Spazio Libero

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In copertina: progetto fotografico di Matteo Girola - Spazio Libero




semiotica dell’intervento di riappropriazione dello spazio sociale urbano

Politecnico di Milano Scuola di AUIC laurea triennale AA 2015-2016 Cristiano Gerardi Riccardo Gialloreto relatrice - Paola Pleba



abstract “Spazio Libero - tel: 02-97E810” è una pubblicità, o meglio una pubblicità per la pubblicità, uno spazio bidimensionale sorto per la logica commerciale, rimasto vuoto del senso per cui era stato predisposto e alla ricerca di una nuova destinazione funzionale. Il lavoro di ricerca affrontato crea una panoramica sul processo di banalizzazione degli spazi urbani che, a partire dal secondo dopoguerra, ha caratterizzato i progetti di espansione nelle periferie delle città europee. L’analisi condotta si snocciola inizialmente sulle questioni percettive per delineare, studiando tra gli altri di Baumann, De Botton e Gehl, come si è condizionati dalla morfologia del contesto in cui si è inseriti e cosa si intende per spazio negletto. Si è poi penetrati nelle problematiche del paesaggio urbano definendo dei criteri concreti di valutazione: come la permeabilità o la connessione. Si sono osservati quindi alcuni esempi storici per comprendere come il problema della città postmoderna si sia sviluppato all’interno della società di massa neo-capitalista e come diversi intellettuali, come Ugo La Pietra, abbiano provato a elaborare strategie di percepire e pensare lo spazio in antitesi al fenomeno. Tra questi spicca l’esempio situazionista e la formulazione delle teorie sulla deriva, che conduce al progetto di New Babylon. Portando poi lo sguardo nel presente sull’ormai consolidato e problematico tessuto urbano, si è cercato di comprendere, attraverso vari esempi di recupero e riappropriazione, come si possa ricreare un equilibrio morfo-sociale, contrastando l’alienamento con l’invenzione di nuovi modi di usufruire degli spazi privi di significato, aprendoli a un uso libero e collettivo per creare porosità urbana. Sono riportati alcuni casi studio, tra cui i più significativi sono il Centquatre a Parigi e il Matadero a Madrid, nei quali si celebra la cultura e l’espressione artistica come forme prime di riaffermazione dell’individuo. Si sposta infine l’attenzione sulla città di Milano in cui, grazie all’auto-iniziativa pilota di collettivi come il Macao o alla rivalutazione spaziale data dagli eventi del Fuorisalone, si sta assistendo anche in ambito amministrativo a una presa di coscienza sulla necessità di recuperare ambiti dismessi per restituirli al pubblico con una nuova identità, attivando interesse sociale e possibilità di aggregazione. In appendice si trova uno zoom sul quartiere di Nolo (North of Loreto), un’area satellite di Milano attraversata di recente da un nuovo fermento socio-culturale, che punta con successo sulla valorizzazione e il risaldamento dell’ambigua identità multietnica, per essere rivalutata nello scenario urbano. Si propone poi la descrizione di un intervento puntuale sul quartiere, riguardante la riconquista sociale di uno spazio di risulta. L’intento è di dimostrare che anche un’operazione effimera, come un evento temporaneo, può creare interesse e aggregazione, restituendo identità fruitiva a un luogo e riaffermando l’immagine.

7


8


indice

7

abstract 1 inquadramento

13 15 17

1.1

concetto di luogo

1.1.1

percezione degli spazi

1.1.2

esodo degli architetti

perdita del luogo

1.2

1.2.1

era software

19

1.2.2

tempo di reazione

20

1.2.3

enclaves urbane

21

1.2.4

non luoghi

2 città e situazione 25

2.1

problematiche urbane

2.1.1

conurbazione e odio

28

2.1.2

spazio urbano di connessione

33

2.1.3

allontanamento dalla strada

34

2.1.4

tradimento del modello

38

2.1.5

iniquità e frustrazione

abitare la città

40 42 46

2.2

2.2.1

burocratizzazione dello spazio

2.2.2

gradi di libertà

new babylon

2.3

2.3.1

avere o essere

47

2.3.2

architettura o rivoluzione

49

2.3.3

spettacolo e situazione

49

2.3.4

deriva situazionista

51

2.3.5

Constant e la Nuova Babilonia

9


54

2.4 riappropriazione di Paternoster Square

3

riaffermazione spaziale

3.1

identità e partecipazione

59

3.1.1

genius loci

60

3.1.2

partecipazione sociale

61

3.1.3

battaglia di piazza Taksim

spazio ibrido

3.2

65

3.2.1

architettura e costruzione

68

3.2.2

architettura ibrida

criteri d’intervento

3.3

72

3.3.1

recupero e flessibilità

74

3.3.2

permeabilità e connessione

79

3.3.3

comunità e arredo

84

3.3.4

attività ed espressione

91

3.3.5

mezzi informali

97

3.3.6

spazi occupati

Madrid - Matadero

3.4

103

3.4.1

quadro storico

103

3.4.2

conversione degli spazi

107

3.4.3

attività e dotazioni

Parigi - Centquatre

3.5

115

3.5.1

progetto

117

3.5.2

spazi e funzioni

120

3.5.3

architettura orizzontale

4

spazio libero a Milano

4.1 inquadramento

125

4.1.1

presa di coscienza

127

4.1.2

Lambrate e Fuorisalone

128

4.1.3

iniziative spontanee

131

4.1.4

ruolo della tecnologia

10


4.2

Base - ex Ansaldo

132

4.2.1

progetto e collaborazioni

133

4.2.2

attivitĂ e spazi

Macao - ex macello

4.3

137

4.3.1

spazio fisico

138

4.3.2

progetto politico

140

4.3.3

sinergie

141

4.3.4

spazio virtuale

5

muro libero a Nolo

5.1

north of Loreto

144

5.1.1

inquadramento storico

145

5.1.2

Nolo Social District

147

5.1.3

integrazione e gentrificazione

protagonisti

5.2

150

5.2.1

Salumeria del design

151

5.2.2

Drogheria creativa

156

5.2.3

Gigantic

159

5.2.4

mappa psicogeografica

nell’idea di far qualcosa

5.3

164

5.3.1

Manifesto dell’architettura futuribile

166

5.3.2

frustrazione e graffiti

170

5.3.3

progetto

173

bibliografia

175

sitografia

177

crediti

11


Fotomontaggio che rappresenta uno spazio escheriano percorso da persone disorientate e alienate da uno scorretto uso dalla tecnologia.

12


1 1. Jan Gehl, Vita in città. Spazio urbano e relazioni sociali, Antonio Borghi (a cura di), Maggioli editore, Milano 2012, p. 28.

inquadramento “Sebbene l’ambiente fisico non possieda un’influenza diretta sulla qualità, sul contenuto e sull’intensità dei contatti sociali, l’architetto e l’urbanista sono in grado di influire sulle occasioni di incontrare, di vedere e di sentire gli altri: occasioni che assumono una qualità loro propria e divengono il punto di partenza per altre forme di contatti ulteriori.”1 Attraverso un’analisi rivolta al vero fruitore dell’opera architettonica, ci si rende conto che entrano in gioco alcuni aspetti percettivi come evidenzia De Botton. Un lavorio delle sinapsi che non sempre viene preso in considerazione da chi si occupa di progettare gli spazi in cui viviamo. Una disattenzione che a causa della schiacciante crescita della società di massa e della conseguente frammentazione e delocalizzazione degli spazi urbani, ha portato alla dissoluzione del concetto di “luogo” come si conosceva. Da qui nasce una nuova concezione di spazio pubblico, che ha stroncato nettamente lo spirito di esplorazione, segregando le persone in quei pochi e omogenei ambienti che dànno maggiore sicurezza, perché controllati e monitorati, ma che disintegrano completamente il senso di identità e storia. Questi spazi ibridi, detti “non luoghi”, si sono sviluppati in una moltitudine di enclaves totalmente sconnesse tra loro, su cui pesa il controllo da parte dei mass media e della pubblicità, che ormai non lasciano più alcuna libertà decisionale negli spostamenti e che hanno contribuito alla banalizzazione e al senso di spaesamento che vige nella società postmoderna. Le tecnologie e la nascita dell’era software, hanno sì permesso un’evidente comfort nella fruizione degli spazi, ma d’altro canto hanno anche svalorizzato il senso fisico dei luoghi.

1.1

concetto di luogo

1.1.1

percezione degli spazi

“La nostra sensibilità per l’ambiente circostante può essere ricondotta a un’inquietante caratteristica della psicologia umana, cioè al fatto che dentro di noi albergano diverse personalità e non con tutte ci sentiamo ugualmente a nostro agio, al punto che ci capita, in certi momenti, di lamentarci di esserci allontanati da quella che riteniamo

13


la nostra personalità. Il suo manifestarsi dipende, in misura umiliante, dai luoghi in cui ci capita di trovarci, dal colore dei mattoni, dall’altezza dei soffitti e dalla disposizione delle strade.”2 Il cervello elabora qualsiasi immagine associandola a un’esperienza passata immagazzinata nell’inconscio. È sorprendente come le sinapsi attuino questi collegamenti in maniera del tutto arbitraria, associando tra loro figure che il nostro io conscio non sarebbe mai in grado di percepire. Come dice Baumann: “anche quando gli oggetti non assomigliano affatto a persone, è facile immaginare che tipo di carattere potrebbero avere”. La valutazione complessiva che si dà a uno spazio quindi, oltre a essere totalmente soggettiva, è prettamente simbolica. È un concetto che si basa su impressioni percepite a primo impatto, in modo molto istintivo. Se in primis non si riesce ad ottenere questo consenso empatico, non si può instaurare un rapporto tra l’opera e il suo destinatario, a prescindere della sua funzionalità. “l’architettura può richiamare le nostre inclinazioni più timide e passeggere, amplificarle e consolidarle, garantendoci quindi un accesso permanente a una serie di trame emotive che altrimenti avremmo vissuto in maniera occasionale e casuale.”3 Spesso infatti è necessario aver vissuto un’esperienza che ci ha segnato in modo indelebile per ottenere un impatto tangibile con l’architettura. Ad esempio conoscere il dolore si rivela inaspettatamente uno dei requisiti essenziali per apprezzarla, in quanto è un’esperienza che ci fa acquisire maggiore sensibilità. Sorge quindi il problema di soddisfare vari tipi di emotività, alcune più acute e altre ancora acerbe.

2. Alain de Botton, Architettura e felicità, Ugo Guanda Editore, Milano 2006, p. 119. 3. ivi, p. 119 4. Christian NorbergSchulz, Genius Loci. Paesaggio Ambiente Architettura, Electa, Milano 1979, p. 18.

14

Il primo obiettivo che un architetto dovrebbe porsi è quello di soddisfare le esigenze del suo fruitore, motivo della genesi di questa scienza. Spesso però ci si sofferma troppo sul senso letterale di questo concetto, cadendo nel funzionalismo e trascurando il rapporto emotivo tra uomo e architettura. Bisogna comprendere prima di tutto che la visione d’insieme che ha un professionista della propria opera tende a compromettersi quasi completamente una volta che questa è realizzata; dal momento in cui essa entra a far parte della realtà, i significati intrinseci attribuitigli progettualmente spesso non vengono percepiti dalla moltitudine. Se si pensa quindi che l’opera è rivolta a chi la abita e non a chi la progetta, si dovrebbe cercare di comunicare il messaggio a chi non ha i mezzi per comprenderlo. Non bisogna solo cercare di ottenere il consenso di chi opera nello stesso settore e che ha la capacità di soffermarsi sui dettagli e compiere dunque un’analisi critica del fatto architettonico, ma è necessario celebrare i veri valori dell’architettura rendendo accessibile e leggibile ai più il contenuto sensato e coerente del progetto. il processo mentale che attuiamo, spesso va al di là della semplice razionalità. l’occhio comune non fa caso ai dettagli ma trae comunque delle emozioni generali dallo spazio progettato, queste si creano a partire dall’insieme di elementi che lo compongono.


“lo scopo esistenziale dell’edificare (l’architettura) è dunque quello di trasformare un sito in luogo, ossia di scoprire i significati potenzialmente presenti nell’ambiente dato a priori.”4 Nell’era post-moderna il divario tra ideatore e fruitore si è ampliato e le persone si sono trovate ulteriormente disorientate dalla voce dei mass media, che non permettono un utilizzo arbitrario degli spazi. Come afferma Borges: “L’uomo vaga in questi labirinti cercando di interpretare la realtà, visto che può farlo solo attraverso questa sorta di seconda realtà, tessuta dal suo stesso intelletto, che noi chiamiamo cultura. Il labirinto della letteratura è concepito da Borges come qualcosa di ineluttabile: è l’unico modo possibile di abitare il mondo e di ri-conoscerlo”5. Il problema però è che la cultura di cui parla Borges, attualmente è contaminata da informazioni superflue che distolgono la nostra attenzione dalla ricerca di un’ identità solida.

1.1.2

esodo degli architetti

“Mentre dunque il progresso tecnico, economico e sociale ponevano sul tavolo da disegno dell’architetto problemi nuovi, enormi, fascinosi ed entusiasmanti, questo non si accorgeva della Metropoli nascente, intento com’era in un metodico lavoro d’auto-alienazione. Per l’architetto era un momento dl grazia, ed era posseduto completamente dallo spiritello del disegno creativo. Ma per controllare meglio Ie forme aveva messo le lenti e guardava troppo da vicino, vedendo solo I dettagli, uno ad uno. Tutto preso dal “gusto” di risolvere il problema plastico di uno stelo vegetale che diventa improvvisamente massiva forma muliebre una volta raggiunto I’architrave del portone di un ”hotel particulier”, tutto teso nello sforzo di disegnare, per un villino, tende e mobili, e posate, e carta da parati, e lampadari, e vetrate artistiche, o nella ricerca della forma da dare ad una seggiola destinata alla produzione di serie, o alla bottiglia elegante d’un dentifricio liquido adeguato ai tempi nuovi, I’architetto poteva, tutt’al più, dedicare le sue ricerche alla città fornendo il disegno floreale per Ie pensiline d’ingresso al “metro”. II resto Io lasciava agli altri.”6 5. Arìs Carlos Martì, Silenzi eloquenti. Borges, Mies van der Rohe, Ozu, Rothko, Oteiza, C. Marinotti Edizioni, Milano 2002, p. 23. 6. Ludovico Quaroni, La torre di Babele, Marsilio, Padova 1967, p. 51.

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Concentrandosi sulla progettazione di spazi più confortevoli a livello privato, l’architetto aveva perso di vista il risultato complessivo, relativo alla condensazione di più progetti all’interno della stessa struttura urbana. Dopo una prima presa di coscienza, tra le due guerre, del significato di cultura della città, ci si è resi conto del totale disinteresse dell’architetto nei riguardi della cura del contesto urbano e con il modernismo si è dunque presentata la volontà di riprendere le redini del disegno urbanistico. L’introduzione di strumenti come


lo zooning e il planivolumetrico, unitamente alla introduzione del concetto di macchina per abitare, sembravano poter generare una città che fosse finalmente moderna e che rispondesse alle necessità della civiltà in rapida evoluzione. Agli inizi della rinascita post-bellica tuttavia prendeva l’avvio un vero e proprio esodo dall’architetto, il quale ha perso il controllo del processo edilizio e urbano, trovandosi impotente di fronte alla degenerazione del modernismo verso una sua interpretazione speculativa in chiave funzionalista e dallo schiacciante e inarrivabile progresso tecnico, economico e sociale. Le persone si sono trovate incastrate in un’urbanità realizzata da operatori non qualificati, interpellati da imprenditori unicamente preoccupati di massimizzare il profitto. L’errata lettura degli strumenti pensati dal positivista architetto modernista ha portato allo sviluppo di interventi sconnessi che hanno espanso a macchia d’olio le città, fagocitando le campagne circostanti, formando le periferie. Continua Quaroni: “Ma le conseguenze peggiori del planivolumetrico sono altre, e sono due. La prima è che gli urbanisti pensano che col planivolumetrico sia risolto il problema della città, per cui chiedono in ogni caso piani particolareggiati planivolumetrici, che verranno fatti come solo è possibile farli, disegnando un pattern, un disegno astratto risultante dalla giustapposizione puramente grafica, senza Ia minima idea di spazio.”7 Questa operazione puramente grafica ha generato pattern abitativi privi di una struttura che si possa definire urbana. Questi si sono palesati, in confronto alla qualità ed eterogeneità del tessuto dei centri storici, come dei cancri della città. Inoltre la mancata collaborazione e le incomprensioni tra chi disegnava il planovolumetrico, un architetto urbanista, e chi operava al suo interno, progettando e realizzando le singole palazzine, hanno portato al caos e al conseguente spaesamento del fruitore. A intensificare il problema è stato il progressivo accrescimento della scala urbana, la Bigness di cui parla Koolhaas8; la crescita ossessiva degli edifici a dispetto del tessuto generativo ha portato al problema degli spazi interstiziali e dunque alla nascita di numerosi vuoti urbani, come spiega Gordon Cullen introducendo il concetto di desertplanning, generato dalla pianificazione funzionalista. Questi deserti urbani, unitamente alla mancata attenzione al campo visivo sociale, hanno implicato uno spopolamento di gente e di attività dallo spazio urbano, facendo sì che mass media e centri commerciali potessero rivelarsi gli unici punti di contatto sociale.

7. ivi, pp. 60-61. 8. Rem Koolhaas, Junkspace, Quodlibet, Macerata 2001. 9. Gehl, op. cit.

16

Mantenere la dimensione umana all’interno degli spazi collettivi, è di fondamentale importanza per garantire i contatti sociali. Come si può notare dall’analisi che Ian Gehl9 fa della “vita tra gli edifici”, le persone sono influenzate da un’attrazione reciproca in qui gioca un ruolo essenziale il campo visivo. Gli uomini hanno continuo bisogno di un contatto visivo diretto tra loro. L’ingigantimento delle strade e degli edifici ha cancellato completamente questo tipo di contatto, causando uno spopolamento degli spazi aperti e alimentando nell’uomo


moderno una certa paura del vuoto. Le funzioni che quindi prima si svolgevano all’aperto sono state rinchiuse e relegate all’interno di edifici. La città storica invece come dice Quaroni, era “un’opera d’arte collettiva” dove l’opera architettonica era un intervento globale, e dove tutto era in armonia con tutto. Se si riesce quindi a raggiungere la stessa armonia tra utente ed esecutore, basandosi sul nuovo Zeitgeist dell’era moderna, si riesce a dar vita un nuovo organismo che lavora in simbiosi con le potenzialità del progresso. Come il monumento aveva un certo valore nella città antica, anche il vuoto può rivelarsi un evento importante, dove le persone vivono il rapporto con il prossimo, e dove può acquisire maggior consapevolezza di ciò che la circonda.

1.2

perdita del luogo

Torino 2011, p. 229.

“per molte persone che vivono nell’ambito urbano, la città è solo un complesso di emozioni sconnesse che generano le esperienze di ogni giorno: cercare la macchina per le sigarette... una fermata del tram... negozi, orari, telefoni... elenchi...”10

1.2.1

era software

10

Ugo La Pietra, Abitare la

città, Umberto Allemandi,

11

Norberg-Schulz, op. cit.,

p. 22.

Aspirando continuamente alla libertà, l’uomo moderno è diventato un nomade. Convinto di poter prescindere dal rapporto col luogo, egli ha dato avvio a un viaggio in solitaria che lo ha estraniato da qualsiasi luogo e non ha fatto altro che disorientarlo. Non essendo riuscito a cogliere il vero significato dell’abitare che, come afferma Heidegger, significa stare in pace in un luogo protetto (“soffermarsi” dal termine dvelja dell’antico nordico), egli ha perso la sua identità, preferendo l’alienazione individualista alla cooperazione all’interno di una comunità.11 Come visto, la rapida evoluzione delle metropoli ha provocato un mutamento significativo delle reti di comunicazione e degli spazi pubblici, trasformandoli sempre più in canali di transito piuttosto che in ambiti di sosta per favorire i rapporti interpersonali. L’avanzamento delle tecnologie all’interno del paesaggio urbano, ha causato un cambiamento di mentalità da parte dei suoi abitanti, configurando così “una situazione in cui la navigazione sulle reti telematiche assume

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lo stesso ruolo che ha avuto sin qui l’esplorazione degli spazi pubblici della città, le reti stesse svolgerebbero la funzione che è stata dello spazio pubblico”12. Il senso di spaesamento all’interno di un contesto in cui non ci si riconosce più e il diffondersi di una sensazione di insicurezza di fronte a spazi troppo aperti e poco controllati spingono l’individuo sempre più all’interno di luoghi sicuri e costantemente monitorati. Anche quando si trova all’aperto, l’uomo ha un costante bisogno di sentirsi al riparo, tant’è vero che quando lo spazio tende ad ampliarsi, egli reagisce occupandolo ai margini così da poter avere una visione complessiva e un maggior senso di riparo. Dal momento in cui si verificata una tale dilatazione delle strade, anche quei margini che prima rappresentavano un’ancora di salvezza per il cittadino, si rivelano inefficaci rispetto alla sproporzione dei vuoti. Questa naturale paura di esporsi, è accresciuta talmente tanto in questi ultimi decenni da portare l’uomo a non utilizzare più gli spazi aperti, se non come ponti di collegamento tra un interno e l’altro. L’accelerazione dei tempi di attraversamento degli spazi, ha definitivamente spersonificato il concetto di luogo pubblico come lo si conosceva. “Il rito di passaggio non è più condizione intermittente ma immanente. L’accesso non avviene più attraverso una porta o un arco di trionfo, ma da un sistema di ascolto elettronico dove la presenza degli utenti ricorda più quella di interlocutori in transito permanente che quella di abitanti, di residenti privilegiati.”13

12. Alfredo Mela, Sociologia della città, NIS, Roma 1966. 13. Camillo Botticini, Relazioni, progetto e identità dell’architettura contemporanea, Libreria Clup, Milano 2005, p. 131. 14. F. Choay, L’orizzonte del posturbano, Officina, Roma 1992. 15. Norberg-Schulz, op. cit.

18

La perdita del “luogo” è un tema indagato nella lettura dello spazio abitato contemporaneo operata da F. Choay14 in cui il termine città, sostituito da quello di urbano, individua un’associazione di infrastrutture tecniche, reti di telecomunicazione e dei conseguenti comportamenti fisici e mentali indotti dall’uso di queste. Si incomincia ad abitare un nuovo tipo di luogo di ritrovo, generato dall’insistente spinta del progresso: il web. È come se in modo virtuale uscissimo dalle nostre case senza doverle lasciare fisicamente. Ci siamo appropriati di un nuovo spazio aperto che ormai offre infinite possibilità in più di quello della realtà e in cui si intrattengono rapporti sociali a distanza che vanno a sostituire quelli di persona e in cui la gente si sente più sicura e più libera di esprimersi. “È una vita astratta, in una specie di spazio matematico-tecnologico, ove a mala pena il sopra si differenzia dal sotto”15. Con l’evoluzione dei cellulari e delle altre reti telematiche, si è acquisita sempre più la possibilità di avere un’esperienza anticipata dei luoghi. La svolta può considerarsi chiaramente utile, in quanto ha reso in grado di prevedere se un luogo rispetti o meno le proprie necessità; ciò tuttavia mette da parte definitivamente il naturale spirito d’avventura e di ricerca insito nell’uomo. Si genera una situazione in cui spesso le aspettative create superano la realtà dei fatti, provocando delusione nei confronti del risultato finale. L’esperienza del luogo che riusciamo ad acquisire dal web elimina la suspense e la sorpresa, fattori che contribuiscono in gran parte all’acquisizione di valore dello stesso. “Il sistema dei consumi, producendo i propri miti e sogni potenzialmente


raggiungibili, crea una divisione tra una città del desiderio che produce immagini e quella reale; anzi la realtà è accettata solo se è simile all’immaginario definito dal mondo mediale. La città si modella non sulla realtà ma sull’immagine che la gente deduce dal mondo dei media dove dominano falsificazione, spettacolarizzazione, sovraccarico comunicativo, in cui la strada simulata sostituisce quella vera e lo spazio pubblico, privatizzato, imita il set cinematografico una città fatta da un’architettura dello spettacolo”16. Ormai la nostra società ha assimilato nuovi “schemi” percettivi che non seguono più i criteri della guida alla città. Ogni emozione trasmessa dalla città odierna deriva da esperienze acquisite da un mondo astratto, migliore di quello reale.

1.2.2

tempo di reazione

“Auge individua nell’accelerazione del flusso della storia e nell’eccesso di tempo una condizione di surmodernità, di una difficoltà di pensare il tempo di fronte alla sovrabbondanza di avvenimenti, con una percezione istantanea e simultanea del mondo che conseguentemente modifica la percezione dello spazio.”17 L’invenzione di mezzi di circolazione in grado di consentire uno spostamento repentino, sia urbano che interurbano, hanno completamente rivoluzionato il concetto di distanza. La percezione di quest’ultima, dal punto di vista umano, è un fattore fondamentale nell’ottica di rendere un luogo più o meno attrattivo. Tuttavia al giorno d’oggi ci si sposta a una velocità talmente elevata, da non avere la possibilità di percepire gli spazi. Non si ha quell’attimo in più necessario per fermarsi a riflettere. I nostri tempi di reazione agli avvenimenti circostanti sono troppo lenti rispetto rispetto ai ritmi a cui si è sottoposti. L’avanzare del progresso e delle tecnologie può sì rivelarsi utile e molto comodo, ma è anche stato la principale fonte di frammentazione degli spazi.

16. Botticini, op. cit., p.144. 17. ivi, p. 139.

19

La possibilità di raggiungere qualsiasi spazio in tempi brevissimi ha portato alla scomparsa della gerarchia d’importanza dei luoghi. Il fattore tempo non influisce più sulla scelta di voler visitare un luogo specifico. Non si presenta più il problema decisionale di quale luogo visitare rispetto a un altro, poiché abbiamo eguali possibilità di raggiungimento in qualsiasi caso. Applicato al rapporto spazio/ tempo, ciò significa che poiché tutte le parti di spazio possono essere


raggiunte nello stesso arco di tempo, nessuna parte di spazio è privilegiata, nessuna ha un “valore speciale”. Non sussiste più dunque motivo di raggiungere nessuna di esse in un particolare momento. “La costruzione di veicoli capaci di muoversi più veloce di quanto avrebbero mai potuto fare le gambe degli uomini ha eliminato la concezione del tempo necessario per viaggiare come tratto distintivo della distanza e dell’inflessibile wetware, trasformandolo in un attributo della tecnica del viaggiare. il tempo è diventato una funzione di potenzialità meccaniche, di qualcosa che gli uomini poterono inventare, costruire, possedere, usare e controllare. Il tempo venne a differenziarsi dallo spazio perché poté essere cambiato e manipolato; è diventato un fattore di disgregazione: il partner dinamico nel vincolo matrimoniale tempo/spazio.”18

1.2.3

18. Zygmunt Bauman, Modernità Liquida, GLF editori Laterza, Roma 2002, p.125. 19. C.BotticiniRelazioni, progetto e identità dell’architettura contemporanea, p.135. 20. Cino Zucchi, Enclave: la città delle minoranze in Paesaggi ibridi, Skira, Milano 1994. 21.Marc Augè, Nonluoghi: introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 2009.

20

enclaves urbane

“Choay definisce come la rivoluzione profetica legata al ruolo dominante dei mezzi tecnici, individua una perdita che tocca le società umane in una trasformazione profonda del tempo organico e dello spazio locale, sia attraverso reti distaccate dai vincoli spaziali determinanti forma e impianto degli insediamenti umani, sia costruendo uno spazio, base della formazione di nebulose metropolitane, in cui gli edifici si liberano dalle relazioni contestuali, indifferenti ad ogni contesto, determinando un impoverimento sociale, una perdita di rapporto con il corpo e il mondo fisico, una dimensione antropologica dei fenomeni spaziali in rapporto alle specificità umane, generando una corrispondenza tra de-materializzazione e de-istituzionalizzazione della società dove dissoluzione e frammentazione appaiono le condizioni insediative di riferimento.”19 L’indipendenza e idiosincrasia spesso presentate dai progetti odierni hanno portato a una mancanza di identità urbana in cui inoltre i vuoti tra gli edifici, che dovrebbero svolgere la funzione di legante, diventano spazi anonimi visti dagli abitanti solamente come luoghi di transito, utili come percorsi di collegamento ma privi di qualità architettonica. Secondo Zucchi20 si è ormai configurato un tipo di città parcellizzata in unità eterotropiche che coinvolgono i diversi ambiti spaziali. La città genera, per la prima volta nella storia dell’uomo, uno spaiamento socio-spaziale e socio-temporale che determina una perdita di linguaggio e un blocco della capacità di progettare.21 La perdita del concetto di luogo e della localizzazione specifica degli insediamenti umani ha portato alla nascita di spazi decontestualizzati, generati dalla mancanza di intraprendenza nel creare un rapporto


con l’esistente e dall’esorbitante crescita della produzione di massa che ha innescato un meccanismo di costruzioni indipendenti l’una dall’altra. Si viene così a formare un sistema a enclaves: microunità di una rete eterogenea che non riescono a valorizzare la città nel suo complesso, per mancanza di comunicazione tra loro. Questa incoerenza, che trova radici come visto nella disattenzione al contesto urbano e nella disorganizzazione nel coordinare il disegno del planovolumetrico con il progetto nel dettaglio, ha peggiorato la conformazione della struttura metropolitana allungando così le distanze tra i concetti di urbs e civitas. Si ottengono così luoghi facilmente riconoscibili attraverso un processo di sottrazione di identità dell’architettura al luogo e alla struttura spaziale in cui sono costruiti, frequentati e fruiti unicamente per la loro funzionalità, privati della necessità di identità, in cui la gente conduce vite effimere totalmente disinteressate alla collettività. Le persone che abitano queste città sono sempre più pervase da una sensazione di vuoto e insoddisfazione, proprio perché spesso gli ambienti che caratterizzano il paesaggio urbano azzerano le probabilità di proporsi come luoghi d’incontro, stimolanti e favorevoli alla comunicazione e al contatto diretto tra le persone. Il mutamento dei nuclei familiari, la scomparsa di rapporti attivi sul posto di lavoro, spesso automatizzato dalla tecnologia, e l’ampliamento della scala urbana hanno creato grosse lacune nei rapporti sociali, lasciando un trauma indelebile nella società odierna.

1.2.4

non luoghi

“Il non luogo è visto come l’espressione di un globalismo internazionalista del pensiero unico e del profitto, cancellature di ogni interpretazione trasformata e a esso non omologata.”22

22. Botticini, op. cit., p. 139. 23. Gianni Biondino, Metropoli per principianti, Guanda, Parma 2008.

21

Molti degli spazi generati dal dopoguerra a oggi sono privi delle espressioni simboliche di identità, relazioni e storia. A proposito di quest’ultima Biondillo dice che “il centro storico è la quinta teatrale della rappresentazione di un’identità collettiva spesso fittizia. come tale molto più falso degli spazi che viviamo, quotidianamente. ma la rappresentazione identitaria ci rassicura”23. Auge parla invece di quei luoghi unicamente funzionali, che appartengono alla quotidianità, e che acquisiscono identità solo se si considera la presenza degli utenti. È come se l’unico valore attribuibile a questi spazi fosse l’azione fruitiva. Il paesaggio non è creato dal luogo in sè, ma da chi lo occupa: il quadro non è il paesaggio ma lo spettatore che lo osserva. Di conseguenza non è il luogo che dà identità all’uomo, ma


24. Koolhaas, op. cit., p. 85. 25. Baumann, op. cit. 26. Koolhaas, op. cit. p. 100. 27. Richard Sennett, La coscienza dell’occhio: progetto e vita sociale nelle città, Feltrinelli, Milano 1992.

Nella pagina affianco: fotomontaggio che ricrea una camera di sorveglianza, in cui lo spazio sorvegliato è ricomposto con vari punti di vista.

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viceversa. A riguardo è interessante l’idea che espone Koohlaas di questi spazi, i quali ritrovano la loro essenza solo quando “i frammenti si ricompongono nella stanza della security, dove una griglia di schermi riassembla in modo deludente le inquadrature individuali in un cubismo banalizzato, utilitario che rivela la coerenza complessiva del junkspace rispetto allo sguardo spassionato di guardie a malapena addestrate”24. Choay parla di spazi in cui la pratica corporea socialmente integrata non è più effettuabile. Sono luoghi in cui la presenza di civiltà implica contemporaneamente la mancanza di civiltà. Ogni tentativo di colonizzazione o di manipolazione viene scoraggiato dalla loro conformazione e dalla loro anonimia. I non luoghi si presentano come spazi meramente fisici dove, qualsiasi possibilità di insediamento viene annullata dall’assenza di stimoli. Si tratta di luoghi la cui frequentazione è praticamente inevitabile, ma in cui non esistono suggerimenti che invitano alla sosta. Il loro unico fine è la cancellazione e l’annullamento delle “soggettività idiosincratiche dei loro passeggeri”25. Il Junkspace, come sostiene Koohlaas, crea sì comunità ma non basandosi su interessi condivisi e sulla partecipazione degli individui, bensì su una trama opportunistica di interessi acquisiti. “È come un grembo che organizza la transizione di infinite quantità di reale nell’irreale”26. Forse come dice Sennet27 è possibile costruire quella che viene definita come “esperienza dei luoghi” la quale si configura come un’incerta operazione mentale, espressione di una scissione tra vita soggettiva e oggetti fisici in cui gli spazi sono organizzati per il consumo: “oggi si costruiscono luoghi anonimi e neutralizzati in cui si realizza la paura di esporsi contro la ricerca di una relazione tra luoghi ed eventi in termini narrativi. L’artefice di una città moderna e umana vorrà sovrapporre tante diversità invece di frammentarle. La sovrapposizione è un modo di creare confini complessi e aperti. È lo spostamento continuo e non la linearità che costituiscono la disposizione veramente umana. Forse si può ritrovare quello “spazio di contatto” che Choay identifica come la modalità che può legare gli abitanti al loro ambiente fisico, ricercando un senso nel rapporto che lega il modo di dar forma all’ambito spaziale con il destino della nostra specie.


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Fotomontaggio che unisce i temi del capitolo, dalla ricerca di La Pietra con i suoi dispositivi disequilibranti, alla campagna di Occupy London; sullo sfondo la torre di Babele richiama il dibattito situazionista e il rifiuto controculturale per la società capitalista che ha generato un panorama urbano alienante; in basso la scritta fa riferimento a un’evoluzione del concetto di “quinto stato”.

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2

città e situazione Una panoramica sullo scenario globale attuale conduce a un messaggio di repentina necessità di azione per sanare la città europea. Vengono qui presi in considerazione i problemi spaziali nello specifico, per capire quali sono le radici architettoniche delle questioni sociologiche delineate. L’analisi si sposta poi al panorama post-bellico europeo e sull’individuazione di alcuni esempi storici in cui diversi intellettuali si sono battuti per ripensare le bieche logiche urbanistiche della ricostruzione che stavano dando avvio all’ormai consolidato fenomeno urbano delle periferie. La banalizzazione e burocratizzazione dello spazio-tempo stavano portando all’alienazione di una società di massa intorpidita dall’idea spettacolarizzata di felicità borghese. Nel tentativo di combattere tale processo si sono elaborati modi innovativi di concepire e vivere lo spazio urbano, tra cui la deriva la quale si basa sull’esperienza cognitiva e mercuriale della situazione. Si è analizzata così l’utopistica New Babylon progettata da Constant, una città in cui l’uomo, reso libero grazie all’efficace sfruttamento della macchina, riesce a mettere in gioco tutto il suo potenziale creativo. La necessità di riappropriazione dello spazio comune da parte del cittadino, al fine di riaffermare il proprio ruolo in una città schiacciante e mercificante, è stata analizzata inoltre secondo il punto di vista di Ugo La Pietra con i suoi Gradi di libertà, e infine tramite l’esempio emblematico della protesta di Paternoster Square a Londra.

2.1

problematiche urbane

2.1.1

conurbazione e odio

1. narratore nella scena

“Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di 50 piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio per farsi coraggio si ripete: “Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene.” Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.”1

iniziale di “L’odio”, regia di Mathieu Kassovitz, 1995, Francia.

Il contesto globale non è oggi dei più rassicuranti, a partire dal dopoguerra fino agli anni 2000 le tendenze postmoderne non

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hanno smesso di compiersi all’interno della società del consumo, ma a seguito dell’ennesimo e definitivo crollo finanziario del 2008 la coscienza comune occidentale ha subito una forte scossa, segnando una battuta d’arresto epocale per la prosperità neo-capitalista. Questa ha alimentato per oltre mezzo secolo gli ideali riguardanti felicità borghese, portando al suo splendore la civiltà dello spettacolo. Per oltre mezzo secolo si è dunque spinto sull’acceleratore, venendo a compromessi con una rivoluzione culturale, evitando di striscio una guerra atomica, tralasciando le incongruenze sociali interne e globali e trascurando il possibile impatto che questo treno del progresso potesse avere sul contesto ambientale. Soffermandosi sui vari passaggi è possibile ravvisare una certa consapevolezza da parte degli elementi più acuti della società che le cose sarebbero prima o poi sfuggite di mano, ma se c’è una cosa che insegna il capitalismo è di non curarsi dei problemi che il comportamento attuale può generare in futuro; l’incorruttibile, e chissà se ipocrita, ottimismo del finanziere rassicura sul fatto che questo è il solo modello del progresso e che dunque non si debba fermare ciò che si compie con i mezzi stessi che parallelamente fanno insorgere il problema, poiché il progresso saprà condurci, preparati e con i giusti mezzi, al momento in cui suddetto problema sarà dirompente. Qui e ora dunque si dovrà giocare la partita più importante tra il sistema e i problemi da esso generati: l’atterraggio, se si vuole. Si dovrà infatti riconoscere che molte questioni si stanno oggigiorno presentando come drammatiche sfide che la società del benessere dovrà affrontare; a partire dai vacillamenti geopolitici degli anni ’90 ma sopratutto con la crisi del medioriente scaturita a seguito del fatidico 11 settembre 2001, per arrivare alla crisi finanziaria che ha interessato il mondo dal 2008, si è ormai giunti a una situazione di grande sconvolgimento che tocca argomenti geopolitici, economici, sociali e ambientali. Dal cambiamento climatico, alle guerre e conseguenti migrazioni, allo scontro tra le culture e al riemergere di sentimenti reazionari, tutto sembra indicare che la vacillante società neocapitalista occidentale che nasceva negli anni della ricostruzione e toccava i suoi apici espressivi negli anni ’80 e ’90, sia sul punto di collassare.

2. informazioni ricavate dalla conferenza in Triennale tenuta da Aravena a luglio 2016

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Fatto questo preambolo, osservando poi l’evoluzione del fenomeno dell’inurbamento e spostando dunque l’attenzione ai paesi emergenti, in cui il processo sopra citato che ha avuto modo di svilupparsi in occidente per più di cinquant’anni è qui rimasto incubato, per esplodere poi condensandosi negli ultimi 20 o 30 anni, si comprende che i problemi con cui il primo sta avendo a che fare ora avrebbero conseguenze esiziali se dovessero presentarsi infine anche per i secondi. Non ci si soffermerà, per non peccare di completezza per un argomento a tal punto vasto, sulle crisi abitative che attraversano il globo e in particolar modo i paesi in via di sviluppo; basterà considerare alcuni dati che riporta Alejandro Aravena2 (premio Pritzker 2016, nonché direttore della XV Biennale di Architettura, intitolata significativamente Reporting from the front) che rendono l’idea dell’entità della questione. Ogni settimana nel mondo circa un milione di persone si sposta dalle campagne alle


città, andando spesso a costituire propaggini informali, dette slums che, per le infime condizioni di vita che offrono, fanno dimenticare il problema della banalità della periferia parigina. La città viene scelta tuttora come luogo di opportunità e progresso sociale, la criticità sta nel fatto che non si hanno i mezzi per far accrescere coerentemente la struttura urbana affinché la rete di opportunità non si spezzi arrivata alle periferie. Lo stesso problema dunque, anche se su diversa scala e drammaticità, affrontato nelle città europee della ricostruzione postbellica.Tornando a focalizzarsi sul contesto cittadino europeo, si osserva che i processi di espansione più grandi si sono arrestati sul finire degli anni ’80. Se si prende in considerazione la città di Milano, si vede come a partire dagli anni ’90 sono stati al massimo condotti progetti puntuali di recupero di ex aree industriali. La forma della città europea si è dunque cristallizzata a cavallo del 2000, per arrestare ancora più considerevolmente la sua trasformazione a seguito della crisi. Ci si trova oggi di fronte a uno scenario in cui gli errori urbanistici irreversibili, come li epiteta Aravena, sono già stati commessi. “Oggi più che mai sembra preoccuparci l’ansiosa questione se la razza umana sia fatalmente autodistruttiva e quindi destinata a sparire dalla faccia della terra, o se con la nostra attività progettante possiamo tentare di assicurarci la sopravvivenza.”3

3. Richard J. Neutra, Progettare per sopravvivere. Le emozioni hanno una forma? (1954), Comunità Editrice, Roma 2015, p. 28. 4. Yuval Noah Hararida, why humans run the world, video TED. 5. Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere (1920), Bollati Boringhieri, Torino 1986

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Si può dunque oggi osservare quello che è un processo sociale già compiuto che comincia ad aver attraversato più di una generazione e ad aver espresso in diversi episodi significativi le sue problematiche (tra tutti le proteste nelle banlieues parigine del 2005). Il prodotto sociale del sobborgo dormitorio, di una città nata da logiche burocratiche che hanno condotto all’alienazione dell’individuo, mercificato in una società di massa, illuso dagli ideali di felicità borghese e costretto a vivere, per esigenze economiche in ghetti e quartieri indegni, tagliati fuori dalle opportunità di una città, ha condotto alla creazione di una vera e propria pentola a pressione carica di frustrazione e dunque di odio. Ha senso tuttavia occuparsi delle precarietà e delle condizioni di quella che in fondo è la parte di mondo attraversata relativamente dai problemi di entità minore? La risposta è sì. Se è vero che si comincia a percepire l’avvicinarsi di un tracollo della civiltà, la cosa più importante è cercare di accogliere gli eventi sopracitati predisposti a cercare di superarli a sangue freddo e quindi con l’ingegno, e uniti, dunque con cooperazione. Ovvero è necessario armarsi delle due caratteristiche che, secondo Yuval Noah Harari4, hanno permesso al genere umano di progredire sopra le altre specie fino a questo punto. È pertanto indispensabile agire affinché si risaldi la società attorno all’ideale Freudiano del principio di vita, per scongiurare il nostro possibile annichilamento che sarebbe conseguente all’abbandono a thanatos, il principio di morte5. Risolvere i problemi delle città è un’azione quanto mai fondamentale dunque, tramite ciò si deve cercare di livellare l’iniquità, ridistribuire le opportunità e appianare le divergenze sociali, per risollevare le sorti di quella che è la principale e più efficace struttura del vivere umano, per non permettere all’odio di tradirci.


2.1.2

mappatura degli spazi aperti per l’area Certosa a Milano. Elaborato prodotto per il laboratorio di Progettazione 2, docenti L. Consalez, L. Krazovec.

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spazio urbano di connessione

Per entrare nel merito dei criteri che influiscono sulla qualità dello spazio urbano si raffrontino le due mappe proposte, relative a due aree periferiche di città comparabili per dimensione e forma, rispettivamente Milano e Copenaghen. La prima cosa che è resa lampante è la totale disparità sulla quantità del colore verde. La massiccia presenza di aree contrassegnate in verde nel tessuto di Copenaghen, senza ancora nessun ragionamento già fa intuire un primo elemento di qualità rispetto all’area scelta per Milano. In verde sono segnati gli spazi aperti percorribili, pubblici o privati, in verde più scuro gli spazi aperti non fruibili, in grigio infine gli spazi privati, compresi in grigio


0

0

50

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mappatura degli spazi aperti per l’area Superkilen a Copenaghen. Elaborato prodotto per il laboratorio di Progettazione 2, docenti L. Consalez, L. Krazovec.

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250

250

500 m

500 m

più scuro, gli edifici. Si invita a riflettere ora sul fatto che la differenza fondamentale non sta tanto nella presenza assoluta di spazi aperti ma sulla loro qualità fruitiva. Ovvero, la cospicua presenza relativa di spazio permeabile è la caratteristica di maggior rilievo riguardante il tessuto di Copenaghen. Oltre ai numerosi cortili delle case a corte arredati e fruibili, si distingua la presenza dei cosiddetti woonerf, si tratta di “piazze lineari”, vie in cui la circolazione delle macchine è controllata, poiché il livello stradale è unico, spesso pavimentato in pietra, per cui le attività che vi si possono svolgere sono più incentrate sulla presenza pedonale. Vi si trova dunque arredo urbano di vario


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genere che permette di rendere più vivibile e a misura d’uomo lo spazio tra le abitazioni. Un ulteriore elemento di qualità consiste nella presenza di numerose vie ciclopedonali che aumentano il livello di connessione spaziale a bassa velocità. Si consideri infine l’immagine generale in cui ci si trova immersi percorrendo i rispettivi quartieri. La cura per lo spazio pubblico è difficilmente paragonabile, la qualità degli interventi e la loro massiccia ed efficace distribuzione fanno sì che la città di Copenaghen risulti molto più piacevole e vivibile. Al contrario, il sobborgo milanese è caratterizzato dall’incuria, dalla carenza di spazio pubblico e conseguente scarsa permeabilità e connessione. L’intuizione fondamentale che sta alla base del successo delle periferie danesi e che dovrebbe essere il principio guida di ogni ragionamento sul progetto urbanistico è che il compito principale della città sia quello di creare connessione e interazione tra gli individui che la abitano. Lo spazio che separa le singole unità abitative, differentemente organizzate, ha il dovere di assolvere a questa funzione sociale. La strada dunque, in senso lato comprendendo piazze, woonerf, ma anche luoghi pubblici di vario genere, è da sempre lo spazio dove la città ha la possibilità di funzionare come coagulo di relazioni umane. Si vende, si passeggia, si dialoga, si incontra, si abita a volte, si lavora, ci si svaga, si visita, ci si esprime, si manifesta, ci si sposta a varie velocità, verso varie mete: moltissime sono le azioni che si è spinti per caso o necessità a compiere nello spazio urbano di connessione. Le dodici tavole prodotte nelle prima metà del ‘700 da Giovanni Battista Nolli per la Nuova Topografia di Roma, sono molto efficaci per comprendere questo concetto: in esse lo spazio urbano di connessione viene messo in luce come fondo bianco comune in cui è incisa la pianta della città che compone e ritaglia gli spazi non attraversabili pubblicamente. In tal modo ciò che emerge è una fitta rete di spazi interconnessi che, oltre a strade e piazze, comprende i luoghi pubblici, come chiese, porticati, palazzi non privati. Si amplia e raffina così il concetto di spazio aperto, ovvero a cielo aperto, passando al concetto di spazio permeabile, non per forza scoperto dunque ma che consente il libero e pubblico passaggio, andando a costituire la sopracitata rete di connessioni.

Nella pagina precedente: La nuova topografia di Roma, di Gianbattista Nolli (1692-1756).

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2.1.3

6. Ildefons Cerdà, Teoria generale dell’urbanizzazione, in Urbanistica Informazioni, n. 125/126, 1992. 7. Le Corbusier, Maniera di pensare l’urbanistica, Economica Laterza, Bari 1997. 8. Mazza L., Garden Cities of Tomorrow. Una lettura tecnica, in Di Biagi P. (a cura di), I classici dell’urbanistica moderna, Donzelli editore, Roma 2002.

Nella pagina precedente: In alto una vista dell’espansione di Barcellona progettata da Ildefons Cerdà nel 1854. In mezzo il Plan Voisin progettato da Le Corbusier nel 1925 e una vista urbana relativa. Sotto una vista su un quartiere periferico di Londra.

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allontanamento dalla strada

Uno dei principali problemi della città postmoderna è appunto la sconnessione tra le persone e la strada, il cui progetto nasce storicamente in età moderna a partire da quanto teorizza Ildefonso Cerdà6 come soluzione al problema della congestione. Ci sirende conto che lo spaiamento con le generazioni che avevano costruito la città su cui stava cercando di innalzarsi la nuova civiltà industriale era diventato un problema costringente. Come sottolinea Le Corbusier: “La gigantesca inondazione della prima era industriale ha prodotto in queste città l’attuale congestione”7. Cerdà ci riporta inoltre che convertire in Urbs una campo aperto, significava per gli antichi romani segnare con un aratro (urbum) dei solchi sul terreno che dessero un ordine di partenza per costruire la città, per urbanizzare dunque. (nota) Se si osserva il piano di espansione per la città di Barcellona redatto dallo stesso Cerdà, si comprende pertanto come per conciliare l’aumento della velocità della vita con la crescita urbana, sia risultato razionale ricorrere a una struttura urbana a griglia che lasciasse spazio e libertà di circolazione ai nuovi mezzi di locomozione. Comparando quest’ultimo al Plan Voisin, presentato da Le Corbusier nel 1925, si intuisce come l’attenzione per il disegno dello spazio urbano di connessione sia andata completamente persa. Forse come risposta all’esigenza evidenziata dalla proliferazione delle città giardino, teorizzate da Oward8, di riallacciarsi con la dimensione naturale, da sempre invece contrapposta allo scenario urbano, nasce quindi l’idea che condensando la funzione abitativa in torri residenziali, l’operazione più sensata per compensare lo straniante impatto spaziale di questi mostri di cemento armato, fosse immergerli nel verde. La strada dunque diventa un elemento a sé stante utile per la connessione ad alta velocità delle funzioni, ormai ostile alla possibilità di essere abitata.


2.1.4

9. Ludovico Quaroni, La torre di Babele, Marsilio, Padova 1967, p. 53.

tradimento del modello

“l’architetto era rimasto dunque con la con la carta bianca, e aveva assistito inerte alla rapida degenerazione del Movimento [razionalismo] stesso verso l’accademia funzionalista, per la quale le forme dell’oggetto architettonico avrebbe dovuto nascere spontaneamente da un’accurata e metodica analisi delle funzioni alle quali era stato destinato.”9 Nella migliore delle ipotesi dunque la nuova città razionalista che prende nel dopoguerra come modello l’unità di abitazione, dovrebbe presentarsi come una piacevole selva boscosa nella quale di tanto in tanto emerge, oltre a qualche soprelevata, senza interrompere la permeabilità del livello zero, una torre di abitazioni potenzialmente dotate dei migliori confort, non prive di abbondante illuminazione e approvvigionamento d’aria. I servizi vengono autarchicamente messi a disposizione dalla macchina per abitare, creando un surrogato di strada in quota dove si raccolgono delle funzioni commerciali. Senza farsi infine mancare lo spazio pubblico, viene realizzato l’equivalente di una piazza in quota sulla sommità della stecca, con arredo e servizi per lo spazio aperto.

nell’immagine sotto una sezione schizzata che rappresenta l’unité d’habitation di Le Corbusier, 1952.

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Soprassedendo ai già citati problemi della perdita del rapporto con la strada, parrebbe un modello dotato di una certa qualità abitativa. I problemi insorgono allorché uno schema di questo tipo viene ripetuto all’infinito, svincolandosi di volta in volta a diversi dei suoi aspetti forse meno evidenti, ma non per questo meno importanti, e facendo in tal modo perdere validità al modello, arrivando a ottenere risultati degenerati. I primi capisaldi che si tralascia di riprodurre nelle copie sono il tetto giardino, del quale si mantiene come mero formalismo il tabù per la copertura a falde, la strada interna con i servizi e il piano terra permeabile. A questo punto il sistema ha già perso grossa parte della sua dignità insediativa, le stecche diventano scatoloni di abitazioni distribuite internamente nella maniera più economica possibile, ogni possibilità di interrelazione interna che non sia l’incontro sporadico col vicino di pianerottolo, viene negata. La questione si fa così drammatica, è ormai stato sdoganato un modello che permette di trasformare ettari di terreno coltivato in un formicaio di calcestruzzo, procedendo da un’urbanizzazione sommaria e presuntivamente razionale che come si è visto non considera più la strada come spazio abitabile, arrivando infine alla collocazione standardizzata, rispetto a un criterio chiamato asse eliotermico nel migliore dei casi, altrimenti nel modo che occupando meno spazio possibile rientri nelle norme frettolosamente composte, di scatole per abitare. Di fronte a un processo così rapido e massiccio, l’architetto rimane spiazzato, egli non ha voluto prendere in mano la situazione, ristabilendo il valore della matita, non volendo addossarsi la responsabilità del disegno. Purtroppo ci si è spesso fermati a una interpretazione superficiale di cosa significhi razionalismo, credendo che la forma derivasse da sé dalla sintesi delle funzioni e dei criteri che venivano standardizzati, si è rinunciato, forse per paura di mettere in discussione delle logiche dalla semplicità spiazzante, al buon senso che la matita sa porre in essere attraverso le riflessioni umane che passano dagli occhi alla carta nel processo di disegno dell’architettura. L’inchino nei confronti della fredda e troppo spesso disumana superiorità del calcolo e dunque della macchina ha permesso di soverchiare i valori umani del progetto, arrivando a sviluppare un vero e proprio vernacolo dell’abitazione seriale, generato non più sulla coscienza comune maturata nei secoli, ma da poche e disattente leggi razionaliste.

10. Tom Wolfe, Maledetti architetti. Dal Bauhaus a casa nostra, Bompiani, Milano 2013.

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Un’ultima precisazione va fatta tuttavia per chiarire dove sta la responsabilità di un fenomeno che ha compromesso la vita di grandissime fette di popolazione europea e non solo. In Maledetti architetti10 il Newyorkese Tom Wolfe non ha dubbi riguardo a chi siano i colpevoli della degenerazione dell’architettura, additando in blocco il movimento moderno, a partire dagli “dei bianchi”, come soprannomina gli esponenti del Bauhaus, tra cui Gropius e Mies Van Der Rohe o anche Le Corbusier, per arrivare alle “vittime del complesso di colonia” come, Philip Johnson ed infine Robert Venturi, come responsabili di aver introdotto un modello architettonico idiosincratico, nato dal loro capriccio borghese e incompatibile con i gusti e le necessità delle


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persone comuni. Secondo Wolfe l’architettura raccoltasi sotto la bandiera dell’International Style è frutto di un’ipocrisia intellettualista: sotto la falsa intenzione rivoluzionaria, relativa ai più nobili intenti socialisti di dare dignità abitativa alle masse, si nasconderebbe un cinico individualismo artistico borghese. Aggiunge inoltre che la serie di soluzioni estetiche imperniate sull’idea della macchina e dell’essenzialità che conducono a un certo rigore minimalista ascetico nel design e nell’architettura, non sono che il frutto di una moda che definisce appunto ‘operaia’ e che non rappresentano e sintetizzano affatto il concetto di modernità, a proposito della quale egli comunque non vuole esprimersi. Il tono canzonatorio e ironico di tale saggio non può infatti ingannare eccessivamente il lettore preparato; pur non considerando in questo studio le conseguenze del movimento moderno una volta approdato negli Stati Uniti, non si deve cadere nella tentazione di valutare con giudizi populisti l’operato storico di architetti che hanno lavorato per inventare un’architettura e un modo di abitare che fosse al passo con i tempi e che rispettasse ideali socialisti e democratici. Si invita pertanto a osservare, come si è cominciato a intuire, che i modelli sono stati il più delle volte travisati e che la situazione sia presto sfuggita di mano, indipendentemente dalla volontà e previsioni dei precursori. Sostanzialmente poi, sarebbe inimmaginabile la nostra società, senza le possibilità abitative e costruttive conseguenti a tale lavoro pionieristico. Se dunque la scoperta della fissione nucleare ha portato grandi opportunità di progresso energetico, non si additi Albert Einstein di aver causato le barbarie che altri hanno perpetrato avvalendosi di un’interpretazione degenerata della scoperta iniziale. Non si dimentichi pertanto che anche la peggiore abitazione di periferia è comunque un tentativo di accedere a un benessere che è quello relativo alla vita di città, la quale richiede una certa densità e alcune caratteristiche morfologiche che permettano la equa spartizione dei servizi e delle infrastrutture. Infine anche l’alloggio più modesto dispone oggi di confort impensabili per la vita rurale pre-urbanesimo. Mettendo a confronto questi due esempi di edilizia popolare si coglie la forte disparità a livello di qualità insediativa che genera l’intervento. Se nel primo caso Bruno Taut, un precursore e maestro del movimento moderno, lavora sul disegno il quale è utilizzato in maniera consapevole per originare un piacevole spazio verde comune seguendo la logica del recinto; nel secondo il disegno non è proprio presente: l’organizzazione è generata quasi automaticamente da un calcolo razionale. Nella pagina affianco: In alto: il progetto Hufeisensiedlung (19251933), Vienna, architetto Bruno Taut. in basso: foto delle banlieues parigine

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2.1.5

11. Mumford Lewis, La cultura della città, Einaudi, Milano 2007.

iniquità e frustrazione

“la città è prima di ogni altra cosa un luogo di comunicazione, è il punto di massima concentrazione dell’energia e della cultura di una comunità. In essa i raggi irradianti da parecchie sorgenti di vita sono messi a fuoco guadagnando in significato e in efficacia sociale.”11 Quali sono dunque le conseguenze sociali di scelte urbanistiche poco attente che non riescono a inquadrare i bisogni che ha una comunità di persone? In merito è significativo prendere come esempio i trascorsi delle rivolte che hanno preso luogo nelle periferie francesi nel 2005, i cosiddetti moti delle banlieues. In numerose città della Francia, diverse comunità di varie etnie hanno agitato una sommossa che per oltre tre settimane ha causato disordini, violenze e scontri. Nell’insieme, tale fatto costituisce la rivolta più importante in Francia dal maggio del 1968. Il movimento nasce per protestare contro le ingiustizie sociali e il razzismo di cui le varie comunità si sono negli anni sentite opprimere.12 Provando a individuare i fattori che fanno scaturire tali atteggiamenti, si viene incontro a una grossa contraddizione che riguarda il senso stesso della città. Se l’inurbamento è conseguente alla speranza, da parte di chi emigra dalla campagna o addirittura da un altro stato verso la città, di trovare maggiori opportunità e una condizione di vita più agevole, cosa determina il fallimento di questo processo? Se esso è gestito a monte in maniera sconveniente e lasciato in mano alle compagnie e ai proprietari terrieri, si assiste al fallimento della città. Nel momento in cui, curando i propri interessi, l’impresa cerca di far fruttare il più possibile il suolo su cui sta edificando, spesso nasce l’incolmabile divario tra l’entità delle opere realizzate, con la conseguente presenza sociale, e i servizi e le infrastrutture necessarie. In questo modo viene spezzata la rete di opportunità che è il motivo stesso per cui la città si era popolata. La congestione della domanda unita alla scarsità o irraggiungibilità dell’offerta portano al malcontento sociale delle enclaves periferiche. Questa formula è applicabile a diversi aspetti della vita urbana: dai servizi, ai trasporti, al lavoro. Conseguentemente alla sconnessione di queste propaggini periferiche è significativo soffermarsi su due differenti fenomeni a cui si può assistere.

12. wikipedia su moti banlieus.

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Se una zona risulta scollegata ma ha delle potenzialità spaziali, può verificarsi il processo di gentrificazione. Si ha questo tipo di situazioni quando il basso affitto delle case in zone problematiche e con una scarsa presenza di servizi e trasporti spinge molti differenti elementi sociali a coagulare, cominciando a inventare una nuova e indipendente identità, organizzando autonomamente una rete di servizi. È il caso ad esempio del Meatpacking District di New York su cui oggi sorge il parco dell’High Line. In questo caso, la grande


potenzialità spaziale consiste nell’infrastruttura riconvertita che è riuscita da sola a rivoluzionare la vita del quartiere. Molto più misera è la sorte ad esempio dei quartieri operai di Istanbul, veri e propri dormitori dai quali gli operai vengono prelevati, quotidianamente a orari inumani, da appositi pullman che li conducono nei distantissimi cantieri o nelle fabbriche, dalle quali nuovamente alla sera riemigrano verso la propria famiglia.13

Sopra: fotogramma preso dal documentario Ekumenopolis, vedi nota 13.

13. film-documentario Ekumenopolis, diretto da Imre Azem, Turchia 2012.

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Osservando il contesto delle periferie europee risulta evidente dunque che le condizioni spaziali, molto lontane dall’idea pura di città, contribuiscano a creare un problema sociale ingente. La frustrazione e il disagio di chi abitandovi si trova negata ogni opportunità, dovendo confrontare inoltre la propria vita con l’ideale benessere borghese che si coltiva pochi chilometri più verso il centro, sfocia nel malcontento e nell’odio. A questi segnali di emergenza più che l’amministrazione spesso risponde il braccio della criminalità che cresce grazie all’odio e che può rappresentare l’unica via per sopravvivere se il contesto non offre nessun’altra prospettiva. Agire in queste situazioni è oggi pertanto di primaria importanza. Anche se si potrebbe obiettare che risanando questi luoghi si rischia solo di spostare altrove il problema, va invece riconosciuto che riconnetterli alla rete di collaborazione e interazione urbana, permette di far emergere nuove potenzialità, il che si traduce in nuove attività, dunque occupazione e infine benessere. È importante più che mai puntare all’integrazione e alla cooperazione, se ci si vuole sbarazzare della negativa pressione sociale dovuta da iniquità, incomprensione e dunque incomunicabilità e contrasto, affinché, citando Mumford, la città riacquisisca il suo significato di luogo di comunicazione, dove gli sforzi di diverse persone si concentrano per guadagnare significato.


2.2

abitare la città

2.2.1

burocratizzazione dello spazio

“la società burocratica tende a prendere possesso dello spazio in modo esclusivo e l’urbanizzazione si pone come mezzo per questa appropriazione.’’14 La ricerca sullo spazio urbano, condotta a partire dagli anni ’60 da Ugo La Pietra, parte dalla fondamentale quanto sconfortante intuizione che la società di massa sta riuscendo a disperdere la propria coscienza umana attraverso l’annichilamento dell’individuo. Per arrivare a dimostrare questa posizione, concentrandosi sulla spazialità, si procede con l’osservazione diretta dell’habitat umano per eccellenza, ovvero la città. Essa nasce per la necessità di condivisione propria dell’apparato comportamentale umano, e tanto meglio funziona come sistema insediativo quanto più favorisce le relazioni tra individui. Va però riconosciuta una seconda necessità parallela, relativa all’appropriazione di spazi privati che, con uno sguardo multiscalare, va dal letto (cellula spaziale fondamentale della propria individualità), all’abitazione (cellula familiare), agli spazi infine che ci si ritaglia per isolarsi dalla rete di relazioni.

14. Ugo La Pietra, Abitare la città, Umberto Allemandi, Torino 2011, p. 125. 15. ibidem.

40

Cercando dunque “la forma che nasce dalle nostre esperienze, non dagli schemi imposti”15, La Pietra prova a osservare tale habitat attraverso gli occhi e i sensi del suo diretto fruitore, l’uomo. Questo sforzo, che può apparire scontato, è reso necessario dalla presenza di molti livelli descrittivo-organizzativi della città che appunto non sono incentrati sulla presenza fisica e comportamentale della persona, con tutte le sue implicazioni, nello spazio. Ad esempio, un provvedimento nato sulla carta può decretare che vengano installati dei paletti con catene lungo i bordi di una strada affinché non vi si possa parcheggiare. Questo atto pratico di organizzazione dello spazio urbano può essere descritto da una mappa su cui si legge la possibilità o meno di parcheggiare le vetture. Ma come questo intervento influisce sull’abitabilità, fruibilità e immagine dei singoli luoghi in cui è attuato non fa parte di nessuna lettura di tipo burocratico. Seguendo una visione burocratica della città, che non considera o non vuole considerare l’esperire umano, si arriva dunque a una spersonificazione dell’ambiente urbano e dei mezzi per regolarlo. Tornando all’affermazione iniziale, si comincia a intuire con che mezzi si stia attuando questo processo che porterebbe alla coartazione e limitazione dell’agibilità e della libertà. Come duramente afferma La Pietra “lo scopo fondamentale dell’urbanistica sembra proprio quello di isolare gli individui nella cellula abitativa familiare, di ridurre la loro possibilità di scelta all’interno di un ridotto numero di comportamenti “preordinati”, di integrarli in pseudo collettività, che [...] consentano il


loro controllo e la loro manipolazione”16.

16. Ugo La Pietra, Abitare la città, Umberto Allemandi, Torino 2011.

A destra: fotomontaggio realizzato da Ugo La Pietra, in cui su uno spazio urbano “burocratizzato” viene steso uno striscione con lo slogan fondamentale della ricerca di La Pietra.

41

Una città che nasce secondo criteri burocratizzati, tende a schiacciare l’individuo, alienandolo dalla propria possibilità di essere un elemento attivo nella rete di relazioni urbane. Ciò è causato da interventi di vario genere e in diverse misure sull’ambiente cittadino: a partire dalla speculazione sul costruito propria delle grandi espansioni del dopo guerra che dà origine ad ambienti abitativi negletti, interpretazioni bieche del concetto di “macchina per abitare”. Tramite poi il controllo e la schematizzazione dello spazio pubblico, reso poco confortevole e non a misura d’uomo con impedimenti e limitazioni e poca cura nel disegno e nell’arredo, si arriva a ostacolare e impedire la possibilità per le persone di usare tali luoghi comunitari per creare relazione e connessione interpersonale, ovvero si nega il principio per il quale la città ha efficacia. A che livello questo processo sia perpetrato consciamente da parte delle amministrazioni non si vuole arrivare a stabilirlo, ma si può riassumere ciò che risulta chiaro agli intellettuali, ovvero che l’individuo, alla fine di un secolo in cui ha assistito alla propria alienazione nei confronti della schiacciante crescita della società di massa, dei progressi del pensiero e della scienza, non ha più la capacità e la volontà di conquistarsi una posizione nell’infinita scacchiera urbana. Ciò lo rende vulnerabile e manipolabile e favorisce i poteri forti a condurlo come una pedina secondo interessi che non lo riguardano. E questa silenziosa campagna si combatte secondo gli architetti più accorti anche attraverso la gestione dello spazio abitato.


2.2.2

gradi di libertà

“Rivolgendo l’attenzione in particolare modo ad un’attività creativa in relazione alla fisicità che ci circonda, l’individuazione di alcune tracce formalizzate all’interno della città regolata ci fornisce elementi concreti di conoscenza di un atteggiamento, o meglio di un’aspirazione che è manifesta nell’uomo urbanizzato: il quale tende a riaffermare la necessità dell’uso dello spazio. In poche parole tende a manifestare il desiderio di riconquistare il ruolo individuale e collettivo nei processi di definizione e trasformazione della realtà che quotidianamente lo circonda. Queste tracce rappresentano gli unici “poveri” risultati di un’analisi per la scoperta dei gradi di libertà che ancora esistono all’interno del sistema urbano; sono tentativi disperati e disorganici di una società che ormai non riesce più a trovare una ragione di ciò che fa, perché lo fa e dove lo fa. L’analisi delle tracce formalizzate recuperabili all’interno dello spazio urbano ci fa scoprire quindi come l’alterazione (la trasformazione) anche minima dello stesso possa rivelarci un desiderio represso di invenzione e un atteggiamento creativo che ancora persiste nel comportamento dell’individuo.”17 Esplorando il contesto urbano periferico nella città di Milano, gemmato in maniera fagocitante e con una struttura che lascia poco spazio al concetto di città come rete di relazioni, La Pietra cerca di individuare dei segnali di sopravvivenza dello spirito creativo degli abitanti. Lo scopo è quello di delineare ed evidenziare i modi di riappropriarsi del contesto abitativo con operazioni comportamentali e mentali, finalizzate più o meno consciamente a ristabilire una rete di umanità all’interno di un habitat schiacciante per l’individuo. Si tenta dunque di dimostrare che laddove il sistema urbano è meno efficiente, aumenta l’aspirazione nell’individuo ad agire in maniera creativa su di questo, evadendo dalla schematicità e procurandosi dei “gradi di libertà”. Lo studio è stato affrontato stabilendo dei parametri di lettura per l’individuazione e catalogazione dei gradi di libertà: - la manipolazione; - gli itinerari preferenziali; - il recupero; - la reinvenzione; - il desiderio di possesso;

17. Ugo La Pietra, Abitare la città, Umberto Allemandi, Torino 2011, p. 116.

42

Gli itinerari preferenziali sono delle tracce create sull’erba dalla deviazione dei pedoni rispetto ai percorsi convenzionali, stabiliti da progetti urbanistici che non sono stati in grado, avvalendosi di un disegno semplicistico e schematico, di considerare l’effettivo modo in cui le persone si spostano nel contesto. Queste evasioni comportamentali sono un pretesto per sottolineare la necessità di riappropriarsi di uno spazio progettato in maniera insensibile rispetto alle necessità umane. La manipolazione, la reinvenzione e il recupero riguardano poi le iniziative pratiche di colonizzazione dei vuoti urbani periferici: spazi incolti, in attesa che il processo


Foto in basso: Ugo La Pietra, Recupero e Reinvenzione. Fotomontaggio con casetta autocostruita nelle periferie.

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speculativo di urbanizzazione si porti a compimento, di cui le persone si impossessano edificando piccole baracche per trascorrere il tempo libero e ad esempio riporre gli attrezzi per la coltivazione in orti improvvisati. Questi interventi sono realizzati in maniera informale, con mezzi di fortuna e materiale di recupero, e sono la concretizzazione del bisogno di valicare i limiti imposti da un’urbanistica burocratizzata, espandendo la propria libertà spaziale nei pochi lotti che negli anni ’70 ancora non erano stati cementificati.


Inoltre ciò fa intuire l’importanza dell’arredo nello spazio urbano di connessione; abitare la città ed essere ovunque a casa propria significa avere la possibilità di utilizzare agevolmente i luoghi pubblici, per cui è indispensabile la presenza di oggetti che offrano opportunità di azione e mettano il cittadino a proprio agio. Attraverso l’espediente dell’arredamento si possono riabilitare gli spazi vuoti e privi di significato e particolare interesse rendendoli abitabili. La città dovrebbe incentivare la fruizione dei propri luoghi pubblici per favorire la creazione di una rete sociale composta da individui che, deviando dal percorso casa-lavoro, abbiano un ruolo partecipativo e la dignità di essere un elemento attivo all’interno della società. Da queste riflessioni nasce una serie di provocazioni di riconversione progettuale che prendono ironicamente il nome di “Attrezzature urbane per la collettività”. Degli oggetti che popolano il contesto urbano, come paletti, catene, semafori o transenne vengono ripensati - in un’ottica di “contaminazione tra due categorie comportamentistico spaziali: lo spazio privato e lo spazio pubblico”18 - per generare un’ipotetica e fantomatica rivoluzione della città.

18. Ugo La Pietra, Abitare la città, Umberto Allemandi, Torino 2011,

abitare va al di là dello spazio pri spazio pubblico. Per esprimere in modo evidente modello di comportamento ho r Settanta un percorso progettuale attrezzature che incontravo nella stradale e i così detti - sic! - arred strada - barriere, dissuasori, … ec oggetti di arredo domestico (Fig. Così, ad esempio, ho rilevato i d estremamente diffusi a Milano e eleganti oggetti d’arredo domesti cassettiera) e ancora ho rilevato l servono per sostenere la segnaleti trasformate in oggetti luminosi e con il neon e il metacrilato dipin collocarli in una stazione della m per esprimere come il progetto d fosse assolutamente anonimo e a concetto dell’abitabilità! Così, mediante un’azione provoc ho incontrato nello spazio urban fotografati e trasformati in ogget ho chiamato ironicamente ‘attrez per alludere al fatto che, al contr per l’arredo domestico, l’arredo u violenza e separatezza. Invece anche l’arredo urbano, affi processo di abitabilità urbana, do caratteristiche dell’arredo domest espandendo i caratteri dei cittadi Per esempio l’arredo urbano di u ‘la capitale del design internazion ‘disegnato’ ed assolvere, come il n non solo alle funzioni primarie m esprimere e comunicare caratteri significanti’! Mentre invece la cosa più deprim da diversi decenni assistono alle m Mobile che invadono tutti gli an è assistere a questa grande kerme creatività, installazioni, allestime che coinvolge tutta la città e che

A destra: installazione

23 ottoBRE IV sEssIoNE_oRIzzoNtI IMMAgINIFIcI

ugo LA PIEtRA. ABItARE LA cIttà.

p. 162.

“Paletti e catene”, Ugo La Pietra, 1979. Pagina affianco:

Attrezzature urbane per la 1979.

44

NOTES LA CITTà SENZA NOME. SEGNI E SEGNALI NEL PAESAGGIO CONTEMPORANEO.

collettività, Ugo La Pietra,

12_ Attrezzature urbane per la collettività, 1979.


45


2.3

new babylon

2007, p. 12.

“Una nuova Babilonia non più ostacolata dall’invidia di Dio si concretizzerà nell’appropriazione della propria storia da parte dell’umanità intera e farà da cornice a una condizione di libertà totale. La nuova Babilonia situazionista sarà la realizzazione dell’utopia millenaria del paradiso in terra, la comunità umana del Libero Spirito, la civiltà socialista descritta da Oscar Wilde e William Morris, il regno dell’uomo totale marxiano, ma anche della poesia fatta da tutti di Lautrémont e del libero gioco delle passioni umane di Fourier.’’19

2.3.1

avere o essere

19. Leonardo Lippolis, La nuova Babilonia. Il progetto architettonico di una civiltà situazionista, Costa & Nolan, Milano

Il contesto in cui si trova a operare La Pietra gli permette di sviluppare la propria critica in maniera molto originale e indipendente, non va però tralasciata l’enorme campagna combattuta a Parigi dell’Internazionale Situazionista (IS) sul tema della riaffermazione dell’individuo, contro la banalizzazione dello spazio-tempo sociale propria della nascente società di massa. La battaglia architettonica è scaturita a partire dal 1952, anno in cui l’unità d’abitazione di Marsiglia viene completata. Il dibattito si accende su questo intervento, che concretizza le teorie degli anni ’20 sul macchinismo dello spazio abitativo, posizione che aveva dato origine al modernismo funzionalista, passato alla storia a partire dal ’34 con il nome di International Style. Nonostante i ripensamenti, in seguito al deragliamento causato dalla Seconda Guerra Mondiale, in campo artistico e sociale riguardo al culto della macchina, in architettura la macchina per abitare sembra invece diventare il modello della rinascita. Grazie a questo tuttavia pare in quegli anni che il mito della casa per tutti e della tecnicizzazione della vita, per liberare l’uomo dagli impacci domestici, prendono largo piede e concretezza e se da una parte va riconosciuta in qualche misura la vittoria di questi ideali propugnati dal socialismo, dall’altra cominciano a emergere i limiti e le insidie di una conquista sociale di tale portata. Tra l’amore e lo svuotarifiuti automatico si è scelto quest’ultimo, dichiara infaustamente Chtcheglov nel Formulario per un nuovo urbanismo.20

20. Leonardo Lippolis, op. cit. 21. Erich Fromm, Avere o essere?, Mondadori, Milano 1996.

46

Comincia infatti a palesarsi la dicotomia tra attitudine dell’avere e dell’essere, teorizzata nel celebre saggio di Erich Fromm Avere o Essere (1976)21. Secondo lo psicanalista tedesco, la società cosiddetta dello spettacolo, nata sul modello statunitense e importata in Europa nel secondo dopoguerra, sta plasmando gli individui ad essere sempre più egoisti e avidi, attaccati agli ideali di successo personale, raggiungibile attraverso il possesso; l’avere appunto che


prevarica sulla vita esistenzialista, incentrata sulle modalità dell’essere, le quali riguardano invece l’accrescimento personale in termini culturali e di rapporto sociale. Per cui si può definire l’atteggiamento della società neo-capitalista come onnivoro, bieco, materialista e basato sul possesso aggressivo di beni e persone; contrariamente il paradigma situazionista si basa sulle facoltà umane più disinteressate e costruttive, sulle idee e la condivisione, mirando a una società equa e liberale.

2.3.2

architettura o rivoluzione

“l’urbanistica ha quattro funzioni principali: prima, assicurare alloggi salubri, cioè ambienti in cui siano ampiamente assicurati lo spazio, l’aria pura e il sole, che costituiscano le condizioni essenziali della vita; seconda, organizzare i luoghi del lavoro in modo che questo, invece di essere una schiavitù penosa, riprenda il suo carattere di normale attività umana; terza, prevedere le installazioni necessarie alla buona utilizzazione delle ore libere, per renderle benefiche e feconde; quarta, stabilire il collegamento tra queste diverse organizzazioni con una rete di traffico che garantisca gli scambi pur rispettando le prerogative di ciascuna.”22

22. Le Corbusier, Carta di Atene, 1960, punto 77 23. Leonardo Lippolis, op. cit.

47

Il problema si fa acuto nel momento in cui ci si rende conto che l’organizzazione funzionale delle metropoli moderne è una delle principali cause materiali della separazione degli individui e dell’alienazione sociale. Una società basata sugli ideali socialisti e marxiani più puri, revisionati e propugnati dai situazionisti, sembra diventare sempre più un’utopia a fronte della vittoria del funzionalismo nell’organizzazione urbana. Il galoppante fenomeno dell’inurbamento, la ricostruzione e la rinascita dell’economia europea fanno sì che vengano edificati quartieri- dormitorio sempre più grandi e su scala crescente. Presto ci si rende conto che le nuove periferie, le cosiddette banlieues, forse più che una risposta illuminata e positiva alle spingenti esigenze abitative, diventano una trappola per incubare una popolazione urbana proletaria, abbindolata dagli ideali della felicità borghese, alienata e priva di volontà. Ricorda Lippolis: “per Le Corbusier, essendo le passioni dell’uomo fonte di disordine e malattia morale, l’unità di abitazione doveva essere lo strumento con cui impoverirle fino all’estinzione’’23. nota Il modello Corbusieriano getta le basi per l’appiattimento sociale delle periferie, la standardizzazione conduce a un ordine che con una mossa politica eleva il banale a bellezza.


La carta di Atene diventa il manuale per urbanisti ed edificatori, la austera ortogonalità, dopo essere stata il mezzo principe di controllo poliziesco sui moti popolari nella Parigi Haussmanniana, ritorna ad avere potere coercitivo e l’architettura razionale viene usata come strumento repressivo: “Architettura o rivoluzione. Si può evitare la rivoluzione’’, a partire da questo celebre motto si concretizza contestualmente lo spazio urbano rivolto alla nascente società dello spettacolo.

In alto: poliziotti in antisommossa per arginare le proteste nelle banlieus parigine del 2005 In basso: foto al prospetto dell’Unité d’habitation, Le Corbusier, Marsiglia, 1952.

48


2.3.3

spettacolo e situazione

op. cit.

Verso la fine degli anni ’50 “i situazionisti cercano tutte le possibilità per costruire delle città dove sperimentare e propagandare un uso diverso dello spazio-tempo sociale, un nuovo stile di vita ispirato al libero gioco delle passioni di Fourier’’24. In aperto contrasto alla nascente società consumistica dell’homo oeconomicus neocapitalista e il suo ideale di felicità basato sullo spettacolo, che porta a un atteggiamento passivo nei confronti delle esperienze, il tentativo è quello di promuovere nella gente un attivante comportamento ludico-costruttivo e sperimentale. Dunque “La conquista della vita quotidiana [...] è il campo sul quale si gioca la battaglia decisiva dell’epoca contemporanea: se lo spettacolo è l’estensione capillare del dominio reale delle forme economiche e alienate sullo spazio-tempo del quotidiano, la situazione è la sua riconquista e autogestione antiutilitaria da parte della creatività collettiva’’25. Per i situazionisti l’uomo deve tornare padrone del proprio tempo, all’interno di spazi urbani che si offrano come base sulla quale esprimere e riaffermare la propria dignità come singolo e come comunità. “Una nuova libertà sta per nascere, che permetterà all’uomo di esprimersi come il suo istinto esige’’26. Se l’architettura razionalista sta fagocitando l’essenza dell’uomo, si dovrà adottare quest’ultima come punto di partenza per cambiare direzione, sostiene Sottsass.27

2.3.4

deriva situazionista

24. Leonardo Lippolis, op. cit. 25. ibidem. 26. Constant, Manifest, “Reflex”, 1, 1948, in Berréby, 1985, pp. 32-33, in Leonardo Lippolis, op. cit. 27. Leonardo Lippolis,

“La deriva, la psicogeografia e il détournement contrappongono un progetto di città antiutilitaria, basata sulla passione del gioco, che spinga gli individui a muoversi seguendo il proprio piacere a osservare l’influenza che l’ambiente urbano esercita sulle proprie emozioni con la possibilità di modificare l’ambiente stesso.’’28

28. Leonardo Lippolis, op. cit.

49

Inizialmente, a partire dal 1952, un movimento si sviluppa a Parigi, l’Internazionale Lettrista (IL). I Lettristi arrivano sperimentalmente a delineare quella che per loro sarebbe la forma assoluta di vivere la città, un comportamento ludico-costruttivo detto deriva situazionista. Nelle giornate da bohémienne, dedicate all’abbandono psicofisico e al culto esplorativo del dionisiaco Nietzschiano, questi giovani intellettuali amano vagare senza meta perdendosi negli intrichi dei mediavaleggianti quartieri latini parigini. Da qui il termine deriva: si tratta di giri interminabili, dove i concetti canonici di spazio e tempo sono messi a soqquadro; con l’aiuto di un’ampliamento della coscienza permesso dagli oppiacei, le esperienze, gli incontri, gli


In basso: Guide psychogéographique de Paris. Discours sur le passions de l’amour, G. E. Debord, 1957

29. Leonardo Lippolis, op. cit.

50

ostacoli e le scoperte che si avvicendano costituiscono una ricca serie di elementi che creano una mappa mentale unica e precaria. La sensazione di détournement, teorizzata dal lettrista Debord, ovvero lo spaesamento indotto dallo stravolgimento delle abituali associazioni mentali, è l’eccitante stato mentale che accompagna gli argonauti nelle loro deriva. Da qui nasce la sensazione che siano presenti veri e propri continenti all’interno dei quartieri metropolitani, come nel caso del continente ironicamente nominato Contrescarpe, per lo studio dei quali viene congegnata una pratica detta psicogeografia. Da queste esplorazioni deriva una consapevolezza relativa allo spazio urbano completamente rivoluzionaria. Secondo i Lettristi si dovrebbe aspirare a una società in cui ognuno abbia la possibilità di vivere con pienezza la propria vita creativa, in cui tutti possano sentirsi artisti e protagonisti pertanto le città che saranno costruite dovranno essere foriere di questi principi. Scrive Chtcheglov, uno dei principali esponenti e teorizzatori della deriva situazionista, che la poesia si legge sui volti e nella forma della città, che dunque devono essere riformati, che infine la nuova bellezza sarà di situazione, cioè provvisoria e vissuta. In risposta all’urbanismo neo-capitalista bisogna trovare nuove forme per la città e per la civiltà, che concretizzino gli ideali marxiani, abbracciati dagli intellettuali dell’IL. “L’architettura di domani sarà dunque un mezzo per modificare le concezioni attuali del tempo e dello spazio. Sarà un mezzo di conoscenza e un mezzo di azione”29 sostiene Chtcheglov, arrivando ad affermare che un giorno si costruiranno le città per poterci praticare la deriva.


2.3.5

Constant e la Nuova Babilonia

“Una nuova idea di felicità - ispirata alla teoria delle passioni di Fourier - non andava rimandata a un utopico e futuro paradiso comunista, ma sperimentata e coltivata da subito come strumento e oggetto del processo rivoluzionario. Contro l’oppressione del calcolo economico, dell’utilitarismo e del minimo vitale che il capitalismo instillava in tutti gli strati dell’esperienza umana quotidiana, le situazioni - momenti di vita concretamente e deliberatamente costruiti mediante l’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di avvenimenti - si proponevano l’invasione graduale e costante dell’intero spazio-tempo sociale da parte del gioco, il cui scopo generale è “semplicemente” quello di creare le premesse per una vita costruita direttamente e a misura del desiderio.”30 Non bisognerà certo intendere gli sforzi di recupero dell’essenza umana attraverso una nuova architettura come una tendenza di tipo luddista, la macchina e la tecnicizzazione non vengono ripudiati dai situazionisti come era stato invece, quasi un secolo prima, per Morris e il movimento Arts and Crafts. Al contrario si pensa che scienza e tecnica offrono grandi potenzialità in campo artistico e architettonico, accostando la propria linea di pensiero a quella che era stata la rivoluzione del primo Bauhaus di Weimar. Già a partire dal 1953 infatti Asger Jorn, appartenente insieme a Constant al gruppo CO.BR.A (collettivo di artisti nordeuropei: COpenaghen, BRuxelles, Amsterdam), opera per condensare una comunità di artisti, designer e architetti che rispondano al nome di Movimento internazionale per una Bauhaus Immaginista (MIBI). A seguito dalla collaborazione con l’IL, a partire dal congresso di Alba del 1955, si gettano infine le basi per un movimento comune che nascerà nel 1957 come Internazionale Situazionista.

30. Leonardo Lippolis, op. cit., p. 149.

51

L’esigenza fourierista della liberazione dell’uomo attraverso la macchina si presenta come una questione spingente e l’unica possibile via sembra dover essere l’asservimento dell’industria alla creatività umana. La tecnica deve essere dunque il mezzo primo attraverso cui sviluppare un’architettura ludica, attorno all’obiettivo dell’urbanismo unitario di Wolman; ovvero una versione rivoluzionaria e antifunzionalista della sintesi tra arte e tecnica. Un grande impulso alla teoria dell’urbanismo unitario lo riesce a dare Constant, il quale, a seguito del congresso di Alba, si ferma nella città piemontese, ospitato da Gallizio (assessore comunale), per preparare un lavoro che volevano far esporre alla Triennale. Alba era una meta secolare degli zingari di passaggio per la Francia, su proposta di Gallizio, il MIBI viene incaricato di progettare una casa per gli zingari. Constant accoglie la sfida e comincia ad analizzare lo stile di vita dei gitani. Il progetto che ne scaturisce è il primo tentativo dell’urbanismo unitario e la maquette di questo si pone come origine di una lunga serie che prenderà il nome di New Babylon. Il dato più significativo per Constant è relativo


In alto: progetto di Constant per un accampamento di zingari, 1957. In basso: comunità di zingari ad Alba.

52

allo stile di vita gitano di approssimazione e mobilità esistenziale, principi che lo portano a progettare uno spazio flessibile, con tende e pareti mobili che danno la possibilità di poter plasmare lo spazio collettivo a seconda delle necessità di uno stile di vita caratterizzato dall’ozio e dal nomadismo. Ed è proprio un’umanità che abbracci il nomadismo sociale e la dimensione dell’ozio, sapendosi sottrarre dal cinismo produttivo e economicistico, l’obiettivo a cui cercano di arrivare le visioni marxiane illuminate situazioniste. Il progetto verrà purtroppo rifiutato dalla Triennale suscitando spaccature e polemiche all’interno del MIBI. Lo scopo dell’urbanismo unitario è quello di sperimentare una nuova forma di felicità, per arrivare all’uomo totale, libero di emozionarsi e provare le emozioni più pure. L’automazione dovrebbe servire a


In alto: progetto di Constant della New Babylon In basso: vista interna di New Babylon

31. Leonardo Lippolis, op. cit., p. 147.

53

raggiungere questo obiettivo, essendo al centro della questione sulla prevalenza del tempo libero sul lavoro. “Il tempo libero può dunque essere la base su cui si può erigere la più grandiosa costruzione che sia mai stata immaginata”31 spiega Jorn, bisogna creare le condizioni perché ciò avvenga in un nuovo contesto urbano. Constant immagina dunque delle città mostruosamente grandi, che si erigono a venti metri dal suolo, lasciando fabbriche e infrastrutture e portando in quota solo una nuova civiltà composta sull’ideale dell’homo ludens. Nello spazio urbano della New Babylon, l’uomo è libero di praticare ciò che crede, modificando il contesto flessibile e duttile, rendendolo dinamico con l’espressione del proprio io più puro. Queste riflessioni utopiche possono aver guidato i progettisti delle realtà culturali, sorte in Europa dagli inizi del nuovo secolo, che verrano in seguito trattate.


2.4

riappropriazione a Paternoster Square “Paternoster Square is private land. Any general license to the public to enter or cross this land is revoked forthwith. There is no implied or express permission to enter the premises or any part without consent.

32. avviso presente a ogni entrata della piazza, febbraio 2012

Nella pagina affianco: In alto: tende degli occupanti. In basso: Paternoster Square transennata.

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Any such entry will constitute a trespass. Limited consent is hereby given, but can be revoked at any time, for entry on so the accessible parts of the square, solely for access to the offices, retail units and leisure premises for genuine building, retail and leisure purposes. Visitors must at all times comply with the directions given by our security personnel.”32 Il 15 ottobre 2011 un gruppo di attivisti hanno acceso una protesta a Paternoster Square, al centro di Londra, contro il potere economico e politico delle multinazionali e delle banche, le quali erano responsabili di aver generato solo tre anni prima la crisi finanziaria. La piazza e il complesso edilizio che vi si affaccia è di proprietà di una grossa compagnia immobiliare, la Mitsubishi Estate Co., la quale garantisce il pubblico accesso all’area. Il luogo è stato scelto come focolaio per le proteste in quanto, oltre a diverse attività commerciali, vi è situata la borsa di Londra, la terza giù grande al mondo come peso finanziario, e diverse banche. Tale complesso si trova affianco alla St. Paul Cathedral, i cui spazi limitrofi saranno la base per gli sviluppi successivi alla protesta. A seguito della repressione della folla da parte delle forze dell’ordine, la compagnia che possiede la piazza ha stabilito che essa venisse transennata e che fosse revocato il libero accesso da parte dell’utenza. Un cartello affisso alle entrate spiegava che vi potevano transitare solamente i dipendenti degli uffici e i clienti dei negozi e delle attività presenti. È interessante osservare che per impedire nuovamente ai manifestanti di occupare la piazza non è stato sufficiente limitare la permeabilità degli accessi, poiché questi avrebbero potuto facilmente essere valicati. Si è dovuto pertanto ricorrere a un espediente pervasivo: nello spazio aperto sono state installate centinaia di transenne, per creare percorsi obbligati e sbarramenti alla libera percorribilità, impedendo di fatto ogni possibilità di occupazione e fruizione. Sulle transenne agli accessi un cartello definiva chiaramente la politica alla base di questa piazza privata: “welcome to Paternoster Square - Business as usual!”. Non si vuole qui dunque polemizzare contro una misura presa a diritto dai proprietari di uno spazio per garantire la fruizione abituale, ma è significativo considerare come il concetto di piazza in questo caso abbia subito un forte ridimensionamento. Quando il luogo alfa del tessuto connettivo urbano viene privatizzato perde il suo valore collettivo, se rappresentato su un’ipotetica carta del Nolli di Londra, si visualizzerebbe, al posto di un fulcro in bianco, un intreccio di percorsi delimitati da barriere, graficamente una nuvola grigia che nega l’essenza dello spazio aperto per eccellenza.


55


56


33. dal sito ufficiale dei manifestanti: http:// occupylondon.org.uk/

Nella pagina affianco: In alto: copie del giornale stampato dagli occupanti. In basso: tenda di accoglienza del campo. In questa pagina: mappa dell’accampamento di Occupy London.

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In risposta a quest’azione reputata coercitiva della libertà, un gruppo di attivisti ha deciso di occupare un’area esterna alla piazza, accostata alla cattedrale. È nato così il movimento Occupy London per portare l’attenzione mediatica sulla questione. Lo slogan del gruppo è “democratize capitalism”33, una richiesta di rendere più trasparente e accessibile il sistema economico neo- capitalista delle grandi corporazioni, capaci ormai con il potere acquisito di dialogare con gli stati alla pari; spesso facendo egoisticamente valere l’interesse di pochi sul bene della pluralità delle società, piegando e acquistando la volontà della cosa pubblica per il vantaggio del privato. L’occupazione è avvenuta piantando decine di tende, allestendo un vero e proprio campo organizzato. Nella info-tent, su uno striscione si poteva leggere “welcome - caring is everyone’s business, our presence here expresses concern for global eco-nomics and social justice”. Nel campo poi si trovavano servizi e aree per il riciclo, un palco, una biblioteca, una rappresentanza dell’università, una galleria, il cinema, le cucine, la tenda del te, quella informatizzata, l’angolo musicale, lo spazio per le famiglie, uno per la meditazione, un piccolo ambulatorio, uno shop e addirittura una redazione che stampava l’Occupy Times. Una vera e propria città nella città, autogestita e supportata pubblicamente dalla curia vescovile della cattedrale. Si è voluto dunque rispondere in maniera dicotomica ma coerente all’azione di occupazione del suolo di Paternoster Square, lanciando un messaggio politico forte riguardo all’auspicata democratizzazione dei processi economici. I fattori burocratizzati e “cartacei” della finanza neo-capitalista condizionano direttamente la vita delle persone anche attraverso lo spazio delle città e la sua commercializzazione. Proprio in esso si è svolta dunque questa battaglia sociale per la giustizia e eco-nomica.


Fotomontaggio che unisce diversi criteri di riaffermazione basati sull’arredo e la reinvenzione; sullo sfondo un progetto di J. Stirling.

58


3

riaffermazione spaziale “Dobbiamo rimanere strangolati e soffocati dalla nostra stessa attività progettistica che ci ha circondato di metropoli antropofaghe, di squallide cittadine improntate a una mancanza di ordine esiziale per l’anima, di campagne mortificate lungo le ferrovie e le autostrade, costellate di meschine costruzioni puramente utilitarie, ombreggiate di pali telegrafici e appestate da esalazioni di benzina?”1

p. 18.

Si cerca qui di delineare, attraverso l’analisi di alcuni esempi cardine, nuovi modi di intendere il progetto, come le teorie sull’ibridazione architettonica, per comprendere quali sono i criteri e il modus operandi che conducano alla riaffermazione dello spazio comunitario urbano. Si dimostra che ciò può avvenire attraverso interventi di recupero dei luoghi negletti, su scale differenti e con modalità più o meno formalizzate. Si propongono infine due emblematici casi studio, il Centquatre e il Matadero, in cui alle problematiche spaziali sopra citate si è cercato di trovare una soluzione concreta, per rispondere al bisogno di identità e connessione delle periferie, attraverso la promozione dell’espressione e dell’aggregazione.

3.1

identità e partecipazione

3.1.1

genius loci

1. Richard Neutra, op. cit.,

Abitare implica orientamento e identificazione. Ogni individuo tende a creare una mappa mentale all’interno della propria città, in base alle esperienze che ha vissuto in essa, le quali diventano dei punti di riferimento attraverso cui riesce ad orientarsi. La conoscenza dei luoghi dà significato e identità al contesto urbano, e in base al tipo di persona ogni elemento può assumere una valenza diversa, a prescindere dai nodi comunemente considerati principali. Ogni luogo dunque suscita emozioni differenti in base alle esperienze che vi si hanno vissuto. L’identità di un luogo dipende da come la struttura di un insediamento si adatta alla conformazione naturale del sito. L’architettura deve mantenere il più possibile il rapporto figura-sfondo; nel caso la 59


2. Norberg-Schulz, op. cit.

3.1.2

situazione ambientale non sia abbastanza favorevole per ottenere leggibilità, deve trovare dei compromessi attraverso la simbologia. Tramite il costruito, l’uomo dona ai significati una presenza concreta e raduna edifici per visualizzare e simbolizzare la propria forma di vita come totalità. L’obiettivo principale a cui deve ambire l’architetto è quindi mantenere la stabilitas loci2, ovvero concretizzare l’essenza dei luoghi in base al tipo di contesto storico che si presenta. Bisogna trovare e valorizzare lo “spirito guardiano” che generi spontaneamente le caratteristiche degli spazi determinandone il carattere e l’essenza. L’uomo moderno ha tuttavia per lungo tempo creduto che la scienza e la tecnologia lo avessero liberato da una dipendenza diretta dai luoghi. Questa convinzione si è rivelata un’illusione: l’inquinamento e il caos ambientale sono improvvisamente apparsi come una spaventosa nemesi, riconducendo alla sua piena importanza il problema del luogo.

partecipazione sociale

“La relazione tra intensità e distanza delle percezioni sensorie è largamente sfruttata nella comunicazione umana. I contatti emotivi intensi accadono entro un raggio piuttosto stretto.”3

3. Jan Gehl, op. cit., p. 90.

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Secondo gli studi di Gehl, per non sentirsi alienato l’uomo ha bisogno di conoscere ciò che ha di fronte. Affinché ciò sia possibile, è necessario che ci sia un certo contatto visivo che gli consenta di comprendere a pieno l’essenza delle cose. Gehl realizzò uno studio su come la distanza dia un contributo fondamentale all’esistenza dell’uomo “tra gli edifici”. Le persone hanno costante bisogno di uno stretto contatto visivo tra loro. Mano a mano che il campo visivo si restringe, si acquisisce maggiore consapevolezza e sicurezza. Quando si espone, l’uomo deve acquisire conoscenza degli spazi che percorre in modo tale da non sentirsi in una situazione di pericolo e di vulnerabilità. Uno dei fattori principali che influenza la frequentazione di un luogo, è infatti la gestione della scala urbana. Negli scritti di Gehl si riconosce come la mancanza di comunicazione tra gli edifici abbia negato all’uomo la possibilità di rapportarsi al mondo esterno. Non si ha più la possibilità di uscire allo scoperto e comunicare (anche solo visivamente) con il proprio vicino di casa. La crescita sproporzionata delle metropoli ha modificato le dimensioni delle strade, limitando così il campo visivo dei suoi abitanti. Mantenere una certa vicinanza tra le varie attività che si svolgono tra un lato e l’altro della strada è fondamentale per incrementare le possibilità di aggregazione e generare nei suoi utenti una sensazione di appartenenza al luogo. L’uomo preferisce essere spettatore nel suo tempo libero, quindi


bisogna dargli la possibilità di osservare a pieno ciò che accade nel contesto urbano. L’otium è l’unico momento della giornata in cui ci si sofferma a riflettere. Di conseguenza se si vive in un contesto urbano in cui non c’è possibilità di soffermarsi a osservare ciò che ci circonda, non si hanno le prerogative che permettono lo sviluppo di una salda identità urbana. È “la relazione esistente tra il vedere e il voler partecipare” che spinge alla partecipazione sociale e di conseguenza alla occupazione degli spazi pubblici. Se viene quindi a mancare una configurazione urbana costituita da spazi di sosta e ricreazione, non si avverte lo stimolo ad occupare il suolo pubblico, se non per svolgere le proprie incombenze quotidiane.

4. ivi, p. 178.

Sopratutto in un’epoca dominata dal dinamismo delle automobili e dalle varie tecnologie, è importante quindi rallentare gli spostamenti tra le vie di comunicazione, così da dare a tutti il giusto tempo di reazione necessario per percepire interamente gli spazi che ci circondano. “Percorsi con curve e linee spezzate rendono difatti più interessante lo spostamento pedonale, e proprio grazie all’andamento tortuoso sono generalmente migliori e più riparati in caso di vento”4. Sarebbe un bene trasferire quella dinamicità sviluppatesi nello spostamento dei mezzi e nella praticità degli apparecchi elettronici, nella morfologia del paesaggio urbano. Incrementare la partecipazione tra pedone e edificio. Una buona strategia per ripopolare gli spazi aperti, potrebbe essere dare maggior “movimento” alle facciate degli edifici. L’uso di nicchie, slarghi, scalini e sporgenze consente una maggior comunicazione con gli edifici, creando l’occasione di sostare e contemplare lo spazio e fruirne da un punto di vista più partecipativo.

3.1.3

battaglia di piazza Taksim

Nel maggio del 2013 viene esplicitata da parte del governo turco, guidato da Recep Tayyip Erdoğan, l’intenzione di costruire un centro commerciale sopra l’attuale parco Gezi, a Istanbul. Il parco si affaccia su piazza Taksim (che fatidicamente significa ‘divisione’), dove a seguito dell’occupazione da parte di protestanti contro le intenzioni del governo, si sono verificati scontri che hanno fatto passare alla storia la serie di eventi da qui scaturiti come uno degli episodi più infausti della storia moderna della Turchia.5

5. informazioni prese su Wikipedia.

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Il progetto prevedeva di ricostruire, sull’esatto sedime e con la stessa immagine, l’ex caserma in stile ottomano Taksim (demolita nel 1940). La struttura avrebbe avuto un piano terra adibito a centro commerciale e residenze di lusso ai piani superiori. Inizialmente, un gruppo di 50 attivisti ambientalisti organizza un sit-in, accampandosi nel parco per opporsi alla privatizzazione di uno dei pochi spazi verdi presenti nella parte europea di Istanbul. A seguito dei primi blitz della


A sinistra: foto dei primi del ‘900 che mostra la caserma Taksim su cui oggi sorge il parco Gezi. A destra: render del progetto per il centro commerciale di piazza Taksim. Sotto: protestanti in piazza Taksim repressi dalla polizia turca.

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polizia, migliaia di persone raggiungono piazza Taksim per protestare e attirare l’attenzione mondiale sui soprusi da parte del governo e della polizia, la quale comincia a usare metodi repressivi che superano i limiti imposti di rispetto. Una protesta non violenta nata da una necessità di salvaguardia degli spazi pubblici, viene dunque macchiata di sangue dall’intervento di un governo reazionario, contro il quale si fomenta lo scompiglio, incalzando e accusandolo di essere sempre meno laico e di aver introdotto mezzi di repressione della libertà per seguire dettami islamici. Gli scontri che hanno avuto luogo in numerose città del paese, si sono conclusi con un bilancio di nove morti e oltre ottomila feriti, numerosi sono stati gli arresti, anche di medici e avvocati che difendevano la causa o semplicemente intervenivano per sanare i feriti.


Sotto: signora lavora a maglia durante l’occupazione del parco Gezi

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Questo episodio risulta emblematico sotto diversi punti di vista. Innanzitutto è importante considerare il fatto che la protesta è nata per difendere uno spazio pubblico dalla privatizzazione e commercializzazione. Le persone si sono sentite in dovere di presidiare uno dei pochi spazi verdi sopravvissuti alla cementificazione e capitalizzazione che interessa la città di Istanbul. Inoltre è significativo fare un’osservazione sul concetto di identità di un luogo. Non a caso il progetto prevedeva di ristabilire la morfologia precedente riedificando nella stessa forma la caserma. Dietro a questa scelta formale si cela una precisa scelta politica, se come si è visto il governo di Erdoğan punta a ristabilire l’influenza islamica nella struttura sociale del paese, questo lo spinge a recuperare morfemi, idee, e caratteristiche che appartengono al tramontato Impero Ottomano. Questo deve mettere all’erta il popolo turco che rischia sempre di più di vedersi negare la


democrazia. Il progetto e l’occupazione sono dunque il paradigma di uno scontro politico e ideologico, non sorprende infatti che a seguito del fallito colpo di stato del luglio 2016, Erdoğan che ha approfittato della situazione per aumentare il suo controllo repressivo, abbia dichiarato che riprenderà i lavori per il centro commerciale di piazza Taksim. Ed è interessante infine osservare come a pochi passi dal monumento ad Atatürk, padre dello stato democratico turco che domina la piazza, si sia combattuta questa battaglia. Durante i giorni dell’occupazione, le persone hanno provato ad animare la situazione, con feste, musica e balli, per sottolineare da una parte l’intento pacifista, dall’altra il bisogno di rivitalizzazione dello spazio pubblico.

Sotto: manifestanti giocano a calcio in piazza Taksim.

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3.2

spazio ibrido

3.2.1

architettura e costruzione

6. Walter Curt Berentd, Il costruire moderno. Natura, problemi e forme, Compositori, Milano 2007. 7. Peter Eisenman, La Fine Del Classico (e altri scritti), CLUVA Editrice, Venezia 1987.

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Il Classico e il Moderno, secondo Eisenman, non si discostano essenzialmente nell’approccio progettuale, si trova un processo compositivo comparabile che genera risultati differenti. Se il Classico si esprime attraverso forme ideali e naturali, caratterizzate da simmetrie, assi e gerarchie, il Moderno predilige forme platoniche e astratte che esprimono dinamismo e meccanicismo asimmetrico. Tali processi formali, tanto rivolto alla stabilità il primo, quanto alla trasformazione il secondo, presuppongono tuttavia che l’oggetto abbia una connessione con le forme tipo, nelle quali trovano un’origine pura e ideale: naturale, da un lato, e astratta dall’altro. Questa maniera di comporre, che è fondativa dell’idea che propone Behrendt6 di Architettura, “presuppone che qualunque dato complesso presente in una facciata o in una pianta, possa essere compreso mediante un ribaltamento del processo verso qualche modello, singolo o binario, ideale o naturale. L’ideale garantisce e spiega le trasformazioni complesse’’7. Perciò, se il Classicismo e il Modernismo erano visti come parti inerenti dell’Architettura ciò avveniva attraverso la permanenza di due idee: la capacità del significato a essere proprio a una forma e il fondare i processi della composizione e della trasformazione nell’idea di tipo. Queste due idee possono essere considerate gli aspetti tradizionali e continuativi sia del Classico che del Modernismo. La cosiddetta morfotipologia è la pratica che dunque condensa questi concetti nella pratica progettuale. Il corollario di questo modus operandi consiste nella formazione di una sorta di almanacco che guida l’architetto nella pratica, indicandogli la forma più appropriata per ogni funzione. L’architettura ha da questo punto di vista la necessità di comunicare se stessa nel modo più chiaro possibile, questo obiettivo è perseguito facendo riferimento quindi a forme spesso convenzionali che hanno significati precisi e possono costituire un messaggio politico. È il caso, per l’architettura classica, degli ordini architettonici e della grande tradizione manualistica che ne dipana il lessico; per quanto riguarda il modernismo, l’approccio non cambia se si pensa agli sforzi per fare dell’International Style lo stile per eccellenza, cercando di dimostrarne la validità assoluta per la società moderna attraverso la teorizzazione dei suoi contenuti formali. Basti pensare ai 5 punti corbusieriani o ai vari manifesti del CIAM tra cui spicca La Carta di Atene. Per continuare a orientarsi tramite la dicotomia che delinea Behrendt, si consideri ora invece ciò che ruota attorno al concetto di Costruzione che si contrappone a quello di Architettura; per tornare a usare le parole di Eisenman, si può parlare di un processo alternativo del fare, chiamato decomposizione. Assumendo questo principio


8. Carolina Vaccaro e Frederic Schwartz (a cura di), Venturi, Scott Brown e Associati, Zanichelli Editore, Bologna 1991.

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come punto di partenza, il fatto architettonico che ne scaturisce risulta basato su un progetto organico frutto di compromessi, ripensamenti, aggiustamenti che fanno in modo che il risultato sia il frutto di un’evoluzione di tipo euristico, cioè non lineare, astratta, monolitica. Contrariamente a quanto avviene nel caso dell’architettura compositiva, le forme non sono generate direttamente da idee precostituite, in maniera aprioristica e dunque assoluta, ma esse sono plasmate dalle vicissitudini contestuali. Secondo questo punto di vista non ha più senso adottare un approccio morfotipologico, in quanto non è dato sapere in principio secondo che principi dovrà svilupparsi l’architettura, o appunto la costruzione. Saranno la relazione con il contesto, le necessità strutturali, i materiali e il budget disponibili, i ripensamenti, le volontà del cliente e molto altro ancora a modellare la forma finale dell’edificio. Adottando come nuova base per il progetto questa pratica del compromesso e dell’adattamento, per usare le parole di Robert Venturi8, che in senso lato può rispondere al nome di Postmoderno (in quanto successiva al Modernismo), si arriva a concepire un’architettura che non ha più una formulazione partitica e che è dunque libera di essere di volta in volta la risposta diretta ai problemi preposti. Un’architettura funzionalista dunque che deriva direttamente dalla funzione la forma? Esattamente ciò che si


intende. Si può ora quindi capire il vizio di forma, come si potrebbe ironicamente chiamarlo, di un progetto che segue il dogmatico shape follows function avendo a disposizione un lessico ridotto di soluzioni morfologiche e volendo oltretutto relazionarsi astrattamente a rapporti, ritmi e relazioni appartenenti al mondo dell’architettura classica.

Nella pagina affianco: Crown Hall, Mies Van Der Rohe, Chicago, 19501956 Sotto: facoltà di ingegneria di Leicester, James Stirling, 1963

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Si confrontino in merito due esempi che evidenziano la dicotomia Architettura - Costruzione: nella prima immagine la Crown Hall (1956), edificio principale della facoltà di Architettura all’Illinois Institute of Technology. Nella seconda la facoltà di ingegneria dell’università di Leicester (1959), disegnata dall’architetto James Stirling. A soli tre anni di distanza, si esplicitano due modi di vedere il progetto secondo due generazioni successive: nel primo caso esso è ancora legato ai precetti del Modernismo, acciaio e vetro vengono composti con proporzioni ed essenzialità classiche, secondo il dogmatico motto less is more; nel secondo caso si ha invece il prodotto di una ibridazione funzionale, che conduce a una forma composta in maniera aggregativa, con soluzioni costruttive ingegnate a partire dai materiali del luogo, come il mattone, e dalle esigenze specifiche.


3.2.2

9. Joseph Fenton, Hybrid Buildings, Lynette Widder, New York 1985.

Illustrazione contenuta in Delirious New York in cui si esplicita il concetto di edifici multipiano come possibilità di creare nuove terre vergini.

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architettura ibrida

Come evidenzia Joseph Fenton9 osservando il panorama urbano delle metropoli statunitensi: la concentrazione di molte attività sociali dentro la forma di un edificio espande e deforma una pura tipologia architettonica. Molte funzioni che precedentemente conservavano una propria autonomia, sono state fatte convergere insieme nella città del ventesimo secolo, andando a intaccare il concetto classico di morfotipologia. Anche se si può trovare esempi di edifici multifunzionali nella storia dell’architettura, è soprattutto a partire dalla rivoluzione industriale e dall’inurbamento che questa tendenza ha preso piede. Le nuove forme che possono così svilupparsi sono il risultato diretto delle innovazioni tecnologiche emerse verso la fine del diciannovesimo secolo come la struttura trilitica, l’ascensore, il telefono, il cablaggio elettrico, il riscaldamento centralizzato e i sistemi di ventilazione. Si può cercare di identificare dunque lo svilupparsi di un’architettura ibrida con il condensarsi delle funzioni su uno spazio urbano ridotto. In base poi alla combinazione funzionale del programma, l’ibrido risultante può suddividersi in due principali categorie: la prima riguarda le combinazioni tematiche in cui le parti differenti dialogano combinatamente; combinazioni disparate invece


creano una reciproca e spesso difficile alleanza tra parti tra loro incomunicanti, enfatizzando i frammentati e quasi schizofrenici aspetti della vita della società moderna. Questo processo di formazione di nuovi tipi urbani che si discostano dal concetto stesso di tipo viene raccontato dettagliatamente da Rem Koolhaas in Delirious New York10. L’aumento del prezzo fondiario nelle grandi città, unitamente alle emergenti possibilità costruttive, portarono alla crescita verticale degli edifici. Il lotto, ritagliato su una griglia razionale, viene visto come un terreno vergine su cui erigere una quanto più alta serie di piani da considerare come nuovi terreni vergine e con i quali poter così moltiplicare teoricamente all’infinito il profitto. Tralasciando I problemi collaterali di questo modello selvaggio, tra cui la congestione e la carenza di luce e aria nelle vie, ciò che è interessante considerare è il cambio repentino di ottica: l’edificio non è più considerato come una unità funzionale, con la sua dignità formale che è scaturita direttamente dalla sua funzione, ma più semplicemente come un contenitore, la cui forma è indipendente dalle azioni che vi si possono condensare all’interno.

10.Rem Koolhaas, Delirious New York, ed. italiana a cura di Marco Biraghi, Electa, Milano 2010.

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Tornando a osservare il contesto europeo e i progressi compiuti oltre il concetto di morfotipologia, si prendano in considerazione due edifici il cui confronto chiarisce alcuni punti interessanti riguardo all’architettura ibrida. Gli esempi scelti sono due progetti che coesistono a un centinaio di metri nell’espansione del dopoguerra del campus Leonardo del Politecnico di Milano, essi sono l’edificio 11, sede della facoltà di architettura, il cui progetto iniziale di Gio Ponti con Piero Portaluppi (1953-1961) è stato affiancato da un ampliamento progettato da Vittoriano Vigano (1970-1975) e l’edificio chiamato Nave, disegnato da Gio Ponti (1956). Quest’ultimo è un esempio morfotipologico, in quanto le poche funzioni sono distribuite nel piano tipo in maniera da razionalizzare lo spazio e potersi così ripetere identicamente per vari piani, collegati da una spina distributiva che consiste in una serie di ascensori e una coppia di scale principali. Ogni piano ha un corridoio su un lato che distribuisce una serie di classi con una luce molto ampia che affacciano lateralmente verso nord, per non avere luce diretta. Pertanto la forma è generata a partire dalla distribuzione più razionale possibile e si può arrivare a catalogare un tipo architettonico in base a come sono distribuite le sue cellule essenziali. Ad esempio una serie di abitazioni distribuite da un corridoio centrale si discostano per tipologia da una serie imperniata a due a due su una colonna verticale. In questo edificio le possibilità di fruizione sono standardizzate e la forma è studiata per rispondere il meglio possibile a tali funzioni prestabilite. Se di esso dunque si può intuire dalla forma dell’involucro, quindi dalla composizione uniforme delle aperture e dal proporzionamento complessivo, la sua funzione, per la facoltà di architettura questa catalogazione è meno scontata. La complessità morfologica in questo caso è maggiore già dal primo sguardo: due corpi apparentemente non dialoganti e con due linguaggi differenti sono accostati. Il primo presenta, su di un basamento suddiviso in due fasce orizzontali di cui la superiore interamente vetrata, un volume chiuso in se stesso e rivestito in


In alto: l’edifico 11, sede della facoltà di architettura del Politecnico di Milano, V. Viganò, 1970-1975. In basso: due immagini che mostrano interazioni e fatti particolari che capita di vedere negli spazi dell’edificio 11.

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clinker; il secondo sembra essere composto di solo acciaio dipinto di nero e vetro e pare fluttuare sopra un ampio spazio coperto, soprannominato patio, aggrappandosi su pilastri cruciformi. Impianti e scale emergono dal corpo di questa astronave, andando a costituire una declinazione del high-tech che probabilmente ispirerà Renzo Piano, il quale frequaentava il Politecnico intorno a quel periodo, nel progetto per il celebre Centre Pompidou (1971-1977). Esplorando la conformazione di questo singolare edificio si ha l’impressione di avere a che fare con un contesto urbano in scala ridotta: diverse funzioni vengono riunite tra cui una biblioteca, uffici, classi a gradinata e non, un auditorio, uno spazio polifunzionale, diversi ambienti ampi allestiti in vari modi e infine, quella che nel confronto con una città sarebbe la piazza principale, il patio. La conformazione degli ambienti risulta dunque molto varia, le classi si aprono su viste differenti (esponendosi


a volte tuttavia alla luce diretta), la distribuzione avviene in alcuni casi tramite corridoi a ballatoio, che formano spazi interessanti, la scala principale, affiancando una corte vetrata, ha un effetto scenografico e permette di traguardare dentro la biblioteca. Quest’ultima si sviluppa su più livelli, in un unico spazio più grande. Il piano terra è connesso, tramite un passaggio a tunnel che sovrasta il patio, allo spazio polifunzionale in cui spesso vengono allestite mostre e dal quale è possibile accedere da un ballatoio che percorre il perimetro del patio, al quale si connette tramite una scenografica scala a chiocciola. Quest’ultimo infine è caratterizzato dalla presenza di una serie di gradoni che creano una sorta di cavea, sfruttata dagli studenti per riunirsi, studiare, assistere a proiezioni e esporre in eventi organizzati. Proprio come una città dunque questo edificio ha una eterogeneità di spazi che vengono fruiti in maniera differente da diversi attori. Si tratta di un progetto che riesce a trascendere la standardizzazione delle funzioni, ibridandole in una conformazione a-tipica. Lavorando inoltre sul disegno degli spazi di connessione delle cellule funzionali, ovvero le classi, proprio come in una città si dovrebbe valorizzare lo spazio tra le abitazioni, si arriva a creare un contesto in cui gli attori sono invitati a interagire costruttivamente. Queste osservazioni, che non considerano comunque il funzionamento intrinseco di questi spazi per non entrare nel merito di questioni poco pertinenti, aiutano a comprendere cosa si intenda per architettura ibrida e quali siano le potenzialità di questa pratica progettuale.

11. Luc Lévesque, Towards hybrid and situational urban spces: objects and bodies as vectors, in Fabrizio Zanni (a cura di), Urban Hybridization, Maggioli Editore, Milano 2012.

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Ispirandosi al lavoro artistico di Yves Klein, Luc Lévesque11 prova a immaginare la città come una spugna, con dei pori. I pori possono essere visti come spazi con un potenziale nella sostanza urbana. Questi luoghi si aprono verso l’esterno, accogliendo le influenze provenienti dal fluire di questo, mescolandole e rigettandole infine. Si potrebbe provare a immaginare l’edificio 11 come un elemento di grande porosità urbana: passeggiando nell’area pedonale di Via Ampere, si è invitati a valicarne l’ingresso passando sotto la grande A (di Architettura) in acciaio, la quale è valorizzata dalla vernice rossa, spiccando come unico elemento colorato del complesso. Molte sono infatti le persone, oltre a studenti e docenti, che ogni giorno vengono accolte liberamente dall’edificio, che possono visitare le esposizioni, assistere a conferenze, curiosare negli spazi dell’università, godersi lo spettacolo dei laureati, facendo di questo complesso architettonico a tutti gli effetti un ottimo catalizzatore sociale, dunque uno spazio pubblico che, in base alla sua vocazione, funziona propriamente.


3.3

criteri d’intervento

3.3.1

recupero e flessibilità

“Un fatto urbano determinato da una funzione soltanto non è fruibile oltre l’esplicazione di quella funzione. In realtà noi continuiamo a fruire di elementi la cui funzione è andata perduta da tempo; il valore di questi fatti risiede quindi unicamente nella loro forma.”12 Le utopie situazioniste non hanno trovato il modo di svilupparsi, purtroppo la macchina non ha ancora sgravato l’umanità di ogni onere, lasciandola libera di plasmare il proprio mondo per dare libero sfogo alla creatività. La storia ha fatto sì che la città si sviluppasse secondo le fredde logiche neo-capitaliste. Ci si trova dunque oggi ad affrontare il problema della periferia, con le annesse problematiche sopracitate, in un momento in cui l’avanzata sembra essersi arrestata. Il punto di partenza è fissato, ciò che si può fare è ora agire concretamente, senza sviluppare teorie utopistiche, ma affrontando i problemi per cercare di risolverli con i mezzi e gli spazi a disposizione. Un’importantissimo passo indietro che è stato fatto, è appunto quello di considerare il recupero di luoghi esistenti come il tema fondamentale per lo sviluppo e la riaffermazione. Questo processo si basa sul concetto di reinvenzione degli spazi. In luoghi in cui si è cercato di massimizzare il profitto, il più delle volte non rimane nessun pertugio di cui poter usufruire per la rivitalizzazione. È qui dunque essenziale riuscire a ricavare il massimo risultato da ogni spazio che si offre come non privatizzato, allenandosi a tal scopo a saperne vedere le potenzialità nascoste. Reinventare significa riuscire a trovare una nuova finalità d’uso a qualcosa inizialmente progettato per altro scopo. Se i situazionisti si ponevano come fine quello di progettare una città altra che si facesse vivere in maniera esperienziale, ora, riconoscendo la validità di questi precetti del vivere, ci si pone come obiettivo quello di progettare modi di vivere altri che abbiano tuttavia come terreno di gioco la città odierna, con tutte le sue caratteristiche negative osservate. Il compito dell’architetto rimane quello di saper vedere oltre, e, sotto questo punto di vista, la maggior efficacia realizzativa odierna, consiste nell’aver ristretto i limiti della propria ricerca agli spazi esistenti.

12. Aldo Rossi, L’architettura della città, Marsilio Editori, Padova 1966, p. 55.

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Cercare di vedere oltre in uno spazio che già esiste può essere un’azione molto prolifica. Uno fatto architettonico con una determinata forma, una volta liberato dalla sua destinazione d’uso, può essere reinventato infinite volte, andando a trovare nuovi modi per cui essere fruito, sfruttando di volta in volta differenti sue caratteristiche. Questa qualità è definita flessibilità. Generalmente spazi grandi hanno maggiore flessibilità in quanto possono ospitare più funzioni differenti rispetto ad altri con dimensioni ridotte che aumentano il


grado di specificità delle azioni che vi si possono svolgere. Secondo questa concezione, come si è visto, risulta difficile mantenere valido il concetto di morfo- tipo architettonico, nel momento in cui ci si trova nella necessità di ripensare la destinazione di una conformazione spaziale, si comprende che si dovrebbe da subito puntare alla flessibilità funzionale degli spazi, in modo da aumentare le possibilità di ibridazione.

confronto prima/dopo del Kaos Temple, un esempio del 2015 di recupero di una chiesa sconsacrata a Coruno, Spagna, dipinti realizzati da Okuda San Miguel.

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Un buon esempio di fatto architettonico flessibile è quello della basilica, tipologia ideata dai Romani per lo svolgimento di assemblee. Con l’avvento del cristianesimo diventa il modello alpha della chiesa, ovvero un luogo preposto al comizio della messa, subendo a partire dall’impianto standard, una notevole evoluzione. Ma tale spazio può essere adattato anche per la cultura dei tempi odierni, come dimostra un progetto che colpisce per la sua forza da manifesto, quello del Kaos Temple, curato dall’artista Okuda San Miguel. Si osservi come le ampie superfici intonacate che storicamente ospiterebbero scene religiose affrescate, possano essere ripensate con logiche decorative odierne che richiamano l’arte del murales, ricche nell’uso del colore e incentrate sulla geometria, creando una spettacolare ambientazione. Nel vano centrale si trova l’esatta collocazione per una serie di rampe per praticare lo skateboarding, infine nell’altare e zona limitrofa, si allestisce un salottino flessibile completo di sofa e tavolini, dove intrattenersi nella contemplazione di questo magnifico spazio.


Per quanto riguarda i contesti urbani problematici, la sfida consiste nel saper individuare delle potenzialità nei fatti urbani di risulta, siano essi edifici, vuoti incolti o addirittura infrastrutture, affinché vi si possa operare la riappropriazione da parte della comunità, per creare interesse sociale, identità e relazione. New Babylon consisteva in uno spazio flessibile infinito, un nuovo orizzonte riplasmabile per la liberazione dell’uomo creativo. L’obiettivo sia oggi quello di avvalersi del concetto di flessibilità nei contesti di recupero urbano.

3.3.2

permeabilità e connessione

Come si è visto, uno degli elementi fondamentali che compongono il tessuto urbano, la qui qualità determina in larga misura l’efficacia sociale di una città, è lo spazio di connessione. Ovvero la totalità di spazi che sono fruibili pubblicamente. Più questo è permeabile, maggiori risultano essere le connessioni e dunque la capacità di fluirvi e le possibilità di relazione. Un esempio emblematico di riqualificazione di un’ampia area urbana al fine di restituirla al pubblico più vivibile e percorribile è il progetto per Madrid Rio, sviluppato dallo studio olandese West8 con la collaborazione di tre firme madrilene unitesi durante il processo nel gruppo MRIO arquitectos (Burgos & Garrido Arquitectos Asociados, Porras La Casta Arquitectos and Rubio & Álvarez-Sala) La città di Madrid è storicamente accerchiata dal Rio Manzanares, lungo il quale, a partire dal dopoguerra e fino a pochi anni fa, scorreva una tangenziale che faceva in modo di segregare una vastissima area periferica che si trovava appena fuori dalla cerchia disegnata dal canale. I pochi passaggi, unitamente all’impatto negativo di questa infrastruttura su un ambito insediativo già negletto dal punto di vista architettonico, avevano fatto della periferia limitrofa una zona di degrado. Il progetto, iniziato nel 2006 e realizzato nel tempo record di un mandato elettorale, viene concluso nel 2011. La tangenziale di sei corsie è stata interrata per l’intero tratto urbano, ovvero più di cinque chilometri, rimanendo tuttavia affiancata al canale, mettendoin campo dunque un incredibile sforzo di progettazione infrastrutturale legata all’idraulica. L’influenza negativa dello scorrimento veloce delle autovetture viene dunque completamente annullato, inoltre anche l’impatto ambientale è smorzato, un impianto di smaltimento dell’aria lungo la galleria espelle in alcuni punti i gas filtrati e depurati di grossa parte delle sostanze inquinanti. Inoltre sono stati realizzati parcheggi sotterranei per 1000 autoveicoli. 74


Sopra: masterplan di progetto, il tratto d’intervento misura circa 5 km. Sotto: sezione tipo dell’intervento di interramento della tangenziale.

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Compiuto questo enorme sforzo infrastrutturale, la sfida è stata quella di realizzare una riviera totalmente a misura di persona che riconnettesse le due sponde attraverso percorsi e attività per il tempo libero. Il numero di ponti è stato raddoppiato, alcuni dei nuovi sono stati progettati con un design innovativo, come la Pasarela de la Arganzuela, progettata da Dominique Perrault, o come i due ponti Cascara nella parte più a sud, sulla cui superficie della calotta in calcestruzzo superiore l’artista spagnolo Daniel Canogar ha realizzato dei mosaici raffiguranti gli abitanti dei quartieri riunificati che hanno posato per lui, entusiasti di entrare a far parte e potersi riconoscere poi all’interno di un’opera di forte progresso sociale. È possibile percorre l’intero tratto lungo piste ciclopedonali, spesso su entrambe le sponde, singole o ramificate che creano un interessante rapporto con il fiume, attraversandolo e accostandolo, abbracciando inoltre le varie attività che si dislocano nelle aree aperte. Tra queste si trovano spiagge, piscine, parchi, punti ristoro, centri di canottaggio, campi sportivi, skatepark, parchi gioco, palestre, parchi più ampi dove molte di queste funzioni si uniscono, come il parco Arganzuela, infine anche un’importante ex riserva di caccia della casata reale, in asse con il palazzo, arroccato poche centinaia di metri più su verso la città, la


Sopra: vista aerea della parte nord-occidentale del progetto, in cui si vede il parco storico di caccia. Sotto: vista aerea che mette in evidenza il tessuto abitativo dei quartieri limitrofi.

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quale è stata riconnessa all’altra sponda tramite la ricostruzione dello storico ponte del Rey, presente in numerose incisioni dell’epoca, e rimessa in sesto nella sua ricchezza paesaggistica, di flora e fauna, per tornare a essere un vero parco naturale poco distante dal centro storico. Ogni sequenza di spazi ha la sua caratterizzazione e la propria dignità formale, sono state studiate le piantumazioni, parallelamente ai sistemi di irrigazione, in maniera molto accurata, creando vie ombreggiate, prati aperti e aiuole con un’ampia ricchezza botanica, il tutto organizzato secondo un disegno organico che accompagna i percorsi e le funzioni adottando spesso il motivo del fiore di ciliegio, diventato identitario grazie anche alla cospicua presenza arborea. Anche l’arredamento è molto curato e presente, per offrire molti modi di fruire lo spazio aperto. Ad esempio, vengono sfruttate le parti inferiori dei ponti che attraversano il canale per appendere giochi ginnici, oppure è da notare l’alta concentrazione di possibilità di sosta, date anche da sedute continue che fungono da cordolo per i vari spazi verdi.


Sopra: lo skatepark. Sotto: uno dei due ponti Cascara, sulla cui superficie della calotta l’artista spagnolo Daniel Canogar ha realizzato dei mosaici raffiguranti le persone del luogo.

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La portata sociale di un’operazione così ampia è incommensurabile. Numerose attività nascono oggi nell’area limitrofa per rispondere all’afflusso di persone, tra cui noleggi di biciclette e bar, a simboleggiare una risposta positiva per l’economia. Inoltre i palazzi della zona hanno aumentato il loro valore immobiliare. Ma difficilmente si riesce a valutare monetariamente l’influsso positivo di questo intervento. La qualità della vita è nettamente migliorata per le abitazione prospicienti il canale, ma non solo, tale progetto riesce a richiamare molti abitanti dei quartieri periferici, popolandosi di sportivi, famiglie, ragazzi e anziani. Dal punto di vista sociale è ulteriormente importante, in quanto ingloba nel suo percorso anche il Matadero. Un progetto di riaffermazione che, come si vedrà in seguito, e molto interessante e ricco di potenziale culturale.


Il punto centrale è qui quello della riappropriazione dello spazio urbano da parte delle persone, a piedi o in bici. Finalmente si comincia a comprendere i grossi limiti di una città progettata per dare la priorità alle autovetture. La congestione non è tuttora un problema risolto e forse bisognerebbe provare a puntare sul trasporto ciclopedonale come si impara dai diversi esempi nordeuropei. Creare connessione e spazi per la condivisione e il ritrovo è una strategia vincente che se adottata da un’amministrazione e messa in pratica nell’arco di un mandato, premia con la riconferma elettorale.

Sopra: la Pasarela de la Arganzuela, progettata da Dominique Perrault. Sotto: uno dei percorsi immersi nel verde che attraversano i parchi che accostano il Rio.

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3.3.3

comunità e arredo

Per l’esempio riportato precedentemente di tessuto permeabile di Copenaghen, è stato scelto un luogo preciso che fosse da manifesto della qualità urbana della città danese. Al centro dello spot circolare è infatti presente il parco Superkilen, un progetto sviluppato congiuntamente da tre studi: Topotek1, BIG Architects e Superflex, nel quartiere periferico settentrionale di Nørrebro.

Vista dall’alto della piazza rossa del parco di Superkilen.

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Il progetto consiste in una sequenza di tre spazi pubblici aperti distinti, caratterizzati da ognuno in maniera differente. L’obiettivo è di creare un parco che connettesse le diverse comunità che vivono in uno dei quartieri più multietnici di Copenaghen. L’idea è quella di coinvolgere gli abitanti nel processo creativo, andando a intervistarli e facendosi suggerire degli oggetti iconici che per loro simboleggino il loro paese di origine e raccontino la propria storia personale. L’intento è di generare un giardino universale che neghi la specificità topografica e che, prefigurandosi come uno spazio aperto a ogni possibilità, accolga la rete sociale, formando uno scenario surrealista che colleziona diversità urbane e globali riflettendo l’intrinseca natura del quartiere. Questa operazione di esibizione simbolica corale che accoglie l’esempio di Las Vegas raccontato da Venturi e che fonde architettura, landscape e arte, riscontra molto successo, in quanto si è riusciti a fondere un progetto di alta qualità disegnativa con una brillante operazione di cooperazione finalizzata alla coesione sociale.


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Nella pagina affianco: In alto: le panchine attorno agli alberi della piazza nera. In basso: il ring thailandese per la box nella piazza rossa. In alto a sinistra: vista aerea delle due piazze, con la fontana marocchina in primo piano. In alto a destra: una giostra dal giappone a forma di polpo.

In questo progetto dunque l’arredo assume un ruolo molto importante, non solo per le potenzialità funzionali offerte e per la loro efficace disposizione, ma anche per la portata culturale che si esplica in questi oggetti urbani con l’identità e la condivisione, portando alla interconnessione di una comunità ancora da definire. Percorrendo il sito ci si imbatte dunque in 108 oggetti di arredo urbano provenienti da 60 paesi diversi. Ognuno di essi è corredato da una targhetta che indica, in Danese e nella lingua del paese originario, le sue specifiche. Questi non sono inoltre elementi che appartengono all’immaginario da cartolina, ma sono riproduzioni, rappresentazioni del loro originale che può avere una derivazione molto singolare. È il caso dell’insegna a neon della clinica dentistica del dottor Sena, proveniente dalla città di Doha in Qatar, nella quale è riprodotto il simbolo dell’Islam della mezzaluna con al posto della stella un molare. Essa è stata proposta da un emigrato del Qatar che è stato aiutato economicamente dal suo parente dentista, verso il quale si è potuto sdebitare facendogli erigere un monumento. La natura partecipativa di quest’opera va al di là di ogni altro esempio. Essa nasce dalle infinite storie che si intrecciano, nelle diverse lingue, in un quartiere multietnico, connettendo in un solo punto il mondo intero. La trovata è di far coesistere queste istanze, concretizzandole nel fulcro stesso del quartiere. Superkilen è l’espressione massima del concetto di integrazione, un manifesto di come si possa creare una nuova e convergente identità a partire dalla pluralità e disparità delle voci in capitolo. La piazza rossa nasce dall’intento di creare un foyer fondendosi al centro sportivo di Nørrebrohall. Viene dunque intesa come una estensione della vita sportiva e culturale del centro, il quale espande le proprie attività nel contesto urbano. Vi si trova infatti una tribuna,

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In alto: un ragazzo trova un modo di utilizzare un corfolo della piazza rossa con lo skateboard. Sotto: la forma del campo da basket permette di essere usato come pista.

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dalla quale poter assistere alle attività organizzate, come proiezioni e spettacoli, aree per il fitness, attrezzature di gioco per i bambini (con uno scivolo da Chernobyl, altalene irachene e una piastra per arrampicata indiana), una superficie di gomma per svariate attività sportive, un ring per gli incontri di box dalla Thailandia, un impianto stereo giamaicano e un canestro. Altre aree comprendono dei lotti per il parcheggio, composti con i colori della piazza e attrezzature come dispositivi per legare la bici, panchine dal Brasile, cestini tipici del Regno Unito, dell’Iran e della Svizzera. Sulle pareti sono inoltre


rappresentati diversi murales identitari che si fondono colorativamente al pavimento, la cui superficie sfonda la propria bidimensionalità andando salendo come un tappeto e andando ad aggrapparsi agli edifici prospicienti. Gli alberi sono tutti a foglie rosse, fatta eccezione per quelli già esistenti. Vi si organizza qui infine un mercatino delle pulci nel weekend che richiama molte persone da tutta la città che possono oltretutto sedersi e rilassarsi nel caffè presente. La piazza nera viene definita il salotto. Qui le persone si incontrano attorno alla fontana marocchina, sedendosi sulla panchina turca, guardando i bambini su un playground a forma di polipo dal Giappone o riunendosi ai tavolini per giocare a scacchi, backgammon o a carte. Dalla collina che domina la piazzetta è possibile ammirare il dipanarsi di un gioco di linee bianche che si plasmano attorno all’arredo, come i tavoli da picnic bulgari o i barbecue argentini. Altre attrezzature interessanti sono i dispositivi norvegesi per gonfiare le ruote e riparare la bicicletta o le lampade a raggi UV statunitensi. Gli alberi vanno dalle palme cinesi ai cedri libanesi. Nell’area più a nord si concentrano le attività sportive su campo e la presenza di verde. L’intento è di far convergere i giovani del quartiere e della scuola adiacente. Lo sport è un ottimo vettore sociale, in quanto non c’è bisogno di saper parlare la stessa lingua per divertirsi assieme in un partita a calcio, qui dunque si gioca un’altra importante strategia di integrazione e convivenza. Il paesaggio è reso piacevole e interattivo da una serie di colline erbose, su cui giocare, rilassarsi e fare picnic. L’arredo comprende lampioni italiani, tavoli da pingpong spagnoli, tavoli da picnic coperti da verande armene, amache australiane, l’insegna di un toro dalla Costa del Sol e altro ancora.

La fila di tavoli fissi nella piazza nera con incisi i giochi da tavolo.

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3.3.4

attività ed espressione

Per comprendere meglio quali siano le attività che possono essere offerte da un luogo nell’ambito della riaffermazione saranno presentati due esempi chiave in cui ci si riappropria pubblicamente di uno spazio per renderlo un punto focale dell’interesse collettivo. Nel primo caso si tratta de La Casa Encendida, a Madrid, un edificio del 1911 inizialmente progettato come banco dei pegni, il quale è stato recentemente convertito per ospitare un centro civico di sviluppo della cultura e dell’arte. Si riporta qui il manifesto, presente nel sito internet e tradotto dall’inglese:

Fronte de La Casa Encendida su Ronda de Valencia, Madrid.

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La Casa Encendida è un centro sociale e culturale gestito dalla fondazione Montemadrid, uno spazio dinamico aperto a un pubblico di tutte le età e convinzioni, dove i visitatori possono trovare alcune esibizioni delle più dirompenti espressioni artistiche del giorno d’oggi, assieme ad attività educative, filosofiche a di dibattito che ruotano attorno alle quattro principali sfere d’azione del centro: l’arte, la solidarietà, l’ambiente e l’educazione. La Casa Encendida organizza varie attività in ognuna di queste aree, nel tentativo di soddisfare gli interessi e bisogni di un pubblico attento all’evoluzione delle tematiche odierna.


Adattarsi ai cambiamenti globali e anticipare i nuovi bisogni sociali e culturali rimane la nostra più grand sfida. Per questo motivo a La Casa Encendida auspichiamo di crescere come: 1. Un centro culturale con una reputazione stellare e uno spirito avanguardistico che offre attività nel campo delle arti visive e di performance, nella musica, letteratura e cinema per supportare e incoraggiare la partecipazione civica nella creazione, promozione e comprensione della cultura contemporanea. 2. Un centro sociale che promuove la crescita personale, l’integrazione sociale e il lavoro di squadra attraverso progetti e attività legate alla comunità di disabili, aiuto di cooperazione, lavoro di impiego e volontariato. 3. Un centro di educazione non formale che esplora ognuna delle sfere dell’agire da diverse prospettive con l’obiettivo di migliorare le abilità e acquisire strumenti utili per un avanzamento personale e professionale 4. Un forum per riflettere sul dibattito sociale e le sfide ambientali, con un enfasi particolare sui gruppi vulnerabili e le enclaves sociali, nell’ordine di stabilire un network e promuovere la formazione di una società responsabile e impegnata. 5. Una piattaforma per supportare e pubblicizzare il lavoro di novo creativi attraverso call aperte alle proposte, motivate da un desiderio di promuovere e fornire agli artisti gli strumenti che necessitano per produrre e condividere il loro lavoro. 6. Un laboratorio creativo dove le persone possono concretizzare i loro progetti con l’aiuto dei consigli tecnici di professionisti e le risorse messe a disposizione dal centro nei suoi diversi laboratori: sono e radio, creazione e produzione digitale, fotografia, e post-produzione audiovisiva. 7. Un ambiente stimolante dove i bambini e i giovani possono sviluppare la loro immaginazione e affinare le loro abilità sperimentali. 8. Un edificio accessibile con un sistema di controllo ambientale certificato AENOR. 9. Un luogo di incontro dove tutti sono i benvenuti. La Casa Encendida è diventato presto un luogo di ritrovo per la comunità, grazie alle numerose attività organizzate e promosse. Sfogliando il calendario si trovano conferenze e dibattiti su temi sociali come l’integrazione, cineforum e proiezioni che d’estate hanno luogo sulla terrazza, camminate per la città e campeggi, attività per i bambini, eventi musicali, teatrali e artistici. Grazie alla presenza dei diversi laboratori che possono comunque essere utilizzati in autonomia, e 85


di figure professionali di supporto, si organizzano corsi e laboratori di musica, teatro, architettura, informatica, volontariato, lingue, giardinaggio, fotografia analogica e digitale e altro ancora. Tra gli spazi interni, oltre ai laboratori e ad alcune sale in cui vengono esposte le esibizioni artistiche temporanee, si trovano due biblioteche, una per gli adulti e una per i più piccoli, una biblioteca multimediale e una sala wi-fi, in cui è possibile lavorare con il proprio laptop circondati da un’ampia collezione di vinili, cd e dvd. All’interno vi si trova inoltre una caffetteria e un bookshop che vende libri e materiale di interesse culturale e artistico. Diverse location sono poi disponibili, oltre gli eventi organizzati dall’associazione, anche da affittare per eventi personali: - La corte, il fulcro dell’edificio, uno spazio diafano di 265 m2 con un soffitto alto 14 m, nel quale è possibile accomodare ogni genere di attività. È infatti equipaggiato di un sistema audiovisivo all’avanguardia, con proiettori da 10,000 lumen e uno schermo per proiezioni di 7 x 5 m e impianto stereo. Vi può inoltre essere installato un palco da 12 x 4 m. La capacità è di 280 persone sedute per terra, oppure 130 su sedie e può contenere un massimo di 300 persone per un cocktail in piedi.

In alto e in basso: la corte centrale coperta, uno spazio flessibile per ogni genere di allestimento.

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A sinistra e a destra: la terrazza che è possibile affittare per eventi, con il suo orto.

- La terrazza, sul tetto dell’edificio, con un’area di oltre 500 m2, arredata con piccole isole di verde, coltivate nel cuore della città con principi sostenibili. La capacità è di 500 persone in piedi, per eventi all’aria aperta. Da essa emergono due torrette, una è predisposta per ospitare presentazioni audiovisive, con una capacità di 55 persone. - Un grande auditorio, nel seminterrato, equipaggiato da un impianto audiovisivo completo per offrire una esperienza perfetta per presentazioni, conferenze stampa, dibattiti e performance teatrali. L’intera sala è coperta da pannelli di legno che donano una buona acustica. In più è fornita di un sistema illuministico pronto a ogni necessità. Il palco è largo 12 x 6 m, con accesso diretto ai camerini. I posti a sedere sono 167. L’auditorio è inoltre fornito di due cabine per

A destra: auditorio per oltre 160 persone situato sotto la corte.

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la traduzione simultanea e di una cabina per il controllo audiovisivo. - Una sala proiezioni prospiciente l’auditorio per un pubblico minore 72 persone.

Sotto: una delle sale multifunzionali, con pannelli rimovibili per poterla modulare.

- Delle sale multifunzionali, queste stanze luminose sono il luogo perfetto per ogni sorta di attività, dai workshop di gruppo, alle conferenze stampa o agli incontri d’affari. Infatti La Casa Encendida offre un’ampia gamma di mobilia per ogni evenienza. Le sale multifunzionali sono cinque, quattro delle quali sono separate da pannelli rimovibili e possono essere divise o combinate come richiesto per una superficie massima di 230 m2, ogni stanza è tra i 60 e i 60 m2, con una capacità combinata di 200 persone.

La Casa Encendida è un’ottimo esempio di come una presa di coscienza futuribile sulle qualità intrinseche degli spazi possa portare a riconversioni molto fortunate. Un edificio nato con una singola funzione, come una banca, seguendo un suo codice morfotipologico, può essere rimmaginato come un ibrido funzionale, immaginando di riattribuire a ogni forma una nuova destinazione. Da chiuso blocco monofunzionale e privato, a castello di attività sociali, aperto e dinamico. Si può tentare di vedere in questo nuovo tipo post-tipologico, la concretizzazione ridimensionata delle aspirazioni situazioniste alla città flessibile e aperta a ogni impulso creativo. L’importanza della libertà creativa viene qui celebrata con ogni mezzo per incentivare e dare la possibilità alle persone che vivono la città di sprigionare il meglio del proprio potenziale umano. A fronte di uno sviluppo funzionalista, alienato e macchinistico, del vivere urbano, troppo spesso si dimentica di attribuire all’espressione il suo ruolo fondamentale nelle dinamiche della civiltà umana, progetti come La Casa Encendida o come il secondo esempio proposto, il 59 Rivoli, la riportano invece protagonista della rete di rapporti umani chiamata città. Anche nel caso di questo secondo esempio, si riportano le informazioni generali presenti nel sito ufficiale e tradotte dall’inglese: 88


Il 1 Novembre 1999, il KGB (Kalex, Gaspard, Bruno) si propose di aprire la porta cementata del numero 59 in rue de Rivoli a Parigi. L’edificio era stato abbandonato dal Crédit Lyonnais e dallo stato francese per 15 anni. Una dozzina di artisti si presentarono per dare una mano a ripulire quello che era un disastro pieno di piccioni morti, siringhe e detriti. L’intento di questa operazione era triplice: - Rivitalizzare uno spazio vuoto inutilizzato. - Creare un posto per permettere ad artisti di creare, vivere ed esporre. - Provare la validità di una alternativa culturale Il gruppo così formato fu chiamato “Chez Robert, Electron Libre”. Questi organizzarono vernissage, performance, concerti e aprirono l’edificio al pubblico quotidianamente, dalle 13:30 alle 19:30. Lo stato francese si oppose all’iniziativa e programmò di sgomberare l’edificio il 4 febbraio 2000. Grazie alla diligenza dell’avvocato del gruppo, Florence Diffre, l’amministrazione dovette affrontare un ritardo di sei mesi sullo sgombero. Nel frattempo la stampa si stava interessando al fenomeno “squart” (una formula che unisce squat e art) e, forzato dai media, il governo smise di perseguire la causa per diversi anni. Comunque, la situazione dello squat in Rue de Rivoli rimaneva precaria dal momento che ci si aspettava lo sgombero. L’alleanza politica più importante avvenne con Bertrand Delanoë, l’ormai ex sindaco di Parigi. Durante la sua campagna, Delanoë venne a visitare lo squat, si innamorò del posto e promise che se fosse stato eletto, avrebbe legalizzato lo squat cosicché gli artisti avrebbero avuto un posto in cui lavorare senza preoccuparsi di essere espulsi. E il Signor Sindaco mantenne la sua promessa!

Sotto: due viste delle scale decorate del 59 Rue de Rivoli a Parigi.

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Oggi l’edificio è chiamato 59 Rivoli e ospita gli studi di trenta artisti, aperti al pubblico sei giorni a settimana, dalle 13 alle 20. Questa ricetta ha generato un successo di massa, arrivando a contare decine di migliaia di visitatori ogni anno, a volte arrivano addirittura 4.000 visitatori a settimana, per le esibizioni, i concerti e la visita agli studi, facendo sì che il 59 Rivoli diventasse uno dei tre siti per


l’arte contemporanea più visitati a Parigi e uno dei dieci posti più visitati in Francia. Questo è un mezzo culturale e alternativo effettivo di presentare l’arte che permette un accesso più democratico alla creazione, sia per gli artisti che per il pubblico. Proprio nel centro di Parigi, 59 Rivoli rappresenta un’attrattiva per le sue facciate creative, divertenti e uniche.

In alto: una conformazione della facciata del 59 Rue de Rivoli.

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Il tema della riappropriazione degli spazi si propone in questo caso ancora più radicalizzata. Come visto, lo squat è un modo differente di fruire degli spazi recuperati. In questo caso, oltre alla volontà da parte degli artisti di esibire la propria libera espressione attraverso l’esposizione delle proprie opere, si trova la voglia di mettere alla berlina un modo diverso di vivere. Esso, se pur leggermente regolato dagli orari delle visite, nasce come negazione del modo di intendere il tempo come Kronos, un tempo scandito, ripetuto, routinario, proprio del vivere civile su cui ci si riesce ad orientare. Aggirandosi per gli ambienti abitativo-espositivi del 59 Rivoli, tra una poltrona, dei fornelli e un cavalletto con una tela, davanti al quale si ha la possibilità di assistere al processo creativo dell’artista, si ha l’impressione che il tempo segua un altro genere di flusso. Si potrebbe qui parlare di Kairos, il tempo dell’istante, dell’esperienza mercuriale, della situazione quindi. Kairos che regola l’ispirazione dell’artista che, tornando allo spazio, avviene in un contesto aperto che concede libertà, aperto ai flussi di persone e idee che favorisce lo scambio, la condivisione e la relazione, per celebrare appunto l’espressione. Con tale intenzione il 59 Rivoli, oltre alle esibizioni, organizza ogni weekend concerti e eventi per dare la possibilità ad artisti emergenti di esibire il proprio talento. Così a Parigi è possibile, nella via che tra le altre cose costeggia il Louvre, essendo stati attirati da una facciata che si discosta dalle altre, addobbate di insegne al neon, per la presenza di elementi colorati, immagini, deformazioni antropomorfe che scompongono la rigida immagine ottocentesca Haussmanniana, avvicinarsi e come per incanto, dando le spalle a H&M e Swarovski, ascoltare un signore che suona il pianoforte di fronte all’entrata di questo incredibile esempio di riaffermazione spaziale.


3.3.5

13. Luc Lévesque, op. cit., p. 25.

mezzi informali

“Più che mai, avendo a che fare con il passaggio attraverso un collo di bottiglia per quanto riguarda il consumismo di massa e l’eccessivo sfruttamento delle risorse, bisogna trovare e testare modi alternativi di vivere il mondo urbano. Ciò deve portare a rinnovare le nostre concezioni sullo spazio pubblico urbano e a ripensare le tradizionali pratiche di progetto urbano, si compia un salto verso approcci ibridi e situazionisti in cui la semplice azione dei corpi e degli oggetti può giocare un ruolo significativo e catalitico per reinventare l’immaginario urbano.”13 Secondo Luc Lévesque nella città si trovano diversi spazi che offrono un potenziale i quali vengono visti come pori in una spugna, è che le persone che abitano la sostanza urbana siano il liquido che viene filtrato da queste porosità. Sempre Lévesque invita a pensare alla città come ad un quadro di Fontana della serie prodotta tra gli anni 50 e 60 in cui la superficie della tela viene perforata in diversi punti. Se si immagina il tessuto della tela come quello della città, i buchi praticati repentinamente qua e là rappresentano invece dei momenti spaziali in cui si ha uno spaesamento, una perdita di struttura che apre a infinite possibilità che i situazionisti, come visto, avrebbero chiamato ‘détournement’. Questo punto di vista sulla città può sì aiutarci a vedere con occhio diverso il progetto, ma riesce soprattutto a farci sviluppare nuovi modi di pensare alle qualità spaziali e temporali del contesto urbano. In seguito Lévesque propone alcuni esempi di riappropriazione temporanea nella città di Montreal. Questa metropoli è descritta come un luogo pieno di discontinuità e occasioni interstiziali di manipolazione; soffermandosi sugli eventi temporanei osserva come siano numerosi i mercatini e le manifestazioni a sfondo commerciale che hanno luogo in diversi ambiti. Tuttavia davanti a questa forma di occupare lo spazio pubblico che non comporta un grande sviluppo sociale, predilige dei piccoli interventi sull’organizzazione dell’arredo urbano che viene così a costituire degli episodi di porosità e dunque di potenzialità per lo spazio di essere sfruttato. Oltre agli eventi descritti e a questi interventi municipali, porta come esempio più nobile quello della occupazione da parte dei cittadini di spazi negletti, di porosità urbane meno esplicite ma non per questo meno ricche di potenziale. Su questa linea di principio, hanno luogo eventi non autorizzati, in luoghi che di solito sono vuoti e per nulla vissuti, in cui basta un generatore di corrente e un impianto stereo per attirare una crescente folla di partecipanti. Per poche ore un parcheggio o una fabbrica abbandonata, grazie al passaparola sui social, diventa lo scenario per una festa animata di persone che ballano una musica improvvisata. Questo tipo di occupazione transitoria porta oltretutto a una ibridazione tra persone provenienti da contesti eterogenei. Vengono riportati, tradotti dall’inglese, alcuni esempi di progetti dell’Atelier SYN che mettono in pratica le potenzialità del recupero

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Tre esempi dell’intervento Hypothèses d’ammarages, in cui l’Atelier SYN ha distribuito dell’arredo urbano per studiare la reazione sociale di riappropriazione dei luoghi.

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informale il quale, pur attraverso interventi effimeri, fa leva sulla interazione con le persone per riaffermare il carattere di spazi inutilizzati. Hypothèses d’amarrages (ipotesi di ormeggi) prende in considerazione il concetto di soste temporanee, cioè gli ormeggi, in spazi abbandonati che vengono occupati senza dover essere riprogettati. L’operazione semplicissima consiste nell’inserimento di tavolini da picnic nelle aree abbandonate e sottoutilizzate. Sono stati scelti siti che offrissero qualità interessanti per la loro occupazione provvisoria, aprendo così la possibilità di una relazione inusuale con la città, un contatto più libero con il contesto e un modo diverso di fruire dello spazio pubblico. Il tavolo da picnic è stato scelto in quanto rappresenta il concetto di convivialità e offre in più vari modi di essere utilizzato. Dopo dieci anni dall’intervento (2001-2011), molti di essi sono ancora presenti nel sito iniziale: ciò fa riflettere sull’efficacia di interventi così semplici.


Un esempio dell’intervento Hypotheses d’insertions in cui l’Atelier SYN ha portato in strada degli espedienti per creare aggregazione.

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Il secondo esempio è intitolato Hypothèses d’insertions (ipotesi di inserimento). Lo scopo del progetto è di installare un dispositivo che può essere spostato in diversi luoghi, combinatamente a una breve durata di occupazione. In risposta alla call per artisti, da parte dell’Axenéo 7 Art Center, di lavorare su un terrain vague (terreno vago), si è operato trasportando come vettore della trasformazione un tavolino da ping-pong negli spazi disabitati dei quartieri periferici o dei luoghi del lavoro, per aggiungere un layer di utilizzo alternativo degli spazi che porta, attraverso un cambio di prospettiva, a percepire un’immagine della città differente. Diverse condizioni spaziali sono state sperimentate: parcheggi, lotti vuoti, sottopassaggi, piazze pubbliche, parchi e diversi contesti residenziali. Il gioco viene interrotto raramente dall’intervento delle guardie che comunque poco possono obiettare contro l’intervento, andando così a scalfire l’idea precostituita di questi spazi pseudo pubblici. Una serie di cartoline sono state così prodotte e distribuite per far riflettere la gente sulle possibilità inedite degli spazi di risulta. In una seconda occasione si è ripetuto l’esperimento in maniera più ampia. Durante un festival il team ha posizionato tre tavoli da ping- pong, i quali sono diventati subito un mezzo catalizzatore di decine di incontri casuali. Una mescolanza di persone di ogni ceto sociale, giovani punk, senzatetto, immigrati, operai, famiglie e bambini hanno cominciato a giocare assieme e a interagire. Il tavolo da ping-pong è diventato un’occasione di incontro e relazione all’interno della piazza nella quale era installato, grazie alla complicità in un’azione condivisa semplicissima che non richiede di interrogarsi sull’identità della persona con cui si ha a che fare.


Due esempi dell’intervento Hypotheses d’insertions.

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Il terzo e più disarmante esperimento condotto dall’Atelier SYN è il progetto Prospectus. Analizzando la rete di ferrovie metropolitane, ci si è resi conto che si tratta di una vera e propria metropoli sotterranea. Ma questa complessa megastruttura, se percorsa ogni giorno alienati dalla routine, passa praticamente inosservata, diventa un luogo che si è percorso in cui non si è però stati. Ma questo reticolo sotterraneo, caratterizzato da una complessa evoluzione con i suoi diversi tipi di spazi pubblici, lotti vuoti, aree di sosta, zone proibite, piaceri sintetici, sorprese e paradossi, costituisce una vera e propria geografia artificiale che varrebbe la pena di scoprire e in cui si potrebbero tentare esperienze di appropriazione. In questo ambiente l’esperimento è consistito nel travestirsi con tute fosforescenti per attirare l’attenzione dei passanti e mostrare loro, passeggiando nella sequenza di spazi, come questi potessero essere vissuti in maniera alternativa in condizioni spaziotemporali inusuali. In questa sorta di deriva, gli attori situazionisti si sono messi a giocare a hockey su tavolo davanti ai fast


Due esempi dell’esperimento Prospectus.

food, a freccette nei corridoi meno percorsi, a scacchi, a leggere un libro nelle aree più tranquille o a guidare macchinine telecomandate negli ampi spazi vuoti. Dunque, anche se lo spazio disponibile per la riappropriazione è molto stretto in questa città sotterranea, l’idea è di stimolare l’immaginazione attraverso la sperimentazione e la rappresentazione in situ. Un altro esempio che si riporta è quello del Mauerpark di Berlino. Ogni domenica migliaia di persone vengono attirate in una porzione di quella che fu la “striscia della morte” durante la divisione della città di Berlino, dove ora, a seguito della riconversione ad area verde su progetto dell’architetto Gustav Lange, ha luogo il più importante mercato delle pulci della città. L’aspetto interessante di questo evento consiste però in ciò che si svolge affianco all’area occupata dalle bancarelle. In questo caso nello spazio sono state progettate saggiamente delle conformazioni che ne hanno permesso un grande successo. Il suolo è stato piegato per creare, per mezzo di una collina sorta su un accumulo di macerie, un teatro che, sul modello greco, è dotato di cavea a gradinate e scena circolare centrale. Qui dunque lo spazio si offre esplicitamente all’appropriazione spontanea da parte della comunità la quale, intuendo un potenziale, escogita dei modi per usufruire in maniera libera di esso. Se ci si reca una domenica di sole a Mauerpark, dopo aver concluso i migliori affari al mercatino, ci si potrà imbattere in numerosi artisti di strada che suonano e giocolano occupando le propaggini del percorso disegnato attraverso il verde, in gruppi di ragazzi che giocano a pallacanestro nel campetto e infine, facendosi largo tra la gente per poi arrampicarsi sulla collina del teatro a cielo aperto, ridiscendendo la scalinata per trovare posto dietro a una coppia di frichettoni, ci si potrà godere all’ombra dei cipressi circostanti, attraverso i dreadlock dei ragazzi davanti, una serie di spettacoli meravigliosi. Tra questi si trovano artisti da circo, comici o musicisti, ma l’evento che tutti attendono, per il quale i più fortunati sono riusciti a registrarsi sul sito ufficiale, è il Bearpit Karaoke. Lo show è reso possibile da due ragazzi che arrivano in bicicletta forniti di casse a batteria collegate a un microfono, un computer,

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In basso: karaoke nel teatro all’aperto la domenica mattina a Mauerpark, Berlino.

un paio di sedie e un ombrellone colorato. Una cosa interessante che va osservata infine è come uno spazio il cui scopo era quello di dividere due fazioni, in cui infatti è ancora visibile un tratto di muro lasciato a memoria, sia oggi diventato un luogo di aggregazione e comunione, grazie a un progetto intelligente e alla voglia delle persone di riappropriarsi programmaticamente di uno spazio che gli è stato restituito, rivoluzionando la propria identità intrinseca. Questi esempi ci fanno capire come oggetti e corpi possano essere i vettori di nuove coreografiche ibridazioni tra la relativa stabilità della struttura architettonica della città e il dinamismo dei suoi componenti sovrastrutturali. Anche interventi informali, effimeri nella loro consistenza spazio- temporale, possono essere una pratica di riappropriazione in chiave situazionista delle porosità urbane, ovvero dei siti che sanno offrire del potenziale a chi riesce a guardare oltre la loro convenzionale apparenza.

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3.3.6

spazi occupati

14. Christiania’s Common

“L’impegno di Christiania è di creare e sostenere una comunità autogovernata, nella quale ognuno è libero di sviluppare ed esprimere se stesso come membro responsabile della comunità.”14

Law

Un risvolto interessante della vita di molte città europee è la ribellione da parte di piccole comunità autorganizzate le quali, ribellandosi alla capitalizzazione del suolo, decidono di occupare abusivamente, con un atto che forza il sistema di organizzazione urbana e lo stato di diritto, lotti, edifici o intere aree in disuso. L’occupazione è svolta con la finalità di liberare questi vuoti urbani dei catenacci che li rendevano inaccessibili, per creare un centro di interesse collettivo, una porosità urbana, un luogo permeabile in cui si possa godere dello spazio in maniera più libera rispetto al contesto circostante. In Italia infatti questo genere di spazi prende il nome di centri sociali, al loro interno si organizzano attività di solidarietà, manifestazioni, si celebra la libera espressione con eventi musicali e artistici e spesso si organizzano spazi abitabili in cui la comunità o chi ne avesse bisogno può vivere. Un’altra campagna parallela che è significativo riportare riguardo alla nascita di questi spazi è quella della legalizzazione delle droghe leggere e della cannabis in particolare: le comunità che occupano spesso fanno della possibilità di consumare marijuana una bandiera della libertà di questi centri. In questo consiste anche uno dei principali motivi di attrito con la società e di intolleranza da parte delle autorità, che spesso si risolve nello sgombero da parte delle forze dell’ordine di questi spazi occupati senza diritto di proprietà. Si riportano due esempi significativi dal punto di vista storico che inquadrano due possibilità differenti di occupazione. Il primo esempio è la Kunsthaus Tacheles, che è stata a partire dal 1990 uno dei poli più influenti della controcultura in Europa, un importante centro per l’arte contemporanea e meta turistica. L’edificio venne eretto agli inizi del ‘900 per ospitare un centro commerciale, su modello delle gallerie europee. In seguito al fallimento fu acquistato dalla AEG e convertito nella Techikhaus, un polo dove si esponevano le innovazioni tecniche e da cui nel 1925 venne mandata in onda la prima trasmissione televisiva al mondo. Durante il nazismo venne utilizzato come sede delle SS e fu dunque danneggiato dai bombardamenti durante la liberazione di Berlino. A seguito della spartizione del territorio tedesco e della città, l’edificio si venne a trovare nella parte est e fu dunque utilizzato come sede per diverse associazioni governative della DDR. Considerato poco sicuro da alcune perizie strutturali, venne quasi interamente demolito e abbandonato. A seguito della caduta del muro di Berlino, un collettivo di artisti occupa l’edificio sventrato fondando la Kunsthaus (casa dell’arte) Tacheles, parola yiddish che significa “parlare schiettamente”, nome che celebra il fermento di essersi sbarazzati della censura imposta sull’arte dalla DDR. All’interno di questo edificio sventrato, per un ventennio, si 97


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Nella pagina precedente: In alto: un’artista che dipinge dentro il Tacheles. In basso: la corte del Tacheles.

avvicendano eventi e mostre organizzate da un collettivo di circa 30 artisti che vive negli spazi recuperati. Il terreno su cui sorge questo squat, esempio più importante della controcultura della Berlino riunificata, viene acquistano nel nuovo millennio da una società immobiliare la quale comincia a muoversi contro l’occupazione illegale di quello che nel frattempo è diventato un bene da tutelare per la sua rilevanza storica. Nel settembre 2012, dopo diversi scontri in tribunale e in sito, agli ultimi artisti rimasti viene intimato di uscire, gesto che compiono simbolicamente intonando una marcia funebre con un quartetto d’archi. Sia esternamente che all’interno, la Tacheles era resa riconoscibile da moltissimi murales, una forma di espressione underground che ha avuto molto seguito nel panorama berlinese riunificato. Al suo interno ospitava sale d’esposizione e punti vendita di arte contemporanea, un cinema d’essai, il celebre Cafè Zapata, il Panorama Bar del quinto piano e altre sale come il Blaue Salon, ovvero uno spazio di 400 m2 utilizzato principalmente per concerti, letture e mostre e la Goldene Saal, comprende tutto il primo piano del Tacheles; qui si trovava un palco utilizzato per concerti, rappresentazioni teatrali a basso costo e soprattutto per spettacoli gratuiti di danza contemporanea. Purtroppo questo elemento di forte identità e dalla lunga storia è stato inglobato nelle logiche speculative delle società immobiliari e farà parte di un intervento edilizio di riqualifica della zona. Il secondo e più fortunato esempio è quello di Christiania. Nel 1971 una comunità di hippie si impossessa abusivamente di un’area di circa 35 ettari della città di Copenaghen nella quale sorge un’ampia caserma militare in disuso, dichiarando lo spazio liberato come un microstato autonomo, indipendente dalla città e dalla giurisdizione danese. Lo statuto di questa enclave autodichiarata anarchica è molto elementare, si basa sull’amore libero, la pacifica convivenza, la negazione della violenza, il rifiuto per le droghe pesanti, le automobili e le armi. A fronte di numerosi scontri con la polizia e tentativi di sgombero susseguitesi negli anni, si è giunti oggi a un equilibrio in cui alla comunità è stato riconosciuto il diritto di usufrutto e dunque di rimanere nell’area purché questa venga acquistata dal demanio per una cifra di circa 10 milioni di euro. La tolleranza nei confronti del libero consumo di droghe leggere rimane sempre vacillante; a ingiunzioni da parte dell’amministrazione di Copenaghen di rendere l’attività di vendita meno esplicita e visibile, le bancarelle di Pusher street hanno risposto ironicamente coprendosi di reti mimetiche militari. Christiania è a tutti gli effetti un piccolo villaggio autarchico, oltre che anarchico, in cui si trovano più di cinquanta collettivi diversi che esercitano attività commerciali e turistiche, artigianali e culturali. Si trovano poi l’asilo, la panetteria, la sauna, la fabbrica di biciclette, la tipografia, la radio libera, laboratori di restauro, il cinema e diversi luoghi per lo spettacolo e lo svago. Alcune interessanti osservazioni possono inoltre essere fatte sulla strutturazione morfologica di questo villaggio, che può essere visto come una espressione concretizzata della volontà riappropriativa di una comunità di persone, come gli hippie, che culturalmente hanno assunto posizioni molto critiche nei

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In alto: agglomerato di case di Christiania. Nella pagina successiva: In alto: casa dipinta a Christiania. In basso: un’artista che compone un’intallazione a Christiania.

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confronti della società di massa neocapitalista, proponendo modelli alternativi del vivere, dell’esprimersi e dell’occupare lo spazio. Non essendo concepita la proprietà privata all’interno dei confini di Christiania, e non essendo possibile l’accesso delle autovetture, la distribuzione dello spazio è molto particolare: non sono presenti limitazioni alla circolazione ciclo-pedonale, non esistono staccionate e giardini privati, gli spazi autodefiniscono la loro identità in base alla propria distribuzione. Solo a un turista molto curioso e un po’ sfacciato potrà capitare di avventurarsi nelle aggregazioni di case costruite successivamente all’iniziale occupazione le quali sanno crearsi un proprio grado di privatezza organizzandosi, separatamente dai percorsi principali, secondo introspettive disposizioni a corte, seguendo la morfologia della penisola a bastioni. Nelle aree urbane più centrali sono ancora riconoscibili gli edifici della caserma il cui aspetto è stato reso meno autoritario attraverso espedienti informali come i murales o l’installazione di luminarie. Ovunque lo spazio è attraversabile, non esiste una struttura urbana a lotti ritagliati da strade, qui il concetto di strada perde di significato, i lotti si riducono alla dimensione di singoli edifici i quali molto spesso sono aperti al pubblico da esercizi commerciali o culturali, costituendo nel complesso un’area molto permeabile, con un tessuto di connessione tra il costruito accogliente, totalmente a misura d’uomo, dalle forme libere, pieno di verde e riccamente arredato in base alle varie attività che vi si svolgono. Pertanto si osserva qui il risultato di un piccolo modello urbano basato sull’autodeterminazione, la libertà, le esperienze cognitive alternative, l’espressione personale e artistica. Sostanzialmente potrebbe essere considerata una concretizzazione delle utopie situazioniste, la cui morfologia rispecchia molti dei principi finora visti, a partire dal recupero e la conversione di fatti esistenti, per arrivare alla permeabilità, la valorizzazione dello spazio di connessione, la cura nell’arredo urbano, la formazione di una comunità, lo sfruttamento di criteri informali di riappropriarsi dello spazio, eccetera.


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3.4

Madrid - Matadero

15. informazioni tratte

Il vecchio macello e mercato della carne di Madrid, dove è situato oggi il Matadero, venne costruito tra il 1908 e il 1928. Verso la fine del ‘900 è iniziata la trasformazione architettonica del complesso per realizzare uno dei centri culturali più grandi in Europa. Esso si trova inoltre in stretta relazione con il progetto di West8 per Madrid Rio, analizzato in precedenza, del quale entra nella rete di rapporti. Si tenterà qui di raccontarne il progetto, servendosi principalmente delle informazioni raccolte sul sito ufficiale e tradotte dall’inglese e dell’esperienza diretta degli autori.15

dal sito ufficiale www. mataderomadrid.org/

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new times, new architecture


3.4.1

quadro storico

Il mattatoio e mercato della carne di Arganzuela è sempre stato un progetto aperto per la crescita. Circondato da un muro di 2500 metri, su un’area di oltre 16 ettari, il progetto di Luis Bellido e Gonzalez venne strutturato attorno a una serie di padiglioni usati per diversi scopi e servizi. Questi includevano la gestione e amministrazione, il mercato della carne, servizi sanitari, depositi per veicoli, stalle e anche un servizio su binari. Dagli anni ’70 le strutture del macello hanno cominciato a cadere in disuso, portando, negli anni ’90 ai primi progetti di rinnovamento. Nel 1983 l’architetto Rafael Fernández-Rañada trasformò l’ex area amministrativa. Questo edificio, conosciuto come la Casa del Reloy (la casa dell’orologio) corrisponde oggi al municipio di Arganzuela. Nel 1987 lo stesso architetto intraprese il progetto per trasformale altri stabili per portarvi attività socioculturali. Dal 1990 al 1996, l’architetto Antonio Fernández Alba trasformò le ex stalle nel centro della Compagnia Nazionale di Danza. Nel 1996 il macello cessò definitivamente le proprie attività e venne registrato l’anno successivo nel piano urbanistico per le trasformazioni. Nel 2003 Il consiglio municipale di Madrid decide di devolvere il sito ai fini socioculturali e conseguentemente inizia la revisione del piano urbanistico. Nel 2006 si decide di indurre un concorso per la trasformazione, con la precisazione di mantenere l’architettura originaria e di utilizzare il 75% dello spazio per scopi culturali.

3.4.2

Pagina precedente: Padiglione del Matadero di Madrid come appare oggi.

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conversione degli spazi

Da principio, i nuovi interventi vennero pensati per convertire lo spazio in un centro per la creatività. Divenne un luogo di sperimentazione architettonica, seguendo allo stesso tempo un criterio di pianificazione che conservasse il contesto. La linea di principio è concentrata sulla reversibilità, ciò implica che gli spazi possano essere ricondotti alla loro condizione originaria. Inoltre, mantenendo l’aspetto dell’ex macello, il progetto accentua il carattere sperimentale dell’istituzione. Uno degli obbiettivi principali era quello di trovare un equilibrio tra il rispetto del sito e le nuove dotazioni. Queste avrebbero dovuto limitarsi all’utilizzo di materiale industriale e simultaneamente creare gli spazi per svolgere le nuove attività.


L’architetto Arturo Franco ha restaurato l’ala che si affaccia verso il Paseo de la Chopera 14, uno spazio chiamato Intermediae composto principalmente di ferro e vetro e che venne aperto al pubblico nel febbraio 2007. Questa parte ha conservato un aspetto molto grezzo, l’intonaco è stato lasciato nella condizione in cui si trovava. Lo spazio ospita il vestibolo in cui sono accolti i visitatori e una grande sala per l’interazione culturale. Il complesso delle Naves del Español, uno spazio coperto di 5900 m2, è il prodotto di una collaborazione interdisciplinare tra il regista teatrale Mario Gas e lo scenografo Jean Guy Lecat. La collaborazione ha anche coinvolto il tecnico scenografico Francisco Fontanals e l’architetto municipale Emilio Esteras. Il restauro, eseguito secondo le linee guida della reversibilità, flessibilità e versatilità, ha dato allo spazio una varietà di configurazioni per le rappresentazioni teatrali. Sono stati introdotti nuovi elementi e materiali (come il policarbonato e strutture in impalcato) i quali sono combinati con quelli esistenti, permettendo comunque una chiara lettura del lavoro di rinnovo. La Central de Diseño, che ha aperto nel novembre 2007, è il risultato di un progetto condotto da José Antonio García Roldán. Il suo intervento ha dato importanza al mantenimento della forza nella scomposizione costruttiva di certi elementi. Egli ha raggiunto questo obbiettivo incorporando materiali di riciclo o riciclabili a loro volta. Policarbonato rimovibile per i muri illuminati e pannelli zincati per il pavimento. Nello spazio vengono allestite esibizioni, festival e lalaboratori, trovano inoltre posto classi, spazi per uffici e un magazzino. Nel giugno del 2011 apre il Nave 16, progettato come uno spazio versatile per esibizioni di oltre 4000 m2. Il restauro è stato curato dagli architetti Alejandro Vírseda, José Ignacio Canicero e Ignacio Vila Almazán, che per questo progetto sono stati finalisti del FAD Architecture Prize nell’anno 2012. La strategia degli architetti è stata quella di valorizzare il più possibile la memoria del luogo, riutilizzando ad esempio alcuni sistemi utilizzati per appendere le carni, reinventandoli come sistema di allestimento delle opere d’arte. Un ulteriore progetto esemplare di restauro, di grande immaginazione per un costo ridotto, è la Cineteca, aperta assieme alla Nave de Música nel 2011. Lo spazio ha un’estensione complessiva di 2,688 m2. Gli architetti José María Churtichaga e Cayetana de la Quadra Salderò hanno seguito la conformazione esistente, conservando lo charme dello spazio originale. Un’altro ampio spazio per esposizioni è la Casa del Lector, sempre dell’architetto Antón García Abril. Uno spazio con una estensione di oltre 8000 m2 che ospita mostre temporanee e eventi culturali legati alla letteratura. Infine, un’altra dotazione importante è la centrale che, attraverso un sistema di scambiatori termici sotterranei, alimenta il sistema di 104


Vista aerea sul complesso del Matadero; si intravede sullo sfondo il Madrid Rio, progetto di West8. In primo piano la Plaza Matadero con gli Escavarox.

condizionamento degli ambienti. Viene qui inoltre prodotta acqua potabile, e viene fatto partire un sistema di pompaggio antincendio. La centrale produce anche energia elettrica, e convoglia i sistemi di cablaggio telefonico, del suono e delle informazioni. Questo espediente consente un notevole risparmio energetico e una significativa riduzione dei costi di mantenimento, in accordo con i principi di sostenibilità e economia che hanno guidato l’interno progetto.

Madrid Rio

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legenda 1. Escavarox 2. Taller e Oficina de

1

Coordinación

6

3. Cineteca 4. Central de Diseño 5. Abierto x Obras 6. Naves del Español 7. Intermediae e Vestíbulo 8. Plaza e Calle Matadero 9. Casa del Lector 10. Nave 16

105

2

9

8

Calle Matadero 3

4

5

7


106


3.4.3

Pagina precedente: In alto: sale espositive della Central de Diseño. In basso: interno di un padiglione multifunzione. Su questa pagina: Naves del Español, complesso di padiglioni dedicati al teatro.

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attività e dotazioni

Il centro offre innumerevoli attività culturali, dalle esibizioni negli spazi espositivi, i forum, i workshop, le proiezioni, la programmazione teatrale, cinematografica e musicale, a iniziative più avanguardistiche nel campo sociale, sul tema della lettura, della cooperazione, del dialogo e la critica. Gli spazi sono progettati per offrire la maggiore flessibilità per creare infinite e rinnovate opportunità, per essere aperti e permeabili, atti alla fruizione pubblica, accoglienti e agevoli nell’arredo, democratici nella condivisione, per essere affittati dal pubblico per iniziative private. Il Matadero è un centro culturale e sociale, per la coesione e aggregazione, vettore del cambiamento urbano e aperto a nuovi orizzonti espressivi. Vengono di seguito analizzate nello specifico alcune attività la cui relazione con gli spazi che le ospitano è peculiare e magistralmente congegnata. Il Matadero non è composto di soli edifici: lo spazio tra le ex unità industriali è ulteriormente interessante per quanto concerne la sua dimensione e qualità urbana. Il progetto di masterplan è stato sviluppato in collaborazione con gli architetti vincitori del concorso urbanistico internazionale per Madrid Rio: Ginés Garrido, Carlos Rubio e Fernando Porras. Sono nati così la Calle e la Plaza Matadero, uno spazio all’aria aperta traboccante di attività, come manifestazioni,


Sopra: Casa del Lector, padiglione dedicato alla lettura e allo studio. Nella pagina affianco: In alto: evento nella Plaza Matadero. In basso: interno della Nave 16, grande spazio multifunzionale e modulabile attraverso padiglioni in acciaio.

eventi serali, festival. In questo spazio sono state installate nel 2012 due unità mobili chiamate Escaravox, le quali costituiscono uno spazio per le performance, grazie al sistema audio e per proiezioni, una possibilità per il riposo e un playground. Costruiti su un sistema mobile di irrigazione utilizzato nella coltivazione estensiva, gli Escaravox sono dotati di schermi, altoparlanti, vegetazione e una copertura per il sole e la pioggia. Essi sono l’equivalente di un coltellino svizzero per il tempo libero, finalizzati inoltre ad abbattere la barriera tra gli artisti e il pubblico, permettendo agli attori sociali di interagire liberamente e creativamente con lo spazio. La disposizione degli Escaravox, grazie alla loro natura mobile, cambia stagionalmente, dando di volta in volta una configurazione diversa alla Plaza Matadero a seconda delle necessità. La Nave 16 è con i suoi 4000 m2 di superficie unica e tra gli spazi più ampi del complesso. La strategia progettuale è stata quella di creare delle suddivisioni mobili per permettere di utilizzare in maniera più flessibile tale superficie. In base alle necessità, gli spazi sono utilizzati come sala concerti, centro per esposizioni, sala conferenze, passerella per sfilate. Sostanzialmente, il bando chiedeva di progettare un sistema flessibile che trasformasse lo stabilimento a seconda del programma, perché risultasse contemporaneamente lo spazio per esposizioni più grande a Madrid o una serie di cellule indipendenti. Questo è permesso dalla presenza di pannelli in acciaio a doppia altezza che, ruotando su un perno centrale che possono

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alternatamente chiudere o mettere in comunicazione gli spazi. Lo stesso sistema è utilizzato anche per le entrate e le aperture, permettendo se necessario un totale oscuramento e isolamento dall’esterno dello spazio. Al suo interno avvengono lezioni di danza o vengono allestite mostre, concerti, o spazi sociali, con divani, amache appese a 10 metri di altezza, libri che pendono dal soffitto fino all’altezza del lettore seduto e tavoli pieni di pennarelli e fogli bianchi. Si potrebbe considerare questo spazio come una grande piazza al coperto, in cui potenzialmente immaginare qualsiasi tipo di attività aggregativa.16 Finalisti del FAD Architecture Prize sono stati anche María Langarita e Victor Navarro, incaricati di trasformare la Nave 15, in cui si trova ora la Nave de Música. Quest’ultima è stata aperta al pubblico nell’ottobre 2011. Le premesse del loro lavoro erano di nuovo incentrate sulla reversibilità, la flessibilità e il massimo rispetto per le strutture originali. Gli architetti hanno creato uno spazio unico dedicato alla musica e all’arte del suono, combinando palchi, uffici, sale prova e sale conferenze, lo spazio per una radio e uno studio di registrazione, un progetto senza precedenti a Madrid. Morfologicamente lo spazio appare proprio come un villaggio dedicato alla musica, all’interno dell’ampia sala post-industriale infatti è stato dislocato il programma in piccole casette di legno, connesse da percorsi organici in terra battuta, che si dipanano tra piccole piazzette arredate con sedie e tavolini, interrotte solo dalla regolare selva di pilastri dell’hangar, e aiuole di verde realizzate su cumuli di terra. Con sacchi di terra sono invece stati realizzati i muri delle sale per la registrazione, al fine di ottenere un’efficace insonorizzazione. Si tratta dunque di un intervento di recupero in uno spazio molto ampio che concede una grande flessibilità insediativa e dunque funzionale, tant’è che è stato possibile realizzare una piccola città, con casette di legno dal tetto a falde, al coperto. L’ibridazione intelligente di varie funzioni legate al campo comune della musica, dislocate organicamente e realizzate con povertà di mezzi e materiali di recupero, ha determinato il successo di questo intervento.17

16. informazioni tratte da http://www.archdaily. com/295502/hangar16-inaqui-carniceroarchitecture 17. informazioni tratte da http://www.archdaily. com/213918/red-bullmusic-academy-langaritanavarro-arquitectos

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La Cineteca segue il filo conduttore del Matadero, abbracciando l’interdisciplinarità, il progeto site- specific, la sperimentazione, la costruzione di una comunità emozionale, la produzione collettiva di significato, un approccio procedurale e i principi di un economia basata sulle risorse disponibili. Questi i principi guida per il contenuto culturale della Cineteca, attraverso tutte le attività relative alla produzione audiovisiva. Lo spazio è pionieristico, cerca di espandere gli orizzonti di chi ama il film in presa diretta, nato con i fratelli Lumière alla fine del diciannovesimo secolo. Lo spazio offre una sala per la presentazione di lavori cinematografici e televisivi detta sala Azcona, uno spazio multifunzionale, un archivio, il Plató, la Cantina, un locale provvisto di terrazzo che valorizza il cibo sano e naturale, e infine il patio della Cineteca. Qui è possibile assistere a proiezioni in formati differenti e vari stili sperimentali. Le produzioni della Cineteca sono sempre sviluppate sperimentalmente e tenendo a mente i rischi


Vista sulla Plaza, dalla Caje Matadero; la circolazione all’interno del complesso è esclusivamente ciclopedonale.

18. informazioni tratte da http://www.detail-online. com/blog-article/cinetecamatadero-madrid-bychurticaia-quadrasalcedo-25280/ e dal sito ufficiale http://www. cinetecamadrid.com/ 19. informazioni tratte dal sito ufficiale http:// casalector.fundaciongsr. org/ 20. informazioni tratte dal sito ufficiale http://www. dimad.org/recursos/index. php

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avanguardistici.18 La Casa del Lector è un luogo dedicato all’esperienza della lettura, ai suoi nuovi volti, alla consapevolezza e all’educazione per incoraggiare le persone a leggere. È uno spazio in cui il pubblico è vario e si mescola con il mondo professionale: adulti, giovani e bambini; ma anche il mondo dell’editoria, dell’illustrazione e dell’arte entrano a far parte delle attività organizzate. Ogni lavoro culturale necessità di buone capacità di lettura per essere compreso e apprezzato. La Casa del Lector tiene molti eventi, come mostre, conferenze, corsi educativi, workshop, eventi musicali, cinematografici e dello spettacolo. Inoltre promuove la ricerca. Questi eventi contribuiscono alla creazione di un pubblico di lettori che comprendono, analizzano, condividono e interpretano il mondo, la società e il loro tempo.19 È inoltre presente una location per la promozione del design, che presenta la disciplina come un compromesso tra l’economia e la cultura. Il graphic design, quello del prodotto e degli interni possono essere visti dal punto di vista culturale come un mezzo per applicare valori creativi alle attività economiche. Nel suo insieme la Central de Diseño abbraccia sia formule testate che sperimentali, promuovendo giorno per giorno le attività creative. È già diventata un potente generatore di servizi per l’intero complesso, proponendo un’ampio supporto alle altre componenti culturali di Madrid. Il centro, coordinato dalla Fundación Diseño Madrid, aspira a essere un punto di riferimento del settore anche internazionalmente. Il logo del Matadero, prodotto da un team di designer prestigiosi, è il primo prodotto della collaborazione del centro con l’amministrazione di Madrid.20 Lo parte detta Naves del Español è uno spazio dedicato al teatro


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Nella pagina precedente: In alto: esploso assonometrico del progetto temporaneo per la Redbull Music Academy dentro la Nave 15. In basso: androne della Cineteca con la volta intrecciata. In questa pagina: vista del villaggio della Redbull Academy, dedicato alla musica.

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gestito dal Teatro Español attraverso la MACSA (Madrid Arte y Cultura S.A.). Il progetto, come visto, è stato curato in collaborazione con diverse figure di specializzate nel settore. Lo spazio consiste in tre spazi molto flessibili, interconnessi che possono anche funzionare singolarmente. La Nave 12 ha un foyer d’entrata, un’area reception e un bar-ristorante, nel quale poter prendere un te seduti su una struttura a gradoni munita di tavolini che si affaccia sul palcoscenico; possono qui essere organizzati spettacoli su piccola scala. La Nave 11 ospita il palco vero e proprio, progettato per un’ampia flessibilità e versatilità. La disposizione del pubblico può essere pensata in diversi modi. Nella Nave 10 c’è la Sala 2, uno spazio di 2500 m2 per performance sperimentali e prove teatrali.


3.5

21. Atelier Novembre Architects, Paris, 104. Riconversione delle antiche pompe funebri di Parigi in Centro di creazione artistica, il 104, SilvanaEditoriale, Milano 2009, p. 134. Dettaglio della facciata su corte Curial; la torre si riflette sulla vetrata.

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Parigi - Centquatre

“Impianto multidisciplinare, il Centquatre accoglie artisti internazionali in residenza. Gli spazi e la programmazione sono stati pensati per favorire la coabitazione e lo scambio tra gli artisti residenti e i passanti. Una coesistenza che mira a generare metodi di creazione, produzione e visibilità dell’arte assolutamente nuovi, aumentando le vie d’accesso all’arte e consentendo nuove opportunità alla creazione contemporanea. Nuovo asse di collegamento tra quartieri dalla ricca e variegata identità e cultura sociale, esso ospita anche un’infrastruttura di prossimità per le pratiche artistiche amatoriali (individuali, collettive o associative) e una “casa dei piccoli”, spazio d’arte volto a risvegliare le capacità creative infantili.”21


3.5.1

22. Atelier Novembre Architects, op. cit., p. 133.

progetto

“sotto un sole radioso, Bertrand Delanoë, sindaco di Parigi, ha finalmente inaugurato questo progetto faro destinato a vitalizzare e umanizzare, a infrangere le barriere che ci separano dall’emozione del bello e dell’arte. Vicini e passanti, artisti e curiosi, professionisti e dilettanti sono stati tutti invitati ad attraversare per la prima volta la nuova passeggiata.”22 Il progetto di realizzare un centro culturale nel quartiere satellite Flandres della capitale francese, caratterizzato da un tessuto densamente costruito sviluppatosi dal secondo dopoguerra, nasce a partire dall’intenzione di riconvertire uno spazio abbandonato di 2 ettari sul quale sorgeva una fabbrica di pompe funebri risalente al diciannovesimo secolo. Gli studi preliminari vengono avviati nella primavera del 2004, si tratta di riconvertire un complesso sotto la tutela dei beni culturali in un grande centro pubblico per l’arte e la cultura, per cui di un progetto molto complesso e delicato. Si pensa dunque di organizzare dei tavoli per discutere e cercare di definire il quadro di un’operazione a tal punto innovativa e pionieristica. Martial Braconnier, responsabile dell’agence grands projects presso la direzione del patrimonio e dell’architettura del comune di Parigi, racconta lo spirito d’avventura e dell’eccitazione che regnavano nei Laboratori: “Il progetto del 104 era molto innovativo e totalmente atipico. Il cliente ha deciso quindi di adottare un processo di elaborazione del progetto altrettanto inconsueto, Partendo da un’idea che abbiamo chiamato pre-programma, ci si aprivano due possibilità. Potevamo chiedere a un esperto di stilare il programma oppure coinvolgere più soggetti per creare una sorta di alveare e produrre un’infinità di idee. Abbiamo preferito questa seconda opzione. Quindi in vari Laboratori si sono riuniti diversi gruppi composti da architetti, esperti di programmi architettonici, uffici di consulenza tecnica, specialisti in diversi campi artistici e senza alcuna limitazione hanno confrontato le loro idee per elaborare insieme Il programma definitivo. È stata un’esperienza molto divertente, interessante, addirittura affascinante, ma allo stesso tempo anche assai difficile perché Il ventaglio di possibilità che ci si apriva davanti era immenso e anche perché gli architetti non sono abituati a fare programmi, di solito fanno progetti, quindi sono più inclini a fornire risposte che a porre domande”23.

23. ivi, p. 30. 24. ivi, p. 38.

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Conclusa questa fase, si arriva a definire il programma per il progetto di cui sinteticamente, nella conferenza stampa in cui si rende ufficiale la scelta del progetto, viene proclamato: “dallo spazio urbano all’architettura: una trasformazione basata su criteri di semplicità, rusticità, affidabilità e flessibilità d’uso, al servizio di un progetto artistico multiforme e in evoluzione dedicato ai rapporti fra Arte e Territorio”24. Il concorso viene vinto dall’Atelier Novembre, uno studio di architettura parigino che aveva partecipato ai tavoli per la definizione del programma. La prima mossa è stata un accurato


Sopra: vista sull’atrio Curial dalla piazzetta. Sotto: installazione nell’atrio Aubervilliers; in secondo piano il corpo d’ingresso su rue Aubervilliers.

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rilievo per comprendere la trama spaziale preesistente e far sì che le nuove funzioni si potessero inserire con il minimo conflitto strutturale possibile. Si tratta di un intervento molto preciso che valorizza la preesistenza, inserendosi in maniera molto coerente e delicata, riducendo al minimo l’impatto degli interventi aggiunti per valorizzare al massimo il fascino dell’edificio storico. Il progetto viene portato avanti molto rapidamente, tanto che nel 2007 il cantiere è già aperto al pubblico per essere definitivamente concluso e inaugurato nell’estate del 2008.


3.5.2

spazi e funzioni

25. ivi, p. 5.

“abbiamo voluto creare una struttura facilmente accessibile a tutti. Abbiamo anche pensato a un edificio denso di significato che potesse iscriversi in maniera pertinente e duratura nel proprio contesto ambientale. Attraverso un lavoro sulla memoria abbiamo reso possibile questa trasformazione mantenendo l’indispensabile aggancio al territorio, così da rispondere alle sfide culturali, politiche e sociale del progetto.’’25 Il concetto fondamentale del progetto del 104 era di avere un luogo dove tutto fosse possibile, la sfida è stata come trasformare dunque un’intenzione così ampia in programma architettonico. Non doveva diventare uno spazio specializzato ma uno strumento polivalente plurale e aperto a tutte le pratiche artistiche, molto flessibile e dalle alte prestazioni. L’obiettivo era quello di creare un polo di incontri inediti in grado di ospitare scambi permanenti tra pubblico e artisti e in cui fosse possibile mettere in piedi un’abbondanza di progetti. Il progetto doveva inoltre presentarsi in maniera sobria, risultando un’architettura senza tempo, rispettosa della memoria del luogo e al contempo coerente e leggibile. Aggancio con i territorio. Un intervento dunque molto delicato, attento al contesto e alla storia e contemporaneamente aperto all’evoluzione delle pratiche artistiche. È stato permesso al centro di ospitare l’attività di 200 artisti contemporaneamente, i quali vengono detti residenti e possono usufruire degli spazi dedicati per periodi compresi tra i 2 e i 12 mesi. Sono stati previsti anche degli alloggi per questi. Il complesso ospita venti piattaforme artistiche di diverse ampiezze, dai 90 ai 350 m2, si tratta di piattaforme attrezzate su richiesta degli artisti, dei laboratori che rispondono a diverse esigenze tecniche e scenografiche, atti dunque sia all’espressione che all’esibizione. Sono presenti poi sale per spettacoli di danza e teatro, laboratori dedicati, come quello di falegnameria e lavorazione dei metalli in cui sono organizzati workshop, spazi per la formazione, uffici, sale per la registrazione e il mixaggio, per la fotografia, il cinema e laboratori multimediali. Si trovano inoltre il Pépinière d’Entreprise, una struttura per il coworking, di sostegno e sinergia per giovani imprenditori e start up, una caffetteria e diversi spazi per attività commerciali, si consideri che il centro finanzia almeno il 30% delle proprie iniziative con entrate proprie, tramite i negozi e l’affitto dei locali. Nei piani interrati sono ricavati infine due auditori rispettivamente da 200 e 400 posti e parcheggi per 160 veicoli. L’impianto si sviluppa rettangolarmente all’interno di un lotto, aprendosi verso la strada unicamente sui due lati più corti. La distribuzione è simmetrica rispetto all’asse centrale e crea un percorso orizzontale che concatena gli spazi coperti e non tramite un’alternanza di compressione e decompressione, permettendo di passare liberamente da una via a quella opposta. Dall’ingresso est di

117


laboratori

auditorio

expo

400

negozi

corte atrio Aubevilliers

dell’

atrio Curial

piazzetta

orologio

laboratori danza

118

auditorio 200

negozi

corte Curial


Nella pagina affianco: Sopra: sezione e pianta del complesso che denotano la percorribilità orizzontale. sotto:l’atrio Aubervilliers affollato; in secondo piano l’entrata dell’atrio Curial con l’orologio e la campana; sullo sfondo si notano le torri residenziali del quartiere. In questa pagina: gente che occupa l’atrio Curial; in secondo si osserva la parete dell’auditorio 400.

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Rue Curial, reso permeabile da 6 aperture ulteriori al portone centrale, si accede a uno spazio detto corte Curial su più livelli che funziona come una piccola piazza, resa piacevole dalla presenza di più scalinate. Sul lato corto meridionale di questa corte si erge il serbatoio idrico il quale stato trasformato in un simbolo identitario del progetto, fungendo da belvedere, monumento e idealmente da faro culturale. Da qui è poi possibile varcare l’ingresso alla prima galleria, detta atrio Curial, una struttura volumetricamente tripartita, con due corpi solidi a doppio livello ai lati di un’ampia navata di circa 20 m di luce con una copertura a falde, sostenuta su capriate Polonceau e illuminata da un lucernario centrale. Mentre ai lati si articolano al piano terra una galleria commerciale molto permeabile e al primo piano i laboratori creativi messi in comunicazione da una pensilina in acciaio, nella navata centrale lo spazio è articolato su uno sdoppiamento del livello che aumenta le possibilità per questa piazza al coperto. Qui vi si svolgono laboratori di danza, proiezioni, mostre, eccetera. Dalla piazzetta si prosegue nella navata per arrivare a un grande spazio libero, aperto a molteplici possibilità, affiancato dai due auditori e i rispettivi foyer.


Nella pagina affianco: Sopra: gente balla nella piazzatta sospesa dentro l’atrio Curial. In mezzo: l’auditorio 400 pieno. Sotto: installazione che che sfrutta il carroponte dell’atrio Aubervilliers.

Proseguendo a ovest e uscendo dal fondo del primo complesso attraverso un infisso vetrato a due ante bipartite, che chiude l’arcata centrale alta circa 10m per poter isolare l’atrio Curial, ci si trova nella corte dell’orologio, la quale conduce attraverso tre passaggi all’atrio Aubervilliers. In quest’ultimo il pavimento ha una lieve pendenza discendente in maniera longilinea al percorso intrapreso per la descrizione, così da creare, assieme alle scalinate disposte trasversalmente ambo i lati, una sorta di cavea teatrale. È qui infatti presente una gru mobile per issare le installazioni e allestire le scenografie. Infine il corpo si chiude con un blocco di uffici. Ai lati dell’atrio Aubervilliers si aprono laboratori per la musica e lo spettacolo. Da considerare infine è la notevole operazione ingegneristica sugli aspetti acustici, ogni ambiente per lo spettacolo è stato insonorizzato attraverso un attento progetto di isolamento. Ciascuno spazio è stato connotato con un proprio carattere acustico, affinché abbia un peculiare profilo per identificarsi come distinto dispositivo di creazione artistica.

3.5.3

architettura orizzontale

26. ivi, p. 40.

Come evidenzia Jacques Pajot, uno dei responsabili dell’Atelier Novembre, si è “capito presto che le sfide del progetto riguardavano allo stesso tempo gli aspetti tecnici e quelli spaziali. il luogo imponeva imponeva una riflessione non tanto in termini di superfici quanto di volumi. Per ottemperare ad alcune funzioni, una bella altezza era a volte preferibile a criteri del tutto diversi”26. Queste considerazioni hanno guidato gli architetti nel reinventare gli spazi per sfruttarne a massimo le potenzialità. Il progetto non si risolve nell’adempiere alle caratteristiche tecniche del programma da distribuire, ma trascende la mera funzionalità, creando nuove possibilità di usufruire degli ambienti, sfruttando la flessibilità offerta dal complesso. Si ha qui infatti una inversione del rapporto tra spazi serviti e serventi, il connettivo diventa lo spazio di maggior interesse, grazie alla qualità volumetrica e compositiva di un edificio disegnato seguendo una struttura classica e un lessico Art Nouveau. La particolarità dell’intervento è di presentare 40.000 metri quadrati di superficie calpestatile su un sito di 20.000, dunque una scarsissima densità se confrontata con il contesto urbano circostante, caratterizzato dalla presenza di alte palazzine in linea e a torre. Conseguentemente il 104 si presenta come un luogo dal carattere volumetrico molto interessante, costituito da grandi ambienti connessi tra loro orizzontalmente. Aspetto fondamentale per uno spazio pubblico di qualità, come si evince dalle considerazioni sulle carte del Nolli, è infatti un’articolazione orizzontale che consenta la circolazione e comunicabilità tra le persone e la leggibilità fruitiva del sito. Per estensione, si può infatti comparare le superfici aperte

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Nella pagina affianco: Sopra: Il 104 che staglia dal suo contesto di periferia residenziale ad alta densità. Sotto: vista dell’atrio Curial; il 104 accoglie ogni giorno sia turisti che le comunità del quartiere e di tutta Parigi.

27. ivi, p. 31. 28. esperienza diretta

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del 104 con la piazza antistante al Centre Pompidou; entrambi sono esempi di spazi aperti molto vissuti, grazie alla loro apertura, qualità spaziale e orizzontale democraticità. Un fattore che dona qualità al complesso è la logica della permeabilità: è dunque possibile per chiunque attraversare da una parte all’altra la struttura molto facilmente, attraversando un’alternanza di ambienti diversi disposti simmetricamente lungo un ipotetico asse cerimoniale. Inoltre ogni spazio è lasciato molto aperto e privo di impedimenti e eccessivo arredo, progettualmente ci si è infatti concentrati sulla modificabilità e flessibilità delle volumetrie, delle infrastrutture e dell’acustica; tenendo a mente che una eccessiva dotazione avrebbe rischiato di limitare le potenzialità degli spazi. Nessun ambiente ha pertanto una destinazione funzionale definita univocamente e proprio in questo risiede il successo del Centquatre. Il centro è progettato per diventare una ‘società nella società’, guidata dall’intuizione del ruolo positivo degli artisti come promotori, accompagnatori, rivelatori o mediatori delle trasformazioni urbane. Il fine è quello di generare un forte senso di adesione e partecipazione da parte di un pubblico che va dai ragazzi del quartiere ai turisti di tutto il mondo. “Il 104 si è posto come una sorta di veicolo del senso e dell’intelligenza e in un quadro di situazioni molto concrete - cambiamenti del quartiere, dell’arrondissement, della zona urbana e della banlieue, compresa la cintura metropolitana e Parigi centrale ha saputo entrare in risonanza col proprio ambiente’’27. La strategia è stata quella di abbattere le barriere tra le arti e il loro pubblico, fisiche e mentali, creando uno spazio di aggregazione e condivisione delle esperienze, attraverso le forme di espressione. Passeggiando per gli ambienti può così capitare28, sedendosi sulla gradinata della corte Curial, di osservare ad esempio i ragazzi del quartiere che, provvisti di impianto stereo, ballano l’hip hop o vanno sullo skate-board, turisti che fanno foto, gente che disegna; all’interno trovare poi una lezione di danza moderna, da seguire placidamente dai tavolini del caffè, arrivare infine alla corte dell’orologio, dopo un giro tra i negozi di artigianato, per ascoltare un musicista che si esibisce o contemplare un gruppo di attori che fa le prove, copione alla mano, per il proprio spettacolo. Da qui in ultima entrare nell’imponente atrio Aubervilliers in cui interagire con una installazione artistica che si estende su tutta la superficie.


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Fotomontaggio che rappresenta il fermento immaginativo milanese, in contrasto con la gerarchizzazione e fissitĂ socio-spaziale; sullo sfondo la torre Galfa, primo sito di occupazione del collettivo Macao; illustrazione “bank A - bank Bâ€? di Sala Dan Perjovschi.

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4

spazio libero a Milano Si prende qui in analisi il contesto milanese, cercando di andare nello specifico delle possibilità di recupero e riappropriazione degli spazi. In particolare cercando di considerare da una parte la relativamente recente presa di coscienza sul tema da parte dell’amministrazione e dall’altra le campagne portate avanti dall’autogestione di alcuni collettivi o ancora il caso della rigenerazione del quartiere di Lambrate grazie al suo inserimento nella rete di eventi del Fuorisalone. Entrambe le casistiche si esplicitato significativamente in due casi studio: rispettivamente il Base e il Macao.

4.1

inquadramento

4.1.1

presa di coscienza

1. sito ufficiale http://www.

Milano è forse una delle città italiane con il maggior numero di metri quadri di spazi dismessi, si tratta per lo più di ex officine e fabbriche che sono state delocalizzate a seguito dell’espansione abitativa urbana. Parallelamente, nonostante non manchino spazi per la cultura come musei e gallerie, si riscontra una carenza di strutture interattive e partecipative per l’espressione sull’esempio dei casi analizzati.

riformaremilano.polimi.it/

Da pochi anni però, grazie all’iniziativa della giunta Pisapia, i primi passi verso una presa di coscienza sul problema degli ambiti dismessi e congiuntamente sulle opportunità per la cultura e l’aggregazione che questi possono offrire, sono stati mossi. Il primo passo è stato quello di compiere una mappatura dei luoghi in stato di degrado e abbandono, tra i quali è possibile scorrere sulla piattaforma online che inquadra il progetto Riformare Milano1. Questa iniziativa è stata importante per portare consapevolezza ed è stata accolta dal Politecnico come una possibilità di ricerca. Inoltre, a partire dalla deliberazione della Giunta Comunale n. 1978/2012, sono stati messi a bando molti spazi in dismissione. L’assegnazione avviene a progetto, premiando le iniziative che promuovono e valorizzano progetti sociali, culturali, imprenditoriali, soprattutto nelle periferie.

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Questi sono i principali criteri dei nuovi bandi: - riuso dei grandi spazi non utilizzati e in stato di degrado grazie a concessioni in comodato d’uso gratuito per un periodo lungo, fino a 30 anni, nei confronti di soggetti pubblici e privati; - spazi gratuiti alle associazioni per un periodo di 3 anni; - spazi commerciali a canoni ridotti del 90% per i primi 5 anni alle nuove imprese; - bandi integrati multifunzione per l’assegnazione di spazi nei quartieri di edilizia popolare e dinuova edificazione che permettano, laddove opportuno e funzionale agli obiettivi dell’Amministrazione Comunale, l’utilizzo condiviso da parte di più soggetti e la combinazione di differenti funzioni utili ai quartieri. In data 13/06/2016 è stato pubblicato un bando: “Piccoli spazi in città”, per l’assegnazione in uso a titolo gratuito di piccoli spazi ad Enti senza fine di lucro da destinare a progetti sociali, culturali, educativi e/o formativi a fronte della presentazione di una proposta progettuale di utilizzo. Molti altri sono i bandi aperti recentemente. Il comune propone inoltre di coprire finanziariamente il 50% di progetti approvati proposti dalla comunità2.

2. dal sito comune http:// www.comune.milano.it/ wps/portal/ist/it/servizi/ casa/chi_cerca_uno_ spazio/ assegnazione_su_ progetto

foto dal portico della cascina recuperata grazie al progetto Mare Culturale Urbano.

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L’iniziativa da parte dell’amministrazione sembra non mancare, si tratta di trovare efficaci proposte per la collaborazione. Negli ultimi anni queste opportunità sono state accolte e concretizzate dando origine a tre spazi recuperati: Mare Culturale Urbano, nello spazio di un ex cascina, Santeria Socialclub, in una ex officina, e Base nell’ex area Ansaldo. La prima è una realtà culturale che, essendo periferica, cerca molto il contatto con la comunità di quartiere. Nel secondo caso si tratta invece di un’attività ricreativa serale che organizza, su un piccolo palco, eventi culturali. Del terzo verrà trattato ampiamente in seguito.


4.1.2

Lambrate e Fuorisalone

Per Fuorisalone si intende l’insieme degli eventi distribuiti in diverse zone di Milano che avvengono in corrispondenza del Salone Internazionale del Mobile, in scena nei padiglioni di Rho Fiera. Ogni anno, nel mese di Aprile, Fuorisalone e Salone fanno della Milano Design Week l’appuntamento più importante al mondo per amanti del design. Il Fuorisalone non è un evento fieristico, non ha un’organizzazione centrale e non è gestito da alcun organo istituzionale: è nato spontaneamente nei primi anni ’80 dalla volontà di aziende attive nel settore dell’arredamento e del design industriale. Attualmente vede un’espansione a molti settori affini, tra cui automotive, tecnologia, telecomunicazioni, arte, moda e food. I diversi espositori oggi si possono organizzare autonomamente oppure fare riferimento a Studiolabo che fornisce assistenza: dalla ricerca di location alla definizione di strategie fino a piani di comunicazione dedicati da scegliere sul portale fuorisalone.it.

Esposizione del Fuorisalone dentro un ex stabilimento industriale.

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Molti degli eventi vengono organizzati aprendo al pubblico spazi privati, puntando sulla comunicazione con la strada per attirare la gente. Dunque i distretti in urbani dove avviene la maggior parte delle iniziative diventano, per l’interesse che viene a crearsi e per le implicazioni spaziali, molto più attrattivi, porosi e pertanto vivi. Le strade si riempiono di persone che passano da un evento all’altro, varcando le soglie di botteghe, officine, negozi, atri e corti che si aprono per l’occasione. All’interno di questo meccanismo vitalizzante del contesto urbano, particolarmente significativo è il fermento che si sviluppa nel quartiere di Ventura Lambrate. Qui vengono esposte le realtà meno commerciali, come scuole di design internazionali o studi giovani emergenti. Gli eventi hanno poi luogo in spazi meno formalizzati, in officine meccaniche, capannoni industriali e spazi aperti. Si tratta infatti di un contesto periferico, caratterizzato dalla presenza di molte attività del secondario che, solo a partire dagli anni


’90, hanno cominciato a essere dislocate, portando al recupero degli spazi per il terziario e le abitazioni. L’identità di Lambrate è dunque in evoluzione e va osservato che la sua affermazione sul panorama milanese è stata molto incentivata da quanto vi si è creato uno dei distretti appartenente alla rete del Fuorisalone.3

ventura-lambrate

Si tratta dunque di un esempio di riaffermazione di una rete di spazi, attraverso forme di intervento nella maggior parte dei casi, o almeno inizialmente, informali. gli eventi del Fuorisalone hanno creato consapevolezza sulle potenzialità del quartiere e sul riutilizzo dei suoi ampi spazi post- industriali a fini culturali e aggregativi, venendo inoltre a far emergere nel pubblico attirato per l’occasione una nuova idea sull’identità del posto.

4.1.3

iniziative spontanee

3. sito http://fuorisalone. it/2016/it/percorso/3/

4. manifesto di Lume (Laboratorio Universitario Metropolitano) di Primo Moroni.

“I luoghi oggi sono determinanti, nel senso che fuori vi è un processo di sussunzione complessiva della vita e delle economie, della cultura: tutto è merce. Poi ci sono dei luoghi, invece, dove questo viene rifiutato. Io credo che questa sia una fase in cui chi ha la capacità, la credibilità, la soggettività di avere luoghi, può non tanto fare progetto esclusivamente politico, a mio modo di vedere, almeno in questa fase, quanto invece fare un’altra cosa che è strategica e indispensabile: trasformare quei luoghi in centri di ricerca, o per lo meno una parte della loro attività destinarla alla formazione e alla ricerca. Se il sapere è diventato una merce produttiva, direttamente in quanto tale, o inglobato nella macchina, nella tecnologia o nell’informazione, che è la sua estensione più grande, si devono fare di nuovo scelte esistenziali ma se la scelta esistenziale non è nutrita da una cultura sofisticata e complessa, cioè di continua produzione e autoproduzione, la scelta si limiterà a produrre solo disagio esistenziale. Dalla rivolta esistenziale all’autoproduzione del soggetto c’è un passaggio strategico che è la capacità di impadronirsi di strumenti di conoscenza diversi che permettano di decodificare, di destrutturare, di far saltare lo schema avversario: altrimenti senza questa fase di accumulazione primitiva culturale di saperi non ne viene nulla.”4 Vengono qui prese in considerazione alcune realtà culturali e sociali che hanno saputo generarsi autonomamente, sull’iniziativa collettiva e al di fuori dei circuiti amministrativi, che ancora non sono in grado, secondo alcune opinioni raccolte, di porsi in maniera totalmente democratica e partecipativa sulla materia. Al collettivo Macao era stato ad esempio offerto di partecipare allo stesso bando che ha dato origine a Base. Ma le spese che si sono affrontate per ristrutturare

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l’area ex Ansaldo non avrebbero potuto essere sostenute da un’organizzazione indipendente, che comunque aveva necessità di ottenere uno spazio per poter realizzare i propri progetti sociali. Per cui si procede in queste situazioni all’occupazione degli spazi inutilizzati da parte dei collettivi. Il primo esempio che si considera è la Stecca 3, situata nel mezzo di uno degli interventi architettonici più grossi compiuti negli ultimi anni a Milano: quello di Porta Nuova. Le iniziative e associazioni che si trovano in questo spazio pubblico, realizzato per assolvere agli oneri urbanistici e progettato dall’architetto Stefano Boeri, sono in parte formalizzate; ma lo spunto di appropriarsi dello spazio, a partire dalla sua apertura pochi anni fa, è partito da un collettivo che ha qui fondato una ciclofficina sociale, in cui poter riparare la propria bici in una officina attrezzata e con l’aiuto dei volontari della Stecca, essendo in possesso della tessera da 5€. la Stecca 3, progetto di Stefano Boeri, situato nel mezzo del complesso di Porta Nuova, ospita oggi diverse associazioni non-profit.

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Con la stessa modalità si è formata non lontano dal Macao un’altra ciclofficina che prende il nome di Officine Vulcano. Si può infatti osservare negli ultimi anni un accrescimento nell’uso della bicicletta per le strade di Milano, fatto incentivato dalla creazione di nuove piste ciclabili e dalla diffusione dei servizi di bike sharing dell’ATM che stanno portando a una nuova consapevolezza di spostamento per gli abitanti.


Interrato dello stabile in Vicolo Santa Caterino occupato dal collettivo Lume (Laboratorio Universitario Metropolitano).

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L’ultimo esempio su ci si vuole soffermare è il Lume, acronimo per Laboratorio Universitario Metropolitano. Si tratta di un collettivo di studenti principalmente dell’università Statale di Milano che ha occupato uno spazio nei pressi della sede centrale. Questo è un piccolo stabile accostato alla chiesa X nel vicolo X, uno spazio di 4 piani con seminterrato. Le iniziative organizzate vanno dalle serate jazz, che prende luogo sotto le volte laterizie del piano interrato e a cui sono invitati a suonare musicisti emergenti e studenti del conservatorio, alle proiezioni, i dibattiti, le mostre. Lo spazio è molto angusto ma richiama molte persone agli eventi, principalmente studenti universitari affascinati dalle possibilità riappropriative. Il Lume ha anche organizzato delle serate all’interno degli spazi dell’università, concessi per l’occasione: per un weekend era possibile assistere a concerti dentro i grandi androni dell’edificio.


4.1.4

5. da intervista con designer della Salumeria del design.

ruolo della tecnologia

“Lo spazio virtuale è fondamentale, le cose succedono molto più in fretta, la tecnologia coinvolge personalmente il singolo, da mezzo di alienazione sta diventando sempre più vettore sociale dal potenziale aggregativo molto ampio.”5 Come si è cominciato a intuire, la tecnologia svolge un ruolo fondamentale per la promozione e il funzionamento degli interventi di recupero urbano in chiave sociale oggi. Proseguendo nella trattazione si troveranno espedienti che aumentano la dinamicità e l’efficacia degli interventi fisici proiettandoli nello spazio virtuale della rete. Fino a pochi anni fa per incontrarsi o ci si dava appuntamento a un’ora e in un luogo precisi o si scendeva in strada alla ventura, girando i posti più frequentati solitamente dai propri conoscenti. Oggi la tecnologia ci permette di ampliare il numero di conoscenze, di ritrovare amici di vecchia data, di incontrarsi con maggior facilità e di ottenere informazione su qualsiasi cosa ci venga in mente. Al di là delle opinioni conservative, c’è chi pensa tuttavia che la tecnologia, per quanto utile, non sarà mai in grado di creare quel contatto “epidermico” tra le persone, non potendo offrire lo stesso tipo di emozioni e di vissuto. Oggettivamente, è infatti da osservare che si è oggigiorno più segregati fisicamente, nell’illusione di sentirsi più uniti nei luoghi virtuali. Gli “spazi” condivisi hanno preso il posto dei luoghi concreti, in cui il nostro corpo si trova immerso nella luce del giorno o nel buio della notte, con il vento o il silenzio, ben diverso dal silenzio di un monitor. Al di là delle conseguenze sociali prodotte dall’emigrazione dallo spazio fisico a quello virtuale, è ormai indiscutibile che non si può più fare a meno della tecnologia. La posta elettronica ci permette di comunicare molto più rapidamente, lavagne digitali vengono utilizzate per favorire l’istruzione dei bambini, rendendo l’insegnamento più interattivo, sistemi informatizzati regolano i passaggi burocratici e commerciali, semplificando e velocizzando processi e scambi; più andiamo avanti nel tempo più ci si introduce in questo mondo informatico e ciò avviene ormai nei primi anni di vita, arrivando ad avere praticità con questo tipo di dispositivi già da neonati. Si cerchi dunque di individuare quali sono le potenzialità offerte, al fine di inventare un nuovo tipo di socialità. Se si pensa alla facilità con cui si possono oggi organizzare meeting o eventi di qualsiasi genere, il semplice passaparola o la diffusione cartacea sembrano perdere di efficacia. I social network possono diventare dunque delle bacheche virtuali, generando un nuovo tipo vettore sociale per l’aggregazione, molto più esteso del passaparola. Molti ancora sono le opportunità innovative offerte dall’informatizzazione, anche in campo sociale. Reti telematiche permettono ad esempio di spostarsi più facilmente e in maniera più flessibile, scambiando passaggi o accedendo a servizi di

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car sharing. È sempre attraverso la rete che si può incontrare nuove persone, da ogni parte del globo, viaggiando si possono conoscere e scambiare esperienze con i locali.

4.2

Base

6. da comunicato stampa.

“BASE è il nuovo progetto per la cultura e la creatività a Milano. Nasce per innovare il rapporto tra cultura ed economia, futuro e quotidianità, tra democrazia, benessere ed economia della conoscenza, tra innovazione sociale e sviluppo. Non a caso “base” significa “fondazione”, l’inizio di qualcosa di nuovo, ma anche il supporto che fa stare in piedi un progetto e lo rende solido. Una base è un nuovo inizio, una nuova forma di linguaggio da creare ex novo. Sogno e concretezza insieme.”6

4.2.1

progetto e collaborazione

a place for cultural progress

Il progetto recupera gli spazi dell’ex fabbrica di turbine e macchinari ferroviari Ansaldo, un complesso di 70.000 m2 edificato nel 1904. Si trova nel cuore di zona Tortona, oggi polo di riferimento del design milanese del design e della moda. Base condivide il complesso dell’ex Ansaldo con i laboratori scenografici della scala, degli uffici comunali e il MUDEC (Museo delle Culture, un progetto di David Chipperfield). L’area della fabbrica dismessa infatti è stata comprata dal comune di Milano negli anni ‘90 e riutilizzata per allocare attività pubbliche e promuovere spazi per la cultura. Nel padiglione che occupa ora Base, era stato inizialmente promosso progetto sociale dall’architetto Stefano Boeri per convogliare il fermento giovanile nello spazio e creare attività culturali. Tale iniziativa denominata Loca non ha tuttavia riscosso molto successo di pubblico, inoltre le condizioni architettoniche dello spazio erano molto degradate: durante i concerti si staccavano pezzi di intonaco dai soffitti. Il progetto Base nasce dall’unione degli sforzi di cinque realtà milanesi che si occupano di cultura e social innovation: Arci Milano, Avanzi, Esterni, H+, Make a Cube3, per partecipare al bando comunale di assegnazione dello spazio abbandonato. Questo tipo di formulazione è intesa a sperimentare un nuovo modello economico per la cultura, 132


7. informazioni tratte da intervista.

che parta dall’iniziativa e da un investimento pubblico ma che sia appoggiato collaborativamente dal privato, attraverso non solo la ricerca di sponsor ma di enti che siano disposti a mobilitare fondi per la costituzione di questo tipo di spazi.7

Spazio di accoglienza di Base, con gradonate per il pubblico.

4.2.2

attività e spazi Base si struttura in dichiarato riferimento anche ai casi europei analizzati nel capitolo 3, come il 104 e il Matadero, con i quali vorrebbe un giorno aprire una rete comunicativa per lo scambio di idee e iniziative. Come per tali esempi, si tratta di uno spazio multiforme, in cui poter allestire mostre, creare installazioni artistiche, organizzare eventi musicali, teatrali, o proiezioni. Lo spazio tuttavia ha aperto da molto poco e la programmazione artistica è ancora in evoluzione, finora si

133


Sopra: l’area coworking. Sotto: sezione prospettica del progetto di Onesitestudio.

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è riusciti solamente a ospitare prodotti culturali esterni, ma si punta a raggiungere un’autonomia creativa ospitando artisti che possano sviluppare i propri progetti. Da ciò nasce Casabase, una residenza per artisti, strutturata come un ostello: in una serie di stanze, con una sala comune e i servizi necessari. L’attività verrà pertanto appoggiata dall’ampliamento dei laboratori tecnici esistenti.


Spazio multifunzionale che può fungere da palcoscenico nell’atrio principale.

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Lo spazio, ristrutturato su progetto di Onsitestudio, si articola attualmente su quattro livelli, di cui uno mezzanino. All’ingresso ci si trova di fronte a un ampio spazio teatrale, con una scalinata di legno sul lato lungo che piega su quello corto per formare il palco. Filtrato dalla spina di pilastri centrale e rialzato di un metro e mezzo si sviluppa un secondo spazio con tavolini per studiare e lavorare, un bookshop e una caffetteria. Gli ambienti possono essere separati da partizioni modulabili costituite da tende scure. Restando al piano terra, un secondo ambiente altrettanto grande si articola simmetricamente, qui la pavimentazione sfrutta il dislivello per organizzare un auditorio. Attualmente tale spazio è stato affittato alla Triennale che ha allestito una delle esibizioni della sua XXI edizione. Al primo piano si trova un’altro salone attraversato da pilastri, che nuovamente può essere utilizzato per esibizioni e mostre. A questo si affianca Casabase, con una serie di camere distribuite da un lungo corridoio che sfocia infine nella sala comune. Da qui parte trasversalmente un passaggio a tunnel che conduce alle scale esterne, con un piccolo oblò che dà sullo spazio descritto inizialmente. Salendo le scale, si giunge al secondo piano, collegato con il mezzanino. Quest’area è adibita al coworking, uno spazio che non funge solo da ufficio ma che proietta le attività creative al suo interno alle iniziative di base. Gli studi sono stati scelti con una call, tra questi si trova la Cariplo Factory, un incubatole culturale, che ha preso l’iniziativa di ristrutturare lo spazio mezzanino, fuori dal bando iniziale. Esiste infine superiormente un piano parzialmente mansardato di cui non è ancora stato pensato un riutilizzo.


4.3

Macao

nuovo centro per le arti, la cultura e la ricerca “Si può anche pensare di volare”

8. traduzione dall’inglese del testo contenuto alla pagina http://www. macaomilano.org/

136

“Macao è un centro indipendente per l’arte, la cultura e la ricerca. Evitando il paradigma dell’industria creativa, e provando a innovare la vecchia idea delle istituzioni culturali, abbiamo iniziato a considerare la produzione artistica come un processo percorribile per ripensare i cambiamenti sociali, elaborando una critica politica indipendente, e come spazio per una gestione innovativa dei modelli di produzione. La nostra ricerca riguarda le condizioni lavorative nell’industria creativa e nel settore culturale, il diritto nella città a nuove forme di organizzazione e soluzioni tecnologiche per la produzione culturale. Macao attualmente occupa un ex macello nel mezzo di un’ampia area abbandonata non troppo distante dal centro della città. Il collettivo ha un programma trasversale di diffusione e sviluppo di arti performative, cinema, arti visive, design, fotografia, letteratura, newmedia, hacking e permette il ritrovo dei comitati cittadini. È coordinato da un’assemblea aperta di artisti e attivisti.”8


4.3.1

spazio fisico

Il collettivo Macao occupa dal 2012 una palazzina liberty che si trova a capo dell’area dell’ex macello di Milano, in viale Molise 68. L’edificio accoglie i visitatori con una rientranza centrale che ospita un pronao colonnato, raggiungibile dalla strada attraverso una scalinata. Da qui è possibile accedere agli spazi interni, un atrio precede il salone principale: un grande spazio a doppia altezza coronato da un lucernario, con un peristilio sul cui lato sinistro è allestito il piano bar. Al piano terra si trovano la sala cinema e teatro, uno studio di registrazione, i servizi e altre stanze per la logistica. Salendo al piano primo, distribuiti da un ampio ballatoio che affaccia sullo spazio centrale, si trovano una serie di stanze che ospitano le camere, utilizzate dai membri del collettivo o dagli ospiti, le docce, la cucina, un laboratorio per le arti che affaccia sul terrazzo sopra il pronao, il laboratorio delle stoffe, quello della lavorazione del cuoio e i vari tavoli: di fotografia, video, suono. Nel seminterrato si trova un grosso magazzino, ancora ingombro di molto materiale di risulta, oltre a questo sono stati istituiti dei laboratori per le lavorazioni artigianali, i quali possono anche essere usati dal pubblico su richiesta. Qui si creano anche gli allestimenti, uno scenografo si procura diverso materiale di scarto smantellato dai negozi di grandi marche e studia dei sistemi di impiegarlo nella maniera più efficace. Nel giardino recintato sul retro, al quale si accede assialmente all’ingresso principale del piano terra, si trovano delle aiuole circondate da sedute e un piano bar. Al piano mansardato due sale molto spaziose vengono chiamate hangar e possono ospitare proiezioni, shooting fotografici o fungere da sala prove per attività performative. Da qui si accede al terrazzo superiore, che affaccia verso est sulla distesa di edifici industriali abbandonati del macello.

Nella pagina affianco: evento nello spazio principale della palazzina lyberty occupata dal Macao.

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La palazzina in questione era la borsa del complesso, in cui erano trattate le questioni economiche e burocratiche dell’attività commerciale. Di questa attività sono rimasti molti documenti risalenti anche agli anni ’20, che vengono talvolta trovati ora dai primi occupanti da quando l’area è stata abbandonata. Stucchi decorativi floreali con protiri bovini richiamano all’attività del macello, la cui borsa, un luogo simbolo del capitalismo, è oggi stata trasformata in un polo culturale e sociale. Il collettivo si è insediato inizialmente con dei progetti da concretizzare, gli spazi trovati stanno in parte consentendo questo ma hanno d’altro canto aperto il campo a nuove possibilità. Ad esempio gli eventi serali sono un’iniziativa che ha preso piede negli ultimi due anni, su incentivo della parte più giovane del collettivo, il quale ha immaginato di poter sfruttare il suggestivo spazio del salone centrale come dancefloor. In questo Macao sta pensando di aprirsi di più alle attività di quartiere allestendo una biblioteca, grazie ai libri ricevuti da varie donazioni, e aule studio. Spazi di fruizione quotidiana dunque, che accolgano più gente durante la giornata.


4.3.2

progetto politico

Nella pagina affianco:

Il macao nasce dall’esigenza cogente da parte del pubblico cittadino di ottenere spazi per l’espressione e l’aggregazione. Le persone hanno bisogno di spazi per realizzare le proprie iniziative e progetti e i metodi per ottenerli che offre l’amministrazione sono spesso poco accessibili. La lista di bandi del comune è interessante, tuttavia questi sono macchinosi, complessi ed è molto costoso parteciparvi. Ecco dunque da cosa nasce l’esigenza dell’appropriazione autonoma, per mezzo di occupazione. Il collettivo sta però lavorando per promuovere una delibera per la quale, se un gruppo autorganizzato di cittadini occupa uno stabile abbandonato, automaticamente si avvia una procedura per la assegnazione, in maniera rapida, a cui poi il gruppo può partecipare, avendo già un progetto avviato da presentare. La delibera prevederebbe anche sgravi fiscali per far sì che l’attività possa avviarsi. In questo modo lo spazio viene concesso più liberamente alle iniziative dei cittadini, lavorando più sulla collaborazione e il dialogo e rimandando a un secondo momento le questioni burocratiche. L’Asilo a Napoli è uno spazio simile che è stato istituzionalizzato grazie a una delibera di questo genere. L’obiettivo finale del Macao dunque sarebbe la concessione dello spazio da parte del comune, essere dunque il primo esempio a Milano di una riuscita cooperazione con le istituzioni.

In alto: l’occupazione di Torre Galfa, condotta all’inizio dell’attività del collettivo al fine di portare consapevolezza e attenzione sul progetto; in primo piano Dario Fo. In basso: un ragazzo esce dal furgone del collettivo.

Tuttavia, il processo che condurrebbe a questa meta è ancora in fieri, il collettivo non si sentirebbe pronto a quattro anni dall’occupazione a essere istituzionalizzato, molto è ancora il lavoro da fare per realizzare il progetto culturale prefissato, prima di poterlo confermare tramite la delibera. Non si sarebbe ancora pronti ad affrontare gli stravolgimenti fisico-organizzativi a cui ciò condurrebbe, Come spiega un ragazzo intervistato del collettivo dunque, per il momento Macao “cerca di fare illegalmente tutto ciò che vorrebbe diventasse legale”, avanzando nello stesso tempo proposte costruttive all’amministrazione con la quale è aperto il dialogo. Un’occupazione che dura per più esecutivi, per un periodo dunque dai 5 ai 10 anni, può essere considerata accettata dalla città. Macao sta attraversando questa fase ma il passaggio finale, ottimisticamente, sarà la formalizzazione dello spazio, e l’istituzione di un’associazione vera e propria. A quel punto Macao avrà espresso a pieno il potenziale del suo progetto sociale e l’obiettivo diventerà esportare il modello, quasi si trattasse di un brand, per cercare di riapplicarlo ad altri spazi a Milano o nel mondo. Un’idea dunque che sia mobile e che possa operare in diversi contesti per aprire nuove opportunità alla vita urbana.

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4.3.3

sinergie

Il Macao viene amministrato da un gruppo si occupa della cosiddetta curatela, ovvero della parte burocratica e amministrativa, delle spese e della segreteria. Esiste poi un gruppo di tecnici che svolge mansioni professionali, supportati dai volontari. Si ha dunque un coordinamento spartito tra due organici, uno amministrativo e l’altro esecutivo, ma il tutto avviene in maniera molto orizzontale e le decisioni sono discusse alle assemblee che sono aperte a chiunque. Il gruppo degli attivisti più giovani poi prende l’iniziativa di gestire gli eventi serali. La parte più consolidata del collettivo si occupa maggiormente delle azioni politiche, degli eventi culturali, delle relazioni con le istituzioni, delle reti e dei social network. Bisogna considerare che una volta dismesso il macello, il quartiere si è impoverito molto e la zona è diventata malfamata. Da quando lo spazio è stato liberato è subito entrato a far parte della vita del quartiere come luogo di incontro per gli abitanti. A partire da questo proposito aggregativo il Macao si è dunque allargato aprendosi alle collaborazioni esterne, ad esempio il laboratorio di lavorazione del cuoio è stato allestito grazie all’iniziativa di alcuni ragazzi i quali si sono integrati venendo alle assemblee, cercando di far coincidere il loro progetto con quelli del Macao per proporsi infine di risistemare lo spazio. Nel periodo della settimana del mobile invece, la cooperazione con un’università di Amsterdam ha portato un gruppo di ragazzi a vivere nello spazio, una vera affluenza da ostello durata un mese che si è concretizzata in un contributo significativo allo ristabilimento degli spazi interni. Inoltre per il fuorisalone sono stati pensati e realizzati diversi interventi performativi e installazioni che hanno fatto del Macao uno dei fulcri delle attività culturali offerte in quella settimana. Si auspica pertanto che anche il Politecnico di Milano possa instaurare una collaborazione, magari relativamente all’organizzazione di workshop o all’utilizzo di alcuni spazi come i laboratori.

A destra: il gruppo di studenti della Wandering School di Amsterdam, che per un mese hanno collaborato con Macao.

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4.3.4

spazio virtuale

In alto: fronte del Macao,

Un’aspetto interessante da considerare è il ruolo fondamentale che rivestono i social network per il Macao e per ciò che riesce a fare. Ad esempio l’ampio seguito, anche internazionale che ha la pagina Facebook, permette di mettersi in contatto con molti artisti interessati a collaborare per esporre o esibirsi, oltre a rappresentare la principale opportunità di diffusione delle attività messe in piedi dal collettivo. Un’altro interessante risvolto offerto dai mezzi tecnologici è l’utilizzo dei bitcoin. Si tratta di un sistema alternativo di pagamento, attraverso conti bancari virtuali senza intermediari, che attribuisce un valore virtuale alle prestazioni. A metà strada tra il baratto e l’economia per come la conosciamo, è un mezzo molto dinamico e semplice per potersi scambiare favori dando un valore al tempo dedicato. Reti che accedono a questa dinamica possono scambiarsi opportunità, un altro spazio simile al Macao può pagare in bitcoin per l’utilizzo della sala di registrazione ad esempio, mettendo al contempo a disposizione il proprio spazio teatrale. All’interno di questo mercato di scambio anticapitalistico, può anche essere gestita la ripartizione delle entrate economiche effettive del collettivo, se i suoi volontari vengono pagati in bitcoin per le loro prestazioni, poi possono avere diritto al corrispettivo equipartito in euro.

con sopra simboli del logo.

È dunque molto importante per il Macao avere una presenza fisica in cui molta gente può accedere, ed essere al contempo espanso su più spazi virtuali che riescono a coinvolgere reti più ampie, altri spazi o i singoli utenti dei social network. 141


Fotomontaggio che rappresenta lo spirito underground di Nolo; fluttuante c’è la balena, il simbolo del quartiere.

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5

muro libero a Nolo Partendo da un’introduzione storica del quartiere, si nota una notevole sovrapposizione di tessuti urbani dovuti alla terziarizzazione e al decentramento della grande industria oltre il tracciato ferroviario. Nonostante l’evidente disomogeneità, persiste tuttora un forte sentimento comunitario dovuto alla tenace resistenza dei piccoli nuclei storici preesistenti. Intraprendendo un percorso psicogeografico nell’area e anche attraverso interviste ai residenti, ci si è occupati di un’analisi della potenzialità degli spazi all’interno della zona. Il recente inserimento di gruppi di creativi, i quali hanno creato una rete sociale ribattezzando il quartiere col nome di Nolo: north of Loreto, ha portato al fiorire di attività culturali e all’apertura di spazi per l’espressione e l’aggregazione, dando l’avvio a un fenomeno che sta portando Nolo a essere, secondo articoli pubblicati di recente, una sorta di Brooklyn per Milano. Le attenzioni dello studio si focalizzano infine su un punto specifico, una “corte” urbana incorniciata da due cavalcavia ferroviari che si sviluppano per tre arcate, un passaggio sulla cintura ferroviaria che segna il confine tra la zona di Turro e quella di Rovereto, al centro dell’area di Nolo. Qui il comune ha concesso la possibilità di dipingere sui muri, un’iniziativa che si chiama appunto Muro libero. Si presenta in appendice il progetto omonimo di organizzazione di un evento sul tema dei graffiti, un’idea che coinvolge diversi attori del quartiere, tra cui streetartist e associazioni. L’evento si propone come un intervento effimero di riaffermazione e riconquista di uno spazio negletto, di risulta, nel quale si sono ravvisate delle potenzialità legate alla qualità spaziale, unitamente alla possibilità di creare identità del luogo grazie all’espediente dei murales.

5.1

North of Loreto Situato nel territorio dell’ex zona 10, attuale zona 2, Nolo è un quartiere a nord del polo produttivo di Loreto la cui identità è emersa recentemente, uscendo dalla latenza con l’affermazione del nome da parte di un gruppo Facebook della rete Social Street. Analizzando l’evoluzione del quartiere negli ultimi anni, ci si rende conto che si tratta di una zona in di ampio interesse sociale e che attualmente rappresenta un campo di osservazione privilegiato per

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lo studio dell’eterogeneità delle dinamiche urbane. Il suo carattere marginale, gli affitti bassi e la forte presenza multietnica hanno fatto sì che guadagnasse una cattiva reputazione, ma negli ultimi anni sta diventando il fulcro di un fermento culturale inedito che attraverso questo focus si cercherà di inquadrare.

5.1.1

1. informazioni tratte da: La concentrazione di attivita’ commerciali etnicamente connotate a Milano:opportunita’ o problema per la riqualificazione urbana : l’area a nord di piazzale Loreto, tesi di Daniela Riva, rel. Corinna Morandi

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inqudramento storico

Morfologicamente, si osserva che la zona presenta due parti ben distinte separate dal tracciato ferroviario: una periferia consolidata, formatasi principalmente prima della seconda guerra mondiale e fittamente edificata all’interno del tracciato; una più rada e frastagliata, a nord del tracciato, costituita sull’accorpamento dei piccoli nuclei storici, precedentemente slegati dal comune di Milano, di Turro, Gorla, Precotto e Crescenzago. Lo sviluppo del polo produttivo di Loreto e sopratutto il decentramento della grande industria verso Sesto San Giovanni nei primi anni del ‘900, aveva indotto una forte polarizzazione su viale Monza, ma anche nuovi flussi su via Padova e via Adriano, antica strada tra Crescenza e Sesto. Così, accanto ai vecchi nuclei rurali, è cominciato lo sviluppo di nuove aree insediative disposte lungo i percorsi citati. Vengono erette case multipiano principalmente con distribuzione a ballatoio, alloggi in affitto, di scarsa qualità, messi a disposizione dei salari di una classe operaia pendolare che sceglie di abitare al centro di molteplici occasioni d’impiego. A partire dagli anni ’70, con la terziarizzazione indotta sopratutto dall’arrivo della metropolitana in viale Monza, si assiste a un massiccio ricambio dell’utenza, con conseguente dismissione di molte realtà del secondario e la conseguente vendita frazionata del patrimonio degradato. La prevalente destinazione terziaria nelle adiacenze di piazzale Loreto sfuma verso nord, dove il tessuto assume la caratteristica di quartiere prevalentemente residenziale. A nord del tracciato ferroviario, la componente residenziale e le attività produttive si presentano invece decisamente segregate le une rispetto alle altre, tra le quali si assestano fabbricati industriali, isole monofunzionali chiuse all’interno del quartiere. Gli assi principali della zona registrano una particolare concentrazione di fronti commerciali e di attività artigianali.1 Ad alimentare la situazione di degrado, generata inizialmente dall’intreccio disorganico di aree eterogenee a seguito del decentramento delle industrie e alla crescita della terziarizzazione, è stata la svalorizzazione degli immobili e un netto calo degli affitti indotto dall’esodo delle categorie “forti” che, in assenza di interventi di riqualificazione, hanno potuto vendere o affittare le residenze


negli anni ‘80

solamente alle categorie più “deboli”, a basso reddito, come anziani ed extracomunitari, ma anche a malviventi, facendo di Loreto un quartiere malfamato.

5.1.2

NoLo Social District

foto di Piazzale Loreto

Social Street è un esperimento che nasce nel 2011 a Bologna dalla volontà di un ragazzo che, osservando i bambini dei condomini della sua via giocare assieme per strada, ha deciso di conoscere i propri vicini. Parte così il progetto per creare una rete aggregativa di persone che abitano nella stessa via.

2. dal sito http://www. socialstreet.it/

3. https://www.facebook. com/groups/NoLoDistrict/

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“L’obiettivo del Social Street è quello di socializzare con i vicini della propria strada di residenza al fine di instaurare un legame, condividere necessità, scambiarsi professionalità, conoscenze, portare avanti progetti collettivi di interesse comune e trarre quindi tutti i benefici derivanti da una maggiore interazione sociale. Per raggiungere questo obiettivo a costi zero, ovvero senza aprire nuovi siti, o piattaforme, Social Street utilizza la creazione dei gruppi chiusi di Facebook.”3 A Milano oggi esistono già 71 realtà nate sull’onda di Social Street, la quale diventa Social District nel caso di Nolo. A partire dal gruppo Facebook3 creato a febbraio 2016 col nome di Nolo, acronimo per North of Loreto, il quartiere in questione, indicativamente delimitato dalla cintura ferroviaria che porta alla stazione centrale sopra e che arriva fino a piazzale Loreto e via Andrea Costa sotto, si è venuto ad auto-identificare, a tal punto da essere ufficializzato su Google maps. L’iniziativa Social District, parta dunque dalla volontà di conoscersi


e arriva a essere un modo per migliorare la qualità della vita di quartiere. Oltre a rendere possibile la creazione di servizi come un bike sharing privato tra gli abitanti o mettendo in piedi delle iniziative di decorazione per migliorare l’immagine del luogo, fa nascere un senso e appartenenza e di identità del quartiere. La portata sociale dell’iniziativa è molto rilevante, invece che essere un numero che sale le scale di casa propria, il cittadino diventa parte di un gruppo di persone che vivono attorno a lui, fatto che concede serenità e coesione date da una rete umana e sociale nel posto in cui si vive. Pochi sono infatti quelli originari del quartiere, l’area è un luogo di immigrazione, inizialmente dal sud Italia e ora da tutto il mondo. Tanti sono dunque quelli di passaggio o arrivati da poco, ma sentirsi parte del luogo in cui si abita, non solo perché ci si viene a dormire ma anche perché lo si vive socialmente, è molto importante, non solo a livello personale ma anche per la collettività.

4. articolo su D-repubblica del 9 febbraio 2016: http://d.repubblica.it/ attualita/2016/02/09/ news/loreto_quartiere_ multietnico_milano_ giovani_creativi_ galleristi_musicisti_ designer-2957897/ 5. informazioni ottenute da intervista con fondatrice gruppo NoLo Social District.

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Il gruppo, anche grazie all’attenzione mediatica ricevuta4, in poco tempo è riuscito a farsi conoscere e a prendere molta confidenza con gli abitanti, andando a creare una vera e propria rete comunitaria. Le attività che vengono organizzate sono finalizzate all’aggregazione sociale, per esempio una volta al mese si svolge la cosiddetta pizzata del quartiere e ogni sabato invece una colazione in strada, a cui ognuno porta del proprio e lo condivide su dei tavolini da campeggio allestiti per l’occasione. È stato poi lanciato un contest di giardinaggio urbano, il quale invitava a decorare i propri balconi e di partecipare inviando le foto. Un’iniziativa che aveva come scopo quello di migliorare l’immagine del quartiere incentivando le persone ad abbellire casa propria. L’associazione sta cercando ora di organizzare dei gruppi di lavoro, mettono assieme persone con idee compatibili, allestendo dei tavoli tematici che possano portare avanti progetti autonomamente. Altre attività che si sta cercando di concretizzare sono il Gioco Nolo, un gruppo che organizza serate a tema giochi da tavolo, corsi di ping pong, un campionato di Triathlon. O progetti sociali come il numero di emergenza del quartiere, il quale attiva dei contatti per permettere ai vicini di aiutare una persona che ha una esigenza infermieristica. Per aumentare la partecipazione si è pensato anche a dei corsi di digitalizzazione, e all’istituzione di una mailing list di quartiere. Come simbolo del quartiere è stato adottato il murales di una balena con una città sul dorso realizzato in uno dei sottopassi nella cintura ferroviaria. Sono state stampate poi le magliette di Nolo, con la balena, la cui vendita è servita per donare fondi a un’associazione onlus in via Sammartini. Molti sono i progetti che in breve tempo si è riusciti ad avviare in maniera autogestita. Ma gli ideatori intervistati se ne occupano per passione, parallelamente alle proprie attività, e disinteressatamente. Raccontano infatti che auspicherebbero a degli spazi dedicati offerti dall’amministrazione e a una ufficializzazione e presa in consegna delle iniziative di questo genere.5


5.1.3

integrazione e gentrificazione

6. dal brano Up to me,

“Tava no mato, do mato para Loreto, de Loreto para o palco, do palco pro mundo inteiro”6

Selton, Loreto Paradiso, 2016. Letteralmente significa: “Stavo nella foresta, dalla foresta a Loreto, da Loreto al palco, dal palco al mondo intero”. È la frase che in breve racconta la storia di questo gruppo di musicisti brasiliani che ha ottenuto successo discografico recentemente abitando a Nolo.

In alto: murales rappresentante una città sulla schiena di una Balena, diventato il simbolo di Nolo.

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La zona di decentramento che comprende l’area considerata ha una presenza di popolazione straniera residente pari a 18880 unità, con un’incidenza percentuale sul totale dei residenti del 14%. E’ la percentuale più alta di tutte le attuali 9 zone di Milano, seguita da il 12,5% del centro storico. E’ da sottolineare che questi dati sono relativi alle iscrizioni anagrafiche del 31 dicembre 2001, che quindi non tengono conto degli immigrati clandestini e del tempo trascorso, c’è da aspettarsi dunque che la presenza possa essere cresciuta. Nonostante l’evidente disomogeneità, persiste tuttora un forte sentimento comunitario dovuto alla persistenza dei piccoli nuclei storici preesistenti. La situazione risulta evidente sopratutto quando ci si inoltra nelle vie secondarie ai principali assi produttivi. Un’ulteriore fattore da considerare riguarda la lotta politica portata avanti da collettivi di controcultura che hanno occupato degli spazi nella zona, come il Leoncavallo o la Casa occupata. Contro le roboanti attività di questi centri sociali si sono concentrati negli anni i malumori che hanno portato a diversi tentativi di sgombero. La questione della convivenza, non sempre pacifica, di queste componenti è stata negli anni percepita in maniera negativa dalla città, strumentalizzandola politicamente e facendo sì che si dipingesse un alone di degrado attorno al quartiere.


Da qualche anno è in atto un processo che sta rivalutando l’immagine del quartiere, partendo proprio dalle sue caratteristiche intrinseche. Il basso costo degli affitti e le possibilità offerte dai molti spazi caduti in disuso hanno funzionato da vettore per attirare un crescente numero di giovani artisti e creativi che vedono nelle ambiguità del quartiere un potenziale più che un limite. Il cambiamento sta dunque avvenendo in maniera spontanea e indipendente, senza investimenti da parte dell’amministrazione o interventi di recupero urbano che possono fungere da calamita sociale. Come visto nel caso della creazione del Social District, da queste componenti molto vitali possono partire interessanti iniziative costruttive per il quartiere. Con la creazione di una rete delle realtà culturali che stanno sorgendo si è arrivati a un’accrescimento del potere attrattivo di Nolo, il quale sta subendo un processo di rivalutazione da parte del pubblico urbano. Internamente, la strategia è quella di puntare sulla integrazione e il coinvolgimento, cercando di superare i limiti linguistici e dell’uso dei social network, ormai principale piattaforma di organizzazione delle attività. Infine, come afferma Gianni Biondino in Metropoli per principianti7, gli extracomunitari che vivono nelle città europee hanno maggiore intuizione sulle modalità di occupare gli spazi aperti rispetto ai residenti stessi; una passeggiata con occhio critico al parco Trotter, principale luogo di ritrovo del quartiere, porterà infatti a diverse riflessioni sulle possibilità di riappropriazione e aggregazione urbana. 7. Gianni Biondino, op. cit. Affianco: copertina dell’album Loreto Paradiso dei Selton, gruppo nato a Nolo. Nella pagina affianco: immagine di copertina del gruppo Nolo Social District; foto scattata in occasione di una colazione in strada del sabato mattina.

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Osservando questi sviluppi parrebbe di trovarsi di fronte a un fenomeno di gentrificazione, processo per il quale una zona periferica diventa un


luogo di interesse, in essa aprono studi creativi, laboratori di moda, locali notturni; la fisionomia del quartiere muta, si sviluppa una versione del tessuto più commerciale, il pubblico cambia, si alzano i prezzi degli affitti e l’utenza che magari era stata foriera del cambiamento è costretta a lasciare il campo ad attività con logiche più speculative. Un esempio eloquente di gentrificazione avvenuto a Milano è il caso di Isola, la quale era una zona segregata infrastrutturalmente dalla città, piuttosto degradata; il grosso investimento portato a termine nell’area di Porta Nuova ha fatto salire il valore degli immobili e attivato un fermento di attività commerciali che sfruttano le nuove connessioni e il fascino in parte mascherato dato dall’identità informale che sussisteva precedentemente nella zona. A Nolo, secondo alcuni pareri raccolti, il processo di commercializzazione speculativa farebbe più difficoltà a prendere piede: il tessuto sta cambiando, si sta aprendo a molte influenze, ma Nolo ha un forte carattere multietnico; la grande varietà insediativa e le poche possibilità per ingenti investimenti immobiliari ostacolerebbero la gentrificazione per come è comunemente intesa. L’auspicio degli abitanti è che si riesca a conservare autenticamente l’identità che si sta costruendo su questa varietà. Come spiega una ragazza intervistata: “che nascano molte iniziative differenti è bello ma deve rimanere uno spazio aperto alle opportunità aggregative e alle attività culturali”.

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5.2

protagonisti Per entrare nel merito delle realtà culturali sorte negli ultimi anni, si è scesi in strada per andare a conoscere di persona i protagonisti del cambiamento in atto, di cui sono di seguito riportate alcune testimonianze.

5.2.1

Salumeria del design

8. sito ufficiale: http://

Il progetto della Salumeria del design8 è nato nel 2013, legandosi specificamente al quartiere di Nolo. Due service designer che lavoravano in zona, interessati a comunicare il territorio coinvolgendo la gente hanno colto l’occasione della Festa di via Padova, in cui si sono inseriti con un evento: un tour gastronomico chiamato “Magnam?”, che coinvolgeva attività gastronomiche della zona accordate per offrire ai passanti assaggi delle loro specialità. L’intento era quello di raccontare la diversità e la varietà presente nel quartiere attraverso il cibo. Il quartiere si è dimostrato molto appetibile per una lettura di questo tipo: il fatto di poter gustare pietanze dal Perù alla Sicilia percorrendo tre passi è una cosa unica nel panorama milanese. Nel 2014 hanno dato inizio all’iniziativa “Pulci pettinate”, un mercatino dell’artigianato che coinvolge i laboratori e gli artisti della zona a cui viene data una vetrina per presentarsi, allestendo per una giornata delle bancarelle in una via chiusa al traffico. Da qui ci si è resi conto che il quartiere ha tante possibilità e che non è difficile farci arrivare la gente, nonostante la cattiva reputazione spesso attribuitagli; per cui ha preso piede l’dea di creare uno spazio dedicato alla promozione del luogo, in cui poter lavorare e parallelamente organizzare e allestire eventi. Presto dunque la Salumeria del design è diventato un punto di riferimento per le attività culturali e commerciali di Nolo, un punto aggregativo per gli abitanti che cercano di emergere dalla realtà di quartiere per comunicare le proprie potenzialità a tutta la città.

salumeriadeldesign.com/

I cittadini della zona si riconoscono nell’associazione e cercano di utilizzarla come un luogo per la creatività e l’aggregazione. Dall’altra parte, la Salumeria è aperta alle proposte di collaborazione, per cercare di mettere in piedi quante più iniziative possibile. Ad esempio, il giovedì sera ci si ritrova nello spazio, che nel frattempo si sta aprendo alla possibilità di diventare anche un locale alternativo, per prendere un aperitivo e discutere dei progetti. Un evento organizzato è stato l’Aperitivo coi baffi, una serata di presentazione di un barbiere della

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zona. Altri eventi prevedono serate musicali, proiezioni, presentazioni di libri o del lavoro di artisti. La comunicazione avviene prevalentemente tramite Facebook, che porta un’ampia affluenza da tutta la città: come nel caso della serata chiamata ironicamente “Fuorisalmone”, organizzata per la rete di eventi del Fuorisalone, che ha visto un gran numero di partecipanti. Ma per ampliare e coinvolgere un target più eterogeneo è comunque necessario per la Salumeria diffondere i propri eventi con il cartaceo, tramite cioè locandine e volantini diffusi nel quartiere.

5.2.2

Drogheria creativa

Si riporta la trascrizione dell’intervista con i tre ragazzi, un fotografo e due designer, che lavorano in uno spazio ricavato da un ex bottega, un coworking di creativi chiamato Drogheria creativa. - Come nasce la Drogheria creativa? Drogheria nasce un po’ per gioco. Abbiamo pensato che nella vecchia Milano c’erano le drogherie, in cui trovare un po’ di tutto, come da noi in fondo. Qui cerchiamo di vendere diversi servizi di qualità, un po’ di tutto, siamo molto aperti al dialogo e a diversi progetti. La drogheria era anche un luogo poco dispersivo, in cui si conoscevano tutti, anche qui c’è sempre qualcuno che viene a parlarci ed è proprio così che avviene lo scambio di idee e che nascono le collaborazioni. - Come avete scelto il posto? Ci siamo ritrovati qui, abbiamo preso lo spazio l’anno scorso perché 151


costava poco, prima eravamo a Famagosta e cercavamo un luogo più centrale. Della zona di Loreto avevamo poca consapevolezza, sentivamo solo le voci che giravano: si è sempre parlato di un posto disagiato. Quando siamo arrivati pensavamo di essere gli unici, insieme a T12 e pochi altri, non credevamo che ci fosse così tanto fermento di attività creative, infatti ce ne sono tantissimi, artisti, fotografi, gallerie. Noi siam capitati qui attraverso il passaparola, il posto l’abbiamo trovato venendo qua ogni mattina in bici e chiedendo a tutti, l’elettrauto da cui andavamo da giovani a riparare le bici e chiacchierare mi ha dato il numero della cugina che mi ha dato il numero della proprietaria. La cosa interessante è che l’intero stabile era un ex tipografia. E ancora più interessante è che il vecchio proprietario ora ha una tipografia qui di fronte dietro l’elettrauto. Tutto torna, alla fine ci ritroviamo in un posto che nel passato ci apparteneva. -Cos’è per voi Nolo? Poco fa è venuta una signora a parlarci, un ex avvocato che abita qui da vent’anni e sta andando in giro a capire com’è cambiato il suo quartiere. Fuori da Loreto era una zona di villeggiatura, con piccoli centri rurali, prima che si concepisse il concetto di periferia; qui c’era uno dei primi bordelli, proprio al limite del confine cittadino, per la discrezione. Poi dagli anni ’70 a cominciato a popolarsi, prima di italiani che venivano a Milano per le fabbriche, poi di immigrati stranieri che hanno col tempo creato una enclave. Ora questo calderone di gente si sta popolando di creativi, per via degli affitti bassi e della logistica, e proprio questi elementi ne stanno facendo emergere l’identità, raccontando il quartiere e le sue infinite sfaccettature al pubblico esterno. -Ci parlate dei progetti sviluppati per raccontare il quartiere? Per il primo progetto a cui abbiamo pensato, siamo andati a mappare tutte le realtà creative del quartiere; non con l’idea di dire che questo è un quartiere artistico, ma per parlare di una ricchezza identitaria. Per raccontare dunque che questa è una cosa bella della zona, che si dovrebbe far conoscere anche a chi viene da fuori. Ci aveva poi sempre incuriosito la storia delle corti. Ogni volta che se ne apre un portone scopri mondi diversi. I miei, ci racconta Anu un ragazzo di origini srilankesi, hanno iniziato la prima esperienza italiana qui in via Arquà e mi raccontavano i vari cambiamenti della zona. Mettendo assieme tutti i racconti ho iniziato anche a tenere un diario. Prendendo ispirazione dalle storie di mia madre ho iniziato a cercare i racconti di ogni corte. Si tratta di un’infinito di storie dal dopoguerra ad oggi. Da quando c’erano solo milanesi, a quando poi si sono inseriti i meridionali, all’immigrazione extracomunitaria, fino a oggi. Volevamo far conoscere le storie di chi abita qui da tanto e ha visto tutto il cambiamento. Infine il progetto di Alexis, un fotografo che ha collaborato con noi che 152


mappa degli artisti di Nolo realizzata dalla Drogheria creatriva in occasione dell’evento Nolo Spicy.

voleva ascoltare e raccontare storie differenti. La sua idea è stata di scattare dei ritratti agli abitanti della zona e in cambio far fotografare ad ognuno di questi una foto a piacere del posto, per esplorare così l’ambiente avendo un racconto da entrambe le parti. I ritratti erano infatti esposti orientati in un modo e nel loro retro erano stampate le foto dei protagonisti. Questo accadeva nel periodo del Fuorisalone, in cui ci si concentra sempre sulle stesse aree stereotipate di Tortona e Lambrate. Per noi è stata quindi una specie di sfida per farci notare. La cosa interessante è che non eravamo gli unici. Il punto forte è stato che ognuno di noi esortava a visitare gli altri spazi creativi nella rete del quartiere. Ci aiutavamo a vicenda attraverso il passaparola. -Cosa ne pensate della multietnicità di Nolo? Il problema immigrazione non esiste perché già tra di noi siamo multietnici. Non è un aspetto negativo, siamo abbastanza aperti. Noi siamo dell’85, le prime ondate a Milano sono arrivate negli anni 70 quindi ci siamo nati. La multietnicità del quartiere e anzi un punto di forza, e anche una possibilità per prendere spunto. Noi prendiamo ispirazione anche dalla gente che abita in zona, da tutti: il primo progetto è nato proprio così. -Com’è avere l’ufficio in strada con una vetrina? La vetrina? È la prima esperienza del genere, non sapevamo come rapportarci, all’inizio tenevamo la tenda però poi abbiamo notato che tutti venivano a chiedere chi fossimo e la cosa ci è piaciuta. All’inizio ci interessava stare al silenzio per poter lavorare in pace, invece

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Composizione di scatti per il progetto “Intèrior de via Padova” realizzato da Anu Abeysekera della Drogheria creativa: http:// interiordeviapadova. it/; sul sito, sotto ogni composizione è presente una registrazione di una testimonianza raccolta nella corte.

aprirsi verso la strada è stata una svolta molto interessante per la nostra attività, la porta è ora sempre aperta e si potrebbe considerare il disegno dipinto da Fra come l’unico diaframma in vetrina. Il venerdì c’è il mercato e c’è una tremenda confusione fino alle 3. In quell’occasione di fa fatica a lavorare, però è più facile che le persone entrino a parlare. La domenica invece c’è una quiete inverosimile: basta tenere a mente dunque quando venire per lavorare e quando a parlare con la gente. -Qual è la vostra posizione nei confronti dei social? È assolutamente importantissimo utilizzare i social per farsi conoscere. Non bisogna però dimenticare il rapporto umano, parlando con le persone si capisce se c’è affinità o meno e possono scaturire le idee. Come tra noi adesso, se ci aveste scritto su Facebook per l’intervista sarebbe stata una cosa fredda, probabilmente non vi avremmo nemmeno risposto o vi avremmo chiesto di venire qui. E’ come nei paesini in qui lasci la porta aperta e accogli chiunque passa. Non devi chiamare e dire che ci vediamo alle 3 al terzo piano nell’ufficio a destra; siamo in strada, vogliamo mescolarci alla gente. -Quali sono i vostri punti di riferimento a Nolo? Prima c’era l’Osteria Crespi, in cui oltre che per il pranzo andavamo anche random, perché ti ritrovavi sempre a parlare con qualcuno. Qui sono tutti molto ospitali e simpatici. Poi il Tempio D’oro che è completamente diverso ma allo stesso tempo attraente, un aperitivo molto buono e meno tradizionale, molto multietnico. Poi la gelateria Cara Pina, vai lì e ci rimani un’ora non si sa come. Poi c’è il cinema Beltrade, una cosa fantastica, è un cinema in una chiesa. -Del Parco Trotter cosa ne pensate? È fantastico. È una cosa che esiste solo a Milano in Italia. C’è una scuola dentro, magari tutte le scuole fossero così. Ci sono gli animali, il verde: è proprio qui dietro, al centro del quartiere e per noi è il break perfetto. Ci sono le famose partite di pallavolo tra i transessuali. Una volta sono passato e mi sono fermato a parlare con dei signori peruviani che mi hanno raccontato la storia. Sostanzialmente per loro la pallavolo è uno sport nazionale, però strettamente femminile. Guardandoli giocare si capiva che erano molto bravi, o brave, e che era qualcosa che praticano dall’infanzia. Mi sono immaginato loro da bambini che giocavano e venivano discriminati per questo. È importante essere curiosi, andare al di là delle apparenze, e qui a Nolo girando armati di curiosità e apertura mentale si scoprono mondi vastissimi.

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5.2.3

Gigantic

Si riporta la trascrizione dell’intervista rilasciata da Matteo Ferrari, fotografo tra i fondatori dello spazio Gigantic, un’altra piccola realtà culturale della zona. -Potreste definire in poche frasi manifesto cos’è Gigantic? Gigantic è una galleria le cui frasi manifesto sono: - Solo per divertimento - La birra la offriamo noi E’ dedicata alla fotografia, l’illustrazione, la grafica, la musica, il video e le interazioni tra queste arti. -Qual è la vostra età e di cosa vi occupate principalmente? I quattro soci attuali sono: una fotografa, un fotografo, un musicista/ produttore e un grafico. Le età vanno dai 30 ai quasi 50. -Come avete valutato di aprire questo tipo di attività proprio a Nolo, come siete arrivati a vedere delle potenzialità nella zona? Queste potenzialità si sono rivelate poi effettive? Abbiamo deciso di aprire in questo quartiere perché due dei soci hanno vissuto per qualche tempo proprio in Via Termopili e conoscevano già il quartiere, uno dei nostri soci poi cercava un piccolo studio per lavorarci dentro e quando ha trovato lo spazio nella stessa via, con vetrina su strada e sotterraneo ristrutturato, ha pensato fosse uno spreco farci uno studio privato. Così ha iniziato a parlarne con alcuni amici, e da li è nata l’idea di avere uno spazio da aprire al pubblico. Inoltre l’affitto era buono. La prossimità con la metropolitana e la vicinanza della nostra vetrina a quella del barbiere Al Qudus (ormai purtroppo chiuso) ci hanno ulteriormente convinto che era il posto giusto. I negozietti della zona restano aperti fino a tardi ed il quartiere non è morto già alle 10 di sera, come spesso avviene in altre zone della città. C’è sempre qualcosa che accade in strada, e questo ci piace, ci dà la sensazione di trovarci in una città un po’ più aperta e cosmopolita di quella in cui ci sentivamo di vivere prima di aprire Gigantic e di conoscere la zona. -Avevate già una chiara idea delle attività che volevate organizzare prima di scegliere lo spazio, o vi siete anche fatti influenzare da esso? Il nostro obiettivo era di trovare uno spazio dove poter realizzare ed esporre progetti personali nostri (ossia dei soci fondatori), ospitare lavori interessanti di altri ed eventualmente organizzare laboratori e workshop. Lo spazio ci sembrava adatto e ci è piaciuto subito. Non ha modificato il nostro approccio o i nostri obiettivi perché si presta molto bene a ciò che avevamo in mente fin dall’inizio. 156


-Per cosa era progettato lo spazio originariamente e quali sue qualità sono vantaggiose o meno relativamente a quali tipi di attività? Per quanto ne sappiamo, in precedenza lo spazio ha ospitato di sicuro una polleria e altre attività commerciali. È senza dubbio stato progettato per essere un negozio. Per noi è importante avere una vetrina su strada, sia per la visibilità che per l’accessibilità. La galleria non è molto grande e l’accesso diretto sulla strada estende lo spazio disponibile ai nostri visitatori. Inoltre l’acustica del seminterrato è buona, è stato riconosciuto subito da chi si occupa della parte musicale della galleria, ma c’è da dire che la musica la sentite bene da Gigantic perché abbiamo chi fa bene il proprio mestiere e sa far bene il fonico. Le cose non succedono sempre e solo per caso ovviamente. -Quanto sono importanti per gli eventi quali mezzi di comunicazione? (per esempio conta di più una rete fisica o sui social?) Comunichiamo i nostri eventi attraverso: - una mailing list composta da amici, colleghi, conoscenti e relazioni di lavoro dei soci, dunque manifestazione di una rete fisica - la nostra pagina Facebook All’inizio era naturalmente più importante la prima. Poi col tempo i nostri contatti su Facebook sono cresciuti (quasi 2000 like) ed è cresciuta l’importanza della comunicazione su questo canale. -Com’è stare in un quartiere ritenuto multietnico e che gente osservate lo vive? Ci sono delle potenzialità da poter sfruttare, delle collaborazioni che possono nascere qui anziché altrove? Viviamo il quartiere in modo non molto costante. La galleria apre solo in occasione degli eventi, che sono stati circa una dozzina nei due anni di attività. Per ogni evento lo spazio resta aperto per pochi giorni, a volte solo una sera, dunque non viviamo il quartiere quotidianamente. Per questo motivo non possiamo dire di essere totalmente integrati e di conoscere bene le dinamiche del quartiere, però l’atmosfera ci piace e siamo stati accolti molto bene da tutti. Abbiamo ricevuto molti più complimenti e incoraggiamenti che non critiche (un paio per la musica un po’ alta ma nulla più). Dopo un periodo di timida curiosità, ormai anche gli abitanti del quartiere, di diverse origini e nazionalità, partecipano agli eventi. Fino a poco tempo fa avevamo come vicino un parrucchiere egiziano appassionato di raï reggae, un incrocio appunto tra raï (musica tipica algerina) e reggae, con cui stiamo tentando di organizzare una serata musicale. Non crediamo che questo non possa succedere anche altrove, ma in questa zona c’è di sicuro una grande varietà di persone e situazioni, e dunque di possibilità. -Che tipo di pubblico hanno i vostri eventi? Vorreste aprirlo o esiste un grado di esclusività? All’inizio il pubblico era composto soprattutto da amici e “amici di 157


amici”, perché erano quelli che avevamo maggiori possibilità di coinvolgere. Molti 30-40enni provenienti da quelli che sono definiti ambienti creativi, visto che noi siamo fotografi, musicisti e grafici. Poi il nostro pubblico è cresciuto in numero e in varietà. Alcuni eventi (Showcase Colapesce, Le Belle Pere, La Notte delle Fanzine, eccetera) hanno portato un pubblico più giovane e pian piano anche gli abitanti del quartiere, inizialmente curiosi ma un po’ timidi, hanno iniziato a visitarci. La nostra intenzione è sempre stata quella di essere totalmente aperti. Facciamo delle proposte rivolte a chiunque voglia usufruirne. Anzi, più il nostro pubblico è vario e trasversale più siamo contenti. Non troviamo nessun senso nel voler selezionare il nostro pubblico, a maggior ragione in un quartiere come questo. Siamo felici se riusciamo a creare un’interazione tra persone di diversa estrazione sociale, origine, cultura... -Quali sono i vostri progetti per il prossimo futuro e quali quelli a lungo termine? Siamo partiti un po’ alla cieca, senza sapere bene come sarebbero andate le cose. Le nostre intenzioni erano di divertirci e fare qualcosa di stimolante. Abbiamo avuto più successo di quanto non ci aspettavamo e siamo molto contenti. Direi che i nostri progetti sono: - sopravvivere, cosa non scontata visto che non abbiamo praticamente nessuna entrata dall’attività della galleria - sempre: di continuare a divertirci e far divertire chi viene a trovarci, finché ci riusciamo -Pensate che siamo all’inizio di un cambiamento del quartiere? Se sì, come vi aspettate che possa cambiare o come dovrebbe cambiare? Probabilmente si. A partire dall’affermazione dell’acronimo NoLo fino all’apertura di nuovi locali un po’ hipster, la zona si sta certamente “gentrificando”. Ad essere sinceri, a noi piace così com’è, ma il processo è inevitabile e inarrestabile. Interni della galleria Gigantic: a sinistra lo spazio su strada, con la vetrina; a destra il piano interrato.

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5.2.4

mappa psicogeografica

Il quartiere di Nolo, come si è intutio, è molto dinamico. Ci sono molte persone con la volontà di operare nel territorio e sorgono così diverse iniziative al suo interno che cercano di incrementarne la vivibilità, tra queste ad esempio un’associazione che si occupa dei tunnel e degli spazi ex ferroviari. Nel caso in cui mancano gli spazi pubblici per l’autonoma organizzazione, è la spontanea iniziativa delle persone a far nascere i progetti sociali. Ma studiando il quartiere, si osserverà che le occasioni non mancano, ci sono diversi gli spazi che possono offrire opportunità, come ad esempio il mercato comunale di Viale Monza. Un importante intervento di recupero avviato recentemente riguarda gli spazi dell’ex convitto nel parco Trotter. Secondo alcune opinioni raccolte parrebbe esserci qui la volontà da parte dell’amministrazione di mettere a disposizione parte degli spazi alle associazioni di quartiere. Il parco Trotter può essere considerato il fulcro del quartiere, il suo cuore pulsante. Si tratta di un parco unico nel suo genere nel panorama italiano, esso ospita infatti al suo interno una scuola materna, una elementare, e una media. Queste si distribuiscono su diversi padiglioni sparsi nel verde del parco. I cancelli di questo spazio chiudono dunque al mattino, per consentire alle attività scolastiche di avvenire indisturbate, per aprire poi al pomeriggio e nel weekend, accogliendo ogni componente del quartiere: dai genitori con i bambini, ai creativi, agli immigrati. Passeggiando per il parco e sedendosi su una panchina a riflettere e osservare, nasce il senso di detournément, e lo spunto per creare una mappa psicogeografica che racconti dell’esperienza di deriva nel quaritere, a partire dalle piccole gallerie, attraverso poi le vie principali e i punti di maggior interesse, per chiudere infine con il panorama del terrazzo al sesto piano di casa propria.

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Muro Libero: Progetto indetto dal Comune che lascia l’intero cavalcavia a disposizione dei writers. La balena del dr. Woo è ormai diventata un simbolo

Social District: La colazione di quartiere organizzata ogni Sabato in un posto diverso. Tutti portano qualcosa da casa e ci si apposta in posti inusuali come posteggi per parcheggio

Cinema Beltrade: all’interno di una chiesa sconsacrata Al Tempio d’Oro: Principale ritrovo degli abitanti del quartiere.

Mercato Comunale Monza: Una delle idee di riqualifica

L 160


Anfiteatro Martesana: punto attrattivo del parco della Martesana, ospita eventi di vario genere come concerti e cinema all’aperto

Talent Garden: un coworking gestito da designer e architetti

Via Stamira d’Ancona 59: Un’imitazione residenziale della Torre Velasca

Piazzale governo provvisorio: woonerf tra la ferrovia e la Scuola dell’infanzia Rovetta

Parco Trotter: Progetto forse unico in Italia; ospita una scuola al suo interno dove gli orari di accesso vengono gestiti in base agli orari delle lezioni. Vi sono presenti anche orti, campi sportivi e aie. Sono ormai famose le spettacolari partite di volleyball tra peruviani che accolgono sempre un vasto pubblico. E’ in corso un progetto di riqualifica dell’ex Convitto, stabile degli anni ‘20,rinominato nuova “Casa del Quartiere”

Drogheria Creativa: progetto sull’identità del quartiere

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Salumeria del Design: mercatino street food dove hanno coinvolto tutti gli abitanti del quartiere


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5.3

nell’idea di far qualcosa

9. dal brano La cattedrale

“Io mi sono ritrovato nell’idea di far qualcosa mica solo consumare che mi annoia, che mi annoia”9

di Palermo, Tre Allegri Ragazzi Morti, Primitivi del futuro, 2010

Nell’ottica di concludere con un esito progettuale lo studio e la trattazione affrontata, si presenta infine un tentativo di concretizzare le considerazioni sulla riappropriazione in chiave sociale degli spazi urbani. Si tratta di un evento organizzato assieme alle realtà del quartiere, appoggiandosi sull’iniziativa comunale detta “muro libero”, che concede la libera fruizione di alcune pareti, di infrastrutture ad esempio, agli street-artisti per la realizzazione di murales. Si è provato dunque a vedere nel potenziale espressivo di quest’ultimo un espediente per creare identità e senso dello spazio. Si vuole dimostrare che l’evento, un intervento dal carattere effimero nella durata temporale e nei mezzi impiegati per realizzarlo, può essere un modo valido per creare interesse sociale e aggregazione sfruttando e reimmaginando gli spazi negletti del contesto urbano. Si è infatti scelta come location una corte formata da due sottopassaggi, un ritaglio infrastrutturale in cui passano una strada a senso unico e due ampi marciapiedi, ma non per questo priva di qualità ambientale, in cui poter ospitare per una giornata degli artisti invitati a dipingere graffiti, allestendo e arredando lo spazio perché vi ci si possa rilassare e conoscere persone, ascoltando musica circondati da murales.

Nella pagina affianco: fotomontaggio per il Manifesto dell’architettura futuribile (pagina successiva); l’edificio sul fundo è un disegno di Antonio Sant’Elia; il pavimento striato è estratto dal progetto Superkilen a Copenaghen; la scena proiettata è tratta dal film “La Haine” di Mathieu Kassovitz.


5.3.1

Manifesto dell’architettura futuribile10

10. testo liberamente

Dal secondo dopoguerra in Europa la bellezza antica del paesaggio e della città storica viene profanata con la sovrapposizione fagocitante di vetro e cemento. La concentrazione del potere economico in grandi società nazionali o multinazionali e la dilatazione dei consumi e della massa dei consumatori, dovuta perlopiù a un generale aumento del benessere e all’utilizzo massiccio della pubblicità11, danno vita a un nuovo tipo di società concentrato nelle città. L’inurbamento massiccio, la diffusione dei media e la terziarizzazione portano a nuovi modi di concepire lo spazio urbano che fanno perdere di vista i bisogni umani del suo fruitore. Le nuove logiche economiche corrompono il modo di vivere, la pubblicità dimostra che la felicità si può acquistare, la gente diventa merce produttiva per l’industria che produce merce da vendere alla gente. Il pianeta inquinato comincia a consumarsi, mentre il treno del progresso si dirige verso il precipizio12, in città come gabbie si compie l’alienazione delle persone, di cui quasi sfugge nel presente la funzione.

ispirato al Manifesto dell’architettura futurista, di Antonio Sant’Elia, pubblicato in G. Ciucci, F. Dal Co, Architettura italiana del novecento, Milano, Electa, 1990. 11. da definizione di neo-capitalismo data da dizionari.corriere.it. 12. vedere murales di blu nelle pagine successive.

Da dove ricominciare allora? Il caleidoscopico riapparire delle stesse banali forme, il moltiplicarsi delle macchine e degli ingorghi, l’accrescersi quotidiano dei bisogni imposti dalla rapidità delle comunicazioni e dall’agglomerato degli uomini non dànno alcuna perplessità a codesti sedicenti pianificatori della città? Essi hanno perseverato cocciuti con le regole di Le Corbusier, del Ciam, di Mies producendo nel migliore dei casi vacue esercitazioni stilistiche, frutto di onanismo intellettuale, lontane dai veri bisogni della gente. Il problema si è fatto drammatico quando le regole del less is more sono state interpretate speculativamente per dare la genesi alle concrezioni urbane delle periferie, basate sul modello del bussolotto pseudomodernista di cemento e mattoni, infilato nel pattern geometrico del planivolumetrico. Se questi sono dunque i dormitori della società di massa, sono allora i centri commerciali le sale comuni? Non dobbiamo permettere a questa città di soffocare la nostra humanitas, dobbiamo riemergere dalla condizione di annichilamento e dal torpore in cui ci hanno condotti i media, mostrandoci un’ideale di felicità meschina, rivolto a foraggiare il sistema neo-capitalista. Ma in risposta al tracollo di questo, si sta oggi presentando un profondo mutamento nelle condizioni culturali che scardina e rinnova, come la riscoperta delle leggi della convivenza, il perfezionamento dei mezzi di condivisione, l’uso razionale dello spazio tra le cellule abitative. Le nostre città dovrebbero essere l’immediata e fedele riproduzione di noi stessi, dobbiamo abbattere i muri d’ignoranza per fare largo alla coesione sociale in un contesto urbano più permeabile alle persone e alle idee. Noi dobbiamo inventare e convertire la città perché sia futuribile, realizzabile a partire da quanto già costruito, senza sventramenti ma con un’attenzione agli spazi negletti, abbandonati, ai vuoti; dobbiamo 164


concepirla simile a un’immensa piazza tumultuante, viva, aperta, accogliente in ogni sua parte, e lo spazio futuribile simile a un’opera d’arte gigantesca che deve sorgere sull’orlo di un tessuto urbano di connessione a misura d’uomo, dal quale sia rimossa l’ingombrante e roboante presenza delle autovetture in favore della democratica diffusione del trasporto pubblico. Abbiamo perduto il senso del superficiale, del funzionale, dell’effimero e del veloce. Sentiamo di non essere più le persone dei grandi alberghi, delle stazioni ferroviarie, delle strade immense, dei porti colossali, dei centri commerciali, dei rettifili; ma degli spazi aperti di condivisione, delle reti sociali, dei centri per l’espressione e la cultura, dei percorsi ciclopedonali, dei woonerf arredati, degli spazi multifunzionali e ibridi. Il problema dell’architettura futuribile non è un problema di rimaneggiamento lineare. Non si tratta di trovare nuove sagome, nuovi rivestimenti per facciate appese; non si tratta di evidenziare differenze formali tra l’edificio nuovo e quello vecchio, né di determinare nuove forme, nuove linee, una nuova armonia di profili e volumi; ma di creare di sana pianta lo spazio futuribile, con ogni risorsa dell’arte e della cultura, appagando signorilmente ogni curiosità del nostro costume e del nostro spirito. Dobbiamo ottenere lo spazio e la città spiritualmente e materialmente nostri, nelle quali in nostro détournement possa svolgersi senza parere una grottesca idiosincrasia. In Italia si accolgono codeste raffinerie architettoniche e si gabella l’incapacità nostrana per geniale invenzione, per architettura nuovissima. Ma i collettivi della controcultura sono stati forieri del cambiamento, la tecnologia ha connesso le persone, portandole in strada per riappropriarsi dello spazio pubblico in maniera informale; attraverso l’autorganizzazione degli elementi più intraprendenti della società stiamo assistendo a una presa di coscienza che raggiungerà le amministrazioni. Noi combattiamo e disprezziamo: - gli spazi per il commercio consumistico di massa. - la privatizzazione urbana e le logiche speculative. - la cementificazione che ha divorato lo spazio aperto. - lo spostamento uno per macchina, che ingorga la città. - le cose, la mercificazione, il capitalismo bieco. - la concezione di tempo come Cronos, schematica, routinaria e costringente. E invece proclamiamo: - gli spazi per la condivisione e l’espressione dell’individuo. - i beni pubblici e le logiche cooperative. - l’importanza del verde e dell’arredo nelle città. - la gioia della passeggiata e di muoversi in bicicletta. - la superiorità e il valore delle idee, delle persone, e una politica sociale e democratica. - la concezione del tempo come Kairos, mercuriale, dell’attimo esperienziale. 165


5.3.2

frustrazione e graffiti

13. in Richard Sennett,

La nostra cultura presta molta attenzione alla concretezza. L’uomo moderno ha una certa propensione a fare affidamento solo sugli oggetti, solidi e integri. Concretezza e solidità infatti sono spesso sinonimi, ma in un contesto urbano come quello sviluppato nell’ultimo secolo, sono pochi i rami a cui è ancora possibile aggrapparsi. Infatti, come visto precedentemente, i pochi capisaldi rimasti ancora intatti nella società odierna, spesso sono gli elementi del passato. Come succede in ogni cambio generazionale, infatti, non si fa altro che guardare al passato come un traguardo impossibile da raggiungere e si rimane in balia dell’opprimente e quasi claustrofobica crescita urbana. Tale disorientamento, generato dall’accumulo ossessivo di informazioni e dalla cattiva guida dei media, oltre che dalla labirintica conformazione delle città, causano un senso di frustrazione nell’uomo, da cui difficilmente riesce a liberarsi e il quale lo porta a rinchiudersi in se stesso, terrorizzato dall’idea di doversi aprire verso l’esterno. La vera e unica possibilità di uscire da questo disordine destabilizzante, è saper gestire la frustrazione e utilizzarla come punto di forza piuttosto che limite. Come afferma Richard Sennett: “la capacità di sostenere il peso dell’incertezza è parte integrante sia dell’indagine scientifica sia della creatività artistica”. Bisogna capire quindi che concretezza e frustrazione non devono essere per forza due concetti discordanti; anzi se correlati tra loro portano ad un nuova condizione esistenziale, in cui non si teme più l’apertura verso la diversità e si è così in grado di comprendere il vero senso della materia urbana.

La coscienza dell’occhio, Feltrinelli, Milano 1992.

In basso: murales realizzato dall’artista Blu in cui è raffigutato il “treno del progresso” basato sul consumismo e il capitalismo (le banconote sono il carburante e della merce esce dal convoglio) e destinato a finire nel burrone.

166

A proposito di creatività artistica, John Dewey13 cerca di analizzare una possibile relazione tra il mondo dei graffiti, o la street-art in generale, e l’ambiente. Egli nota che in una situazione di squilibrio come quella dell’ultimo secolo, gli artisti di strada sono stati gli unici a capire come gestire il senso di frustrazione globale. Come aveva già intuito Hegel un secolo prima, è quando i vari “Io” in


competizione capiscono di riconciliarsi, che si raggiunge una fase di equilibrio. Questa fase di rottura e contrasto è quindi necessaria al raggiungimento della consapevolezza, per poter poi accogliere il cambiamento e prendere coscienza sul fatto che gli schemi strutturali del passato non possono più funzionare in un contesto come quello attuale. È quindi per il senso di frustrazione, quando ci si sente a metà tra il successo e il fallimento, che si prende coraggio e si affrontano le incertezze, dato che ogni briciola di concretezza è andata persa col tempo. Come visto, il risultato raggiunto attraverso un percorso impervio sarà sempre più appagante di quello ottenuto percorrendo una strada in discesa.

14. informazioni tratte da http://www.comune. milano.it/wps/portal/ ist/it/news/primopiano/ tutte_notizie/urbanistica/ giardino_culture_morosini2

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I writers sono dunque stati in grado di attribuire una certa identità a quei luoghi anonimi generati dalla produzione di massa e progettati unicamente a scopo funzionale. Ovviamente, come nota Sennett, bisogna fare distinzione tra chi tappezza la città per soli scopi egoistici, cercando di farsi notare in un mondo sommerso da informazioni e pubblicità, e chi invece cerca di dare un senso estetico agli spazi, studiando anche le percezioni da parte del cittadino comune e immedesimandosi nei suoi occhi. C’è chi produce arte in grado di plasmare il materiale fornito dalla conformazione urbana, in modo tale da poter catturare l’attenzione dell’ipotetico passante e da incuriosirlo a tal punto da fargli rallentare il passo per ammirare ciò che lo circonda. Questo tipo di arte è uno dei pochi catalizzatori ancora esistenti in grado di tenere salda la presa tra uomo e città. È da considerare inoltre come questa forma d’arte, che esula politicamente dall’apparato commerciale galleristico, si pone invece democraticamente sotto gli occhi di tutti, traghettando messaggi sociali posti in maniera esplicita, per far riflettere anche chi non ha la possibilità o capacità di visitare una galleria. Il “Giardino delle Culture”14 è il primo intervento in cui si attua la delibera con cui il Comune di Milano ha scelto di estendere l’esperienza positiva dei giardini condivisi anche alle aree degradate e senza identità. Quel luogo è stato per decenni così degradato che


“non avevamo il coraggio di guardare fuori dalla finestra”, raccontano alcuni anziani del quartiere. C’erano capannoni artigianali che negli anni Ottanta “furono dismessi e poi occupati e ri-occupati da senza tetto e sbandati”. Dopo trent’anni di abbandono, intervallati dalla demolizione dei capannoni e da un piano parcheggi, l’area fu consegnata nel 2002 ad un concessionario, ma sei anni più tardi il cantiere non era neppure partito e la concessione fu revocata e quel luogo precipitò di nuovo nel degrado e nell’abbandono. Questi 1.250 mq tra le vie Morosini e Bezzecca sono stati pavimentati, recintati, dipinti con giochi per bambini, e a fare da cornice ci sono i due grandi murales di Millo, uno street artist pugliese, che regalano alla città un nuovo punto di vista. Nonostante il nome, questa piazza non è un parco ma uno spazio aperto pavimentato nel quale sono state poste piantumazioni, inserite in vasche amovibili per rispettare la temporaneità dell’intervento, e installazioni per la fruizione pubblica per essere restituito alla città in attesa di una definitiva destinazione. “È una ulteriore iniziativa nel percorso del ri-uso dei luoghi abbandonati e del recupero dello spazio pubblico-bene comune - spiega la vicesindaco e assessore all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris -. Via Morosini è un progetto pilota che ci auguriamo possa essere presto replicato».

15. Si chiama Rino Faccincani, è un imprenditore che vive in zona e ha deciso di lasciare un segno in memoria della madre.

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A consentire questo percorso è stata una delibera dello scorso dicembre che ha trasferito ad aree di proprietà comunale un principio già introdotto per il recupero delle aree verdi, con i giardini condivisi. L’amministrazione ha censito sia le aree private inutilizzate sia quelle pubbliche con l’obiettivo di avere una mappatura completa del fenomeno e per attivare, dove possibile, azioni di recupero anche in forma temporanea. Ci sono più ingredienti per il successo del progetto: il più importante è la presenza di una o più associazioni che promuovano iniziative di quartiere. Nel caso di via Morosini si è aggiunto uno sponsor15, che ha dato un cospicuo contributo per realizzare il maquillage dell’area.


Nella pagina affianco: bambino va in bici davanti al murales di Millo. In questa pagina: In alto: giardino delle culture. In mezzo: situazione di degrado precedente. in basso: progetto di recupero di spazi interstiziali nel dopoguerra, di Aldo Van Eyck.

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5.3.3

In questa pagina: pianta al 500 del sito scelto per l’evento. Nella pagina affianco: In alto: foto scattata dutante una festa organizzata da Altra Generazione al giardino comunitario Lea Garofalo. In basso: fotomontaggio con vista interna alla corte che rende l’idea di come verrà occupato lo spazio e di quali saranno le attività per l’evento Muro Libero.

progetto

Viene qui infine presentato l’esito progettuale di questo percorso teorico. Nel quartiere di Nolo è stato individuato un sito interessante per la sua conformazione spaziale, si tratta del sottopassaggio della cintura ferroviaria in via F. Morandi a doppio cavalcavia da tre arcate che forma una “corte” trapezia interna. Qui si è pensato di poter organizzare un evento per una giornata sul tema dei graffiti. Infatti l’infrastruttura è stata da poco dichiarata “muro libero” da un cartello infisso dall’amministrazione; l’idea è quella di celebrare questa iniziativa nomindando così l’evento e invitando degli artisti della zona a collaborare per la realizzazione di più murales. La crew contattata si chiama TDK, ed è un gruppo di street artist che storicamente opera nella zona, il tema dei murales sarà Nolo e la balena. L’evento, che partirà nel pomeriggio di sabato 15 ottobre 2016 e si concluderà la notte, è stato organizzato assieme ai ragazzi di Altra Generazione, i quali già hanno organizzato serate in spazi pubblici, dislocando i divani di casa e allestendo piano bar e impianto stereo. L’iniziativa sarà inoltre supportata e pubblicizzata dalla pagina Facebook e associazione Nolo Social District. Il permesso di occupazione del suolo pubblico è stato concordato con Giuseppe Lardieri, presidente del Municipio 2 di Milano, il quale ha messo a disposizione il patrocinio dell’amministrazione comunale.

scala 1:500

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crediti foto in copertina di Matteo Girola, da matteogirola.wordpress.com

città e situazione Nolli: www.lib.berkeley.edu Plan Voisin: blog.cpgcorp.com.sg Cerdà: talkarchitecture.wordpress.com Città giadino: www.google.it/maps/ Unité d’habitation: eliinbar.files.wordpress.com Bruno Taut: s3.transloadit.com Banlieus: www.lefigaro.fr Ekumenopolis: www.tranzitpaper.com Abitare è essere ovunque a casa propria: www.clponline.it Eecupero e reinvenzione: 66.media.tumblr.com Paletti e catene: www.blueforma.it Attrezzature per la collettività: redmag.it Banlieues: http: www.thelocal.fr Constant gipsy: photos1.blogger.com Zingari: www.domusweb.it Constant new babylon: 1.bp.blogspot.com Paternoster Square: da lezione gentilmente concessa dal visiting professor Ed Wall

riaffermazione spaziale Piazza taksim: everywheretaksim.net crown hall: static1.squarespace.com

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Terre vergini: s-media-cache-ak0.pinimg.com kaos temple: www.demilked.com Madrid Rio: www.west8.nl Superkilen: www.archdaily.com www.backpacksandbunkbeds.co.uk La Casa Encendida: www.lacasaencendida.es 59 rivoli: www.59rivoli.org SYN: ateliersyn.wordpress.com Christiania: www.ticweb.it Matadero: www.archdaily.com www.detail-online.com 104: www.amorromamag.it www.novembre-architecture.com www.italofrancese.net

spazio libero a Milano Mare Culturale Urbano: maremilano.org Fuorisalone: static.arredamento.it Lume: lumelaboratoriouniversitariometropolitano.wordpress.com la stecca: milanooff.com Macao: www.dirittodicritica.com www.ilgiorno.it

muro libero a Nolo Loreto: www.giusepperausa2.it Base: comunicato stampa Nolo: blog.ecostampa.it Selton: www.rollingstone.it/

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Salumeria del design: salumeriadeldesign.com Gigantic: www.facebook.com/Gigantic Giardino delle culture: www.festivaldelverdeedelpaesaggio.it manoxmano.it

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Cristiano Gerardi - Riccardo Gialloreto

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