Piattaforma 17 novembre, change is now!

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L’Italia è il Paese con il più alto numero di Neet in Europa. Oltre 2 milioni di persone non studiano, non lavorano, non riescono a

collocarsi all’interno del sistema sociale e produttivo italiano. Al 62% della popolazione che si trova tra i 15 e i 34 anni viene negato il diritto all’emancipazione familiare. Sono milioni i giovani che si trovano costretti a rimanere legati al nucleo familiare di origine per soddisfare anche i più elementari diritti sociali,

ormai non più garantiti da uno Stato che ha abdicato al ruolo di garante della dignità della vita dei suoi cittadini e del soddisfacimento dei loro bisogni. Nel nostro paese c’è l’11,2% di disoccupazione, il 37,1% di disoccupazione giovanile: una vera tragedia sociale figlia della crisi che nel 2008 ha messo a nudo la fragilità del sistema economico e sociale in cui viviamo. Una situazione costante di peggioramento delle nostre condizioni materiali causati dalla miopia di governi che hanno puntato tutto sulla defiscalizzazione dei costi

per l’impresa e sul soccorso multi -miliardario alle banche e alla finanza piuttosto che sul sostegno alle popolazioni colpite dalla crisi, alla ricerca, all’occupazione. Secondo l’ultimo rapporto McKinsey la quasi totalità delle famiglie ha redditi inferiori delle generazioni precedenti ossia il 97% delle famiglie ha redditi in-

feriori a quelli di 10 anni fa. Non è solo una questione genera-


zionale, ma secondo l’ISTAT la povertà è un dato strutturale. Sono infatti aumentate del 140% le persone con gravi difficoltà

economiche secondo l’ISTAT e sono 5 milioni le persone in povertà assoluta. Vi è un tasso di povertà minorile del 17% pari, per una casualità affatto casuale, al tasso di dispersione scolastica.

I dati parlano chiaro: l’esclusione sociale nel Paese è sempre maggiore. Sempre più persone hanno gravi difficoltà ad accedere a qualsiasi diritto costituzionalmente garantito: sanità, istruzione, lavoro, welfare. Ma l’esclusione sociale è anche politica, perché al ricatto delle disuguaglianze corrisponde il rafforzamento dei poteri dei pochi che hanno sempre deciso in funzione dei loro interessi. Chi non ha niente ed ha sempre avuto meno, invece, non ha mai deciso nulla. Non ha deciso le riforme degli ultimi anni, non ha deciso

la Buona Scuola, rigettata nelle piazze dai movimenti studenteschi, non ha deciso lo Sblocca Italia, non ha deciso il Jobs Act, né le riforme dei Governi precedenti. La Riforma costituzionale del governo Renzi è il sigillo finale di

questo processo di allontanamento della politica e degli strumenti decisionali dalle persone e dai loro bisogni. Un processo europeo e globale che segue le direttrici dell ’accentramento della ricchezza, dell’1% della popolazione che si arricchisce sulle spalle del restante 99% a cui viene imposto di sopravvivere

unicamente competendo tra di loro. Con la teorizzazione della dicotomia tra partecipazione e governabilità, la riforma esprime un ’idea “amministrativa” della democrazia: un esercizio gestionale che deve essere efficiente e ve-

loce prima che rappresentativo della volontà popolare. Una delega in bianco “alla minoranza che vince” di poter trasformare il Paese con la stessa leggerezza con cui si modifica l ’arredamento di un appartamento. Un progetto ben preciso che nasconde chi, invece, attraverso il potere finanziario ed economico di cui dispone (grandi imprese, multinazionali, istituti bancari e finan-


ziari) con la retorica della velocità trova lo spazio per impoverire ulteriormente le nostre vite ed aumentare i propri profitti e i

propri privilegi imponendo leggi regressive, speculazioni, abbassamento dei salari, riduzione dei diritti, privatizzazioni, cementificazioni. Un progetto di società diseguale e atomizzata in cui chi ha meno deve costruirsi i propri strumenti di sopravvivenza all’interno di realtà sociali iper-competitive in cui l’unico conflit-

to consentito è quello orizzontale tra poveri e mai quello verticale tra un popolo sempre più impoverito che rivendica redistribuzione del potere e della ricchezza e chi è responsabile delle miserie del nostro presente.

Renzi dall’alto, per rispondere agli interessi di JP Morgan, ha costruito una proposta di riforma costituzionale votata da un Parlamento illegittimo. Non abbiamo difficoltà a dire che purtroppo la Costituzione non è un tema di dibattito giornaliero per chi ha visto inasprirsi le proprie condizioni materiali e, come la nostra generazione, i diritti costituzionali non li ha mai visti applicati. Perciò questo non è il referendum dei conservatori contro il cambiamento, come Renzi vuole farci credere, ma dei tanti contro i pochi, dei soliti poteri forti che hanno sempre deciso contro il popolo che ha meno e continua a subire. Questo referendum può essere una occasione per riaprire il tema democratico nel Paese, tanto in termini di democrazia sostanziale, per la redistribuzione della ricchezza e l ’abbattimento delle disuguaglianze, tanto in termini di democrazia cognitiva, per una istruzione gratuita e di qualità, alla base di una qualsiasi discussione sulla democrazia formale che non sia fine a se stessa. Il nostro NO al DDL Boschi quindi non si limita ad essere opinione sul dibattito referendario. Il nostro è un NO costituente con ambizione trasformativa dell’esistente: un No che ha funzione destituente, per mettere in discussione i meccanismi di potere e di esclusione incancreniti nel nostro Paese, e funzione ricostituente per costruire un modo nuovo di deliberare che restitui-

sca potere al popolo in funzione dei suoi interessi reali.


Il 17 novembre come studentesse e studenti torniamo a prendere parola per portare in piazze le nostre idee di cambiamento.

Abbiamo chiare le idee su quale sia infatti il cambiamento real e e non retorico funzionale al Paese: una istruzione gratuita e di qualità, una maggiore decisionalità per i territori, un nuovo modello di sviluppo sostenibile, un reddito per tutte e tutti, un lavoro dignitoso senza il ricatto dei voucher. Al nostro NO, infatti

corrispondono tante proposte che vogliamo contrapporre alle miserie del presente in cui viviamo per una reale redistribuzione della ricchezza e del potere. Il 17 novembre le porteremo in piazza per riappropriarci del cambiamento che, fuori dagli slogan, può venire solo da chi ha meno e riprende parola. Sui nostri territori, sul nostro futuro, sulle nostre vite #decidiamoNOi! Qui le ragioni del no delle studentesse e degli studenti nel merito

della

riforma:

https://issuu.com/studentiperilno/docs/

perch___no

à Le Scuole e le Università stanno cambiando forma. Il processo di smantellamento del carattere pubblico statale dell ’istruzione italiana è ormai al culmine.

Abbiamo subito infatti un processo

iniziato con 8,5 miliardi di tagli in 4 anni sancito dalla cosiddetta riforma Gelmini, tagli mai reintegrati che rendono le scuole e le università del 2016 degli istituti totalmente definanziati con ap-

pena lo 0,3% del PIL stanziato per le scuole superiori di secondo grado. Ai tagli son seguiti dei provvedimenti che, partendo dallo School Bonus introdotto dalla legge 107, stanno snaturando il

carattere pubblico statale della Scuola, affidando a qualche “benefattore” il piano dei finanziamenti alle scuole in cambio di


sgravi fiscali. La strisciante ottica di privatizzazione verso cui tendono le riforme degli ultimi anni, devia i luoghi della forma-

zione dalla loro funzione per l ’interesse pubblico e deresponsabilizza lo Stato circa le sorti delle stesse. Questo è quello che noi stiamo pagando. Le scuole, senza finanziamenti, si rifanno spesso sugli studenti, attraverso l ’imposizione del contributo volontario, il quale anziché essere destinato al Piano Triennale

dell’Offerta Formativa, viene utilizzato per la manutenzione ordinaria degli edifici o al peggio per spese nascoste nei bilanci.

à I processi di ristrutturazione del capitalismo italiano nella crisi e, al tempo stesso, le cornici ideologiche all ’interno del quale tale ristrutturazione è avvenuta, hanno determinato un processo di trasformazione del sistema universitario italiano. Le riforme degli ultimi anni a partire dal Processo di Bologna con l ’istituzionalizzazione dei crediti formativi e la riforma dei cicli e poi la svolta verso il ridimensionamento e la completa aziendalizzazione dell’Università pubblica con la riforma Gelmini, hanno contribuito al generale processo di smantellamento del sistema d ’Istruzione superiore. Gli effetti di questa depauperazione finanziaria e culturale si inscrivono dentro una molteplicità di fenomeni: dalla graduale dismissione dell’attore pubblico nel sistema d’istruzione, con l’ingresso dei privati nei consigli d ’amministrazione degli atenei, ai processi di selezione ed espulsione segnati dai numeri programmati ai corsi di laurea, passando per una riduzione in termini reali del 22,5% del Fondo di Finanziamento Ordinario delle università e per l’introduzione di un ente valutatore, che della qualità della ricerca, all’efficienza degli Atenei, determina criteri premiali di ripartizione dei fondi, scatenando la competizione tra Atenei per la spartizione delle miserie, generando peraltro profonde sperequazioni tra le diverse aree del Paese. Ma, come spesso accade, le problematiche più materiali ed identificabili provocate da alcune norme sono solo una piccolis-

sima parte rispetto ai gravi danni prodotti sul piano immateriale: infatti ciò che più ha risentito delle politiche di questi anni in


materia di università è il concetto stesso di istruzione superiore quale fonte di emancipazione individuale e collettiva, che è sta-

to aggredito con successo. Il modello aziendalista imposto anche nell’organizzazione universitaria e anni di campagne mediatiche mirate hanno portato una trasformazione nel modo in cui le persone percepiscono il sapere universitario che è - ad oggi semplicemente un mezzo per aumentare le proprie competenze

e provare ad essere più competitivi nel mondo del lavoro. Ma, poiché rifiutiamo questa visione dello studente come una persona ad un’unica dimensione, che assume competenze e macina esami, ci chiediamo anche di quali strumenti possiamo dotarci per ribaltare questa situazione e intervenire per migliorare sia le nostre condizioni di vita sia il contesto che ci circonda.

Abbiamo vissuto sulla nostra pelle gli effetti della legge 107

che, in un anno di attuazione, ha palesato tutte le storture: dallo School bonus, che rende la scuola un ’impresa, al comitato di valutazione e la creazione dello staff del dirigente ha creato una classifica sia dei soggetti che animano la scuola che delle scuole stesse, andando a denaturare il fine stesso dell ’istruzione; in un clima competitivo, infatti, si crea un clima non favorevole alla crescita collettiva e la logica dei comitati di valutazione, tanto quanto dei Rapporti di Autovalutazione, punta a creare una scaletta che non valorizza le scuole situate in territori poveri o pe-

riferici. L’autonomia, svilita del suo significato originario, è diventata solo uno strumento per centralizzare il potere in mano ad una sola persona, il preside manager che deve “gestire” gli affari interni della sua “piccola azienda”. Questo ha svuotato di significato le potenzialità dell ’autonomia scolastica che poteva

essere uno strumento per la valorizzazione individuale e territoriale, grazie alla quale le scuole avrebbero dovuto diventare un centro culturale e polivalente nelle nostre città.

La condi-

zione di definanziamento in cui versa la scuola pubblica statale, ha portato all’ampliarsi di fenomeni come l’imposizione del contributo volontario e l’utilizzo dello stesso, come abbiamo visto,


per attività di manutenzione spesso riguardanti l ’edilizia scolastica. Rispetto a questo tema risulta evidente come il Governo abbia fino ad ora agito tramite spot mediatici, dichiarando di stanziare diversi milioni sull’edilizia attraverso il fondo “Scuole belle, scuole nuove, scuole sicure ” che si è rivelato, nei fatti, un gran-

de fallimento. Uno degli esempi più lampante rispetto a questo è sicuramente il crollo delle scuole in seguito al terremoto di Amatrice, nel centro Italia, che a due mesi dal tragico accaduto non trova ancora delle risposte concrete. L’alternanza scuola-lavoro si è palesata come una grande contraddizione. Infatti nella “Buona Scuola” il governo Renzi ha sicuramente investito buona parte della sua retorica per l ’alternanza scuola lavoro. Quest’ultima non è stata considerata estensione trasversale della didattica sul piano del “saper fare” di quali-

tà, bensì mero ingresso anticipato al lavoro. Risulta semplice capire che un’imposizione forte come le 200 ore di alternanza obbligatorie nei licei e 400 negli istituti professionali, nella maggior parte dei casi scollegate dal percorso formativo scelto nei percorsi di studio, rendano l ’esperienza priva di significato. A rendere

plastica

questa

distorsione

dell ’alternanza

scuola -

lavoro è l’accordo che il MIUR ha firmato assieme ai “Campioni dell’alternanza”, un insieme di 16 aziende e multinazionali che si sono impegnate ad accogliere 27.000 studenti in un percorso di “Formazione on the job ” ovvero in ore di alternanza scuola lavoro con presunte ambizioni formative. Tra queste aziende e multinazionali figurano la Fiat Chrysler, Mc Donald's e Zara, colossi dello sfruttamento dei lavoratori e campioni della devastazione ambientale. Il Governo è quindi orientato in una direzione diametralmente opposta

a quanto da anni gli studenti rivendicano nelle piazze.

Il 7 Ottobre, con lo slogan “Ora basta, decidiamo noi” abbiamo ricollegato il tema delle diseguaglianze e della dequalificazione

dell’istruzione al tema della decisionalità, per una presa di parola collettiva che veda un avanzamento nei diritti per un Paese


più giusto e democratico. Tale cambiamento non può che passare attraverso un abbattimento dei costi dell ’istruzione, dei prov-

vedimenti che portino ad una scuola ed un ’università gratuite come motori per la lotta dalle disparità sociali che dividono il nostro Paese tra chi è più ricco e può permettersi di continuare i percorsi di studio e chi, invece, è costretto a “sacrifici” per proseguire, mantenere una borsa di studio o pagare il proprio

accesso all’istruzione.

L’ostacolo più grande che si frappone ideologicamente alla ga-

ranzia dell’accesso all’istruzione è il merito. Lo studente che deve “meritarsi” la possibilità di proseguire gli studi vede porre davanti a sé barriere invalicabili: il diritto allo studio viene filtrato da medie numeriche e singoli voti che, spesso proibitivi, diventano un incubo da rincorrere per poter accedere allo stu-

dio che diventa in questo modo una sorta di privilegio. Il “merito” è dunque un veicolo del pensiero neoliberale che quantifica, individualizza e annulla al suo interno il concetto stesso del diritto, come elemento indispensabile e garantito a tutti senza alcuna discriminante sociale. La battaglia per il Diritto allo Studio oggi è quindi connessa alle rivendicazioni sul welfare e si dipinge come unica strada percorribile per garantire l'accessibilità ai luoghi della formazione, per far sì che questi siano ancora mezzo per l'emancipazione sociale del soggetto e non invece un luogo di esclusione sociale e di riproduzione delle situazioni di subalternità e di rafforzamento dello status quo.

La meritocrazia continua ad essere presente nella questione sul diritto allo studio specialmente nel modo in cui vengono distribuite le borse di studio, soprattutto nel caso delle borse di studio regionali, a carico delle regioni che ricevono dallo Stato, at-

traverso il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricer-


ca un contributo economico ad integrazione delle disponibilità finanziarie destinate a tale scopo. Ogni regione ha la propria

legge sul diritto allo studio, a stabilirlo è la legge n°62 del 10 Marzo 2000 “Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio”. Tali norme regolano tutti i servizi e le erogazioni in materia, tuttavia esistono 20 Leggi diverse, molte delle quali risalenti addirittura al 1976. Con il referendum del 4 Dicembre e la riforma del titolo V che disciplina il rapporto tra Stato e regioni, si consegnano allo Stato tutte quelle materie “concorrenti” che vengono dunque sottratte alla decisionalità delle autonomie locali. Il diritto allo stu-

dio potrebbe essere ulteriormente svilito da questa riforma in quanto le innumerevoli differenze tra le regioni del nostro Paese rendono complessa una standardizzazione delle norme: il rischio contingente è quello di aumentare considerevolmente le disparità tra nord e sud, tra regione e regione. L ’ottica verso cui bisogna tendere, invece, dovrebbe essere quella di una definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni in materia di diritto allo studio, che incida direttamente per colmare i vuoti presenti nel sistema dell’accesso al diritto allo studio, anziché lasciare e

ampliare i grandi problemi irrisolti nel nostro Paese. Il diritto allo studio deve rappresentare, dunque, una priorità politica poiché rappresenta l ’unica garanzia che permette l’accesso ai saperi in una scuola veramente gratuita e di qualità che diventi una realtà della quale tutti i soggetti in formazione possano usufruire, così da poter intraprendere senza ostacoli i percorsi formativi che preferiscono e successivamente accedere a tutti quei canali extrascolastici che rendono plurale e globale la formazione culturale dell’individuo. Non ci accontenteremo di qualche intervento spot sul diritto allo studio come si sta facendo con lo “Student Act”, che lega il diritto al merito e restringe ulteriormente l ’accesso all’istruzione a chi “ha raggiunto i traguardi dovuti”, alle “eccellenze” o ai

pochi eletti. Non accetteremo qualche soldo sull ’edilizia scolastica rivenduto poi ai media del Paese come grande intervento


epocale (come è stato per la propaganda di “Scuole belle, scuole sicure”; vogliamo sin da subito essere chiari, tema per tema,

circa le nostre rivendicazioni che hanno come orizzonte quello di una scuola inclusiva che agisce nella società per abbattere le disuguaglianze tra studenti, che rea coscienze critiche e si apre al territorio.

1. Una legge quadro nazionale sul diritto allo studio che stenda le basi per tutelare studentesse e studenti e che sia in grado di superare le differenze economiche di partenza

dei singoli individui garantendo agevolazioni su libri, trasporti, servizi mensa, materiale scolastico e borse di studio fondate sul principio reddituale ed il completo definanziamento dalle istituzioni scolastiche private così come sancito dalla Costituzione; 2. Interventi mirati a porre fine al fenomeno della dispersione scolastica; la scuola sul territorio deve diventare un punto di riferimento soprattutto nelle periferie e nei quartieri più poveri, attraverso un’offerta formativa di qualità; 3. Un reddito di formazione per gli studenti, erogato in forma diretta, per consentire la crescita personale e lo sviluppo di inclinazioni e passioni (acquisto di film, libri, cd, ecc.)

à Le nostre Università risultano tra le più care d ’Europa, con sistemi di tassazione molto differenziati da Ateneo ad Ateneo e spesso non rispondenti ai criteri di equità e progressività. Inoltre i fondi destinati al finanziamento delle borse di studio continuano ad essere insufficienti per una copertura adeguata degli aventi diritto: infatti, secondo gli ultimi dati, riferiti all ’anno accademico 2014/2015, il 21,1% degli studenti idonei non è beneficiario di una borsa di studio. A fronte di una situazione di gravità di questo tipo, il Governo preferisce dare spazio al finanziamento di 400 “superborse” per pochi studenti “eccellenti” mentre i


fondi per finanziare le borse di studio tradizionali rimangono inalterati. Così, nonostante le promesse del Governo, gli idonei

non beneficiari saranno ancora una volta migliaia. In realtà dietro la retorica dell ’eccellenza, si cela, ancora una volta, la volontà politica di non investire sul diritto allo studio universitario, ma di intervenire con misure propagandistiche

utili solo al mantenimento dello status quo, o peggio all ’introduzione di dispositivi competitivi e di esclusione. Non abbiamo bisogno di un bonus diciottenni, nient ’altro che una mancia governativa. Occorre subito un ’inversione di ten-

denza con politiche di investimento sul welfare studentesco per garantire un reale diritto allo studio.

1.

Una riforma della tassazione e l ’introduzione di una no-

tax area fino a 28mila euro che miri alla gratuità del sistema universitario, per bloccare il continuo calo delle immatricolazioni e garantire a tutti la possibilità di accedere all’Università;

2.

Un Aumento del Fondo Integrativo Statale per garantire la sostenibilità del percorso di studi attraverso l ’erogazione delle borse di studio a tutti gli aventi diritto;

3.

L'introduzione di un Reddito di formazione per l ’auto-

determinazione e l’emancipazione (da integrare allo stesso. vd sopra).

Le statistiche parlano chiaro: il Job ’s Act è una truffa. Gli ultimi dati Inps parlano di un calo del 33% dei contratti ed un aumento del 36% dei voucher. La precarietà è espansiva ed i diritti si restringono sempre più. L’idea che soggiace dietro il Job’s act - e prima di questo dietro al

“decreto Poletti” e alle diverse altre riforme del mercato


del lavoro approvate negli ultimi 30 anni - è quella del dominio assoluto del mercato e dell’impresa. Dietro la retorica del

“paese che riparte” si nasconde unicamente il più grande spostamento di ricchezze dal basso verso l ’alto e il disinvestimento nel capitale sociale e nell ’economia reale del Paese sacrificati sull’altare della finanza e della speculazione, in cui il denaro deve girare velocemente e senza barriere garantito dal potere e il diritto dei pochi sulle spalle del lavoro e del consumo dei tanti. Le stesse modifiche dell’architettura istituzionale, come suggerito dalla Jp Morgan, servono a ridurre le “rigidità”

- cioè i di-

ritti dei lavoratori e la tutela dei territori - che si frappongono tra i capitali finanziari e la loro corsa al profitto. E ’ in questa chiave che i fondi speculativi e i grandi gruppi industriali sostengono - essendo gli unici che detengono il potere di lobbying nei confronti del potere politico e degli Stati all ’interno di una condizione post-democratica come la nostra - l’accentramento dei poteri nelle mani di pochi loro portatori di interessi. Per far approvare riforme ancora più precarizzanti; per ridurre ancora il costo del lavoro;

per allargare il mondo della nuova

schiavitù che è stata chiamata “voucher”. Noi crediamo che sia necessario rimettere al centro del dibattito pubblico del paese le nostre vere condizioni: la precarietà che viviamo, il ricatto della disoccupazione che subiamo, lo

sfruttamento quotidiano nei luoghi di lavoro, la devastazione sociale ed economica dei nostri quartieri. Crediamo sia necessario investire su un’idea chiara di futuro produttivo e lavorativo, Dobbiamo sottrarre il lavoro dalle vette di sfruttamento raggiunte negli ultimi anni e che abbiamo potuto vedere da vi-

cino a Torino grazie alla lotta dei lavoratori di Foodora, che così come in tante altre parti del mondo, si mobilitano per veder riconosciuto il proprio lavoro e il proprio diritto ad una vita dignitosa.


Rivendichiamo

un

sistema di

welfare universale che punti

sull’accessibilità ai servizi, la gratuità della formazione per tut-

te le fasce di età, un reddito garantito che possa determinare il diritto ad una vita dignitosa per tutti alla luce delle trasformazioni del mondo del lavoro degli ultimi anni. La rivoluzione industriale che abbiamo alle porte ci impone una riflessione su come gestire la transizione: bisogna aggredire le grandi ricchezze accumulate, ridurre l ’orario di lavoro, investire sulla formazione e l’inclusione sociale dei lavoratori dei settori più a rischio e dei disoccupati.

Ogni giorno miliardi di euro vengono trasferiti da un capo all ’altro del mondo tramite sistemi informatici impiegati dall ’alta finanza. La maggior parte di queste risorse non finanzia investimenti produttivi, ma accumula interessi e profitti per gli speculatori tramite un complesso sistema di scommesse su prezzi, tassi di interesse e tassi di cambio valutari. Buona parte di questi flussi finanziari circola senza il controllo di autorità pubbliche, che rispondono a governi ormai da tempo subalterni alla finanza internazionale. L’assenza di controllo pubblico su queste transazioni è una grave minaccia per la democrazia, come ha dimostrato la crisi del 2008. Ma la democrazia viene negata anche in altri modi dagli stessi soggetti che operano nei merca-

ti finanziari. Il caso dei “Panama papers” ha rimesso all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale il problema dell ’economia sommersa e del potere di cui dispongono gli speculatori finanziari. Centinaia di ricchi e imprese hanno nascosto dei fondi dove la pressione fiscale è inferiore, evitando di pagare le tasse come i propri concittadini. Tuttavia il dibattito scandalistico sui nomi degli evasori rischia di non aggredire il nodo politico che sta dietro la proliferazione dell ’economia sommersa. Questo fenomeno indica un aumento vertiginoso delle disugua-

glianze materiali ma anche una profonda riduzione degli spazi di democrazia in merito alle politiche finanziarie.


Il valore dei titoli finanziari con cui banche e operatori finanziari conducono la speculazione equivale a più di 691 mila miliardi

di dollari Usa (Bri, Banca dei regolamenti internazionali, dati resi noti a novembre 2014) ovvero 10 volte il Pil mondiale. Si tratta di cifre che potrebbero risultare assurde, se non avessimo pagato i costi dell’ultima crisi causata da questo sistema non sostenibile né democratico. Il valore impegnato nelle transazioni finanziarie da una delle 10 banche più grosse del mondo spesso supera il Pil di uno Stato nazionale, perciò il solo rischio di insolvenza da parte di uno di questi speculatori può causare un effetto a catena devastante per il sistema economico.

Come se ciò non bastasse, spesso gli speculatori finanziari sono

evasori fiscali, poiché la deregolamentazione finanziaria e

la mancanza di trasparenza nel mercato finanziario favorisce il trasferimento di risorse verso l ’economia sommersa. Nell’Unione Europea i costi dell’evasione fiscale ammontano ad 860 miliardi di euro. Inoltre si verifica una perdita erariale stimata in 150 miliardi di euro a causa dell ’elusione fiscale, ovvero un insieme di pratiche non proibite dalla legge che permettono di pagare le tasse negli stati membri in cui le aliquote sono più

vantaggiose. L’assenza di una politica fiscale comune tra i paesi europei causa una competizione al ribasso nel prelievo fiscale: ciascun paese cerca di ridurre la pressione fiscale sulle imprese e sulle rendite in modo da evitare che gli investimenti si spostino verso un paese concorrente. Proprio queste asimme-

trie creano le condizioni favorevoli alla frammentazione e alla delocalizzazione dell’impresa, mentre la libera circolazione dei capitali favorisce i traffici illeciti con la rimozione dei controlli e la mancata trasparenza nelle operazioni. Lo stesso Presidente della Commissione europea Jean -Claude Junker divenne celebre per le politiche fiscali di sostegno all ’elusione fiscale attuate da primo ministro del Lussemburgo. Mentre l ’austerity imposta dalle tecnocrazie europee danneggia le vite di milioni di lavoratori e studenti, nell’Unione Europea le risorse sottratte

alle casse pubbliche ammontano a 1000 miliardi di euro.


In Italia troviamo il primato europeo per le risorse evase: ben 180 miliardi vengono sottratti al fisco, una cifra corrispondente

al 228% della spesa sanitaria nazionale. Il governo Renzi tramite l’abolizione totale dell’IMU sulla prima casa ha limitato ulteriormente la possibilità di recuperare risorse per la fiscalità generale. Tramite i tagli ai finanziamenti per gli Enti Locali il governo ha inoltre causato un aumento della tassazione indiretta, con un attacco ai consumatori più deboli e a basso reddito. Con il decreto fiscale collegato alla bozza di legge di Stabilità 2017 il governo Renzi vuole inoltre garantire sconti fiscali sui redditi per i grandi manager e imprenditori che fisseranno la residenza

nel nostro Paese, riducendo ancora di più il contributo che questi affaristi devono garantire alla collettività. Il Governo ha dimostrato di voler investire sul taglio dei costi e del prelievo fiscale sulle imprese e sui ricchi piuttosto che sugli investimenti produttivi e sull’innovazione: i bonus legati alla stipula di un

contratto a tempo indeterminato non offrono alcuna garanzia di occupazione stabile né favoriscono la produzione; si tratta di una misura di mera riduzione della pressione fiscale in competizione al ribasso con gli altri stati membri. Anche nel nostro paese le lobby finanziarie vicine agli ambienti governativi non esitano ad impiegare la propria posizione per far pagare di meno le élite, scaricando i costi sui cittadini. Il quadro descritto ci presenta una duplice forma di disuguaglianza. Le enormi ricchezze sottratte al controllo pubblico tra-

mite i mercati finanziari e l’economia sommersa causano un trasferimento delle risorse finanziarie dalle tasche dei cittadini verso i bilanci degli speculatori e degli evasori. La trasparenza sulle transazioni finanziarie è fondamentale per verificare la reale distribuzione delle ricchezze nella società e per garantire un controllo democratico sull ’economia. Un esercito di avvocati, commercialisti, banchieri e faccendieri di varia natura costituisce la base di un sistema di rapina costante ai danni della collettività. Infatti si è sviluppato negli ultimi decenni un

complesso sistema che fornisce professionalità e servizi spe-


cializzati per super-ricchi o grandi imprese che desiderano investire nel mercato dei derivati finanziari o evitare il prelievo

fiscale. La nuova aristocrazia finanziaria che usufruisce di questi servizi non ha più alcun obbligo di solidarietà nei confronti della società, poiché dispone del potere politico e degli strumenti tecnici per non contribuire agli investimenti necessari per migliorare l’economia e alle spese sociali. E’ evidente la disuguaglianza di potere tra i cittadini vessati dalle politiche di austerità per ripagare il debito pubblico e le imprese e i super ricchi che hanno potuto evitare di ripagare i danni della crisi economico-finanziaria. E’ evidente che in Italia come nel resto

del mondo globalizzato la democrazia è stata soppressa insieme all’equità sociale.

Con la revisione dell’articolo 117 e la Riforma del Titolo V prevista dal DDL Boschi, gli Enti territoriali, che spesso si sono fatti carico delle istanze dei cittadini, contribuendo a migliorare la realizzazione di taluni progetti o evitando, quando ciò fosse

manifesto, che il territorio venisse devastato, non avranno più voce in capitolo su materie o politiche cruciali per la sorte delle collettività locali: quali, ad esempio, la salute, l ’energia, le infrastrutture, il governo del territorio, la valorizzazione dei beni culturali e, più in generale, ogni altra materia che il Governo dovesse ritenere – se entrerà in vigore la riforma – di lasciar disciplinare al solo Parlamento nazionale, in virtù della c.d. “clausola di supremazia”. Queste misure evidenziano con chiarezza l ’idea di Stato e governance che il governo Renzi ha in mente: un nuovo centralismo capace di rimuovere ogni barriera tra le politiche neo liberiste imposte dai mercati e la loro attuazione sui nostri territori. Un accentramento del potere necessario a garantire gli

interessi economici e finanziari a scapito dei bisogni di milioni di persone.


Il processo di trasformazione istituzionale è cominciato con la crisi nel 2008. Utilizzando la crisi dei mercati finanziari e la ne-

cessità “di far ripartire il paese” si è proceduto ad approvare riforme regressive all’interno di una vera e propria sospensione democratica. Le riforme tecniche del Governo Monti, la normalizzazione delle larghe intese del Governo Letta e infine le riforme pienamente politiche del Governo Renzi: tutto è proceduto sospendendo il dibattito parlamentare, nominando un governo tecnico con a capo un senatore a vita nominato qualche giorno prima, rieleggendo per la prima volta nella storia lo stesso presidente della Repubblica, utilizzando lo strumento

del decreto legge e del voto di fiducia, insonorizzando il dissenso, reprimendo le forme di attivazione popolare, commissariando e militarizzando i territori “ribelli”. Noi crediamo che la piramide decisionale vada ribaltata, che il potere debba tornare ad essere appannaggio del popolo e dei territori in cui vive. Crediamo che per garantire i diritti sociali sia fondamentale garantire il diritto della popolazione a decidere attraverso meccanismi partecipativi veri: crediamo che vadano potenziate le istituzioni di prossimità, gli istituti di democra-

zia diretta, incentivata la co -progettazione e la partecipazione dei cittadini.

Pensiamo che il nostro paese debba dotarsi di un modello di sviluppo

e

industriale

sostenibile,

vero

e

partecipato.

Un modello che sia rispettoso della tutela dei territori e che si fondi su principi veramente democratici, che si alimenti seguendo i principi della democrazia energetica, che si sviluppi

attraverso la partecipazione attiva della popolazione nella definizione dei bisogni sociali, produttivi e lavorativi del territorio e del Paese. Crediamo sia necessario investire su un ’idea chiara di futuro produttivo e lavorativo, coinvolgendo e finanziando appieno il sistema di formazione la ricerca pubblica per gover-

nare - e non subire- la sfida della IV rivoluzione industriale. Per


liberarne il potenziale cooperativo, ambientale e sociale che racchiude e sottrarla dalle vette di sfruttamento raggiunte ne-

gli ultimi anni. Non può esistere alcuna democrazia senza un modello di sviluppo condiviso dalla popolazione. I governi hanno rinunciato al controllo pubblico e democratico sulla speculazione e sul flus-

so di capitali finanziari, lasciando nelle mani dei grandi fondi privati di investimento un potere enorme sull ’economia mondiale. Poiché l’unico interesse di questi soggetti è il profitto privato degli azionisti e dei grandi manager, questo enorme potere economico è stato impiegato in modo irresponsabile con

investimenti speculativi che non hanno prodotto né innovazione né crescita economica, ma solamente un indebitamento esasperato della popolazione. Senza la giustizia economica non possono esistere né la democrazia né la libertà, così come non può esistere un’economia giusta se viene tolto ai cittadini il diritto di decidere democraticamente sugli obiettivi dello sviluppo economico. La nostra generazione è la più povera dal secondo dopoguerra ad oggi: nella nostra vita abbiamo visto solo la crisi economica e la negazione dei diritti fondamentali della persona. La stabilità di questo sistema economico e politico non ci interessa, perché per conquistare la libertà abbiamo bisogno di invertire completamente la direzione presa dalle nostre società. Lo svi-

luppo tecnico e scientifico sta trasformando l ’economia mondiale, aprendo nuove possibilità di crescita: queste nuove opportunità devono essere sfruttate per l ’interesse pubblico, non dobbiamo lasciare che ancora una volta prevalga l ’interesse di pochi contro i molti. Questo significa che abbiamo bisogno in-

nanzitutto di garantire i massimi livelli di istruzione a tutte e tutti, senza alcuna discriminazione di tipo economico e sociale, per poter utilizzare senza differenze i benefici dello sviluppo tecnologico: nella società contemporanea la mancanza di conoscenza è il primo fattore che determina l ’esclusione sociale, la povertà e la subalternità.


Dobbiamo inoltre conquistare la partecipazione alle decisioni fondamentali che riguardano le politiche economiche. Gli inve-

stimenti e l’innovazione vanno messi al servizio delle persone, non dei profitti privati, quindi lo sviluppo economico deve garantire sempre più la sostenibilità ambientale della produzione, un innalzamento della qualità e dell ’autonomia del lavoro, una assistenza sociale efficace e una sanità accessibile a tutte e tutti. Tutto ciò richiede l’attuazione di un principio fondamentale: i diritti non sono merci, non possono essere subordinati ad un prezzo o alle logiche dell ’impresa. E’ necessario utilizzare le nuove tecnologie e le nuove conoscenze per offrire l ’accesso

universale ai beni e servizi necessari per esercitare i diritti fondamentali.

L’appuntamento referendario del 4 Dicembre è diventato ora-

mai pienamente al centro del dibattito pubblico, e per fortuna se ne discute nelle piazze, nei mercati, nelle scuole e nelle università, non solo nei ritualismi stanchi dei dibattiti tv. Ad oggi giornali e televisioni rappresentano in maniera falsata

l’opposizione tra SI e NO, dando volontariamente spazio solo ad alcune forme di contrapposizione e togliendolo a chi, sulla propria pelle, vive e sente la necessità di riprendere parola. Il dibattito sul referendum, infatti, si appiattisce in una dinamica

tutta politicista interna ai partiti, in cui il SI viene rappresentato dal

Governo

giovane

ed

attivo,

intento

a

cambiare

“radicalmente” le cose, ed il NO è rappresentato dalle peggiori idee conservative dei precedenti Governi. Questo dibattito è finto ed è tutto tra conservatori: non c ’è differenza tra le politiche del Governo Renzi su scuola, lavoro ed ambiente e quelle dei precedenti governi, non c ’è differenza tra la riforma costituzionale

proposta

all’epoca

da

Brunetta

e

quella

Boschi -

Verdini (solo il nome servirebbe a dimostrarlo) su cui siamo chiamati al voto, se le politiche di austerity dei governi tecnici rispondevano a pieno alle richieste di Troika e BCE, anche


Job’s Act, Buona Scuola e non ultima questa Riforma Costituzionale sono volute prima di tutto dai grandi potentati finanzia-

ri, e la lettera del 2014 di JP Morgan sta lì a dimostrarlo. Questa riforma costituzionale è in piena continuità con le politiche degli ultimi 20 anni, ed anzi ne rappresenta l ’apice, perché attraverso la modifica della carta fondamentale istituziona-

lizza come valore fondante della società il potere di decidere nelle mani di pochi. L’assoluto accentramento conseguente alla riforma, la rappresentanza in Senato che viene sottratta ai cittadini per essere affidata alle segreterie di partito, l ’aumento delle firme per la presentazione di leggi di iniziativa popolare,

la clausola di supremazia che asfalta ogni possibilità di autodeterminazione dei territori, l ’elezione del Presidente della Repubblica nelle mani del partito di maggioranza: tutto questo costruisce un accentramento dei poteri che uccide definitivamente una democrazia già malata. Il 27 Novembre saremo tutt* in piazza a Roma per la manifestazione nazionale per il NO, dando parola a chi fino ad oggi è stato ai margini della campagna elettorale.

Ma non ci vogliamo limitare al NO e vogliamo seminare processi per andare oltre il 4 dicembre. Noi, studenti e studentesse, noi che siamo esclusi dai processi decisionali, noi che siamo esclusi dalla possibilità di immaginarci un futuro, noi che non abbiamo alternative a cui affidarci, ma solo le nostre forze per cambiare radicalmente il Paese, votiamo NO perché vogliamo riprendere parola. Il nostro NO è un inizio per costruire e discutere, a partire dal basso, e dai territori, una nuova forma di democrazia più giusta a partire dalle priorità esposte in questa piattaforma. Il 17 novembre prende parola chi ha meno, per dimostrare che la democrazia è una battaglia di giustizia sociale, colorando le strade delle nostre città con le nostre proposte di cambiamento reale. Un cambiamento che non può venire da un uomo al comando o da un Governo, ma solo dal popolo e

dall’impegno collettivo.



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