Freeducation - via libera all'istruzione gratuita e di qualità

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ISTRUZIONE GRATUITA E DI QUALITA’ Una priorità per il paese

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INDICE

Introduzione 1 Diritto allo studio e Reddito 7 Didattica e Valutazione 11 Formazione e lavoro 20 Edilizia 24 Territorio 26 Arte e cultura 29 Post lauream 31 10 punti per l’università 34 10 punti per la scuola 35 Conclusioni 36

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Introduzione

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Perché l’istruzione gratuita e di qualità? Forse siamo dei folli e forse troppo sognatori, ma costruire un’istruzione che sia gratuita e di massa, senza che ciò ne comprometta la qualità, come portato avanti dai movimenti inglesi, tedeschi, francesi, cileni, canadesi negli ultimi anni non è affatto tema relegabile a questione tecnica, ma una riflessione su una nuova idea di Paese non più rimandabile date le condizioni che viviamo. Vogliamo partire dall’abolizione di Buona Scuola e legge Gelmini, per riscrivere completamente tutta la filiera formativa, che è stata riformata anno dopo anno e ministro dopo ministro senza alcun tipo di visione di Paese e di futuro. Sono tre le parole chiave che ci hanno accompagnato in questi anni: uguaglianza, istruzione, democrazia. L’Italia ha oramai un terzo della sua popolazione a rischio povertà ed esclusione sociale. Tra le circa 5 milioni di persone in povertà assoluta, la percentuale maggiore riguarda giovani ragazze e ragazzi. Il dato statistico è sconvolgente. Vi sono infatti 1 milione 292mila di minori poveri ed 1 milione e 17mila di giovanissimi e giovani tra i 18 ed i 34 anni. Il valore è più che triplicato rispetto al 2005. In generale i dati mostrano come i picchi di povertà superiori alla media si hanno principalmente per stranieri, anziane sole e giovani disoccupati. Il welfare italiano, fondato sulla solidarietà intergenerazionale, si trova per la prima volta a fronteggiare un paradosso: i Millenials sono la generazione più povera rispetto a quella dei genitori dalla seconda guerra mondiale ad oggi. La povertà relativa colpisce maggiormente le famiglie giovani, aumenta del 14, 6% se il soggetto è under35 a fronte del 7,9% per un over64. Eppure le politiche pubbliche restano costruite su un vecchio modello, quello che permette l’accesso al welfare solo per chi lavora e destina ai giovani una percentuale irrisoria di prestazioni, come certificato dallo stesso Inps (audizione di Boeri, Commissione Affari Costituzionali). Lungi da noi costruire guerra tra poveri, perchè la soluzione non è affatto redistribuire il poco che c’è tra vecchi e giovani, ma costruire nuovi investimenti pubblici diretti in favore di politiche che aiutino le fasce di popolazione a rischio di esclusione, come vi proponiamo con la nostra proposta di Freeducation, moltiplicando le risorse rispetto alla spesa attuale, prendendo ai ricchi per dare ai poveri.

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L’istruzione è, infatti, uno dei principali nodi di riproduzione delle disuguaglianze. Se la dispersione scolastica diminuisce negli ultimi anni di qualche punto percentuale, resta molto più alta della media europea (14.7% nell’ultimo anno a fronte della media dell’11%) e resta allineata ai dati sui minori in povertà e rischio esclusione. Al contempo in Italia vi è il record di Neet, con oltre 3 milioni di giovani che non studiano e non lavorano, e di disoccupazione giovanile (37.8% a fronte della media europea del 17%).

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A partire da questi dati si configura l’assenza della mobilità intergenerazionale fondata principalmente sulla riproduzione familiare della propria condizione sociale. Ed è qui che l’accesso all’istruzione ha un ruolo determinante. Infatti l’incidenza della povertà assoluta diminuisce all’aumentare del titolo di studio: 8.2% se la persona ha la licenza elementare, del 4% se è almeno diplomata. L’incidenza della povertà relativa cala ancor più nettamente, passando dal 15% per una persona senza titolo di studio (con picchi del 28% al sud) al 5.8 % di una persona laureata. Questo dato ad onor del vero presenta notevoli disuguaglianze territoriali, con una elevatissima forbice tra nord e sud, infatti i giovani laureati del sud sono per oltre l’11% in povertà relativa. Il titolo di studio dipende, infatti, da quello dei genitori, favorendo i giovani che dai 14 anni vivono in casa di proprietà e con almeno un genitore laureato e con professione manageriale (Rapporto ISTAT sulla povertà . 2016). Circa il 63% dei giovani ha lo stesso titolo di studio di madre e padre. Le disuguaglianze quindi si riproducono, come è visibile dai dati sulle percentuale di laureati per distribuzione territoriale tra aree ricche e povere del Paese o delle città. Istruzione gratuita e di qualità vuol dire prima di tutto dare ai tantissimi poveri una possibilità a scapito dei pochi ricchi che già le hanno di natura, in particolare per l’accesso al lavoro. Secondo l’Ocse, infatti, tra il 19% di studenti italiani che beneficiano di una borsa di studio, il 12% riceve un ammontare pari o inferiore al valore delle tasse universitarie. Se quindi si configura un primo problema, l’accesso agli studi, impedito dalle barriere socio economiche, dal contributo volontario a scuola, dall’assenza di un diritto allo studio universitario e da una tassazione non equa, questo non basta a delineare la complessità della situazione attuale.

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Chi paga? La Costituzione garantisce l’istruzione come diritto fondamentale della Repubblica, eppure, anche nella scuola dell’obbligo, crescono i ricatti per spese “nascoste”, che non garantiscono davvero la possibilità di accesso agli studi. Libri di testo, progetti a pagamento, “contributo volontario”, sono tutte parole che incidono sulla possibilità di considerare l’istruzione un diritto inalienabile piuttosto che un servizio da pagare sulla base del consumo. Ancor peggio accade per le università ove, come sottolineato dalla legge di iniziativa popolare “All In” di Link- coordinamento universitario, non è garantito il diritto allo studio in modo equo tra i diversi sistemi regionali, ove ancora è presente il fenomeno degli “idonei non beneficiari”. La contribuzione studentesca (cd. “tassazione universitaria”) tra le più alte in Europa, trasforma un diritto in un servizio a pagamento che scarica su studentesse e studenti i costi di un sistema universitario che è fondamentale tanto nella crescita personale quanto nello sviluppo del sistema Paese. La no tax area inserita dall’ultimo Governo (fino a 13.000 euro di ISEE ed estesa grazie alle nostre battaglie in alcuni Atenei) è ricaduta sulle tasse di altri studenti, non sempre i più ricchi, ma anche sulle fasce medio-basse. I ricchi senza figli pagano queste spese meno dei nostri genitori, anche se hanno redditi 100 volte più alti. Per questo è centrale portare avanti entrambe le battaglie, per avere borse di studio garantite e più alte per i meno abbienti ed anche per far tornare l’istruzione ad essere ad accesso universale. Non per feticcio, ma perché questa radicale riforma sarebbe funzionale alla costruzione di un modello produttivo e di sviluppo sostenibili per il Paese.

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Infatti, dovremmo chiederci, a cosa serve l’istruzione? Su questo esiste un fortissimo dibattito, ma quello che noi vediamo è che sembra non servire più per la mobilità sociale, né sembra serva davvero per trovare lavoro. La colpa non è certo del famoso “mismatch” tra domanda e offerta di competenze, né la responsabilità sta esclusivamente nei luoghi della formazione, ma nella combinazione tra una didattica conservatrice ed un modello produttivo altrettanto arretrato. Siamo l’ultimo Paese europeo per numero di laureati, ma i cittadini spesso stentano a credere a questo dato. Infatti, il Paese è stato bombardato mediaticamente su quanto siano “troppi ed inutili” i laureati, al punto che nessuno crede alla realtà dei fatti, ossia che sono troppo pochi. Se uniamo a questo le statistiche OCSE sulle possibilità occupazionali e sui working poors, il quadro è chiaro. Non basta più la laurea per la mobilità sociale, perché nessuno scampa ad un futuro di precarietà e lavoro povero (quando si trova un’occupazione).

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Per questo non può che essere centrale il tema della qualità. Studiare costa talmente tanto ed offre così scarse prospettive di carriera dignitosa, che tante e tanti di noi si arrendono in partenza di fronte agli ostacoli economici, rassegnandosi a lavorare per portare subito qualche soldo a casa, dove magari si fa fatica ad arrivare a fine mese.

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Va ricostruita la percezione sociale dell’utilità dei saperi, rimettendo al centro il valore emancipatorio personale e collettivo che essi hanno, ma soprattutto eliminando l’idea falsa e reazionaria dell’istruzione come investimento individuale sul proprio capitale culturale, un investimento che solo in pochi potrebbero permettersi. E’ necessario programmare attorno al nodo della formazione un nuovo modello di politiche pubbliche per il nostro Paese che dia una nuova garanzia di welfare e lavoro dignitoso: oggi un diplomato professionale ha piu possibilità occupazionali di un laureato in Italia, perciò è evidente quanto sia innanzitutto il mercato del lavoro a dover essere riformato. E’ necessario un radicale cambio di strategia che partendo dalla gratuità dell’istruzione costruisca un piano di investimenti pubblici diretti nell’economia orientati a promuovere la partecipazione al mercato del lavoro di chi ha un elevato titolo di studio: oggi i giovani più formati sono esclusi dalla produzione perché il sistema produttivo italiano è orientato alla riduzione dei costi piuttosto che all’innovazione e allo sviluppo sostenibile. Come potete vedere è una questione di qualità della formazione e degli investimenti produttivi. Nella quarta rivoluzione industriale quante delle cose che studiamo hanno davvero una utilità oggi? Quanto ha senso non imparare a cooperare, a mettere al centro arti, creatività, informatica ed altre capacitazioni? Secondo il rapporto OCSE education at a glance 2017 attualmente è più facile trovare occupazione per un diplomato che per un laureato. Ciò è vero ad un anno dal titolo, ma, nel lungo periodo, la percentuale di laureati che riesce a mantenere una occupazione sale al 72,2% contro il 43% dei diplomati. Il possesso di un titolo di studio universitario inoltre, sempre nel lungo periodo, seppure dopo anni di sacrifici e precarietà, incide positivamente sull’ammontare delle retribuzioni. Secondo l’ISTAT la percezione di inutilità del titolo di studio incide ampiamente sulla dispersione universitaria. Tra i Millennial occupati, 2,3 milioni di giovani (il 46,7%) svolgono un lavoro di livello più basso rispetto alla propria qualifica.

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Per “recuperare” teoricamente le spese legate alla formazione, al costo della vita, all’assenza di autonomia dei figli per le famiglie con reddito medio non beneficiarie di borsa di studio quindi, ci vorrebbero oramai più di 20 anni in seguito alla laurea. La difficoltà legata alla percezione negativa del mercato del lavoro ed alla svalutazione sociale di scuole ed università rende il nostro Paese uno degli ultimi per numero di laureati. E non basta: che Paese è quello che nel 2018 permette, combinando JobsAct e Buona Scuola, di assolvere l'obbligo scolastico tramite apprendistato? Che Paese è quello che non innalza l'obbligo scolastico fino al diploma di scuola secondaria superiore?

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Il rapporto tra formazione, autodeterminazione personale, mobilità sociale e modello di sviluppo del Paese è quindi estremamente determinante. Innovare la didattica non ha necessariamente a che vedere con la professionalizzazione e la connessione con le aziende, ma anzi dovrebbe avere come scopo lo sviluppo di saper fare e capacità non formali, la garanzia di strumenti teorici e pratici per essere cittadini e lavoratori capaci di autodeterminarsi nella società. Questo soprattutto nell’epoca della “Quarta rivoluzione industriale”, ove la politica dovrà decidere se rendere l’Italia e soprattutto il Sud - in perdita di matrice produttiva da anni - fanalino di coda che compete sui costi del lavoro povero, o se darle una possibilità di riscatto. In questa fase in cui le “competenze” insegnate a studentesse e studenti e richieste dal mercato, secondo le statistiche cambiano molto prima che essi finiscano gli studi, in un mercato che premia sempre piu creatività, intelligenza emotiva e capacità relazionale ci fanno credere che abbia ancora senso parlare di “fabbisogno del mercato”. Dare un senso ai saperi vuol dire imparare ad imparare ed a muoversi in un mondo che cambia sempre piu rapidamente. L’istruzione gratuita e di qualità non è quindi solo una misura sull’istruzione e non può essere uno spot, ma assume un senso se correlata a politiche che ne mettano al centro le potenzialità in termini di orizzonti più avanzati di sviluppo del nostro Paese, ricerca, innovazione, liberazione collettiva. Soprattutto è una questione di qualità della democrazia, specie nell’epoca delle fake news e della post-verità, costruire una democrazia che non sia solo formale, ma anche sostanziale e soprattutto “cognitiva”. Dando a tutti, ad ogni età, la capacità di scegliere e valutare indipendentemente dalla propria condizione sociale. Oggi chi ha di meno, conosce e decide di meno rispetto al proprio futuro. Vogliamo ribaltare questa situazione.

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Nella crisi della politica per noi è importante chiarire che è arrivato il momento di metodi nuovi e che, qualunque sia il prossimo Governo, ci ritroveremo a combattere ogni scelta presa sulla pelle di studentesse e studenti in modo autoritario come avvenuto in questi anni. Serve tornare a riconoscere gli spazi di rappresentanza sociale e proporre nuovi processi politici che moltiplichino le possibilità di partecipazione e che consentano a tutti coloro che vivono i luoghi della formazione di decidere e progettare “dal basso” le politiche che riguardano le nostre vite.

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Nelle elezioni in cui 7 giovani su 10 pare non andranno a votare, la politica deve prendere una scelta e fare autocritica se vuole tornare credibile: mai più decreti d'urgenza e di fiducia, ma promozione di processi partecipativi che partano dai bisogni e dall’organizzazione dal basso dei cittadini.

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FREE Diritto allo studio e Reddito EDUCATION Oggi l’istruzione è uno dei principali spazi di riproduzione delle diseguaglianze: garantire la gratuità dell’accesso alla formazione, dall’asilo nido all’università, è una priorità per invertire la rotta in un Paese nel quale la mobilità sociale è praticamente assente mentre le diseguaglianze e la povertà continuano a crescere. I costi che una famiglia o uno studente devono affrontare oggi per sostenere gli studi sono molto più alti di quanto si immagina: si passa dai 3000€ annui per gli asili nido nei quali, fra l’altro, non c’è spazio per 4 bambini su 5 (rapporto CittadinanzAttiva), agli oltre 1000€ per libri (Federconsumatori) e corredo scolastico alle superiori, cui vanno aggiunti i costi del contributo volontario e dei trasporti, per arrivare alle spese necessarie per conseguire una laurea triennale che, fra tasse, affitti, vitto, libri e trasporti arrivano a superare i 40 000€ sui tre anni. Per quanto esistano alcune forme, minime, di esenzione dai contributi legate al reddito, possiamo affermare che ad oggi il sistema di diritto allo studio sia profondamente iniquo e insufficiente e necessiti un cambiamento radicale. Guardando all’università, infatti, in Italia l’88% degli studenti paga le tasse universitarie (Eurydice 2017) e solo il 9,3% ha diritto alla borsa di studio: se, come alcuni affermano, abolire le tasse universitarie significasse agevolare i ricchi, questo presupporebbe che quasi il 90% degli studenti italiani siano in una fascia di reddito medio-alta, dato in evidente disaccordo con la condizione reale del Paese. Fra l’altro, guardando agli stessi dati, emerge con chiarezza il contrasto con un quadro europeo nel quale le percentuali di studenti del tutto esentati dalle tasse sono molto più alte -fino a toccare il 100% in diversi paesi- così come quelle di studenti beneficiari di borsa di studio. Ancora piu grave la situazione che riguarda Afam e scuole di specializzazione giuridiche o di beni culturali, spesso escluse da forme di progressività della tassazione e in alcune regioni perfino esclusi dal diritto allo studio. Abolire contributo volontario e tasse universitarie, per tutti Scuole e università si reggono sempre più sui contributi e le tasse universitarie che ogni anno gli studenti e le loro famiglie devono versare. I casi di imposizione del contributo volontario continuano a moltiplicarsi, poiché questo costituisce spesso delle entrate a cui le scuole non possono rinunciare; le riforme della tassazione in numerosi atenei stanno causando aumenti

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della contribuzione insostenibili (l’Italia è il terzo paese europeo per tasse universitarie più alte), con gravi discriminazioni verso i fuori corso. Abolire contributo volontario e tasse universitarie per tutti significa fare un passo decisivo verso la gratuità della formazione. Per sostenere queste misure, si deve agire sulla fiscalità generale, tassando rendite, multinazionali e grandi patrimoni in maniera progressiva, facendo sì che siano davvero i più ricchi a pagare per un diritto fondamentale, quello alla formazione, che va garantito a tutti, a prescindere dalle condizioni socio-economiche di partenza.

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Ripartire dal diritto allo studio Dieci anni di tagli hanno significato, per scuole e università, scaricare gran parte delle spese sulle spalle di studenti e famiglie comportando un’espulsione di massa dai luoghi della formazione. I tassi ancora alti di dispersione scolastica e il crollo di immatricolazioni testimoniano l’urgenza di rifinanziare con risorse ingenti il diritto allo studio e definire chiaramente dei Livelli essenziali delle prestazioni. Come studentesse e studenti per anni abbiamo portato al Ministero tramite il Forum delle associazioni studentesche una proposta di legge quadro nazionale sul diritto allo studio delle scuole ed abbiamo promosso per l’università una raccolta firme per la legge di iniziativa popolare “All in” che ha coinvolto oltre 50.000 studenti e che deve essere la prima priorità del prossimo Governo. E’ necessaria, per quanto riguarda la scuola, una Legge quadro nazionale sul diritto allo studio, grande assente nella 107, che garantisca la gratuità dei trasporti e dei libri di testo in comodato d’uso, borse di studio e forti agevolazioni nell’accesso a luoghi e consumi culturali, riconoscendo dunque che la formazione di uno studente non si limita al solo orario curriculare. In un Paese in cui ancora troppi abbandonano la scuola (picchi oltre il 25% al sud e nelle isole), è inoltre sempre più urgente portare l’obbligo scolastico al raggiungimento del diploma di scuola secondaria superiore, contrastando l’inserimento degli studenti esclusi dai percorsi formativi in circuiti di criminalità e sfruttamento. Va eliminata, nel mondo dell’università, la figura dell’idoneo non beneficiario di borsa di studio, incrementando al contempo il numero degli idonei tramite un allargamento dei criteri. Si deve garantire l’erogazione delle borse all’inizio dell’anno accademico, a differenza di quanto avviene oggi in troppe regioni. Ancora si fatica a garantire una equiparazione al rialzo delle soglie ISEE al livello nazionale in tutte le regioni, e se l’introduzione della No-Tax Area ha prodotto un positivo aumento generalizzato delle immatricolazioni,

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questo va accompagnato da maggiori stanziamenti sul Fondo Integrativo Statale che vada a colmare la differente capacità delle regioni di contribuire alla copertura totale delle borse di studio. Oltre l’annoso tema delle borse di studio, la situazione dei servizi presenta disparità ancora più evidenti, con regioni in seria difficoltà nell’erogazione di pasti anche solo per gli studenti borsisti, e una cronica assenza di posti alloggio e residenze: servizi spesso appaltati a ditte private che fanno profitto su quello che è un diritto sancito dalla Costituzione. Finché non si andrà a concepire il diritto allo studio come una serie di condizioni che concorrono all’eguaglianza sostanziale, non si potrà parlare di diritto concretamente esigibile. Costi come il materiale didattico, i manuali, i materiali per i laboratori, non sono poi nemmeno direttamente contabilizzati all’interno delle borse di studio né garantiti in maniera uniforme tramite i servizi di prestito bibliotecario, andando a creare un’ennesima barriera all’accesso agli studi e costringendo lo studente a scegliere una facoltà o un’università, piuttosto che un’altra, anche in base a quelle che saranno le spese che dovrà affrontare.

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Diritto alla mobilità Contributo, tasse e libri di testo non sono gli unici costi che uno studente deve affrontare: a questi si devono aggiungere i trasporti, le mense, gli affitti. Garantire a tutti il diritto alla mobilità è fondamentale: questo significa innanzitutto rendere gratuiti i trasporti locali per gli studenti, perché la condizione di pendolarismo smetta di essere un peso e un motivo di abbandono o annullamento della possibilità di scelta dei percorsi formativi. Si devono inoltre prevedere forti agevolazioni per permettere agli studenti di muoversi liberamente sul suolo nazionale e internazionale. Non si tratta solo di una questione di costi, ma anche di qualità del trasporto: sono necessari investimenti immediati per l’ammodernamento e la messa in sicurezza di mezzi e binari, oltre alla revisione degli orari e delle tratte, per assicurare il trasporto anche nelle ore notturne e serali e garantire quindi ai soggetti in formazione la possibilità di vivere le proprie città al di là degli orari di studio. Disabilità e sostegno Garantire davvero il diritto allo studio passa dalla possibilità di costruire scuole e università accessibili a tutti costruendo una riflessione multidimensionale che includa anche i bisogni delle studentesse e degli studenti diversamente abili.

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E’ necessario aumentare di 200 milioni il fondo di finanziamento su disabilità e sostegno e ripristinare la possibilità di una progettazione formativa individualizzata non soltanto per le disabilità gravi, costruendo nuove forme di didattica che non ghettizzano, ma anzi promuovono metodi nuovi e creativi di stimolo a tutto il gruppo classe.

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Reddito di formazione, una misura urgente per autodeterminazione ed emancipazione Più del 70% degli studenti e delle studentesse ancora oggi sceglie il proprio percorso di studi sulla base della condizione familiare. Sono infatti le pressioni sociali e le disuguaglianze a spingere moltissimi giovani, nella speranza di trovare prima un lavoro, di scegliere una facoltà ritenuta “utile” piuttosto che quella dei propri sogni, magari sotto pressione dei genitori e spesso cambiando facoltà dopo pochissimo tempo. Risulta sempre più centrale una misura universale di welfare quale il reddito di base che metta al centro il tema della redistribuzione della ricchezza per consentire a pieno l’autodeterminazione e che possa anche declinarsi in uno specifico reddito di formazione. Questo non deve assolutamente sostituirsi alle forme di diritto allo studio basate sull’ISEE o di gratuità dell’istruzione, ma aggiungersi a tali forme, poiché non ha una funzione differente: non colmare la diseguaglianza rispetto ai costi degli studi, ma colmare la diseguaglianza rispetto all’autonomia decisionale nelle scelte di vita, studio e professionalizzazione. Lo scopo di un reddito di formazione è infatti quello di emanciparsi totalmente dalla pressione sociale, lavorativa e da quella della propria famiglia, avere diritto a inventarsi e reinventarsi attraverso la potenza dei saperi. Una misura per liberare energie, liberare tempo, liberare le scelte. Infatti una misura di autonomia per tutti coloro che intendono formarsi significa far ricadere su di loro e non sulle famiglie finanziatrici, la responsabilità delle scelte sulle loro vite, sul loro futuro, sui propri sogni. E’ una misura che ha anche un valore culturale oltre che sociale, poiché promuove l’autodeterminazione e la maturazione di studentesse e studenti, il superamento del familismo nel sistema welfaristico, senza sottostare alla cultura del ricatto o alle pressioni sociali.

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Didattica e Valutazione

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Una didattica innovativa all’altezza di un mondo in trasformazione Le scuole e le università non hanno più la funzione di contenitori esclusivi della conoscenza, da riversare nelle teste degli studenti: i luoghi della formazione dovrebbero avere oggi la funzione di garantire ai giovani e ai lavoratori gli strumenti e i metodi per padroneggiare tutte le possibilità di accesso ai saperi e alla lettura critica della realtà. Perciò è indispensabile ripensare la didattica come un processo in cui lo studente acquisisce conoscenze e competenze di base, strumenti di apprendimento da utilizzare in autonomia e in cooperazione con i propri pari. Un altro elemento fondamentale è la tensione alla creatività e alla sperimentazione: le cosiddette soft skills, tra cui si cita spesso la capacità di problem solving, risultano realmente utili se vengono acquisite con l’obiettivo di superare e trasformare la realtà in cui si vive, altrimenti risultano capacità sterili e orientate solo alla riproduzione del presente. I luoghi della formazione devono essere palestre in cui sviluppare la capacità di immaginare e condividere tra pari il miglioramento della realtà che ci circonda. Uno dei grandi limiti delle nuove sperimentazioni didattiche, come l’introduzione dei tablet nelle classi, consiste proprio nella stabilità del metodo didattico: piuttosto che limitarsi a riprodurre la classica lezione frontale con un apparecchio digitale, si dovrebbe utilizzare quest’ultimo per imparare ad acquisire conoscenze e competenze tramite la rete, seguendo un metodo rigoroso di acquisizione e selezione delle fonti informative, mirando ad un obiettivo concreto che orienti il lavoro individuale e di gruppo, con la possibilità di sperimentare e verificare il frutto dell’indagine. La divisione disciplinare classica risulta sempre più obsoleta in ogni campo del sapere: deve essere superata per mirare ad una formazione globale e strutturalmente multidisciplinare. Allo stesso tempo è necessario abbandonare una concezione della didattica interamente progettata dall’alto dei palazzi governativi, totalmente slegata dalle intuizioni, dalle aspettative e dai bisogni soggettivi degli studenti. Il processo di apprendimento deve affiancare ai percorsi standard la possibilità di sviluppare inediti e imprevisti percorsi di apprendimento, sia nelle metodologie che nei contenuti affrontati. La riappropriazione dei saperi si acquisisce anche tramite la progettazione, da parte degli studenti, di una parte del percorso formativo.

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Ripensare l’università a partire da una didattica di qualità Il panorama della didattica universitaria ha risentito fortemente negli ultimi anni dei tagli imposti all’università pubblica. Il rapporto Studenti/Docenti è aumentato, e la risposta che viene proposta al livello sistemico non è quella di andare a costruire un contesto universitario di finanziamento e assunzioni tale per cui si vada a ridurre questa disparità ma il numero programmato. Pensiamo sia cruciale per un’università accessibile a tutte e tutti, ridurre il rapporto Studenti/Docenti attraverso nuove assunzioni che permettano da un lato il superamento di una didattica prettamente frontale, predominante in quei corsi di studio e in quei contesti territoriali che più vengono penalizzati dai criteri di valutazione e ripartizione dei fondi. Troppe volte ancora si assiste a scene di aule sovraffollate, con studenti che seguono la lezione seduti per terra in plessi con evidenti mancanze in termini di servizi. È quindi necessario andare anzitutto ad appianare le differenze esistenti, e costruire un modello che piuttosto che puntare ad un’università di eccellenza per pochi fortunati, si ponga l’ambizione di sperimentare forme di didattica alternativa. Seminari, lavori di gruppo, laboratori che vertano su temi di attualità o tecniche di produzione e sviluppo che siano al passo coi tempi e non dettate dall obsolescenza dei macchinari a disposizione dell’ateneo in quel dato momento storico. Per far ciò servono sicuramente investimenti, ma anche la possibilità di attuare realmente la libertà d’insegnamento e andare a costruire le condizioni per far si che ciò accada. La Didattica è una delle missioni fondamentali dell’università, e vi è l’esigenza che da un lato sia posta nelle condizioni materiali per garantire la qualità, dall’altro, è necessario evitare un appiattimento del sapere critico andando a scardinare gli attuali paradigmi di valutazione che legano la didattica esclusivamente alle esigenze di mercato, a discapito della ricerca di base e di un sapere volto anche alla definizione di paradigmi differenti di crescita e produzione.

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Riforma dei cicli scolastici Sono 192 le scuole che andranno a sperimentare, dal prossimo anno e su idea del MIUR, il Liceo in quattro anni. La proposta ministeriale è nata con l’obiettivo, a detta della stessa Ministra, di far diplomare gli studenti a 18 anni, come già avviene in molti altri paesi europei. Una finalità miope, che nasconde in realtà una legittimazione del disinvestimento strutturale dello Stato sull’Istruzione pubblica statale e l’ingresso anticipato dei soggetti in formazione nel mercato del lavoro. Il problema della disoccupazione giovanile però non è causato dalla scuola: questa è soltanto una narrazione ideologica, senza fondamento, utile a dare spazio a riforme dell’Istruzione che

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piegano i saperi alle esigenze delle aziende. Il problema non è che si finisca prima la scuola, ma il perché lo si fa ed il come lo si realizza. Comprese le ragioni che hanno condotto il Ministero ad avviare la sperimentazione, concentriamoci ora sul “come”, sull’utilità didattica ed educativa di questa misura: la proposta non è stata accompagnata da un ragionamento complessivo sui programmi didattici, sul metodo didattico e sul riordino dei cicli. Il risultato è il soffocamento degli studenti, la contrazione dei loro spazi e tempi di educazione non formale e di sviluppo degli interessi personali. Sarebbe necessario uno sguardo che guardi lontano, ripensando la scuola secondaria prima e secondaria, riformando i cicli. Una buona riforma dei cicli potrebbe consistere nella riduzione di un anno della secondaria di primo grado, introducendo una di secondo grado che inizi un anno in anticipo rispetto all’attuale modello, presentando un programma unitario nel biennio in modo da garantire le conoscenze e competenze di base. A seguire, un triennio specializzante in cui apprendere saperi tanto teorici quanto pratici che sarebbero utili una volta concluso il percorso scolastico.

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Cambiare la didattica per cambiare la società

Istruzione gratuita significa più accessibilità per tutte e tutti alle nostre scuole e università; significa valorizzare le differenze ed eliminare esclusione e discriminazione; significa costruire un’altra idea di società. Non è solo dunque una questione economica, ma anche di metodi didattici, contenuti e linguaggi. Metodi didattici Oggi, i nostri luoghi della formazione sono organizzati sul modello della lezione frontale, ma devono sapersi sperimentare e innovare sempre, non solo con l’uso di strumentazioni avanzate, ma costruendo la partecipazione degli studenti e delle studentesse durante l’erogazione didattica stessa. Tra le varie sperimentazioni, indichiamo cooperative learning o peer-to-peer education (cioè educazione tra pari) per cominciare, ma anche puntare alla costruzione di nuove capacitazioni quali intelligenza emotiva, problem solving, capacità relazionale e multiculturale, creatività. Laboratorialtà, creatività, manualità Per costruire una didattica davvero inclusiva che coinvolga le personali attitudini di tutti e non abbia un approccio solo teorico è necessario sviluppare approcci innovativi. Mettere al centro la creatività, la musica, il teatro e l’arte, costruire approcci manuali e laboratoriali, prendere spunto dal terri-

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torio per modificare la didattica ad ampio spettro in una scuola ed università senza pareti è sempre piu necessario per costruire capacitazioni e la possibilità di esprimersi e sviluppare linguaggi diversi.

Contenuti e linguaggi Ciò che viene insegnato ha un’importanza fondamentale nella consapevolezza della componente studentesca e nella modalità con cui si costruiscono le relazioni interne ed esterne ai luoghi della formazione stessi. La didattica e i contenuti che vengono veicolati dovrebbero rispondere ad alcuni principi fondamentali: - Laicità. Istruzione inclusiva significa totale rifiuto di qualsiasi forma di ingerenza da parte del mondo religioso. Avere un approccio clericale, così come veicolare nelle scuole e nelle università un sapere determinato dalle posizioni della Chiesa Cattolica - come purtroppo avviene nel nostro Paese in particolare con l’Insegnamento della Religione Cattolica o con l’ingerenza degli ambienti cattolici nelle facoltà di medicina - rappresenta un passo indietro pericoloso rispetto alla liberazione dei saperi e alla conquista storica della laicità delle istituzioni pubbliche. Un sapere laico è centrale anche per lo sviluppo della conoscenza scientifica, seriamente a rischio a causa del fenomeno delle fake-news. - Multiculturalità. Istruzione inclusiva significa superare la prospettiva etnocentrica occidentale. Un approccio multiculturale e critico alle vicende che hanno visto protagonista l’Occidente è fondamentale, per dare gli strumenti adeguati a comprendere fenomeni complessi che invece vengono spesso sminuiti nella loro portata o trasmessi in maniera non adeguata, alimentando una visione etnocentrica e colonialista della storia e della cultura in generale che non aiuta certamente a costruire un clima di cooperazione collettiva. Nelle nostre scuole e nelle nostre università, la storia che ci viene insegnata è quella dei “vincitori” e delle classi dominanti, ignorando invece le voci critiche, che spesso appartengono ai “vinti” e agli sfruttati. - Pacifismo e nonviolenza. La retorica della “guerra infinita” è una costante all’interno della nostra educazione: l’idea che l’unica strada percorribile sia il conflitto armato rende difficile anche solo immaginarsi un futuro nonviolento.La guerra viene vista non come una scelta ben precisa, preparata, costruita a volte a tavolino, ma come un accidente impossibile da prevedere.

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Parlare dunque di pace e di cooperazione e solidarietà internazionali è fondamentale per ricostruire un mondo differente in cui l’autodeterminazione dei popoli e degli oppressi della società venga rimessa al centro dei processi storici e politici e culturali. E’ perciò fondamentale rivendicare l’introduzione negli insegnamenti dello studio dei fenomeni di cooperazione e solidarietà che hanno caratterizzato le varie epoche, anche in concomitanza con i grandi conflitti armati.

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- Antirazzismo e discriminazioni. Attraverso l’educazione creiamo l’antidoto all’odio e alla discriminazione dilaganti nel nostro Paese, perché diamo gli strumenti non solo per difendersi da chi propaganda falsità e xenofobia costante dalle tribune televisive e politiche, ma anche per comprendere l’altro, valorizzandone le differenze, per immaginarsi una terra senza confini in cui nessuna persona sia illegale o straniera. L’unico vero nemico oppressore è rappresentato da chi oggi detiene tutta la ricchezza mondiale e dà vita a conflitti solo per guadagnarne in potere, fonti fossili e soldi. La conoscenza reciproca e la valorizzazione di tutte le culture che ad oggi si incontrano nei nostri luoghi della formazione sono fondamentali per capire assieme come uscire da una dinamica nazionalista ed egoistica che vede nell’altro un pericolo per la propria salute e la propria stessa vita. A quest’ambito soprattutto si aggiungono misure materiali che non possono legittimare la discriminazione: pensiamo per esempio al limite di borse di studio per studenti stranieri in alcune regioni d’Italia, o le difficoltà per uno studente migrante o per uno studente i cui genitori non hanno il permesso di soggiorno di accedere a qualsiasi grado di istruzione, o di imparare l’italiano a causa dell’assenza di corsi specifici gratuiti nelle nostre scuole. - Femminismi e contrasto alle discriminazioni di genere. Ad oggi, nelle nostre scuole i linguaggi sono ancora discriminanti e legittimano la disuguaglianza; così come nelle università, se guardiamo la percentuale di donne e di uomini iscritti ai corsi di laurea, secondo l’OCSE, troviamo una percentuale assai alta delle prime nei percorsi umanistici ed artistici, seguiti da donne per circa il 94%, e una percentuale assai alta dei secondi nelle scienze dure, con circa il 79% di uomini iscritti. Per questo, scuole e università inclusive sono in grado anche di eliminare i percorsi di vita prestabiliti e predeterminati sulla base del genere, degli stereotipi di genere e della divisione sessuale del lavoro.Troppe volte, nelle nostre scuole e nelle nostre università, si insegna l’inferiorità della donna sull’uomo, o si legittima l’idea che alla donna siano preclusi una serie di percorsi e di ruoli all’interno della società solo perché donna.

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Dunque, pensare alla didattica in termini di inclusività significa veicolare una didattica femminista che sappia dare spazio non solo alla storia dei movimenti delle donne di tutto il mondo ma che sia essa stessa femminista, il che significa insegnare l’eguaglianza, pur valorizzando le differenze, la cooperazione e la solidarietà, e abbandonando dunque messaggi di odio, forza, dominio dell’uomo su territori e corpi, prevaricazione. Un metodo di insegnamento femminista si basa sulla partecipazione della componente studentesca, sulla cooperazione, è attento alle differenze e le valorizza, è costruito sull’idea che tutto è differenza. Il discorso dominante legato alla predeterminazione, sin dall’infanzia, dei ruoli prestabiliti si evidenzia dunque anche nei luoghi della formazione e nella scelta dei percorsi, oltre che nelle opportunità di lavoro successive al titolo che subiscono ancora fortemente la divisione sessuale dei mestieri. E’ centrale investire sui centri studi di genere e sulla modifica trasversale della didattica e dei libri di testo. Scuole ed università devono aprirsi al territorio e costruire strette collaborazioni con i centri antiviolenza e con i consultori, ove possibile entro gli stessi luoghi della formazione. Purtroppo, soprattutto nelle scuole, si reitera la riproduzione degli stereotipi di genere fino a casi limite di bullismo legato al genere, all’essere “femminuccia” piuttosto che “ragazza facile”, per questo è centrale l’educazione alla sessualità.

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- Contro il bullismo omobitransfobico: educazione alle differenze, alla sessualità e all’affettività. Ogni identità sessuale, nei luoghi della formazione, dovrebbe veder garantita la possibilità di esprimersi e di essere libera da qualsiasi costrizione e costruzione sociale. Che sia per sesso, genere, orientamento sessuale, ogni studente e ogni studentessa dovrebbe poter trovare nella propria scuola o nella propria università il luogo chiave attraverso cui non solo prendere consapevolezza di sé stess*, ma anche essere valorizzat* nella propria differenza e sentirsi al sicuro. Per realizzare ciò è centrale la presenza dell’ educazione alle differenze ed educazione sessuale per la consapevolezza dei propri corpi all’interno delle scuole, punto incompiuto della legge 107 e realizzato timidamente, con l’”educazione al rispetto” da parte del Ministero senza vedere come dalle scuole si riproducano le disuguaglianze. Inoltre, scuole e università, attraverso l’educazione all’affettività, possono partecipare al ribaltamento dei rapporti di potere che si vengono a creare, soprattutto nell’ambito di una relazione: il possesso dell’altro, la totale esclusività del rapporto, l’idea di inferiorità di una delle componenti della relazione sono tutti sintomi di una relazionalità malata, frutto di una società patriarcarle e machista.

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- Ambientalismo, antimafia, antifascismo. Le scuole e le università devono necessariamente rappresentare presidi di giustizia e di rispetto del territorio e dell’ambiente nei quali sono inserite, oltre che essere osservatori attenti all’emersione delle nuove destre e dei neofascismi. Il sapere non è neutro e serve per prendere posizione contro il dominio incontrastato dell’uomo sulla natura, contro le destre xenofobe e razziste, contro le mafie locali attraverso i circuiti della memoria e dell’impegno quotidiano. Il tessuto sociale di un territorio deve risentire necessariamente in maniera positiva della presenza dei luoghi della formazione, per modificarsi e resistere a chi vorrebbe fare gli interessi dei pochi contro il benessere dei molti.

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Liberare il sapere e renderlo inclusivo significa dunque dare una opportunità a tutte quelle persone che ad oggi si sentono escluse dai processi sociali, alle soggettività discriminate, attaccate, odiate da più parti, su cui si costruiscono discorsi di odio e discriminazione; vuol dire costruire scuole e università inclusive in cui nessuna persona viene lasciata indietro, in cui gli studenti e le studentesse possono partecipare alla costruzione della didattica e del sapere stesso; vuol dire fornire l’antidoto per la salvaguardia dell’ambiente, dei territori, dei corpi, delle persone; significa dare spazio a questi i luoghi nella costruzione di una società differente, far rivivere questi luoghi nel tessuto sociale in cui sono per trasformarlo e renderlo inclusivo a sua volta. Lo ripetiamo, il sapere non è neutro ed è fatto per prendere posizione! Abolire la bocciatura e i voti numerici per ripensare la scuola “Non bocciare”, questo era la prima riforma della scuola proposta da Don Milani, un’idea rivoluzionaria, in piena controtendenza rispetto al modello di scuola italiano, profondamente punitivo ed edificato a partire dalle necessità del mercato, un sistema individualizzante e competitivo. “Non bocciare” come primo passo per non lasciare più nessuno indietro, un passo sempre più necessario se consideriamo la crescita delle percentuali di abbandono scolastico legate proprio alla valutazione. Il mantenimento del sistema numerico come metro di quantificazione degli studenti nasconde la riproduzione di un sistema pedagogico volto a rispondere alle esigenze di mercato; la logica meritocratica non viene smantellata, ma permane subdolamente negli esiti dei singoli test e nel processo

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valutativo quantificato in valori numerici che si estende lungo tutto l’anno scolastico. Sarebbe necessaria una riforma più complessiva e coraggiosa, che abolisca il voto numerico e che riformi in tutto e per tutto il processo educativo e pedagogico.

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Da anni affermiamo la necessità di sostituire al voto numerico un sistema di diversi strumenti valutativi: una valutazione narrativa dello studente che rifletta non solo sul singolo test, ma su tutto il percorso e sul metodo di studio utilizzato, lasciando anche lo spazio per una valutazione bidirezionale, quindi non solo dal docente allo studente, ma anche dallo studente al docente. Oltre alle modalità valutative, occorre ripensare in toto la metodologia didattica ponendo come punto di partenza un ripensamento delle lezioni. Andrebbero sperimentate modalità di apprendimento diverse dalla classica lezione frontale; è stato dimostrato che l’attenzione di unos studente, durante una lezione frontale, è di 20 minuti. Ridare spazio alla discussione, alle modalità più orizzontali, cooperative e collaborative non rappresenterebbe in questo senso un rallentamento sul programma, bensì un miglioramento qualitativo nei processi di apprendimento e di sviluppo delle capacità cognitive dato dalla maggiore attenzione che queste altre modalità garantirebbero, e dal ruolo centrale che l’argomentazione e il ragionamento assumerebbero nello sviluppo dei discorsi individuali e collettivi che si producono durante le lezioni. Abolire il numero chiuso per ridare futuro al Paese Se il progressivo taglio del numero dei medici è un danno per il sistema sanitario nazionale, il contenimento del numero dei laureati in un Paese che vanta il 18% di persone che completano l’istruzione terziaria (a fronte di una media OCSE del 37%), o la programmazione dei laureati in base alle esigenze di un mercato del lavoro in crisi, è un danno per tutta la società e il suo sviluppo. L’abolizione del numero chiuso in tutti i corsi di laurea è quindi una priorità, in quanto non si può parlare realmente di diritto allo studio se l’università piuttosto che rispondere alle esigenze del paese, risponde alle necessità del bilancio pubblico; determinando a priori il numero di studenti che hanno “diritto” ad accedere alla formazione. Per far ciò ci sarà bisogno sicuramente di risorse, assunzioni (5000 per 5 anni con sblocco del turnover) e infrastrutture, al fine di garantire di contro, anche una didattica che non sia asfittica.

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Eliminare INVALSI e ANVUR, per una valutazione di sistema che guardi ai bisogni e non alle classifiche La valutazione di sistema dovrebbe servire a migliorare la didattica in tutto il paese, non a distinguere “buoni” e “cattivi”, a fare graduatorie ed etichettare una sperequazione storica causata da diversi elementi.

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Se le INVALSI devono servire a far emergere dei dati asettici, in cui sono le percentuali a raccontare la scuola italiana, allora non servono a nulla. La scuola di oggi non può guardare a pseudo risoluzioni statistiche, osservazioni vuote di analisi e contenuti. La valutazione di sistema deve servire a ripensare la didattica partendo dall’osservazione e dalla sperimentazione pedagogica, dal rinnovare i metodi della didattica. Dall’altro lato, dietro la maschera del valutatore imparziale rispetto al settore universitario, si è rivelata una grave tendenza in concomitanza con i tagli all’istruzione: i criteri di valutazione determinati dall’ANVUR stessa vanno a influenzare il riparto dei fondi, andando a “premiare” poli universitari già facoltosi, generalmente calati in contesti economici particolarmente dinamici. Così, la valutazione, piuttosto che uno strumento di indagine al servizio delle esigenze del sistema paese, diventa uno strumento punitivo: forte con i deboli e debole coi forti, che arriva a sancire la chiusura di interi dipartimenti e paventare la chiusura in toto di atenei interi perché non rientrano all’interno di paradigmi valutativi decisi arbitrariamente. All’imposizione degli sterili parametri ANVUR si deve sostituire una discussione condivisa fra tutta la comunità accademica in dipartimenti e commissioni paritetiche, dove interrogarsi collettivamente su didattica e necessità dell’ateneo.

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Formazione e lavoro

Nella Nota di aggiornamento del DEF 2017 leggiamo che una studentessa o uno studente può soddisfare il proprio obbligo scolastico o raggiungere un titolo di studio equivalente alla laurea trascorrendo tutto il percorso formativo in azienda tramite i contratti di apprendistato di primo e secondo livello. Questo modello è stato costruito a seguito del Jobs Act e dimostra il reale progetto che sta dietro al cosiddetto “sistema duale all’Italiana”: mandare gli studenti, anche minorenni, a lavorare nelle imprese, con un costo per i datori di lavoro nettamente inferiore rispetto ad un lavoratore subordinato. Circa 150 milioni di ore di alternanza scuola-lavoro sono utilizzate ogni anno. Il “saper fare” non si acquisisce con lo sfruttamento e la sostituzione dei lavoratori per arricchire i datori di lavoro, ma tramite percorsi di formazione che diano spazio alla creatività, alla pratica e alle attività laboratoriali, ma sempre al di fuori della linea produttiva. Inoltre grazie alla legge di stabilità 2017 assumere con un contratto a tutele crescenti uno studente a seguito della sua esperienza di alternanza permetterà alle aziende di ricevere 36 mesi di sgravi fiscali a fronte di soli 6 mesi di clausola antilicenziamento, insegnando la precarietà fin da piccoli e lasciando ben poca possibilità ai meno abbienti di scegliere tra un contratto e la prosecuzione degli studi. L’inchiesta dell’Unione degli Studenti rileva che nel 52% dei casi gli studenti hanno svolto percorsi di alternanza non inerenti al proprio percorso di studi e nel 40% hanno visto violati i propri diritti. Ecco perchè è necessario un ripensamento radicale dell’alternanza, sostituendo l’attuale sistema con l’Istruzione integrata: vogliamo la gratuità assoluta delle attività svolte fuori dalle scuole, il Codice Etico per tutte le aziende che intendono ospitare i percorsi, la separazione dei momenti formativi dalla produzione affinchè non vi sia lavoro gratuito de facto. Rivendichiamo insomma l’istruzione integrata come metodologia didattica innovativa e non come materia scolastica da cui dipende l’ammissione o meno all’esame di Stato. E’ necessaria e urgente l’abolizione degli sgravi fiscali della Legge di Stabilità 2018 e ritiro degli accordi tra Miur e Campioni dell’Alternanza (Eni, Zara, Intesa San Paolo, Fiat, Mc’Donalds). Queste risorse andrebbero investite nei corsi di formazione sulla sicurezza e la formazione dei tutor. Infine rivendichiamo l’adeguamento delle ore obbligatorie tra licei, tecnici e professionali: il monte ore obbligatorio deve essere adeguato alle esigenze e alle possibilità del tessuto produttivo territoriale, deve essere abbandonato il modello imposto dall’alto.

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Nell’università Il problema della professionalizzazione non si limita al sistema scolastico. Anche nell’università si è assistito ad una netta accelerazione nella crescita del numero di tirocinanti: il numero totale dei tirocini in Italia supera le 143 mila unità con una larga progressione negli ultimi anni, nel giro di meno di 5 anni i tirocini sono aumentati del 116 per cento. Risulta evidente la distorsione nell’utilizzo, per cui ci si avvale spesso della manodopera di studenti tirocinanti in sostituzione di personale qualificato e contrattualizzato. E se sulla carta si tratta sempre di esperienze formative, viene da chiedersi a che condizioni si può parlare di formazione quando il tirocinante si ritrova a svolgere mansioni elementari, ripetitive e continuative, in maniera completamente autonoma e senza alcun affiancamento da parte del soggetto ospitante di personale qualificato alla formazione, come sta emergendo dall’indagine Formazione Precaria condotta da Link-coordinamento universitario. Non mancano altri elementi in comune con l’alternanza: l’assenza di una regolamentazione, di uno statuto dei diritti e di un codice etico, di qualsiasi tipo di tutela, di strumenti di valutazione delle esperienze da parte degli studenti.

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Le ministre dell’Istruzione Giannini e Fedeli hanno promosso l’istituzione delle “lauree professionalizzanti” con un processo verticistico, antidemocratico e poco funzionale ad obiettivi di sviluppo del sistema Paese. Con il via libera dato dall’attuale Ministra Fedeli, i nuovi percorsi debutteranno il prossimo anno accademico: gli ITS si occuperanno generalmente delle figure professionali nei settori della tecnologia applicata e in generale della formazione e aggiornamento professionale in ambito tecnologico; le Università si occuperanno invece delle figure professionali disciplinate in accordo con gli ordini e collegi professionali – al contrario degli ITS per cui è sufficiente un’impresa operante nel settore di riferimento. Le caratteristiche delle LP triennali proposte dal MIUR sono preoccupanti e tendono a trasformare il percorso formativo in un “training on the job” standardizzato, piuttosto che a garantire la flessibilità necessaria per una migliore formazione tecnica e pratica. Il modello proposto è unico, con l’obbligo di trascorrere un terzo del percorso in tirocinio – almeno 50 cfu (DM 987, art. 8, c. 2, lett. a). Infine è previsto che i corsi siano limitati a soli 50 iscritti, mentre non potrebbero accedere all’accreditamento nel caso in cui il tasso di occupazione dei laureati a 12 mesi sia inferiore all’80% – un indicatore che non dimostra in alcun modo la qualità di un percorso formativo.

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D’altra parte è chiara la matrice ideologica del numero chiuso e del vincolo di occupabilità: ancora una volta si utilizzano demagogicamente i bisogni degli studenti per trasformare i percorsi formativi in addestramento, con l’utilizzo spropositato dell’istituto del tirocinio, utile solamente alle esigenze di breve periodo delle imprese. Per questi motivi le LP dovrebbero essere percorsi direttamente legati a specifiche esigenze formative e professionali, come nel caso dell’ abilitazione alle professioni ordinistiche, senza l’imposizione del numero chiuso né dell’obiettivo di occupabilità all’80%. Devono inoltre essere attivate in coerenza con una pianificazione industriale pubblico che metta in luce i settori su cui si vuole investire sul lungo periodo. Un altro elemento fondamentale è la coerenza tra i percorsi di LP e l’inquadramento dei laureati nei CCNL del rispettivo settore.

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Istituti Tecnici Superiori Queste istituzioni formative, nate per completare la filiera formativa degli istituti tecnici e professionali, presentano profonde criticità. Per quanto riguarda il ruolo degli Istituti nel complessivo sistema di formazione professionale, gli ITS devono essere legati al sistema universitario abbandonando la forma giuridica della Fondazione di diritto pubblico, per passare a una identità giuridica sul modello degli spin-off già presenti in numerosi atenei. In tal modo resterebbe possibile la flessibilità organizzativa, ma vi sarebbe un maggiore raccordo con gli atenei in vista del coordinamento dell’offerta formativa. Infatti riteniamo che i corsi biennali, che forniscono un Diploma di Tecnico Superiore al V livello EQF, vadano progressivamente sostituiti con corsi triennali – già previsti dalla normativa ma raramente attivati – che garantiscano il VI livello al pari del titolo di laurea triennale. Anche il MIUR prevede “sulla carta” questo obiettivo, ma proponendo un sistema inaccettabile di “passerelle” da percorsi biennali ITS a lauree professionalizzanti. Per garantire l’accesso alla formazione professionale terziaria il MIUR deve prevedere l’aumento dei finanziamenti pubblici agli ITS in modo da coprire interamente il costo standard, così da eliminare le rette richieste ad oggi agli studenti per l’attività ordinaria. Oltre a questo fondamentale finanziamento, sarà necessario un piano nazionale, da elaborare insieme alle Regioni e alle organizzazioni sociali, per definire una programmazione sull’apertura di nuovi ITS, in coerenza con il fabbisogno del sistema produttivo, per garantire la più ampia partecipazione possibile alla formazione professionale ai più alti gradi. Il progetto del MIUR di rendere gli ITS delle “Scuole speciali per le tecnologie avanzate” è positivo, ma deve essere realizzato con azioni concrete piuttosto che con

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generici e fuorvianti riferimenti ad esperienze straniere che appartengono a sistemi di istruzione e formazione totalmente differenti. Gli Istituti dovranno collaborare strettamente con i competence center previsti dal Piano Industria 4.0. Inoltre dovrà essere prevista la la possibilità di collaborazione tra ITS e atenei per attività di ricerca e sperimentazione. Infine le Figure professionali a cui fanno riferimento i Diplomi di Tecnico Superiore dovranno essere inserite nei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro al fine di garantire la coerenza tra l’offerta didattica, le prospettive occupazionali e gli obiettivi di sviluppo del sistema Paese.

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Edilizia

14 miliardi di euro: ecco quanto, quattro anni fa, la Protezione Civile stimava fosse necessario investire in edilizia scolastica per raggiungere la minima sicurezza. A fine la legislatura, le forze di Governo rivendicano di aver investito 10 miliardi di euro, ma i finanziamenti, nei fatti, superano di poco solo i quattro miliardi. Di certo questa somma non è affatto sufficiente a rispondere a quella che è una vera e propria emergenza: in un Paese in cui il 60% delle scuole è stato costruito prima del 1976, quindi prima dell’entrata in vigore dell’ultima normativa antisismica, sono quasi 160 i crolli che hanno attraversato il paese negli ultimi 4 anni. Il 31,8 delle scuole ad oggi rimane privo della certificazione di agibilità statica mentre al 45,6% manca il collaudo statico. L’Anagrafe dell’edilizia scolastica, pubblicata nel 2015 dal Governo Renzi, risulta peraltro incompleta, in quanto mancano all’appello il 15% delle scuole. Non solo: la classificazione delle zone sismiche utilizzata nell’Anagrafe risulta superata dalla normativa introdotta nel 2003. Se l’Anagrafe non è ancora completa ed i fondi non sono sufficienti, anche le modalità di elaborazione, finanziamento e realizzazione dei progetti soffrono di notevoli limiti. In primis, le Regioni molto spesso non hanno una programmazione temporale degli interventi mentre i Comuni, invece, hanno difficoltà a sviluppare i progetti per partecipare ai bandi di gara. In secundis, sono 21 le diverse linee di finanziamento, il che rende molto complesso il meccanismo dei finanziamenti. Una di queste, in particolare, sono i mutui Bei, introdotti nel 2015: su domanda degli Enti Locali proprietari degli immobili, lo Stato si indebita con la Banca Europea per gli investimenti. Il Governo Renzi ha introdotto, inoltre, anche altre tre importanti linee di finanziamento: #scuolenuove, #scuolebelle e #scuolesicure. I tempi di realizzazione e finanziamento delle opere però, come già spiegato, hanno reso il tutto molto più lento del previsto. Il tema dell’edilizia universitaria riguarda molteplici aspetti: anzitutto la sicurezza ritorna ciclicamente sulle pagine dei quotidiani, ogni volta che si verifica un crollo più o meno grave all’interno di un plesso universitario. Dalla Facoltà di Veterinaria della Federico II di Napoli, che ora giace in macerie fortunatamente senza aver causato vittime, ai più recenti crolli nell’università del Salento, risulta evidente come ci si trovi davanti ad una vera e propria emergenza. Si evidenzia come il tema della disparità territoriale torni ancora una volta al centro della discussione, per come la penuria di fondi mette

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spesso gli atenei in condizione di trascurare aspetti cruciali come la manutenzione ordinaria e straordinaria, questo a discapito della sicurezza di tutti. Viene da sé che l’accessibilità ai plessi per gli studenti disabili dipende allo stesso modo dalla capacità degli atenei di sostenere le spese per la rimozione delle barriere architettoniche, il che richiede fondi, non manifestazioni di solidarietà. Ancora poi, è necessario che le università tengano conto di quelle che sono le vere esigenze degli studenti. La concezione di università come esamificio, un luogo nel quale ci si reca esclusivamente per seguire le lezioni e sostenere gli esami, distrugge l’idea di università come luogo di aggregazione, condivisione, conoscenza, fondamentali per coltivare rapporti umani con individui che condividono il medesimo percorso di studi. Piuttosto che realizzare cattedrali nel deserto: plessi lontani dai centri abitati che condannano decine di migliaia di studenti e studentesse ad una vita da pendolari, si dovrebbe ragionare del fatto che la pianificazione dei plessi universitari in funzione degli spazi urbani circostanti, determina come questa può avere un effetto benefico sulle città.

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Ancora, troppo spesso si vedono poli universitari quasi totalmente privi di spazi comuni, aule studio sottodimensionate rispetto al reale fabbisogno. Non pensiamo che questo sia un caso, ma un processo di progressivo impoverimento del ruolo dell’università, che diventa esclusivamente erogatrice di servizi, e non luogo di cultura, scambio e reale crescita personale e collettiva. È insomma necessaria una radicale inversione di tendenza, che parta da una seria politica di stanziamento di fondi per la messa in sicurezza e ammodernamento dei plessi universitari, coadiuvata da una concezione dell’università che sia consapevole del suo ruolo sociale. Altri punti importanti sono l’abbattimento delle barriere architettoniche per permettere a tutte e tutti di accedere ai luoghi della formazione. Oltre alla sicurezza è importante anche la bellezza e la funzionalità. Convertire palazzi costruiti per altri fini in scuole ed università costruisce degli spazi che limitano fortemente la progettazione educativa, ove non è possibile cooperare e interagire, riproponendo classi e corsi su un modello novecentesco di sapere. Anche gli spazi invece devono colorarsi ed essere interattivi adeguandosi alle riflessioni pedagogiche innovative che cambieranno scuola e università.

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Territorio

Ad oggi dove nasci determina in larga parte il futuro a cui puoi ambire. Lo dimostrano i dati sugli iscritti all’università del quartiere Scampia di Napoli, dove solo lo 0,7% degli studenti si iscrive all’università. Come se non bastasse anche dentro i luoghi della formazione, quando si parla di apertura al territorio e si fa riferimento all’autonomia scolastica ed alla terza missione dell’università, lo si fa solo in riferimento alla connessione col tessuto produttivo e non invece in riferimento allo sviluppo territoriale, alla valorizzazione del territorio e delle tradizioni. Siamo convinti che le scuole e le università debbano essere senza pareti, divenendo fulcri al centro dei quali vive la città educativa. Aprirsi ai quartieri circostanti, costruire nessi nuovi a partire dai bisogni della popolazione e dell’ambiente circostante, diventare spazi nei quali ridare dignità alla ricerca e alla sperimentazione per immaginare e costruire collettivamente modelli alternativi di produzione, valorizzazione, gestione del territorio. Ridare alla conoscenza il ruolo trasformativo dei saperi, attraverso dottorati e ricerche sul territorio, laboratori al servizio della collettività, apprendimento permanente anche in musei, cinema, teatri, significa ristabilire il legame fra i saperi e il contesto nel quale questi si diffondono. Rimettere quindi al centro i luoghi della formazione, rendendoli aperti e attraversabili non solo dagli studenti ma dalla cittadinanza, e allo stesso tempo rimettere al centro delle città stesse i saperi e la cultura, costruendo città educative nelle quali a tutti sia garantito l’accesso ai luoghi di cultura, riconoscendolo come diritto fondamentale. Città non solo a misura di studente, ma incentrate sull’idea di conoscenza libera, nelle quali luoghi come teatri, biblioteche o cinema non siano accessibili solo alle élites ma diventino invece punti nevralgici della vita collettiva. Costruire una governance condivisa dei saperi nella città, garantire la trasmissione cooperativa dei saperi vuole dire mettere al centro conoscenza formali e non formali, andando oltre la chiusura dell’accademia e le gerarchie.

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Da sud il riscatto dell’istruzione pubblica e del Paese. Dal lavoro all’istruzione, dalla povertà ai tassi di emigrazione, i dati delineano la situazione di un paese in cui fra nord e sud (ma anche fra centri e periferie, fra metropoli e provincia) continuano ad esistere differenze significative, che di anno in anno aumentano. Considerando che da nord a sud stiamo assistendo ad un generale peggioramento delle condizioni materiali, è evidente come in alcune zone del paese si stia arrivando a livelli insostenibili. Che prospettive ha un giovane in un meridione in cui il 47% della popolazione (Istat 2016) è a rischio povertà? Come e perché restare in regioni in cui la disoccupazione giovanile arriva al 60% (Eurostat 2017)?

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Il Sud è spesso al centro di discorsi e proclami, ma ad oggi non è stata messa in campo nessuna politica strutturale di aggressione della condizione di impoverimento e svuotamento dell’Italia meridionale, al di là di misure spot propagandistiche, assistenzialiste e che non centrano il nodo del problema. Non possiamo ritenere sufficienti gli sgravi aziendali al 100% sulle assunzioni di giovani meridionali, perché non è con la politica degli sgravi che si rilancia un pezzo di Paese devastato, sfruttato, abbandonato dalla politica degli ultimi decenni. Come risponde la politica al fatto che 1 studente su 4, in alcune aree del Sud e delle isole (in particolar modo, ma anche in tante zone di provincia in tutto il paese), è costretto ad abbandonare la scuola prima della maturità? Far finta che il problema non esista, o che si risolverà da sè, non è una soluzione contemplabile. E ancora, come risponde la politica all’esodo di decine di migliaia di studenti che ogni anno vanno a studiare in atenei del centro-nord (26mila nello scorso anno, secondo l’ultimo rapporto Svimez)? Non esiste nessuna casualità in tutto questo, ma ci sono responsabilità precise. In primo luogo, le politiche in materia di istruzione dell’ultimo decennio: la logica premiale e meritocratica che ha pervaso il sistema di finanziamento delle università ha determinato, e sta determinando, la chiusura di numerosi corsi di laurea in particolar modo negli atenei meridionali. Il meccanismo di finanziamento delle eccellenze, caposaldo della riforma Gelmini, viene sempre più sdoganato nella concezione che sia oggi centrale ambire alla costituzione di pochi poli di eccellenza chiudendo progressivamente gli atenei più o meno piccoli, dislocati al di fuori dei centri produttivi del paese, che non rispondono ai parametri di valutazione imposti.

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Questo progetto rivela una precisa idea di formazione, slegata dalle esigenze della popolazione e chiusa rispetto al territorio nel quale si trova, ma funzionale esclusivamente agli interessi del mercato.

Chiudere gli atenei del sud, mettendoli nelle condizioni di non poter erogare neanche i servizi minimi, costringendoli a scegliere fra didattica e ricerca e a tagliare in ogni caso sulla qualitĂ di entrambe, signiďŹ ca condannare il Mezzogiorno e il Paese ad un futuro senza prospettive nè speranze di riscatto. Vogliamo invece piu istruzione per supportare investimenti diretto produttivi che facciano vivere i nostri territori per un nuovo sviluppo sostenibile.

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Arte e Cultura

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La questione dell’istruzione gratuita e di qualità non si limita soltanto al mondo delle scuole e delle università; da tempo, anche nel nostro Paese, la cosiddetta formazione formale è stata affiancata dal LifeLong Learning, cioè la formazione lungo tutto l’arco della vita, che comprende necessariamente i luoghi della cultura ed il sapere fuori dai luoghi della formazione tradizionale. Anche in questo campo, però, i costi sono eccessivi e la cultura è stata considerata, al pari dell’istruzione, un costo privato e non un settore su cui disporre investimenti pubblici. Al pari dunque dei luoghi della formazione, anche la cultura in senso ampio deve poter essere accessibile e gratuita, attraverso una profonda revisione della fiscalità generale e del senso stesso che noi diamo oggi all’accesso soprattutto al patrimonio artistico, musicale, culturale del nostro Paese. Le misure una tantum (vedi il “Bonus cultura” del Governo Renzi) non sono servite a nulla, se non a fare da spot elettorali per racimolare qualche voto. Il ragionamento da fare deve essere più complessivo e strutturato su una prospettiva di lungo periodo: già l’accesso gratuito al patrimonio museale e archeologico statale potrebbe essere sostenuto dalla metà dei fondi usati per introdurre il bonus cultura. Questo dato ci porta necessariamente all’attenzione il tema di quale direzione dovrebbero avere le politiche per l’accesso alla cultura affinché esse siano universali e realmente in controtendenza. Parlare di accessibilità e gratuità della cultura significa ribaltare la retorica per cui con la cultura non si mangia e rimettere al centro l’importanza di costruire città educative in cui ogni luogo e ogni esperienza abbiano valore formativo per l’intera cittadinanza, non solo dunque quella dei soggetti in formazione. Cinema, musica, teatro, internet-point, mostre, libri, ecc., appartengono a pieno titolo alle attività che contribuiscono alla crescita culturale e formativa dei cittadini. Il nostro Paese, ce lo dicono sempre, è il Paese della cultura, dell’arte, della musica; purtroppo però, a queste frasi non si accompagnano mai i fatti per valorizzare questo patrimonio. Lo si può facilmente notare attraverso l’attenzione, anzi, la disattenzione, dimostrata nei confronti della formazione

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artistico-musicale del nostro Paese, il cosiddetto comparto AFAM (Alta Formazione Artistico-Musicale), che rappresenta un’altra prospettiva sul campo dell’educazione su cui vorremmo soffermarci.

Il comparto AFAM comprende Accademie di Belle Arti, Conservatori di Musica, Accademie di Danza e Teatro e riguardano circa 88mila tra studenti e studentesse del nostro Paese. Dal 1999 ad oggi l’intero settore dell’alta formazione artistica e musicale è stato messo ai margini del sistema formativo, non prevedendo investimenti pubblici né attuando completamente la trasformazione strutturale delineata dalla legge 508 proprio del 1999. Ad oggi, agli studenti e le studentesse di Accademie e Conservatori viene negata qualsiasi forma di diritto allo studio; la didattica erogata è stata progressivamente dequalificata e non esistono regole chiare per la rappresentanza studentesca. Inoltre, sul sistema dell’alta formazione artistica e musicale incombe l’applicazione degli stessi criteri di valutazione della ricerca che in questi anni hanno devastato l’Università, con effetti prevedibilmente ancora più deleteri di quelli che si sono verificati negli Atenei. E’ fondamentale che si preveda una riflessione con tutte le componenti del comparto AFAM per riformarlo totalmente, sia rispetto all’entrata a tutti gli effetti nel mondo del terzo livello di formazione, sia rispetto alla previsione di aumenti dei capitoli di spesa dedicati a questo settore, oltre ad un piano di reclutamento per garantire un adeguato numero di docenti e di personale. Lo Stato deve assumere un ruolo importante nell’investimento di risorse pubbliche sull’arte e sulla cultura, per garantire l’avanzamento verso la “società della conoscenza”.

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Post Lauream

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Nel complesso quadro del rapporto tra formazione e lavoro un punto nevralgico sta nelle diverse forme di specializzazione e di accesso alle professioni nel pubblico impiego, in particolare per quanto riguarda il mondo della ricerca, della salute e dell’insegnamento. Settori che patiscono una crisi sostanziata in forme differenti ma che possiamo generalmente ricondurre ad una generale politica di disinvestimento da parte delle istituzioni nei suoi settori più fondamentali, laddove si dovrebbero andare a garantire i diritti fondamentali della popolazione o gettare le basi per uno sviluppo reale e socializzato del sistema paese. In particolare il blocco del turn over che ha colpito tutti questi settori nella gestione degli anni post crisi nel nostro paese, ha determinato l’impossibilità di immaginare e portare avanti un percorso di accesso alle professioni pubbliche che garantisse la certezza di un futuro degno a chi fin dall’università ha intrapreso questo percorso, spesso dovendo superare i primi sbarramenti legati al dilagare di numeri chiusi e programmati negli atenei. Esemplare in questo senso è il caso delle specializzazioni mediche, naturale prosieguo della formazione del personale sanitario destinato a esercitare nelle strutture del Servizio Sanitario Nazionale. Ormai da anni da diverse parti si denuncia il destino di un settore massacrato dai tagli, dove i professionisti si avvicinano in massa all’età del pensionamento, senza che vi sia una programmazione di sostenibilità che possa dunque andare a sopperire alla crescente carenza di organico. Il primo elemento che a questo punto va messo in luce è la completa insensatezza di un numero chiuso imposto a livello nazionale, che rappresenta il primo imbuto incontrato dai giovani che decidono di intraprendere questo percorso, a prescindere dalla fallacità di un test che ha già ha destato molti dubbi sulla sua adeguatezza nel tentativo di valutare le inclinazioni e competenze dei partecipanti. Ma è il secondo imbuto, quello nel passaggio dal corso universitario alla scuola di specializzazione, che ancor più limpidamente mette in crisi un sistema ad ostacoli costruito sulla base dei limiti imposti dai vincoli di bilancio, senza invece ragionare a partire dal fabbisogno sociale del settore nel garantire il diritto alla salute della popolazione. Il numero di borse erogate è infatti estremamente ridotto rispetto a quelle di cui il sistema necessiterebbe per garantire una sostenibilità, andando a definire la struttura del secondo imbuto. Riferendosi alle cifre dell’anno corrente per quanto riguarda il concorso SSM 2017, a fronte di un numero di candidati pari a circa 15mila unità le borse stanziate sono state solamente 6600 circa.

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E’ così che si è andata a creare negli anni una sacca di precariato medico, rappresentato dai cosiddetti “camici grigi”, medici abilitati che rimangono esclusi dalla specializzazione e si trovano a svolgere la professione in periodi di lavoro fortemente precario e scarsamente tutelato. Al contempo con queste cifre si va a minare la possibilità di sostituire negli anni tutto il personale in via di pensionamento, andando così a minare la stessa garanzia di un servizio già colpito da una grave carenza di organico.

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Un quadro simile è quello che possiamo ritrovare nel settore della ricerca pubblica, in particolare per quanto riguarda i poli universitari e tutte le attività legate alla ricerca di base. Quello universitario è stato uno dei settori strategici più drammaticamente colpiti dai tagli negli anni tra il 2008 e il 2010, laddove la valutazione è stata prima la giustificazione per operare queste scelte dal punto di vista governativo e poi una forma di governo delle macerie dell’università di massa, tramite la strutturazione dell’ANVUR e la messa a sistema dei meccanismi premiali di distribuzione dei finanziamenti. Un meccanismo che è andato, non troppo indirettamente, ad orientare gli investimenti economici in ricerca verso i settori più profittabili dal punto di vista delle imprese e del mercato, massacrando generalmente tutti gli ambiti legati alla ricerca di base, non immediatamente valorizzabile. Una strategia molto poco lungimirante dal punto di vista dello sviluppo tecnologico del sistema paese, che si è accompagnato ad una svalutazione delle stesse figure professionali che operano in questo senso. Anche qui il blocco del turn over ha generato un muro contro cui si sono scontrate decine di migliaia di giovani che aspiravano ad un futuro nel settore accademico, ridefinendosi nella creazione di svariate figure a termine, coperte da contratti di pochi mesi o tramite borse dalla copertura incerta se non assente. Se questo ha rappresentato da un lato un attacco alla vita e alla dignità di chi aspira ad intraprendere un percorso lavorativo di questo tipo, dall’altro ha minato la qualità di un sistema universitario e di ricerca che non può fondarsi su migliaia di figure iper precarie, valutate secondo modelli dalla dubbia efficacia, che a stento possono contare su un futuro oltre i pochi mesi. In questo senso va ragionata la necessaria inversione di tendenza, a partire da un piano di rifinanziamento diffuso del sistema e da un grande piano di assunzioni che restituisca ossigeno ad un settore, quello della ricerca, che troppo spesso viene sbandierato a livello retorico come vero motore dello sviluppo del paese, senza che a questa retorica corrisponda un adeguato investimento da parte del pubblico.

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pDurante gli ultimi mesi nei nostri atenei un’altra questione centrale per centinaia di assemblee, che hanno visto coinvolti/e migliaia di studenti e studentesse in tutto il paese, è stata quella dell’accesso all’insegnamento, rispetto alle cui modalità si è alzata una forte voce per chiedere chiarezza e la garanzia di un percorso realmente formativo e accessibile a tutti/e. Tra le deleghe della cosiddetta “Buona Scuola” il Ministero si è infatti posto l’obiettivo di riformare i canali professionalizzanti, tramite un periodo di concorso/corso noto come FIT, assimilabile ad una fase di specializzazione durante la quale si dovranno conseguire 24 crediti formativi in materie propedeutiche all’insegnamento. In un paese con il più alto rapporto tra studenti e docenti all’interno delle strutture scolastiche, è evidente come il tema dell’accesso alla professione di insegnante sia direttamente legato alla qualità e all’accessibilità della stesso sistema d’istruzione.

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Non è concepibile che i vincoli in termini di assunzioni di personale vadano a inficiare quella che è la qualità di un altro settore fondamentale nel paese, danneggiando un ambiente come quello scolastico che dovrebbe invece essere agevole tanto per chi vi lavora, tanto per coloro che ne fanno parte in quanto soggetti in formazione. Da qui nascono le nostre diverse richieste rispetto alla strutturazione del percorso FIT, a partire dal numero di posti garantiti all’accesso, che devono essere in grado sul lungo periodo di garantire la copertura del fabbisogno del sistema scolastico. Allo stesso tempo esistono tutta una serie di ostacoli da superare necessariamente al fine di abbattere le barriere in partenza, destrutturando un accesso che spesso invece è limitante in base alla provenienza sociale e di censo di chi sceglie di intraprendere il percorso. Se crediamo che i/le futuri/e insegnanti rappresentano le fondamenta del nostro futuro sistema paese, questi/e vanno messi/e nelle condizioni di portare a compimento il loro percorso di specializzazione, senza la pressione di meccanismi punitivi e con la garanzia di poter liberamente costruire il proprio accesso alla professione. In questo senso non possiamo che richiedere una sostanziale modifica dei meccanismi retributivi, oggi quasi irrilevanti, prendendo invece a modello quello che è il sistema delle specializzazioni mediche rispetto a questo capitolo.

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10 punti per l’Università

1. Mai più idonei non beneficiari di borsa di studio! 2. Alloggi e mense per tutti 3. Trasporti gratuiti 4. Più borse di studio e reddito di formazione! Serve All In per il diritto allo studio! 5. Per un’università gratuita e finanziata 6. No al numero chiuso e libero accesso alla conoscenza 7. Più docenti per una didattica libera e di qualità! 8. Stop tirocini sfruttamento per una formazione di qualità! 9. Ricerca pubblica per un vero sviluppo sostenibile 10. Democrazia in Università

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10 punti per la scuola

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1. Abolizione legge 107 (“Buona Scuola”) 2. Dirottamento fondi bonus cultura per i neo 18enni in favore della gratuità della cultura per tutte e tutti 3. Una scuola che combatte le disuguaglianze: reddito di formazione e legge nazionale sul diritto allo studio 4. Una scuola davvero gratuita: gratuità della scuola e abolizione del contributo volontario 5. Diritto alla mobilità locale, nazionale ed internazionale per tutte e tutti 6. Innalzamento dell’obbligo scolastico fino al conseguimento del diploma di scuola superiore e consequenziale abolizione della possibilità di assolvere l’obbligo formativo tramite apprendistato. Riforma dei cicli scolastici con biennio unitario + triennio specializzante. 7. Una scuola che non lascia nessuno indietro: abolizione bocciatura e voti numerici 8. Una scuola dove a tutti sia garantita la cittadinanza: saperi multietnici, antifascisti e femministi 9. Un nuovo rapporto con il territorio: istruzione integrata e codice etico 10. Laicità della scuola: sostituire l’ora di religione con la storia delle religioni

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Conclusioni

La nostra generazione ha vissuto una stagione politica in cui le politiche dei Governi di ogni colore non hanno risposto ai nostri bisogni, ma alle direttive del mondo della finanza, della grande impresa e della burocrazia. Mentre le piazze di tutto il mondo, inclusa l’Italia, venivano riempite di milioni di giovani in movimento per rivendicare maggiore giustizia sociale ed un modello di sviluppo sostenibile in seguito alla crisi del 2008, le classi dirigenti imponevano ricette di austerità, limitazioni del welfare e dei diritti sociali come la sanità, l’istruzione e la previdenza sociale. Il risultato di questo profondo attacco alla democrazia lo ritroviamo nei dati sulle diseguaglianze sociali e sull’insostenibilità della crescita in un sistema economico fondato sul profitto di pochi anziché sul benessere di tutte e tutti. Quando portavamo in piazza delle soluzioni democratiche e progressive alla crisi, gli stessi responsabili del disastro economico chiudevano ogni spazio di dialogo rispondendo che non vi era alternativa al taglio della spesa sociale e alla negazione dei diritti. La proposta di istruzione gratuita e di qualità per tutte e tutti è frutto di quelle battaglie, mai interrotte, che puntano a costruire un futuro migliore di quello che ci è stato imposto dall’alto dei palazzi del potere. Un futuro fondato sull’intreccio tra saperi liberi, innovazione tecnologica e uguaglianza sociale. Questo è ciò che vogliamo, ed è anche l’unica soluzione possibile per uscire dall’attuale modello di sviluppo insostenibile dal punto di vista ambientale, sociale, culturale. Dopo il fallimento delle classi dirigenti, oggi siamo noi a dettare la rotta per uscire dalla crisi sociale ed economica, consapevoli che l’unica direzione possibile è quella della partecipazione democratica e dei diritti. L’unica soluzione possibile è realizzare ciò che le studentesse e gli studenti rivendicano a gran voce dal Cile alla Gran Bretagna, dal Canada all’Italia. Free Education: there is no alternative!

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EDUCATION è una campagna promossa dalla Rete della Conoscenza, network dei soggetti in formazione di cui fanno parte Link Coordinamento Universitario e l’Unione degli Studenti freeducation.it retedellaconoscenza.it FB Freeducation Rete della Conoscenza


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