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INDICE INTRODUZIONE
La democrazia perduta ai tempi dell'austeritĂ ............... 3 Scuole e le universitĂ pagano il prezzo della crisi........ 7 Ma conviene investire nell'istruzione pubblica?......... 22 Dove sono i nostri soldi?..................................................... 34 CONCLUSIONI
E quindi, quanto dobbiamo investire in istruzione e ricerca?................................................................................. 41
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INTRODUZIONE
La democrazia perduta ai tempi dell’austerità L’Università Capodistriana di Atene ha chiuso, seguita da altri Atenei greci. Non c’erano più soldi per pagare il proseguimento delle lezioni. Questa è solo la punta dell’iceberg dei tagli causati dalle politiche di austerità. Mentre in Grecia chiudono gli Atenei, nel nostro Paese viviamo una situazione di crisi profonda con scuole e università a pezzi, trasporti privatizzati e dai costi inaccettabili, una sanità che non garantisce più il diritto alla salute.
Tutto questo perché? Dalla nascita dell’Unione Europea, numerosi sono stati i trattati volti alla cooperazione economica. In particolare, questo è stato vero con l’avviarsi del progetto della moneta unica: il Trattato di Maastricht poneva infatti i requisiti per nuovi ingressi nell’Unione, e stabiliva per i Paesi membri una serie di regole mirate esclusivamente al contenimento della spesa pubblica, come la famosa soglia del 60% del rapporto debito pubblico/Pil, priva di ogni riferimento nella teoria economica. Proprio queste regole, adoperate come “vincolo esterno”, sono state usate come scusa dalle classi politiche nazionali per portare avanti le politiche neoliberiste di tagli al welfare, all’istruzione, alla sanità e all’assistenza sociale e di svendita del patrimonio pubblico.
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Dal Novembre 2011 un pacchetto di tre direttive Europee (c.d. Six Pack1) ha imposto norme più stringenti sulle politiche economiche, tra cui l’obbligo per i Paesi il cui debito supera il 60% del PIL di adottare misure per ridurlo nella misura di almeno 1/20 della eccedenza rispetto alla soglia del 60%, calcolata nel corso degli ultimi tre anni. In un momento di profonda crisi, questa scelta ha inibito ogni possibile politica volta a contrastare il rallentamento dell’attività economica mediante investimenti pubblici (le cosiddette “politiche anti-cicliche”) da parte degli Stati membri, obbligati ad inasprire ulteriormente le politiche di austerità., Con il cosiddetto Two Pack2 del Maggio 2013 è stato approvato che i Paesi dell’UE dovrebbero presentare i propri bilanci entro il 15 Ottobre di ogni anno alla Commissione Europea per sottoporlo a verifica; la Commissione, entro il 15 Novembre, può proporre modifiche al testo che dovrà essere approvato dal Parlamento nazionale entro il 31 Dicembre. Inoltre dal 2014 sarà effettiva la riforma Costituzionale apportata quest’anno che introduce il pareggio di bilancio nella nostra Carta Fondamentale. Questa riforma è la conseguenza della firma da parte dell’Italia del Patto di Bilancio Europeo (c.d. Fiscal Compact3). Il pareggio di bilancio in ogni singolo anno costituisce una vera e propria assurdità in termini economici: rendendo impossibile per un Paese in crisi di prendere misure finalizzare alla ripresa economica, così anche per un Paese in crescita di investire in infrastrutture in grado di permetterne lo sviluppo. Con il Fiscal Compact, il Six Pack e il Two Pack, di fatto, si è ridotta la sovranità nazionale, con l’obbligo di presentare i bilanci nazionali ad una Commissio1 http://documenti.camera.it/leg16/dossier/Testi/AT189.htm#dossierList 2 http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2011:0821:FIN:IT:HTML e http://eurlex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2011:0819:FIN:IT:HTML 3 http://www.european-council.europa.eu/media/639226/10_-_tscg.it.12.pdf
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ne che non è mai stata eletta e, quindi, non parla a nome degli interessi popolari ma, anzi, fino ad oggi ha risposto solo ai poteri forti come è successo sulle “Raccomandazioni” date alla Grecia per uscire dalla crisi.
Una formalità o una questione di qualità Per il primo anno l’Italia dovrà quindi presentare il proprio bilancio alla Commissione Europea. Questo non è un passaggio formale ma sostanziale. Oggi la nostra politica è molto più interessata ad essere debole con i forti e forte con i deboli. La Legge di Stabilità che uscirà il 15 Ottobre non è mai stata discussa dal Parlamento né, tanto meno, con processi partecipativi di coinvolgimento della popolazione. La nostra democrazia si sta indebolendo ed è stata attaccata al cuore. Cos’è il bilancio di uno Stato se non la lista delle priorità che un Paese vuol darsi? Laddove si sono sperimentate forme di democrazia diretta o partecipativa come nell’esempio di Porto Alegre in Brasile si è visto che la popolazione era capace di individuare spese e politiche pubbliche che fossero utili ai bisogni dei singoli e della collettività. Questo testo vuole elencare alcune priorità possibili, percorribili ma, soprattutto, necessarie per noi studenti. Vuole essere una base per riportare la democrazia laddove è nata, dall’incontro di tante persone diverse, con bisogni differenti, aspettative variegate ma che sono portatrici degli stessi diritti. Oggi crediamo che l’investimento nei saperi possa essere il volano per un modello diverso di economia che metta al centro la dignità della vita delle persone, che riesca ad innovare un tessuto produttivo vecchio, inquinante e basato sullo sfruttamento del lavoro.
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Non è possibile che chi ha prescritto le ricette alla Grecia possa imporre i suoi diktat a tutto un Continente, non è possibile che chi ha dato tra il 2008 e il 2011 4.500 mld di € alle banche che hanno provocato la crisi imponga tagli a scuole, università, centri di ricerca, ospedali, trasporti. Crediamo che le politiche economiche debbano essere coordinate a livello europeo per far crescere i Paesi ma che questo coordinamento parta dalle reali esigenze delle popolazioni europee, per cambiare definitivamente rotta non solo nelle politiche economiche ma anche in quelle sociali, educative, ambientali, sanitarie, etc. Oggi facciamo ripartire la democrazia dai nostri luoghi, le scuole, le università, le città, per costruire un diverso modello partecipativo e un’Europa diversa.
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Scuole e le università pagano il prezzo della crisi Lo stato in cui sono ridotte scuole e università è lo specchio di un Paese che ha affrontato la crisi economica con un’accelerazione e un’estensione dei processi di austerity: questi sono intervenuti profondamente sul mercato del lavoro, mettendo in discussione diritti e democrazia sui luoghi di lavoro e aumentando il grado di precarietà, ma hanno comportato anche e soprattutto un inedito disimpegno dagli investimenti in istruzione e ricerca. La governance italiana ed europea ha scelto l’austerità per rafforzare un sistema economico suicida che aumenta i profitti di pochi e impoverisce la maggior parte delle persone, ma solo in Italia si è scelto di disconoscere il ruolo che i saperi e la conoscenza possono e devono assumere per uscire realmente dalla crisi economica, scegliendo per il nostro Paese un ruolo periferico e subordinato nella divisione globale del lavoro. Oggi serve quindi smascherare le conseguenze drammatiche delle politiche di questi anni e riappropriarci dal basso del potere decisionale, riscattare le nostre vite costruendo in Italia e in Europa un modello di sviluppo radicalmente alternativo, che promuova l’eco-sostenibilità, la cooperazione e i diritti. Con la strategia Europa 20204 l’Unione poneva ai Paesi membri ambiziosi obiettivi in termini di istruzione, prefigurando la costruzione di una “società della conoscenza”, un modello di sviluppo capitalistico mirato cioè a mettere a 4 http://europa.eu/legislation_summaries/education_training_youth/general_framework/ef0016_it.htm
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profitto la ricchezza immateriale prodotta dalle competenze: questi obiettivi tuttavia sono stati sistematicamente disattesi dall’Italia, senza che alcuna procedura di infrazione venisse avviata nei suoi confronti dalla Commissione Europea.
Quanto investe il nostro Paese sull’Istruzione? Secondo i dati OCSE, infatti la spesa complessiva in istruzione è ferma al 4,9% del PIL. Sotto di noi solo Repubblica Ceca, Spagna, Grecia, Slovacchia e Romania (con percentuali pari o inferiori al 4%), mentre nei paesi del Nord Europa, come ad esempio in Danimarca, si arriva ad investire anche l'8,3% del PIL. Secondo il rapporto Education at a Glance, l’Italia è l’unico Paese dell’area OCSE che dal 1995 non ha aumentato la spesa per studente nella scuola primaria e secondaria mentre negli altri Paesi è aumentata in media del 62%5.
5 http://www.keepeek.com/Digital-Asset-Management/oecd/education/education-at-a-glance-2013_eag2013-en#page1
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Ancora più significativi sono i dati relativi agli ultimi anni di crisi: se durante la recessione la maggior parte dei Paesi – compresi Spagna e Portogallo – hanno aumentato le risorse destinate a questi settori ritenuti cruciali, l’Italia ha continuato a ridurre gli investimenti in istruzione, percentualmente in misura anche maggiore alla contrazione del Pil. Le ricadute di queste politiche di disinvestimento si sono determinate in tutti i campi - dal diritto allo studio all’edilizia scolastica - risultando sempre più insostenibili socialmente.
In particolare, assistiamo oggi a una vera e propria espulsione di massa dai percorsi formativi, per decenni il principale vettore di mobilità sociale di questo Paese. La dispersione scolastica è una vera e propria emergenza sociale: l’incidenza dei giovani in possesso della sola licenza media e non più in formazione è pari al 17,6% contro una media UE5 del 12,8%. Se si dà uno sguardo ai dati regione per regione, ci sono fortissime differenze territoriali: dal 12,1% del Friuli Venezia Giulia si passa al 21,8% della Campania e della Puglia, fino al 25% della Sicilia e al 25,8% della Sardegna. Siamo ben lontani dunque dagli obiettivi di Europa 2020, che preve-
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deva una riduzione del tasso di abbandono scolastico al di sotto del 10% 6. Per quanto riguarda l'università, nel gennaio del 2013 il CUN ha lanciato l’allarme: la Dichiarazione di Gennaio 2013, tra le “Emergenze del sistema”, indicava un crollo delle immatricolazioni di 58.000 studenti dal 2003-2004, di cui 30.000 negli ultimi 37. La più recente ricerca di Datagiovani conferma l’andamento disastroso degli ultimi 5 anni di crisi economica: sempre meno giovani, per scelta o per impossibilità materiale, si iscrivono all’università 8. Si tratta di un dato grave, soprattutto rapportato alla percentuale di laureati molto bassa fra la popolazione italiana fra i 25 e i 35 anni (meno del 20%, contro il 40% fissato come obiettivo sempre da Europa 2020) 9. Questi dati non stupiscono se si considera che il costo dell’istruzione ha conosciuto una vertiginosa impennata a causa delle politiche di disinvestimento di questi anni, che hanno determinato l’aumento generalizzato delle tasse universitarie (283 milioni di euro in più in 5 anni), ormai le terze più care d’Europa 10. I tagli sul diritto allo studio hanno comportato una copertura sempre minore delle borse agli aventi diritto: oggi siamo al di sotto del 70% della copertura su base nazionale, con Regioni come la Campania e la Calabria che non riescono a discostarsi da una copertura del 30%11. Siamo di fronte all’incapacità strutturale del Pubblico di fornire un adeguato sostegno agli studi ai privi di mezzi economici, che si traduce troppo spesso nell’espulsione di migliaia e migliaia di studenti dall’università. 6 http://www.minori.it/sites/default/files/dati_miur_dispersione_scolastica.pdf
7 http://www.cun.it/media/118417/dichiarazione_cun_su_emergenze_sistema.pdf 8 http://www.datagiovani.it/newsite/wp-content/uploads/2013/02/Comunicato-Giovani-in-fugadalluniversita-ma-non-da-tutte.pdf 9 http://www.keepeek.com/Digital-Asset-Management/oecd/education/education-at-a-glance-2013_eag2013-en#page1 10 http://eacea.ec.europa.eu/education/eurydice/documents/facts_and_figures/fees_and_support.pdf 11 http://www.roars.it/online/il-diritto-allo-studio-in-italia-gli-ultimi-dieci-anni/
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I governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno operato continui tagli alle risorse pubbliche destinate al diritto allo studio. Il Fondo Integrativo Statale per le borse di studio rivolte agli studenti universitari in condizioni economiche svantaggiate ammontava a 246 milioni di euro nel 2009, una cifra comunque molto al di sotto di quelle investite dalla maggior parte degli altri Paesi europei: Francia e Germania stanziano rispettivamente per le borse di studio, residenze e servizi 1,8 e 2,2 mld di €, ma anche la Spagna ha mantenuto in questi anni un livello di investimenti pari a 900 milioni di euro, molto più elevato del dato italiano. Nonostante il deficit di partenza, il Fondo Integrativo Statale è stato progressivamente assottigliato, attestandosi a 151 milioni di euro per il 2013 12. Le novità del Decreto Istruzione varato nel Cdm del 10 settembre dal Ministro Carrozza non portano un’inversione di tendenza, anzi è necessario demistificare la retorica sui 100 milioni di euro aggiuntivi investiti sul diritto allo studio per il 2014. Infatti, i tagli al Fondo Integrativo Statale stabiliti in maniera scadenzata dal governo Berlusconi fino all’anno 2015 prevedevano uno stanziamento della misera cifra di 12 milioni di euro per il 2014: i 100 milioni di euro in questioni faranno salire il Fondo a 112 milioni di euro. Con un calcolo semplicissimo è facile notare come, nonostante il Decreto, le risorse statali stanziate annualmente per le borse di studio si ridurranno quest’anno di circa altri 40 milioni (dai 151 milioni del 2013 ai 112 per il 2014). Lo scarso livello di investimenti destinato al diritto allo studio non soltanto fa registrare in Italia una percentuale di popolazione studentesca coperta da 12 http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/web/universita/fondo-di-intervento-integrativo-statale
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borsa di studio molto bassa rispetto ad altri paesi europei (7% contro i 20% della Francia e il 25% della Germania), ma comporta addirittura la vergognosa figura dello studente idoneo non beneficiario di borsa per mancanza di risorse. Circa 55.000 studenti aventi diritto non ottengono la borsa di studio che spetterebbe loro: un’anomalia tutta italiana. La fotografia delle università del Mezzogiorno (-20% di immatricolazioni, pari a più di 20.000 unità) e dei corsi di laurea umanistici (-11,9% di iscrizioni dal 2008) non può essere disaggregata dalla realtà di un mercato del lavoro contrassegnato dal dramma di una disoccupazione giovanile attorno al 40% e dal fenomeno sempre più consistente degli “over-educated”, per cui quasi il 40% dei laureati fra i 25 e i 35 anni svolge lavori per i quali sono richieste competenze inferiori a quelle acquisite durante gli studi. Tuttavia, altri fattori intervengono per determinare questo ampio fenomeno di espulsione di massa dai luoghi della formazione: i dati relativi ai dipartimenti di medicina (18,7% di immatricolazioni dal 2008), di architettura (-37% dal 2008) e di farmacia (-34% dal 2008) devono essere ricondotti unicamente al numero chiuso e al numero programmato, barriere insormantabili per aspiranti architetti, medici e infermieri. Nonostante l’elevata richiesta sul mercato del lavoro di infermieri e l’allarme sul numero di medici, in prospettiva insufficiente a soddisfare il fabbisogno del sistema sanitario nazionale, il sistema dello sbarramento all’accesso dei percorsi universitari non viene messo in discussione e anzi si discute di come potenziarlo.
Dove finiscono le persone espulse dai cicli di formazione? Le persone escluse in partenza o espulse dai cicli di formazione rappresentano un fenomeno molto più esteso in Italia che negli altri Paesi. Quasi 1 gio-
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vane su 4 fra i 15 e i 29 anni non lavora, non studia, né segue una formazione professionale13. I NEET (Not in Education, Employment or
Training) sono una figura che abbiamo imparato a conoscere a livello europeo negli anni di crisi economica, ma che raggiunge dimensioni fuori controllo in Italia: basti pensare che nella suddetta classe d’età l’Italia registra una percentuale di NEET pari al 23% contro la media OCSE ferma al 15,8%.
E’ sempre più evidente come coloro i quali non riescono a concludere il proprio percorso di formazione vadano a formare un segmento della società molto vulnerabile e sotto il costante ricatto di un’offerta di lavoro caratterizzata da impieghi precari, alta flessibilità, scarsa qualificazione, bassa remunerazione. Il nostro Paese, proprio per quelle politiche contemporanee di disinvestimento in formazione e di precarizzazione del lavoro, ha scelto consapevolmente di creare un mercato del lavoro a bassa qualificazione, la cui strategia competitiva con l’estero si basa tutta sulla riduzione dei salari, per l’ottenimento della quale chi non ha potuto portare a termine la 13 http://www.repubblica.it/economia/2012/10/22/news/i_costi_della_generazione_neet_in_italia_si_perde_i l_2_del_pil-45015619/
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propria formazione costituisce un utile “esercito di riserva”. Del resto, nonostante il numero esiguo di laureati sul totale della popolazione italiana, lo scarso volume di investimenti pubblici e soprattutto delle imprese in Ricerca e Sviluppo determinano una contraddittoria bolla formativa, che in maniera molto più accentuata degli altri Paesi mette in discussione l’incisività del titolo di laurea sulle condizioni materiali di vita. I giovani laureati italiani fra i 25 e i 35 anni risultano meno occupati dei loro colleghi europei e agli ultimi posti della classifica OCSE per quanto riguarda la differenza media di remunerazione con chi non è laureato ma possiede un diploma di scuola superiore di secondo grado (22% contro una media OCSE del 40%). Significa che molto, in virtù di una domanda di lavoro molto flebile e votata alla ricerca di manodopera a basso costo, difficilmente i giovani laureati italiani trovano un lavoro adeguato al proprio livello di istruzione. Del resto, il quadro è coerente con quanto si vede dall’altro lato della cattedra. A seguito di più o meno dichiarati blocchi del turnover, infatti, l’Italia dispone del corpo docente più anziano dell’intera area OCSE.
Edilizia: sicuri da morire La situazione di disinvestimento strutturale che si abbatte su scuole e università non risparmia nemmeno le loro sedi fisiche: oggi quasi la metà degli edifici scolastici non possiede le certificazioni di agibilità, più del 65% non ha il certificato di prevenzione incendi e il 36% degli edifici ha bisogno d’interventi di manutenzione urgenti14. Tutto questo mentre il 32,42% delle strutture si trova in aree a rischio sismico e un 10,67% in aree ad alto rischio idrogeologico. 14 http://www.camera.it/temiap/edilizia_scolastica.pdf
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Nonostante la difficile situazione,
tra
il
2009 e il 2011 c'è stata una contrazione sulla spesa di quasi 40 milioni di euro: anche qui inoltre, mentre al Nord si investe sulla manutenzione più della media nazionale, al Sud, proprio dove ci sarebbe più bisogno di investimenti, si spende meno. Riavvolgendo il nastro degli ultimi 18 anni, la situazione dell’edilizia scolastica può definirsi in continuo peggioramento: se infatti nel 1996 con la legge 23/1996 veniva inaugurato un quinquennio di investimenti per 3 mld di € articolati in 12.000 interventi in tutt’Italia, negli anni successivi gli investimenti sono stati scaglionati non in funzione della situazione complessiva dell’edilizia scolastica, ma solo in conseguenza di situazioni di emergenza, come a seguito di terremoti. La Protezione Civile stima che per la messa in sicurezza delle scuole sarebbe necessaria una cifra complessiva di 13 mld di €, di cui 1,6 mld solo nelle zone sismiche ed un altro miliardo nelle zone potenzialmente a rischio di terremoti15. Non solo le cifre stanziate non sono commisurate a queste necessità, ma una gran parte delle risorse risulta ancora bloccata: degli investimenti previsti nel 2004 ancora 467,9 mln di euro risultano fermi. Per quanto riguarda il 2006, 15 http://www.assisi-antiseismicsystems.org/Territorial/GLIS/Glisnews/GN12/GN12_4_Dolce.pdf
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invece, restano ancora da spendere 80 dei 296 mln di € stanziati. Se invece andiamo a vedere il piano varato nel 2012 dedicato alle scuole del Mezzogiorno, le risorse sono state messe a disposizione solo nel giugno 2013, con una disponibilità effettiva in cassa di appena il 45% delle somme inizialmente previste. La 23/1996 prevedeva anche un ulteriore fonte di investimenti da ottenere attraverso la concertazione con gli enti locali: le regioni avevano la possibilità di indirizzare i finanziamenti statali sulla base di graduatorie in cui si individuava la priorità d’intervento. Tutto ciò si è esaurito nel 2002, riproponendo un’ottica esclusivamente centralistica di investimento, lontana dai bisogni dei territori. Ora, per il Patto di Stabilità interno, dei 727,8 mln di euro programmati complessivamente dalle province nel 2013 si sono potuti spendere solo 212 mln (circa il 71% in meno). Le ultime novità arrivano con il D.L. 69/2013 “Decreto del Fare”: vengono stanziati 450 mln di euro per l’edilizia scolastica che confluiranno nel “Fondo Unico per l’Edilizia Scolastica”, riunificando un contenitore unico e riattivando la strategia di intervento coordinata con gli enti locali (regioni). Nel caso in cui le regioni non individuino in tempi utili le priorità di intervento scatterà il commissariamento per l’ente ritardatario, come sancito dalla Conferenza Stato-Regioni del 1° agosto. Chiaramente 450 mln di euro sono una goccia, tanto quanto 1,4 mld di € stanziati dal 2004 ad oggi a fronte dei 13 mld di € per la sola messa in sicurezza delle scuole.
Ma l'istruzione è ancora così pubblica? Parallelamente al disinvestimento in istruzione, si è accentuato il peso del privato nel mondo dell’istruzione. Oggi, il nostro sistema formativo si compone di scuole statali, paritarie e non paritarie. Le prime sono poste al centro della
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Costituzione Italiana e impegnano lo Stato a “rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale, che (...) impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Le seconde, sebbene secondo l’art.33 della Costituzione non dovrebbero costituire “oneri per lo Stato”, percepiscono in modalità differenti, finanziamenti statali (vd. legge 62/200, dm 27/2005). Non solo queste ultime, negli anni, hanno visto aumentare la quota di risorse attribuitegli dallo Stato a vario titolo, ma anche le scuole pubbliche finiscono per pesare sempre di più anziché sulla sola fiscalità generale - sulle famiglie degli studenti, proprio come le Università. Quando nel 1999 fu emanato il Regolamento dell’autonomia scolastica, si diede infatti la “possibilità” alle scuole pubbliche di introdurre il cosiddetto “contributo volontario”, vale a dire una somma di denaro (a parte rispetto alla tassa d’iscrizione che ammonta a circa 15 euro) versata dagli iscritti, teoricamente destinata all’ampliamento dell’offerta formativa e non, dunque, al finanziamento dell’ordinaria attività didattica. Nonostante le normative vigenti parlino chiaro rispetto alla non obbligatorietà del contributo e alla dovuta trasparenza sulla gestione di tale fondo, negli ultimi anni con spaventosa frequenza le scuole superiori pubbliche hanno imposto il versamento, arrivando a richiedere oltre 300 euro annui. Tale atteggiamento, affatto giustificato dall’assenza di investimenti nel sistema formativo statale, ha contribuito ad introdurre una sorta di logica privatistica nel pubblico che diventa a sua volta sempre meno accessibile.
Luogo comune mezzo gaudio? Mentre lo scempio sopra descritto si consumava, il dibattito italiano sull’istruzione era inquinato da diverse voci che, lungi dall’evidenziare la drammaticità dei tagli, sostenevano che l’università e la scuola italiane non fossero produt-
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tive ed efficienti, giustificando in questo modo proprio quei tagli. È utile dunque sfatare alcuni dei miti più comuni sul sistema formativo italiano. 1) Il numero dei laureati è troppo alto in Italia! Assolutamente no! Il numero dei giovani laureati è pari al 20% della popolazione, il che non è abbastanza nemmeno per raggiungere la metà dell’obiettivo ancora preso con la solita Europa 2020 (40%).
È importante sottolineare come il 30% imprenditori in Italia abbia appena la licenza elementare: un dato che, dato che AlmaLaurea ci dice come solo i manager più formati tendano ad assumere laureati, rappresenta parte della spiegazione di quella bolla formativa di cui discutevamo sopra. 2) I laureati costano troppo! Sulla spesa per laureati, in Italia c’è molta confusione: in UE si spendono in media secondo l’OCSE 10000 € per laureato; la cifra in Italia era molto più bassa (8.200) già prima della crisi, quando il disinvestimento è risultato in assoluta controtendenza con quanto fatto dagli altri Paesi europei. Se guardia-
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mo a questo dato inoltre, dobbiamo riconoscere che esso non cattura la spesa effettiva per studente, essendo calcolato dal rapporto tra spesa degli Atenei e il numero di studenti, quando non sono tutte queste spese sono realmente rivolte agli studenti: includono infatti i Policlinici Universitari, le borse per i dottorandi, i master univeritari e tutte le attività portate avanti dalle università. Non tutti i costi fissi dell’Ateneo si traducono in finanziamenti all’istruzione: prendendo i bilanci e facendo una cernita sulla base delle voci di bilancio, si ottengono numeri ben diversi: un primo calcolo per l’Università di Pisa ha ottenuto una spesa di circa 2.900 € per studente (a fronte di 900 di tasse)16, ma replicando l’esercizio per la Federico II di Napoli otteniamo 1.340 € per studente a fronte di 700 € di tasse. Prima di discutere - lo faremo in se guito - dei ritorni sociali dell’investimento in istruzione, è necessario ribadire che no, la spesa per gli universitari non è affatto eccessiva, in termini assoluti e relativi. 3) I fuoricorso sono una piaga sociale, solo italiana! Una premessa: alla luce di quanto appena affermato, uno studente che pagasse - bontà sua! - 1000 e più € di tasse per non frequentare e trascinarsi per casa (come vengono descritti comunemente i fuoricorso nell’elevatissimo dibattito che li riguarda) sarebbe da considerarsi una risorsa preziosissima tenuto conto che anche i finanziamenti statali tengono conto del numero di iscritti. Detto questo, è senz’altro vero che il numero dei fuoricorso (usando come misura quella diffusa dal Miur, e cioè la percentuale laureati magistrali sopra i 27 anni) è in aumento: ciò che si tende ad omettere è che questo avviene dal 2007 (+20% da allora). Proprio in quegli anni si sono abbattuti sul16 http://www.ilcorsaro.info/in-formazione/il-costo-reale-degli-studenti-meno-di-2000-euro-e-sui-fuori-corsoci-si-guadagna.html
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l’università i cambi di ordinamento didattico17, dai vecchi piani di studi basati sulla legge 509/99 (Berlinguer-Zecchino) a quelli costruiti sulla legge 270/2004 (Moratti). Il cambio di sistema ha provocato una miriade di ostacoli e rallentamenti burocratici, in gran parte dovuti all'ossessione "meritocratica" e selezionatrice con cui è stato realizzato, e inevitabilmente ciò ha avuto ripercussioni sui tempi di laurea degli studenti. Ad esso va inoltre sommato l’effetto del picco di immatricolazioni registrato proprio nel 2004, dovuto anche al “richiamo” nell’università di molti che avevano precedentemente interrotto gli studi avvenuto con il passaggio agli ordinamenti triennali. Se poi si sommano gli effetti della crisi economica, che porta naturalmente a non considerare auspicabile finire prima gli studi per entrare dalla porta principale nel mondo della disoccupazione, si capisce che è un dato tutt’altro che antropologico, legato alla genetica inferiorità dello studente italiano - mito evidentemente tagliato e cucito in modo tale da giustificare un futuro fatto di sotto-occupazione precaria, e perché no per celebrare quella piccola parte di “chi ce la fa” come “meritevole” di uno stipendio decine di volte superiore ai propri dipendenti. Ma soprattutto, è ancora il Rapporto Education at a Glance a dirci che l’età media dei laureati italiani (26 anni) è di poco inferiore alla media dei Paesi OCSE. 4) L’università italiana è gratis! Abbiamo detto in precedenza come le tasse universitarie italiane siano fin troppo care. Lasciamolo dire all’OCSE:
17 http://www.ilcorsaro.info/in-formazione/gli-studenti-sfigati-quanto-costano-davvero-e-perche-si-laureanotardi.html
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Come è evidente dalla figura, rette piÚ elevate di quelle imposte in media nella nostra università si riscontrano solo in Paesi in cui l'istruzione terziaria è, nei fatti, privatizzata e basata sul debito privato degli studenti e sul ricorso sistematico al prestito d'onore - in particolare i Paesi anglosassoni.
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Ma conviene investire nell’istruzione pubblica? Non rassegnandoci a un dibattito pubblico appiattito sul quanto e cosa tagliare, bisognerebbe riaffermare con forza il perché si investe in istruzione. Il costo in termini sociali, economici e di qualità della vita del disinvestimento in istruzione a tutti i livelli è infatti incalcolabile: rinunciando a rendere effettivo il diritto a raggiungere un livello di educazione anche minimo a moltissimi giovani espulsi, come abbiamo visto in precedenza, dai percorsi formativi, la Repubblica Italiana è venuta meno al primo compito che si era data nella Costituzione, quello di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Lavoratori meno istruiti, secondo i dati AlmaLaurea, partecipano meno al lavoro traendone salari inferiori, come si vedrà in seguito, ma diversi studi 18 rivelano che ci siano aspetti anche qualitativi - dalla soddisfazione sul lavoro alla salute - che un livello più alto di istruzione comporta: ridurre a numeri e a mera economia l’investimento in istruzione vorrebbe dire svilire l’idea sopra citata di “pieno sviluppo della persona umana”. E tuttavia, dopo una politica decennale che ha portato le risorse destinate in 18 Si veda su tutti Philip Oreopoulos e Kjell G. Salvanes (2011), Priceless: The Nonpecuniary Benefits of Schooling, Journal of Economic Perspectives, American Economic Association, vol. 25(1), pages 159-84, Winter
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istruzione al livello descritto in precedenza, ci viene detto che ora i soldi non ci sono: è dunque utile provare a dare qualche numero al riguardo. Una stima minimale è quella fornita dall’OCSE ancora una volta nel rapporto
Education at a Glance. Infatti, il rapporto fornisce un’interessante stima del Valore Attuale Netto (Net present value) dell’investimento in istruzione, separando le stime per valore Privato e valore Pubblico. Ora, se il primo, risulta sorprendentemente alto per chi dice che “il pezzo di carta non serve a
niente” (altro luogo comune che abbiamo omesso di dibattere: il suo valore è secondo il rapporto poco al di sotto della media OCSE, ma al di sopra di Paesi come Germania e Paesi Bassi), è il secondo dato che deve farci riflettere. Esso viene definito come il “beneficio fiscale netto” che lo Stato ottiene dal raggiungimento di un livello più alto di istruzione per un individuo: è infatti ottenuto come attualizzazione dei costi (identificati in spese dirette in istruzione e borse di studio più mancato gettito fiscale da parte di chi, iscrivendosi all’università, non lavora) e dei ritorni - in termini gettito fiscale maggiore in virtù degli stipendi più alti e dei risparmi in termini di sussidi di disoccupaizone e altri trasferimenti sociali19. Pur essendo calcolato su questa base minimale, e non tenendo conto ad esempio del fatto che oggi in Italia chi non prosegue gli studi ha una probabilità elevatissima di arruolarsi nell’esercito dei NEET, di cui abbiamo in parte già parlato e che approfondiremo in seguito, il dato sul Valore Attuale Netto dell’Università fornito dalla tabella A7.4a è particolarmente utile per ragionare del costo delle politiche di austerità che l’istruzione vive da ben prima dell’insorgere della crisi. A fronte di un costo totale di 32.700 $ per studente laureato (calcolato come abbiamo visto poco fa tenendo dentro costi non imputabili alla didattica), 19 Per la metodologia adottata dall'OCSE, si veda http://www.oecd.org/edu/EAG2013_Annex3_ChapterA.pdf, da pagina 69 a 72
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l’OCSE calcola infatti un ritorno di 201.397$ per lo Stato italiano, per un saldo di 168.693$: insomma, anche sulla base di questo mero “conto della serva”, l’Università conviene allo Stato più che ai privati (155.346$ di ritorno individuale), con buona pace di Ichino e Terlizzese e della presunta assenza di interesse pubblico per l’istruzione superiore; il ritorno percentuale di oltre il 10% di investimento è qualcosa cui, in tempi di crisi e non solo 20, nessun investitore saprebbe rinunciare. Applicando questo conto della serva agli 1,3 mld di € tagliati all'università tra il 2008 e il 2012, si ottiene che lo Stato avrebbe potuto investire nella formazione di oltre 50.000 laureati in più 21: una cifra che va presa come indicativa, vista l’approssimazione dell’esercizio, ma che non possiamo non notare come arrotondi per difetto il crollo delle immatricolazioni rilevato dal CUN e citato in precedenza. Sarebbero dunque ben 8 mld di € i costi dei tagli degli ultimi anni, alla luce del solo risparmio fiscale come definito sopra: un’ulteriore conferma che ciò che l’Italia non può più permettersi è l’ignoranza, a partire da quella dei Ministri secondo cui l’Italia spende troppo in istruzione e i neutrini magari si fermano anche al casello.
Un Paese schiavo di precarietà e disuguaglianze Da tempo emerge lo stato indecente in cui versa la situazione occupazionale del nostro Paese. Ormai questa tragica realtà è evidente a tutti e certificata da dati spaventosi ormai da molto tempo, specialmente per quanto riguarda la disoccupazione giovanile. Quanto recentemente è emerso dai rapporti del CNEL 22 e dell'ISTAT evidenzia 20 Il dato dell'OCSE si riferisce infatti al 2009 21 La stima è della Commissione Europea: http://europa.eu/rapid/press-release_IP-13-261_en.htm 22 http://www.cnel.it/53?shadow_documenti=23234
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senza dubbio che nel nostro paese ci troviamo in una situazione senza precedenti: la disoccupazione ha infatti raggiunto un livello che non si vedeva dal 1977 (da quando, cioè, l'Istat ha iniziato le sue rilevazioni sulla disoccupazione su base semestrale) e in particolare quella giovanile segna un record negativo senza precedenti superando il 40%. A peggiorare il quadro interviene inoltre la preoccupazione che questo aumento della disoccupazione abbia ormai un carattere strutturale. Particolarmente esemplificative della condizione dell'occupazione giovanile sono l'aumento del fenomeno dei NEET (di cui abbiamo discusso parlando di dispersione scolastica), che si attesta al 23,9% della popolazione giovanile, con punte di 35% nelle regioni del Mezzogiorno, e quello del fenomeno del precariato, che riguarda ormai quasi quasi 3 milioni di persone, tra dipendenti a tempo determinato e parasubordinati (in particolare secondo il CNEL il rischio di precarietà per i giovani è aumentato circa del 6% rispetto al 2007). Parallelamente, il livello di disuguaglianza, in aumento dagli anni '80, ha raggiunto picchi allarmanti in seguito alla “cura” dell'austerity e delle misure anticrisi. L' Italia è un paese in cui nonostante la fortissima e fuorviante retorica sul “merito”, rilanciata sia da destra che da sinistra, la mobilità sociale raggiunge i livelli più bassi d' Europa. Un Paese in cui il futuro delle nuove generazioni è ancorato alle differenze socio-economiche di partenza, determinando un preoccupante fenomeno di pre-canalizzazione sociale. In Italia secondo i dati Ocse il livello di disuguaglianza, misurato dal rapporto tra i redditi percepiti dal 20% più ricco della popolazione e il 20% più povero, ha registrato valori crescenti che si sono attestati al 5,2 tra il
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2008 e il 2010, per poi salire al 5,6 nel 2011. Si tratta di un valore superiore alla media europea, prossimo a quelli di Irlanda e Regno Unito, e inferiore a quelli di Spagna, Grecia e Portogallo. Un dato questo che si fa ancora più rilevante quando si passa dal reddito alla ricchezza delle famiglie, per la quale l’indice di concentrazione di Gini3 nel 2010 ha un valore di 0,62, il doppio di quello sul reddito (0,31). Dal 2004 la concentrazione della ricchezza è tornata a crescere, pur restando inferiore a quella degli anni novanta, e la quota di ricchezza totale posseduta dal 10% più ricco della popolazione è salita, nel 2010, al 45,9%, contro il 44,3% del 2008. Il dato è particolarmente grave in quanto, più ancora che il reddito, è la ricchezza originaria delle famiglie a determinare - soprattutto in Paesi a bassa mobilità come i nostri - la possibilità di raggiungere livelli più o meno elevati di istruzione 23. I livelli di diseguaglianza inoltre sono causati anche da fenomeni di origine sociale come ad esempio, secondo il rapporto Ocse, ci si sposa sempre di più tra persone con redditi da lavoro simili e questo ha contribuito ad un terzo dell'aumento della disuguaglianza tra le famiglie; ma è anche diminuita la redistribuzione attraverso i servizi pubblici - sanità e istruzione che, se nel 2000 contribuivano per un quarto a ridurre la disuguaglianza, oggi sono scesi a circa un quinto amplificando l'allargamento della “forbice sociale”. Un dato più emblematico è però quello che lega da un il grado di scolarità e dall'altro la posizione sociale dell’occupazione svolta, l’ammontare del reddito percepito, l’ammontare e la qualità dei consumi e le chance di mobilità socia23 Si veda a riguardo Daniele Checchi, La disuguaglianza. Istruzione e mercato del lavoro, Roma-Bari, Laterza, 1997
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le. Ad esempio, secondo il rapporto Bes, la laurea ha progressivamente perso il suo ruolo di motore della mobilità sociale infatti “nel corso delle generazioni è aumentata la quota di laureati che dopo dieci anni dal primo lavoro si collocano nella classe media impiegatizia e piccola borghesia e, anche se in misura minore, nella classe operaia, senza considerare poi coloro i quali finiscono nell’esercito dei NEET. Inoltre sempre secondo il rapporto BES il livello di istruzione e competenze che i giovani riescono a raggiungere dipende in larga misura dall’estrazione sociale, dal contesto socio-economico e dal territorio. Anche il divario nelle competenze, come ad esempio quelle di italiano e matematica, “tra gli studenti dei licei e quelli degli istituti professionali è ampio e non semplicemente giustificabile con il diverso indirizzo formativo degli istituti”. Infatti “la presenza di genitori con al massimo la licenza elementare influenza in modo determinante la probabilità di uscita precoce dal sistema di istruzione e formazione; la qualità del sistema educativo è profondamente diversa tra Nord e Sud, è evidente quindi come il livello di competenze acquisite non sia unicamente legato al merito ma a condizioni economiche e sociale. Si è, infatti, mostrato anche come le origini sociali condizionano non solo il grado di scolarità raggiunto dalle persone ma anche gli indirizzi formativi da esse prescelti. Secondo i dati del BES l’estrazione sociale degli studenti degli istituti tecnici e professionali continua ad essere più bassa di quella degli studenti dei licei: nel 2011, infatti, risulta iscritto al liceo il 46,1% dei ragazzi di 13-19 anni che vivono in famiglie con capofamiglia dirigente/imprenditore o libero professionista, mentre tra i ragazzi che vivono in famiglie con capofamiglia operaio la quota scende al 13,8%. Analogamente
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anche la scelta universitaria è condizionata dalle condizioni economiche e sociali di partenza , ad esempio i corsi di laurea che danno accesso alle libere professioni (con la parziale esclusione di quelle di ingegneria e di economia) sono popolate soprattutto da discendenti da famiglie agiate, mentre le persone che provengono da condizioni familiari disagiate si concentrano principalmente nelle facoltà che indirizzano verso l’insegnamento o in quelle ad indirizzo politico, sociale e simili. Diversi studi hanno dimostrato come ci sia un doppio legame tra istruzione e disuguaglianze: non solo, infatti, come detto in precedenza, le origini familiari tendono ad aprire o escludere le porte di accesso all’istruzione; esiste una precisa relazione tra l’investimento in istruzione e le politiche educative e il livello di disuguaglianza generato nella società. Un recente lavoro di tre studiosi italiani 24 ha infatti analizzato l’effetto delle riforme scolastiche in 24 Paesi europei, sulla distribuzione dei livelli di istruzione, e ha scoperto che politiche “inclusive” - che cioè puntano sull’aumento della partecipazione all’istruzione, mediante supporto finanziario e didattico - comportano una forte riduzione delle disuguaglianze di reddito, mentre al contrario politiche “esclusive” come quelle dei Paesi anglosassoni - basate sulla forte selezione all’ingresso, la concorrenza tra atenei e l’indebitamento privato degli studenti - determinano un aumento delle disuguaglianze origianarie. In questo senso, un Paese che investe in istruzione pubblica e in borse di studio è un Paese che costruisce un futuro meno diseguale, meno ingiusto e con una più forte coesione sociale.
24 Michele Braga, Daniele Checchi ed Elena Meschi (2013), Educational policies in a long-run perspective, Economic Policy, CEPR & CES & MSH, vol. 28(73), pages 45-100, 01
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Dalla ricerca nasce l’occupazione Non si può fare a meno di notare che questo sia avvenuto contestualmente al progressivo disimpegno dello stato nei confronti dei settori della ricerca e dell'istruzione, discusso in precedenza. In particolare, soffermandoci ora sulla ricerca, salta agli occhi la drammatica situazione relativa agli assegnisti di ricerca che, dopo le recenti modifiche legislative, rischiano un'espulsione di massa dal sistema - nonostante si possa notare come il numero dei ricercatori italiani sia di gran lunga inferiore a quello di gran parte dei paesi OCSE. In generale è rilevabile come il divario nella ricerca in Italia rispetto ad altri paesi in gran parte dipenda dall'esiguità del finanziamento pubblico, drasticamente tagliato soprattutto nel periodo 2008-2013, quando a farne le spese sono stati soprattutto i PRIN (Programmi di ricerca di rilevante
interesse nazionale), che hanno affrontato una costante decurtazione a cui va aggiunta la mancanza di specifici fondi per l'acquisizione di grandi apparecchiature (mentre contemporaneamente si riduceva il Fondo di Finanziamento Ordinario delle Università). Per rispondere a chi dice che le università italiane fanno troppo poco in termini di ricerca, è sufficiente replicare quanto elaborato da ROARS25 per rispondere ad un politico italiano giovane ma evidentemente poco preparato: le spese di Harvard ammontano al 44% dell’intero Fondo di finanziamento ordinario italiano di cui beneficiano 66 atenei statali. È evidente come non si possa evidenziare una causalità vera e propria, ma il contemporaneo verificarsi del disinvestimento e dell’investimento in settori in grado di elevare le competenze dei lavoratori e degli imprenditori italiani, il taglio anche diretto di posti di lavoro nel comparto istruzione e nel pubblico in 25 http://www.roars.it/online/matteo-renzi-e-universita-parliamo-di-cose-concrete/
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generale, e il minore apporto alla competitività del sistema produttivo seguito alla riduzione dei fondi per la Ricerca, sembra più che una correlazione. Non solo: una recente ricerca dell’Università del Massachusetts ha stimato che mentre un miliardo di dollari investito nella difesa genera in media 11.000 nuovi posti di lavoro, la stessa cifra investita in energie rinnovabili ne produrrebbe ben 17.000, un numero che quasi raddoppia per gli investimenti in istruzione, capaci di generare 29.000 nuovi posti di lavoro26.
Istruzione vuol dire riconversione Nota a sé merita il tema delle riconversioni che, se si verificheranno opportuni investimenti, potrebbero costituire un'interessante occasione per molti giovani. Alla crisi economica risulta fortemente connessa quella ambientale. Se si vuole intervenire è necessario contrastare il pensiero liberista con un nuovo approccio che porti ad una ridistribuzione delle risorse, alla salvaguardia dell'occupazione e dell'ambiente. Insomma, ormai è evidente che è necessario 26 Come evidenzia la ricerca condotta dalla Rete Disarmo nella campagna “Taglia le ali alle armi”: http://www.disarmo.org/nof35/docs/4013.pdf
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interrogarsi sul cosa e sul come produrre e per far questo è ineludibile un forte investimento in ricerca finalizzato a creare un nuovo sistema compatibile con l'ambiente, con la possibilità di garantire una vita dignitosa e l'accesso ai servizi pubblici a tutte le persone e che valorizzi le tante professionalità che escono dal mondo della formazione. Dal rapporto Istat dell’anno in corso, rispetto al benessere equo e sostenibile, emerge che più di metà della spesa per la ricerca in Italia è sostenuta dalle imprese, dato tuttavia ancora insufficiente se consideriamo la media europea. Su un totale di 247 mld di € investiti in ricerca e sviluppo dai Paesi Ue, l’Italia ha stanziato solo 19.625 mln di € stando ai dati del 2010, vale a dire un irrisorio 8%.
Se consideriamo, poi il rapporto tra PIL e spesa per ricerca e sviluppo, esso è all’1,3% nel nostro Paese, risulta dunque evidente la remota possibilità di rispettare l’obiettivo di Europa 2020 (che vorrebbe la soglia al 3%).
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Sebbene sembri aumentare finalmente anche in Italia la propensione all’innovazione da parte delle imprese, è bene ricordare che nello specifico tale “sforzo” non risulta essere impiegato nel settore più importante, ovvero quello dell’alta tecnologia, fondamentale ai fini dell’innovazione del mercato del lavoro e del miglioramento della qualità della vita ma ancora trascurato e comunque peculiarità dell’occupazione maschile. Cosa significa, dunque, “innovare” nel nostro Paese? Che ricadute ha questa presunta propensione in termini occupazionali e sociali? Si definiscono tali le imprese che hanno introdotto un rinnovamento tecnologico su prodotti o di processi di produzione, nell’organizzazione o nel marketing. Tenendo in considerazione il fatto che non necessariamente ciò sia sinonimo di qualità, sostenibilità ambientale e sociale, vediamo come dal 2008 al 2010 l’Italia abbia registrato ben il 53,9% di imprese innovatrici. Le prime contraddizioni le notiamo osservando che, nel 2011, solo il 3,3% degli occupati si ritrovava nei settori di cui prima. Per rendere ancora più evidenti le dissonanze basterà valutare: • l’incidenza dei “lavoratori della conoscenza” sul totale degli occupati: in Italia solo il 14% del totale degli occupati in professioni scientifico-tecnologiche hanno un’istruzione universitaria; • la concentrazione delle attività di ricerca e innovazione nel nord (Trentino, Valle d’Aosta e Veneto) e nel Lazio, la conseguente differenza tra queste ultime e il Mezzogiorno; • nel settore privato italiano, in realtà, il rapporto tra spesa in ricerca e sviluppo delle imprese e Pil è pari allo 0,7%, la metà della media europea. Il panorama però cambia se si guarda la percentuale del 2011 degli occupati
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nei “settori ad alta intensità di conoscenza”, il miglior risultato è nel Lazio (dove vi è un’elevata presenza di enti pubblici di ricerca). Nonostante l’evidenza dei dati Istat, tuttavia, si continua a registrare un aumento della spesa delle imprese ed una continua riduzione di quella pubblica, sia essa da parte di enti che di università. E’ interessante, per capire meglio le ricadute del sapere in economia, leggere il sito di Finmeccanica27, principale azienda italiana e controllata in maggioranza dal Ministero dell’Economia, azienda che investe due mld di € l’anno in ricerca e sviluppo ovvero circa il 10% di quanto si spende complessivamente in Italia in Ricerca. Dai dati resi pubblici dall’azienda si evince come il settore della ricerca e sviluppo dia lavoro a più di 20.000 persone e che il 55% dei ri cavi del 2012 provenga da nuovi prodotti o soluzioni sviluppati negli ultimi 5 anni. Peccato poi notare che l'80% degli investimenti sia concentrato in tre settori
strategici
(Elettronica
per
la
Difesa
e
Sicurezza,
Elicotteri,
Aeronautica), tutti e tre quasi totalmente indirizzati alla guerra e non nei settori civili di Finmeccanica come la costruzione di autobus, treni, software, ecc. Questi dati dimostrano come la ricerca abbia un evidente peso nella riuscita di un’azienda e anche nelle ricadute occupazionali, ma che, in Italia specialmente, sia indirizzata in gran parte nel settore bellico. Mentre noi studenti viaggiamo quotidianamente su treni e autobus scadenti le aziende italiane producono nuovi caccia bombardieri, sistemi di difesa e mezzi blindati.
27 http://www.finmeccanica.com/innovazione/model-of-innovation/dati-principali
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Dove sono i nostri soldi? Il definanziamento dell’istruzione pubblica italiana si spiega solo e soltanto alla luce delle politiche economiche scelte dalla governance europea negli ultimi trent’anni. L’obbligo del pareggio del bilancio e della riduzione del deficit pubblico che l’austerità impone comporta infatti innanzitutto tagli massicci al welfare e ai diritti (istruzione, sanità, trasporti, etc.), considerati sprechi inutili che rallentano la ripresa economica. Queste ricette economiche vengono presentate oggi come l’unica via d’uscita possibile dalla crisi ma non fanno i conti con le cause reali della crisi che stiamo vivendo; essa è figlia infatti non di un’eccessiva spesa pubblica ma dei disastri finanziari che si sono succeduti nel corso degli anni: dalla catastrofe dei mutui subprime al protrarsi della politica dei bassi tassi d’interesse della Federal Reserve americana, dalla scarsa regolamentazione della selvaggia finanziarizzazione dell’economia alla bolla della new economy e del settore immobiliare. Il neoliberismo ha cioè causato la crisi e continua paradossalmente ad essere assunto oggi come agenda politica da adottare d’emergenza in tutti i Paesi dell’UE proprio per uscire dalla crisi stessa. Gli effetti recessivi che tagli e privatizzazioni hanno provocato alla crescita economica dei Paesi, specie quelli maggiormente colpiti dalla crisi, e l’inasprimento drammatico delle condizioni sociali che ha determinato sono oggi però sotto gli occhi di tutti. Le vere emergenze sono sociali e democratiche. Serve smascherare l’austerità: le scelte che essa impone non sono le uniche possibili, esse disperdono le risorse pubbliche e sacrificano il
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diritto di tutte e tutti ad una vita dignitosa per aumentare i profitti di pochi: vanno perciò non soltanto messe in discussione ma fermate. Occorre cioè immaginarsi politiche economiche capaci di redistribuire la ricchezza in maniera equa, garantendo forme di sostegno e tutela a tutta la società e non soltanto a parti ristrette e privilegiate di essa. Gli esempi sono tanti e tante sono le battaglie che attraversano il nostro Paese e vedono la maggior parte della popolazione rivendicare un sistema economico capace di rispondere alle esigenze sociali e di dare senso ad una democrazia che altrimenti è svuotata di senso; gli investimenti sulle grandi opere e sull’istruzione privata, la tassazione delle rendite e degli alti patrimoni, gli incentivi statali all’economia, le spese militari e le politiche sull’immigrazione sono alcuni dei capitoli di bilancio su cui è possibile recuperare risorse importanti per un cambio di rotta radicale rispetto all’attuale modello di sviluppo.
Le grandi opere: l'esempio del TAV Il Treno Alta Velocità Torino-Lione ad esempio - stando al dossier UE 2010 - costa allo Stato 35 mld di €, escludendo opere collaterali e sussidiarie. Se si considera l’aumento che ordinariamente si registra nelle spese reali per la costruzione delle tratte ferroviarie rispetto ai preventivi (es. per la Roma-Firenze sono cresciute di 6,8 volte rispetto ai preventivi, o anche quelle per la Milano-Torino cresciute di 5,6 volte) è possibile fare una media ed ipotizzare che i costi a carico dell'Italia per il TAV Torino-Lione lieviteranno fino a 191 mld di €28. A questi vanno inoltre sommati gli ingiustificabili costi sostenuti per la militarizzazione della Val di Susa: al 2011 erano stimati in 186 mln di € l'anno le spese per le forze di polizia speciali impegnate a 28 http://www.cadoinpiedi.it/2012/03/22/le_ragioni_per_dire_no_alla_tav.html
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reprimere una protesta radicata tra tutta la popolazione delle valli 29. Il movimento No Tav si batte contro un’opera che ritiene giustamente inutile e dannosa, i diversi governi in questi anni hanno però confermato la volontà politica di finanziare a tutti i costi l’opera lasciando non soltanto inascoltata la protesta ma decidendo addirittura di sprecare risorse pubbliche per criminalizzarne le ragioni.
Il finanziamento alle scuole private Non parliamo quindi di sprechi neutri, causati da errori tecnici o burocratici, ma di scelte politiche precise su cui si decide di investire risorse pubbliche anche in tempi di crisi nonostante queste non comportino ritorni di nessun tipo per la società tutta. Caso emblematico è in tal senso il finanziamento stale alle scuole private. Alle scuole paritarie, in controtendenza rispetto ai tagli lineari destinati al comparto pubblico, sono stati assicurati in questi anni finanziamenti statali pari a 500 mln di € in media; il gettito dei finanziamenti, sebbene non esente da cali nell’ultimo quinquennio, si è mantenuto tuttavia costante negli anni se comparato col crollo vertiginoso dei finanziamenti subito dalla scuola statale: le paritarie sono passate infatti dagli oltre 527 mln del 2004 a 497 mln nel 2011 (un calo di circa 30 mln), per tornare a ricevere nel 2012 oltre 500 milioni di fondi 30. Queste somme si alzano se si guarda alle situazioni locali: la regione Lombardia ad esempio, nel 2009, ha finanziato il sistema dei buoni scuola per le scuole private con oltre 45 mln di €31. Sospendere il finanziamento pubblico delle scuole private 29 http://www.greenstyle.it/no-tav-la-militarizzazione-della-valle-costa-piu-dei-finanziamenti-europei4184.html 30 Si veda in tal senso il Rapporto di Sbilanciamoci 2013, reperibile all'indirizzo http://www.sbilanciamoci.org/wp-content/uploads/2012/11/rapporto-sbila-2013_def-stampa1.pdf 31 http://www.lucianomuhlbauer.it/public/RAPPORTO%202009.pdf
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non permetterebbe di trovare le risorse necessarie a risollevare l’istruzione pubblica, ma sarebbe un primo importante segnale di un’inversione di rotta nelle priorità politiche del Paese. Chi infatti difende la necessità di finanziare l’istruzione privata per tutelare la libertà di scelte delle famiglie sceglie di ignorare i dati sul costo dell’istruzione, sul calo delle immatricolazioni, l’abbandono scolastico e la canalizzazione precoce degli studenti. Questi dati ci indicano infatti che la libertà di scelta messa sotto scacco non è quella di chi sceglie le scuole paritarie ma quella della maggior parte degli studenti che sceglie il sistema pubblico e non si vede garantito il proprio diritto a studiare in scuole laiche, accessibili e di qualità.
Evasione fiscale e progressività del sistema tributario Uno dei più grandi problemi irrisolti del nostro Paese è l’evasione fiscale. Secondo le stime dell'ISTAT relative al 2008, il valore aggiunto prodotto nell'area del sommerso economico era compreso tra i 255 e i 275 mld di €, ovvero tra il 16,3 e il 17,5% del PIL 32. Ipotizzando che la quota di valore aggiunto sommerso in relazione al PIL sia rimasta costante, si può stimare che al 2012 tale cifra si aggirasse tra i 241 e i 260 mld di €. La Corte dei Conti ha misurato invece la “propensione a non pagare” diverse imposte, tra le quali IVA e IRAP, che rappresentano circa un quinto dell'imposizione fiscale totale a livello nazionale. Tuttavia, la stessa Corte dei Conti sostiene che “nell’ampia area che ne resta fuori si collocano forme di prelievo (IRPEF, IRES, altre imposte sugli affari, contributi previdenziali) che lasciano presumere tassi di evasione non molto dissimili da quelli rilevati per l’IVA e l’IRAP”. 32 http://www3.istat.it/istat/audizioni/220710/Allegato1.pdf
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La media dei dati 2007-2009 rileva una propensione a non pagare l'IVA pari al 29,3%, con 38,2 mld di € evasi, e una propensione a non pagare l'IRAP pari al 19,4%, con 8,3 mld di € evasi 33. Ipotizzando che la propensione all'evasione sia rimasta inalterata, si può stimare che nel periodo gennaio-novembre 2012 il gettito IVA evaso sia pari a 29,6 mld di €, mentre per quanto ri guarda l'IRAP sull'intero periodo 2012 circa 6,6 mld di €. Una lotta incisiva all’evasione fiscale, unita a una riforma più progressiva del sistema tributario, permetterebbe di recuperare un’ingente quantità di risorse da reinvestire, anche nel sistema formativo.
Le spese militari Sfogliando i dati del Bilancio di Previsione 2013-2015 stilato dal Governo Monti, si scopre che le spese per il Ministero della Difesa passano dai 19,9 mld di € del 2012 ai 20,9 del 2013, fino ai 21 del 2015. Tale aumento è nettamente superiore ai tagli subiti dallo stesso ministero nel processo di Spending Review. Lo stesso Governo Monti ha impegnato per le missioni italiane all’estero 1 mld di € per il triennio 2013-2015 34. Una politica di riduzione dell’organico, di ritiro da tutte le missioni all’estero e di taglio ai programmi di estensione dei sistemi d’arma permetterebbe di liberare risorse rispettivamente per 4 mld di €, 800 mln di € e 740 mln di €. Emblema degli ‘sprechi’ nel settore militare è l’acquisto dei 131 cacciabombardieri F-35 Joint Strike Fighter, per una spesa complessiva di ben 15 mld di €35. 33 http://www.corteconti.it/opencms/opencms/handle404? exporturi=/export/sites/portalecdc/_documenti/controllo/sezioni_riunite/sezioni_riunite_in_sede_di_contr ollo/2012/audizione_3_ottobre_2012.pdf&%5d 34 Si veda in tal senso il Rapporto di Sbilanciamoci 2013, reperibile all'indirizzo http://www.sbilanciamoci.org/wp-content/uploads/2012/11/rapporto-sbila-2013_def-stampa1.pdf 35 http://www.disarmo.org/nof35/docs/4013.pdf
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La legalizzazione delle droghe leggere La legalizzazione delle droghe leggere porterebbe nelle casse dello Stato una cifra ragguardevole in termini di imposizioni fiscali, ma anche di risparmio rispetto alle spese giudiziarie per la persecuzione dei consumatori. In Italia vivono 2,4 mln di consumatori occasionali 36. I dati relativi agli Stati Uniti ci dicono che per rispettare le normative proibizioniste vengono spesi circa 8 mld di $ l’anno, a fronte di un potenziale guadagno derivante dalla legalizzazione pari a 6,5 mld di $37, senza considerare gli effetti non direttamente monetizzabili, per esempio quelli derivanti dalla lotta alle organizzazioni mafiose.
Le politiche migratorie Sempre nel Bilancio di Previsione 2013-2015 si scopre che per la costruzione e la gestione dei CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) lo Stato ha speso 170 mln di € nel 2013, e prevede di spenderne 236 nel 2013. Inoltre l’Italia contribuisce al programma europeo per il controllo delle frontiere europee con una cifra che si aggira attorno ai 49 mln di € per il 201138. Sono risorse che incidono in misura minima sul totale del bilancio statale, ma che potrebbero essere riallocate su altri capitoli di spesa.
Il ruolo della Cassa Depositi e Prestiti Il bilancio 2011 della Cassa Depositi e Prestiti mostra attività per 249 mld di 36 http://www.politicheantidroga.it/media/601034/cap_i.1%20(5).pdf 37 http://www.fuoriluogo.it/sito/home/materiali/documenti/droghe_e_economia/gli_effetti_economici_della 38 Si veda in tal senso il Rapporto di Sbilanciamoci 2013, reperibile all'indirizzo http://www.sbilanciamoci.org/wp-content/uploads/2012/11/rapporto-sbila-2013_def-stampa1.pdf
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€, dei quali 19 mld di € in partecipazioni statali, 127 per prestiti al Ministero del Tesoro, 92 per prestiti agli enti locali, più altre partite di entità minore. Le entrate della Cassa sono finanziate per 14 mld con mezzi propri, per 207 dal risparmio postale e per la restante parte da emissioni obbligazionarie 39. Dal 2003 in poi, tuttavia, con la fine della cosiddetta ‘gestione separata’, la Cassa Depositi e Prestiti, quotata in Borsa, ha causato l’adeguamento dei tassi dei prestiti agli enti locali ai prezzi di mercato. Il protagonismo della Cassa Depositi e Prestiti nei finanziamenti degli enti locali si è notevolmente ridimensionato, passando dai 6,2 mld di € del 2011 ai 3,3 del 2012. Questa contrazione avviene anche a causa dell’applicazione del Patto di Stabilità agli enti locali, ora anche ai Comuni con popolazione inferiore ai 5000 abitanti, che non permette agli enti stessi di contrarre nuovi prestiti 40. In un periodo di crisi economica come quello che stiamo attraversando, un ente come la Cassa Depositi e Prestiti, che come riportato sopra è costituito sostanzialmente dai risparmi di milioni di famiglie italiane, dovrebbe acquisire un ruolo centrale nel riorientamento dello sviluppo economico del Paese, e in particolare nel sostegno al sistema formativo. La Cassa potrebbe per esempio promuovere un piano straordinario d’investimento nell’edilizia scolastica e universitaria sul territorio nazionale. Azioni come queste, in un quadro più generale di ricostruzione di un reale controllo pubblico delle strategie d’investimento della Cassa, contribuirebbero a rendere la Cassa stessa uno strumento fondamentale per l’uscita del Paese dalla crisi economica.
39 Si veda in tal senso il Rapporto di Sbilanciamoci 2013, reperibile all'indirizzo http://www.sbilanciamoci.org/wp-content/uploads/2012/11/rapporto-sbila-2013_def-stampa1.pdf 40 http://www.perunanuovafinanzapubblica.it/wp-content/uploads/2013/07/schedaCDP-enti-locali.pdf
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CONCLUSIONI
E quindi, quanto dobbiamo investire in istruzione e ricerca? Oggi per immaginarci un nuovo modello di sviluppo, nuovi apparati produttivi, nuovi servizi e nuove filiere servirebbe prima di tutto rilanciare l'istruzione e la ricerca portando la percentuale di investimenti sul livello medio dell'OCSE, cioè il 6,5% del PIL per l'istruzione, mentre sulla ricerca è necessario che gli investimenti arrivino dall'oggi misero 1,28% del PIL al 3% immaginato in Europa 2020. Ma quantificare gli investimenti necessari per istruzione e ricerca non è sufficiente. Oggi serve imporre alle aziende private che hanno inquinato i territori o sfruttato i lavoratori un ripensamento del loro modo di produrre, investendo in ricerca e sviluppo per immaginarsi un modalità di produzione sostenibili dal punto di vista sociale ed ambientale. Un caso come quello dell'ILVA non deve più ripetersi. Oggi noi pensiamo che l'Europa e il nostro Paese dovrebbero pensare a queste priorità: perché se l'Italia sfora i paramentri del Fiscal Compact deve pagare delle multe ma se non raggiunge i parametri fissati da Europa 2020 nessuno dice niente ai nostri governanti? Ma soprattutto pensiamo che un bilancio di una scuola o università, di un Comune, di una Regione, dell'Italia o dell'Europa non si possa costruire senza coinvolgere le persone in carne ed ossa, quelle che vivono l'emarginazione e la mancanza di diritti, perché è per loro, cioè per noi, che oggi deve agire l'e-
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conomia. Oggi il mondo si divide in due: chi pensa che l'economia debba agire per gli interessi di qualcuno e chi pensa che l'economia debba essere al servizio di tutti. Noi abbiamo scelto da che parte stare, abbiamo scelto di sapere, abbiamo scelto che vogliamo decidere.
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