proprio percorso formativo entro i 25 anni. Tale tendenza è particolarmente accentuata nel contesto italiano, dove 1 cittadino su 62 con la licenza media ha la possibilità di essere coinvolto in un percorso di LLL, contro la media di 1 su 12 per i diplomati e di 1 su 7 per i lauerati. Un terzo aspetto, quello relativo alle qualifiche dei lavoratori coinvolti nei processi di formazione continua, rende invece evidente una tendenza caratteristica della cosiddetta Rete della Conoscenza - Via IV Novembre, 98 - 00187 Roma info@retedellaconoscenza.it Tel. 06/69770332


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economia della conoscenza. Sono infatti maggiormente coinvolti dirigenti, imprenditori e liberi professionisti (media UE 51,4%) rispetto ai direttivi, ai quadri e agli impiegati (34%), agli operai qualificati (25,9%) e al personale non qualificato (19,1%). Questa tendenza si riscontra con maggiore evidenza nel contesto italiano (46,6%-27,1%-23,7%-14,4%), e può essere considerata come un segnale della profonda segmentazione e polarizzazione prodotta dallo sviluppo dell’economia della conoscenza tra una fascia ristretta di lavoratori altamente qualificati, specializzati e per i quali è necessario un apprendimento costante, e una vasta platea di lavori poco specializzati, per i quali non è funzionale prevedere ulteriori momenti di formazione. E’ questa una ragione con la quale è possibile spiegare l’alta divaricazione di tale parametro anche nei contesti economici più sviluppati, come ad esempio la Germania e i Paesi Bassi.

Formazione, innovazione, sviluppo economico e ruolo del pubblico E’ grazie alla Intangible Assets Survey, ovvero grazie all’analisi sugli investimenti in capitale immateriale, che è possibile esplorare con maggiore definizione il nesso tra formazione, innovazione e sviluppo economico e, in particolare, il ruolo del potere pubblico in questo campo, in particolare nel contesto italiano. Il primo dato lampante è che le aziende medio-piccole hanno una scarsa propensione - o capacità - a prevedere processi di formazione continua. Tra i 10 e i 49 dipendenti la percentuale di imprese che prevedono attività di formazione è del 45,8%, percentuale che sale progressivamente all’aumentare del numero di dipendenti (69,6% tra i 50 e i 99, 82,7% tra i 100 e i 250, 91,9% tra i 250 e i 499, 95,7% oltre i 500 lavoratori). Questo è il segno più evidente di una incapacità strutturale, da parte delle piccole e medie imprese, di prevedere al proprio interno percorsi di formazione continua. Questa difficoltà è accentuata anche a causa delle disparità territoriali. Se a Nord-Est il 55% delle aziende prevede attività formative, il dato cala fino al 37,3% del Sud e delle Isole (la media italiana è del 50,2%). Un altro dato che dimostra la difficoltà di internalizzazione delle attività formative da parte Rete della Conoscenza - Via IV Novembre, 98 - 00187 Roma info@retedellaconoscenza.it Tel. 06/69770332


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delle imprese italiane è quello relativo alle modalità di erogazione delle stesse. Il 43,5% delle aziende, infatti, esternalizza completamente le funzioni di formazione, a fronte di un 38% di attività miste e solo di un 18,5% di aziende che internalizza completamente i processi formativi. Se il costo pro capite delle attività di formazione mostra un andamento scostante ma crescente, ad eccezione delle imprese oltre i 500 dipendenti, il costo orario, decrescente con una netta decrescita per le imprese oltre i 500 dipendenti evidenzia la centralità delle economie di scala negli investimenti in formazione continua. Ciò che tuttavia è necessario prendere in considerazione, addentrandosi in un approccio più qualitativo alla questione, è il modello di governance che soggiace alla definizione dei processi di formazione continua, della loro accessibilità, delle loro modalità e soprattutto dei loro indirizzi. Nel rapporto ISFOL a questo tema è dedicato un capitolo dal titolo ambizioso, “Le sfide per il miglioramento del sistema”. Nel sistema italiano, il potere pubblico, al livello delle amministrazioni regionali, svolge sostanzialmente un ruolo di enabler, coordinando lo stanziamento delle risorse pubbliche secondo il principio della domanda di formazione espressa dalle imprese, sondata secondo modalità

differenti

Regione

a

Regione.

sostanza,

nella

da In

definizione

degli ambiti e delle modalità di costruzione dei processi di formazione continua non ci si discosta dal principio della domanda

di

mercato,

di

breve o di medio periodo, per “supportare

le

esigenze

professionali di cui hanno bisogno

le

imprese

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per


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mantenere il loro livello di competitività”. Di fatto lo Stato svolge una funzione regolativa che ha lo scopo di superare l’ostacolo altrimenti insormontabile costituito dall’incapacità strutturale delle piccole e medie aziende di investire in formazione continua. Elaborando e aggregando le esigenze immediate del tessuto produttivo - spesso frammentato e scoordinato - di un determinato contesto territoriale, il potere pubblico orienta le risorse destinate alla formazione nella direzione della riproduzione del modello produttivo esistente. Un dato emblematico rende ancora più chiaro l’orientamento delle attività formative: i casi esigui di relazioni consolidate tra le strutture formative e i centri di ricerca e sviluppo, così come quelli, più consistenti ma ugualmente bassi, delle relazioni con gli istituti di ricerca e le università (vedi tabella). La provenienza dei finanziamenti rende ancora più evidente questa dinamica: in Italia il 34% dei fondi investiti in formazione continua è di provenienza comunitaria, il 5,8% di provenienza nazionale, il 18,4% regionale o provinciale, il 6,9% proviene dai fondi interprofessionali, l’1,7% da enti bilaterali, il 13,4% dalle rette dei singoli utenti, il 7,9% dalle imprese, l’1,2% da donazioni, il 10,6% dal cofinanziamento delle strutture di formazione. In sostanza, 6 € su 10 spesi in formazione continua sono pubblici, solo 1 su 10 è versato dalle imprese; la quota delle imprese è superata addirittura da quella delle rette dei singoli utenti. Semplificando, se larga parte delle risorse sono pubbliche, la loro destinazione è determinata dagli interessi privati delle imprese. E’ un quadro nel quale ha certamente poco spazio la “responsabilità sociale d’impresa” ampiamente citata nel rapporto dell’ISFOL.

La formazione tecnica superiore Il Rapporto sulla formazione continua dedica un capitolo al segmento della formazione tecnica superiore, evidenziando anche in questo caso la correlazione stretta con il tessuto produttivo. La correlazione è evidenziata dai dati relativi all’occupazione degli ex corsisti, che si concentrano in particolare nella fascia delle piccole e medie imprese (7 su 10 nelle aziende con meno di 50 dipendenti, 1 su 4 nelle aziende con meno di 4 dipendenti). Rete della Conoscenza - Via IV Novembre, 98 - 00187 Roma info@retedellaconoscenza.it Tel. 06/69770332


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Preliminarmente sono affrontati alcuni dati generali: 6 iscritti su 10 agli ITS hanno più di 24 anni, il 74,6% ha un diploma, 1 su 4 è in cerca di prima occupazione, il 37,8% è disoccupato, il 22,3% è occupato, il 14,7% è inoccupato (di questi, il 7,1% frequenta in contemporanea un altro percorso di studi). Il tasso lordo d’inserimento nel mondo del lavoro è del 73,1%. Questi dati dimostrano innanzitutto la grossa eterogeneità e ibridazione che caratterizza il segmento degli ITS: in esso convivono tanto disoccupati e inoccupati, quanto lavoratori già impiegati, quanto infine studenti inseriti in altri percorsi formativi. Gli ITS, tuttavia, pur garantendo un buon tasso di occupabilità - che in ogni caso deriva in larga parte dal fatto che un numero consistente di iscritti è già impiegato all’atto dell’iscrizione

ai

corsi

-

non

determinano un miglioramento delle condizioni lavorative in uscita dal percorso formativo. Solo per il 4% degli

iscritti

ha

determinato

un

avanzamento di carriera; addirittura solo per l’1,8% un miglioramento retributivo;

l’allineamento

delle

mansioni lavorative alla formazione del lavoratore si è verificata solo nel 4,5% dei casi; in compenso, la capacità di ampliare attività svolte e servizi offerti è avvenuta nel 10,1% dei casi e quella di migliorare la qualità del lavoro nel 35,4%. Dal 2015, in base all’accordo tra MIUR ed Enti Locali del 5 agosto 2014, i finanziamenti ai percorsi di ITS saranno assegnati Rete della Conoscenza - Via IV Novembre, 98 - 00187 Roma info@retedellaconoscenza.it Tel. 06/69770332


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per il 20% in relazione alla popolazione residente nella Regione tra i 20 e i 34 anni; per il 70% sulla base del numero di soggetti ammessi all’esame; per il 10% in forma premiale secondo cinque criteri: l’attrattività del corso, con peso 25/100; il tasso di occupazione a 6 e 12 mesi, con peso 30/100; la professionalizzazione in impresa, con peso 25/100; la partecipazione attiva, con peso 15/100; l’interregionalità, con peso 5/100 (vedi tabella).

Le nostre proposte: ruolo del pubblico, formazione e innovazione, reddito di base e di formazione Il primo aspetto evidente sul quale è necessaria una decisa inversione di rotta riguarda la quantità di persone coinvolte nei percorsi di formazione continua; dato che fa il paio con i tassi allarmanti di abbandono scolastico e il bassissimo numero di laureati. L’Italia è nettamente indietro e il gap va colmato innanzitutto con un aumento degli investimenti che deve derivare prevalentemente dal prelievo fiscale delle imprese, che come è stato reso evidente anche dal rapporto dell’ISFOL hanno una scarsa capacità di internalizzare gli investimenti in formazione. Il problema delle risorse non è tuttavia l’unico. La governance dei processi di formazione continua

deve

essere

profondamente

rivista

nella

direzione

del

rafforzamento

dell’innovazione di prodotto e di processo e della riconversione dei sistemi produttivi. Le istituzioni pubbliche, più che mettere a sistema le esigenze a breve termine delle imprese, dovrebbero utilizzare il proprio ruolo nella produzione di capitale immateriale al fine di orientare le filiere produttive in un quadro di rinnovato protagonismo sul fronte delle strategie industriali. In questo senso le connessioni dovrebbero costituirsi da un lato con le politiche pubbliche in campo economico e produttivo, dall’altro con le istituzioni di formazione e ricerca già presenti sul territorio, in primis le università, gli ITS, gli istituti di ricerca, con l’obiettivo, sul lungo periodo, di sganciare la formazione continua dalle esigenze a breve termine - poco lungimiranti e scarsamente orientate alla valorizzazione sociale dei saperi - delle imprese, e agganciarla alla ricerca, all’innovazione, alla trasformazione del tessuto produttivo. Rete della Conoscenza - Via IV Novembre, 98 - 00187 Roma info@retedellaconoscenza.it Tel. 06/69770332


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Poiché la formazione non può che essere interpretata anche come uno strumento che rafforza le opportunità di realizzazione degli individui, è necessario adeguare anche la formazione continua a questo obiettivo. In particolare, per quanto riguarda la definizione dei percorsi di Istruzione Tecnica Superiore non è possibile pensare al criterio dell’occupabilità come discrimine per l’assegnazione premiale dei fondi, come invece avverrà a partire dal prossimo anno. Questo non solo perché l’occupabilità è una variabile che dipende in larga parte dal contesto socio-economico nel quale i singoli ITS sono inseriti, ma anche perché in questo modo si rafforza la tendenza all’allineamento di competenze e conoscenze in favore della riproducibilità dei modelli produttivi, piuttosto che al miglioramento delle condizioni lavorative e retributive e alla piena realizzazione del lavoratore. Infine, un ultimo aspetto risulta fondamentale nella costruzione di un altro modello di formazione continua. Per introdurlo è possibile fare riferimento al campo vasto dell’apprendimento informale, trattato dal Rapporto ISFOL ma per il quale non è riportata alcuna statistica, non solo per l’intrinseca difficoltà di reperimento dei dati, ma anche perché, probabilmente, questa è una dimensione di sviluppo della formazione continua ancora troppo sottovalutata. Per sostenere i processi di apprendimento informale - per loro natura eterogenei e impossibili da normalizzare e normare - è necessario prevedere forme di reddito diretto (erogazioni monetarie) e indiretto (agevolazioni nell’accesso e acquisto di beni e servizi). Il reddito, oltre a rappresentare la misura di welfare universale necessaria per il riconoscimento sostanziale della dignità umana, costituisce infatti nella prospettiva del lifelong learning la garanzia fondamentale di autonomia sociale dei soggetti che hanno intenzione di intraprendere percorsi formativi formali o che, più in generale, hanno intenzione di accedere ai canali di formazione informale.

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