RIVISTA MILITARE 2014 N.1

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Editoriale Non bisogna avere paura dei cambiamenti. Questo principio è semplice da enunciare, ma difficile da mettere in pratica poiché bisogna essere preparati ad affrontare le conseguenze. Il cambiamento vero si basa sull’abbandono del paradigma culturale che aveva caratterizzato il nostro operato fino a quel momento e sul ri-orientamento di visioni e attitudini che ci sembrano ormai familiari. Forse troppo. Ogni controversia e discussione avviene entro un ambito consolidato, in una sorta di “cerchio mentale”, perfetto come forma, ma in cui niente di nuovo può avvenire. “Fate che la purezza del cerchio non vi impedisca di vedere la forma dell’ellisse” recitava Ipazia d’Alessandria nel IV secolo d.C.. Non lasciate che l’abitudine vi impedisca di vedere il mondo così com’è o le nuove opportunità. Rivista Militare compie ora questo cambiamento per rispondere con energia ed efficacia alle sfide di un mondo in continua evoluzione. La mia idea è che questo mutamento debba avvenire nel solco della tradizione e dando voce alle forze più vive e vitali del Paese: i giovani. La tradizione è il pilastro portante della vita militare, un elemento insostituibile che va arricchito, vivificato e mai abbandonato. I giovani rappresentano il futuro della nostra Forza Armata ed è necessario sviluppare in loro questa consapevolezza e il senso di appartenenza. Sono proprio le loro idee a contribuire all’evoluzione dell’istituzione militare. Senza dimenticarsi di comunicare verso l’esterno, perchè l’Esercito vive nella società. Per questo nel primo numero dell’anno sono presenti alcune novità: la testata, lo stile, la grafica e soprattutto i contenuti, che puntiamo a rendere più interessanti e coinvolgenti per i militari, lettori naturali della Rivista, ma anche per un pubblico più vasto. L’evidenziazione di alcune parti degli articoli permetterà una lettura più agevole, “illuminando” i concetti principali. La carta su cui è stampata la Rivista è più leggera e adatta a un periodico. Abbiamo recuperato il logo storico della testata (rivisitato in chiave moderna) e scelto per la copertina un’immagine che rappresenta la direzione verso cui tendere: un militare in missione in procinto di lanciare un drone. Il futuro dell’Esercito è fatto dai suoi uomini e dalla tecnologia che ne aumenta le potenzialità. Da questo numero in poi un focus sarà dedicato alla Grande Guerra, con interventi di storici e curiosità poco conosciute per commemorarne il centenario. E qui mi fermo. Non si fermeranno invece i cambiamenti della Rivista Militare che dal prossimo numero saranno ancora più evidenti. Sono consapevole che la strada da percorrere è ancora lunga e irta di ostacoli. Sono sicuro però che la tenacia e il lavoro quotidiano ci guideranno verso risultati sempre più brillanti. La motivazione e il coraggio non mancano. Al Colonnello D’Emilio, mio predecessore, che tra mille difficoltà ha diretto con mano ferma il nostro periodico portandolo a più che lusinghieri risultati, va tutto il mio ringraziamento e l’augurio di ogni fortuna. Un particolare saluto al personale della Rivista Militare di cui ho potuto ammirare la profonda motivazione, l’attaccamento al giornale e le grandi doti professionali. Un caro saluto a tutti i lettori, ricordando che saranno soprattutto le loro idee, i loro contributi e il loro entusiasmo a fare la “Rivista”. Il mio auspicio è che collaboratori e lettori possano aumentare e partecipare sempre più attivamente al rinnovamento in atto: un percorso che non conosce soste, che impone un impegno costante per uscire dal labirinto della quotidianità. La Rivista è una palestra delle idee, senza censure e senza riserve. Metteteci alla prova, se volete, scrivendoci: rivmil@esercito.difesa.it Il cuore al passato e tutte le energie verso il futuro. Buona lettura.

Il Direttore Col. Felice DE LEO


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Le Novità Gennaio-Febbraio n.1/2014 Editore Ministero della Difesa

Techne

Direttore Responsabile Felice DE LEO Vice Direttore Luigino Cerbo

Il ruolo trainante della cultura militare nell’evoluzione tecnologica

Capo Redattore Stefano Massaro Redazione Claudio Angelini, Rosaria Talarico Annarita Laurenzi, Lia Nardella Grafica Antonio Dosa, Ubaldo Russo Grafica on-line Marcello Ciriminna Segreteria e diffusione Responsabile: Gabriele Giommetti Fabio Di Pasquale, Ciro Visconti, Stefano Rubino, Filippo Antonicelli, Sergio Gabriele De Rosa

Flavio Russo - Ferruccio Russo TECHNE Il ruolo trainante della cultura militare nell’evoluzione tecnologica. L’età moderna Codice 39 Prezzo Euro 50,00

Direzione e Redazione Via di S. Marco, 8 - 00186 Roma Tel. 06 6796861 Amministrazione Ufficio Amministrazione dello Stato Maggiore dell’Esercito, Via XX Settembre, 123/A 00187 Roma

Numero Speciale MOZAMBICO 1993 - 94 Codice 38 Prezzo Euro 5,00

Fotolito e Stampa 28° Reggimento “Pavia” Viale della Liberazione n. 7 61121 Pesaro Tel. 0721 30319 Spedizione In abbonamento postale 70% Roma Tassa pagata - Taxe perçue Condizioni di cessione per il 2014 Un fascicolo Euro 4,00 Un fascicolo arretrato Euro 6,00 Abbonamento: Italia Euro 15,00, estero Euro 21,00. L’importo deve essere versato su c/c postale 1007604034 intestato a Difesa Servizi S.p.A. Via Flaminia, 335 - 00196 Roma. I residenti all’estero possono versare l’importo tramite bonifico internazionale intestato a Difesa Servizi S.p.A. - codice IBAN IT 34 Z 07601 03200 001007604034 - codice BIC/SWIFT BPPIITRRXXX, con clausola «Commissioni a carico dell’ordinante» Autorizzazione del Tribunale di Roma al n. 944 del Registro con decreto 7-6-49

Numero Speciale LIBANO 1982 - 2012 Codice 37 Prezzo Euro 5,00

Periodicità Bimestrale

© Tutti i diritti riservati Tutte le foto a corredo degli articoli, ove non altrimenti indicato, sono di proprietà dello Stato Maggiore dell’Esercito. L’editore si dichiara disponibile a regolarizzare eventuali spettanze dovute a diritti d’autore per le immagini riprodotte di cui non sia stato possibile reperire la fonte o la legittima proprietà

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RIVISTA MILITARE 1

Sommario

Editoriale

STORIA

GEOPOLITICA 4

La guerra civile in Siria

Cronaca di un attentato

di Pietro Batacchi

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La miccia degli uiguri tra repressione cinese e voglia di indipendenza

L’Esercito toscano

di D a n i e l e C e l l a m a r e

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DOTTRINA 26

Top Secret: l’affascinate mondo dei codici segreti

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di Vincenzo Junio Valerio Musmeci, Nicola de Maio, Vitantonio Cito e Vittorio Guarriello

Forti quando serve di Roberto Forlani

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di Riccardo Caimmi

Come risparmiare con il Pooling & Sharing di Giuseppe Amato

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di Antonello Folco Biagini, Alberto Bacherelli e Antonello Battaglia

Volontari, un’etica che viene da lontano di Ernesto Bonelli

L’avvincente storia del cemento armato

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di Flavio Russo

Bandenkampf!

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di Gianluca Bonci

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Elogio dell’iniziativa di Gianmarco Di Leo

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«Iron Punch 2013» di Generoso Mele

TECNICA 54

Striker Fired o Hammer Fired?

Ricordo del Generale 100 di Corpo D’Armata Giangiacomo Calligaris e del Capitano Paolo Lozzi

RUBRICHE ESERCITO E SOCIETÀ 102 COMPUTER TIPS AND TRICKS 106

di Fabio Zampieri

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Leonardo, genio nell’arte della guerra

ENGLISH SUMMARY 108 RECENSIONI 110

di Sara Greggi

APPROFONDIMENTI 112 NORME DI COLLABORAZIONE La collaborazione è aperta a tutti. Gli autori possono inviare i propri scritti corredati da immagini nel rispetto della normativa vigente sul c o p y r i g h t . Rivista Militare, al momento della stampa e con l’elargizione del compenso p e r l’autore, acquisisce automaticamente la proprietà degli articoli e conseguentemente n e p u ò d i s p o r r e s e c o n d o q u a n t o s t a b i l i t o d a l l e l e g g i sull’editoria. Il materiale fornito, pubblicato o meno, non viene comunque restituito. Ogni collaboratore, all’atto dell’invio del proprio elaborato, dovrà f o r n i r e : un breve curriculum, il proprio codice fiscale, un recapito telefonico e l’eventuale indirizzo e-mail. Tutti i dati personali forniti sono trattati secondo le vigenti norme sulla tutela della privacy.

IN COPERTINA

Operatore del 41° Reggimento “Cordenons” impegnato nel lancio del sistema UAS (Unmanned aerial system) “RAVEN B”, impiegato per la sorveglianza del territorio nell’ambito della missione ISAF in Afghanistan. In basso, la copertina della Domenica del Corriere che ritrae l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914. Si ringrazia la Fondazione Corriere della Sera per l’utilizzo del materiale tratto dall’Archivio Storico.


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Geopolitica

LA GUERRA CIVILE IN SIRIA di Pietro Batacchi*

Entrato ormai nel suo quarto anno, il conflitto in Siria non sembra dare segni di attenuazione. I colloqui di pace a Ginevra non hanno fatto altro che accentuare l’impasse, anche perché le aspettative non erano certo delle migliori dopo i continui rinvii andati avanti per quasi un anno. E come potevano essere di segno contrario quando la gran parte dell’opposizione, soprattutto quella che militarmente conta sul campo, ha boicottato l’appuntamento? Un protagonista, l’Iran, non è stato invitato e una delle condizioni, l’uscita di scena di Assad per avviare la transizione, non è al momento attuabile. La parola spetta dunque al campo di battaglia, dove nessuna delle due parti si dimostra capace di superare l’altra.

L

a situazione sul terreno continua a segnare uno stallo su pressoché tutti i fronti del conflitto. Uno stato di cose che però macina vite umane a ritmi elevatissimi tra i combattenti, soprattutto tra i civili. Nel 2013 è stato raggiunto il triste record di caduti: 73 mila secondo i dati ufficiali, ma quelli reali potrebbero essere ben più alti. Negli ultimi mesi i lealisti hanno cercato di consolidare il più possibile i rilevanti progressi compiuti lo scorso anno e di assicurarsi il controllo della strategica area del Qalmoun (tra il confine con il Libano e la “grande Damasco”), favoriti anche dal progressivo disgregamento del fronte ribelle.

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Lo scorso anno ha segnato la ripresa del regime dopo che tra il 2011 e il 2012 la sorte di Assad sembrava segnata sotto l’incedere inarrestabile delle forze ribelli giunte a controllare le maggiori città della Siria nelle roccaforti alawite (escluse Tartus e Latakia), la gran parte dei confini con Turchia, Libano e Giordania e che minacciavano anche il cuore di Damasco. Il pesante ingresso nel conflitto da parte di Iran e di Hezbollah a cavallo del 2012 e 2013 ha nei fatti ribaltato le sorti di una partita che sembrava già segnata. Il primo passo della ripresa delle forze lealiste è stata la riconquista, con il supporto determinante di Hezbollah, del villaggio di Al Qousair (19 maggio - 5 giugno 2013) che ha permesso alle forze governative di mettere in sicurezza il collegamento stradale tra Damasco e Beirut e tra la capitale e la fascia mediterranea a maggioranza alawita. A quel punto i lealisti hanno potuto concentrare le forze su Homs (terza città della Siria, situata 100 km a nord di Damasco), che è stata ripresa il 5 agosto 2013 dopo un mese di combattimenti. Assad ha ristabilito così il proprio controllo sull'asse stradale DamascoHoms-Tartus, seppur parzialmente (fino ai primi

di gennaio, alcuni tratti dell’autostrada Damasco-Homs non erano ancora sicuri) e mantenuto collegate tra loro le aree in cui più forte è il supporto al regime e il radicamento delle comunità confessionali. Oltre agli alawiti (la sotto-setta sciita da cui proviene la famiglia Assad), il potere ha tradizionalmente l’appoggio delle comunità cristiane e druse. Completate queste operazioni, il regime si è concentrato su Damasco, in particolare sui quartieri della periferia Est, per prevenire le infiltrazioni degli insorti nel cuore della capitale e mettere in sicurezza il complesso militare di Mezzeh, sede della 4ª Divisione corazzata e di un importante aeroporto. Da allora è scattata l’operazione Capital Shield (Scudo della Capitale), che ha permesso alle forze di Assad di riprendere il controllo di vaste aree della periferia di Damasco e di circoscrivere le attività ostili soltanto ad alcune zone tuttora in mano ai ribelli.

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Geopolitica

In questo contesto il 21 agosto 2013 è maturato l’attacco chimico contro i quartieri di Ghouta, Jobar e Zamalka (su cui neanche il lacunoso rapporto dell’ONU ha permesso di far luce e sulle cui effettive responsabilità i dubbi sono sempre più forti) che ha innescato un’escalation disinnescata con l’accordo tra Russia e Stati Uniti, raggiunto un mese dopo grazie all’ONU. Questa fase non ha impedito al regime di mettere in sicurezza una vasta area della capitale. Per completare il disegno era però necessario riprendere il controllo della zona montuosa del Qalmoun, tra Damasco e Libano, che permetteva di alimentare i residui dell’insurrezione ancora attivi nella capitale e, soprattutto, impediva al regime di assicurarsi piena libertà nel triangolo Damasco-Homs-Tartus. Perciò a fine novembre è partita una pesante offensiva, sempre con il rilevante appoggio di Hezbollah, per sottrarre ai ribelli il Qalmoun. Dopo i primi successi iniziali, le difficoltà del terreno (amplificate dalle precipitazioni nevose del mese di dicembre) e la forte resistenza della guerriglia hanno molto rallentato l’operazione e ancora a fine gennaio le sorti della battaglia non erano chiare. Nel complesso il conflitto nell’area centro-meridionale della Siria sembra volgere a favore del regime. Lo stesso non si può dire per le aree a Nord e a Est del Paese. Gran parte di queste zone sono infatti sotto lo stretto controllo dei vari gruppi dell’opposizione, mentre le forze lealiste si trovano in pratica sotto assedio in alcune parti delle principali città dell’area, da Deir Ezzor ad Aleppo. Per questo nell’estate 2013 il regime aveva tentato di riprendere il controllo di tutta Aleppo con l'operazione Northern Storm lanciata nel mese di giugno, ma il tentativo è stato frustrato dalla veemente reazione dei ribelli in cui un ruolo determinante era giocato dalla formazione qaedista dello Stato Islamico dell'Iraq e del Levante (ISIL).

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Di conseguenza, la posizione dei governativi nella zona è rimasta molto precaria e appesa alla disponibilità di rifornimenti aerei garantiti dal controllo dell'aeroporto internazionale di Aleppo e dell'adiacente base aerea di Nayrab. Un importante aiuto alle forze del regime potrebbe venire dagli stessi ribelli tra i cui ranghi, a partire dalla fine del 2013, sono andati crescendo di intensità scontri e combattimenti degenerati a gennaio in una vera e propria guerra civile nella guerra civile. Dove troviamo da un lato il Free Syrian Army (i salafiti del Fronte Islamico e i qaedisti “siriani” di Al Nusra) e dall’altro i qaedisti “iracheni e internazionalisti” di ISIL. I combattimenti si sono propagati da Aleppo (in cui ai primi di gennaio il Fronte Islamico e Al Nusra hanno occupato il quartier generale di ISIL) a tutto il Nord del Paese, provocando in pochi giorni quasi mille morti e un sensibile arretramento delle posizioni

Rivista Militare


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di ISIL. Una situazione che rischia indirettamente di favorire il regime che, con l’indebolimento dei ranghi della guerriglia, potrebbe cercare di riprendere il controllo di Aleppo. Già a fine gennaio infatti, grazie agli scontri fratricidi tra i ribelli, il regime aveva consolidato le proprie posizioni attorno all’aeroporto e aveva iniziato una vasta operazione contro la città industriale di Aleppo. LE FORZE IN CAMPO Per affrontare la rivolta, già dal 2011 il presidente Assad si è affidato ai reparti di élite dell’esercito e all’aeronautica. L’esercito arabo-siriano è stato quello che specie inizialmente ha patito gli effetti dell’insurrezione subendo un alto tasso di diserzione a favore delle fila degli insorti. L'organico era composto per più di metà da coscritti sunniti (molto presenti anche tra i ranghi dei sottufficiali). Mentre la parte restante, soprattutto militari di carriera, era formata da personale alawita (il 70% del totale, in maggioranza ufficiali), cristiano e druso. Con l'intensificarsi della rivolta si stima che l'esercito abbia subito un tasso di diserzioni valutabile tra il 20 e il 30%, con picchi anche superiori. Di conseguenza Assad è stato costretto a centellinare l’impiego delle forze sul terreno e ad affidarsi quasi esclusivamente ai fedelissimi della 4ª Divisione corazzata (comandata dal fratello Maher) e della Guardia Repubblicana, formate completamente da personale alawita e, in misura minore, alle due Divisioni delle forze speciali. L’aeronautica, al contrario dell’esercito, ha mantenuto una certa compattezza essendo da sempre la preferita delle forze armate. Hafiz Assad, padre dell’attuale presidente, era infatti Capo di Stato Maggiore

dell’aeronautica al momento della presa del potere. L’arma aerea ha garantito il necessario supporto alle forze di terra e l’interdizione costante delle aree sotto il controllo dei ribelli, dimostrando di essere, soprattutto in alcune fasi, una pedina fondamentale per la sopravvivenza del regime. Da sottolineare che, nonostante l’età media degli equipaggiamenti e dei mezzi, è stato comunque possibile mantenere una certa efficienza grazie all’afflusso di pezzi di ricambio che la Russia non ha mancato di garantire soprattutto tra il 2012 e il 2013. Sostegno avuto in egual misura anche per i mezzi dell’esercito. Per completare il quadro sulle forze “ufficiali” del regime non bisogna dimenticare di citare l'Air Force Intelligence Directorate (AFID), il servizio di informazioni della stessa aeronautica, ovvero un altro tradizionale puntello del regime. L’AFID è a tutti gli effetti un’ampia formazione paramilitare composta da 20 mila uomini che in tutte le fasi del conflitto ha avuto un ruolo di primo piano: prima nella repressione delle proteste e, successivamente, nell’eliminazione dei quadri intermedi della guerriglia. Con queste risorse tuttavia il regime non avrebbe potuto ribaltare, come ha fatto, le sorti del conflitto ed è proprio la consapevolezza dell’esiguità delle forze regolari ad avere costretto Assad ad affidarsi in modo massiccio alle milizie e, come vedremo dopo, all’Iran. Soprattutto nelle fasi iniziali della rivolta, la prima milizia a cui ha fatto ricorso il regime è stata la Shabiha. Più che una milizia vera e propria si tratta in realtà di un’organizzazione criminale di stampo mafioso con forti legami con la famiglia Assad, in particolare con due cugini del presidente. Essendo per questo legata a doppio filo alla sorte del regime, fin dal primo momento ha fatto di tutto per fermare le proteste. A fianco di questa organizzazione ha operato dall’inizio anche la milizia del partito Baath, progressivamente trasformata, grazie all’assistenza iraniana, in una nuova milizia, Jaisj Al Shabi (modellata sull’esempio della milizia dei Basij iraniani). Con l’estensione del conflitto e il sempre maggiore coinvolgimento iraniano, sono state create due ulteriori milizie. La prima, denominata Abou Al-Fadl Al-Abbas, è composta per la gran parte da volontari sciiti iracheni, libanesi e yemeniti, mentre la seconda, National Defence Force (NDF), è nata dalla fusione dei comitati popolari locali con varie milizie di difesa delle comunità

I segni dei violenti combattimenti tra le forze governative e i ribelli

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confessionali (alawiti, cristiani e drusi) su cui si basa il potere del regime. In entrambi i casi si tratta di milizie che vengono impegnate per il controllo del territorio e la difesa dei villaggi, permettendo così di distogliere le truppe regolari da questi compiti, ma anche per il supporto alle stesse operazioni cinetiche e di controguerriglia. L'altro grande protagonista “irregolare” pro-Assad, come già detto a proposito della riconquista di Qousair, è Hezbollah, il cui impegno nel conflitto è andato crescendo fino a interessare alcune migliaia di miliziani. Il Partito di Dio è attualmente impegnato in modo massiccio nella campagna del Qalmoun e nelle operazioni per il consolidamento del controllo governativo sugli strategici assi stradali Damasco-Beirut e Damasco-Homs. L’apporto di Hezbollah ha garantito maggiore inquadramento e organizzazione alle fila lealiste e nel complesso una migliore efficacia alle operazioni di controguerriglia. Il fronte ribelle è invece una galassia in perenne conflitto, estremamente composita e variegata. Sommariamente possono essere elencati tre segmenti: il Free Syrian Army (Fratellanza musulmana), il Fronte Islamico (salafiti/wahabiti) e l’area qaedista. Il Free Syrian Army è stata la prima formazione ribelle ad affermarsi sul campo raccogliendo in gran parte disertori sunniti dell’esercito regolare e stabilendo le proprie basi e i centri di comando in Turchia. Il gruppo, a partire da dicembre 2012, ha subito una ristrutturazione che l’ha di fatto portato sotto il controllo della Fratellanza Musulmana siriana. Attualmente è guidato dal Generale Salim Idris e la sua struttura si basa su brigate o battaglioni. Il numero di effettivi oscilla tra 100 e 2-3 mila unità, a seconda dell’area di operazioni e della disponibilità locale di combattenti. Negli ultimi tempi tuttavia il gruppo ha subito un forte indebolimento per le scissioni che hanno rafforzato le altre realtà dell’insurrezione e anche a causa della pressione militare a opera del Fronte Islamico e di ISIS, interessati a guadagnare maggiori spazi di azione a discapito dell’FSA. L’escalation è culminata con la perdita di Bab al Hawa, passaggio di confine con la Turchia (dove l’FSA aveva stabilito il proprio quartier generale) e con la scissione del Syrian Rebel Front (SRF, inizialmente conosciuto come Syria Revolutionaries Front), su cui sembra pesi molto l’opera dei servizi segreti sauditi. Questa situazione ha eroso molte delle capacità dell’FSA, riducendola a una realtà minore del fronte di opposizione ad Assad. Sul fronte ribelle negli ultimi mesi ha invece acquisito forza l’area salafita/wahabita, radunata attorno al Fronte Islamico (FI). Quest’ultimo è un’organizzazione ombrello, formata il 22 novembre 2013, che raccoglie gruppi radicali di matrice salafita e wahabita: Ahrar al Sham, Liwa Al Islam/Jais Al Islam e via dicendo. Dietro al Fronte Islamico (il cui successo ha portato a sopravanzare nettamente le forze qaediste) ci sono gli apparati d’intelligence di alcuni Stati del Golfo (a cominciare dall’Arabia Saudita) e donatori privati dal Qatar al Kuwait, agli Emirati Arabi Uniti. Nel suo complesso la galassia salafita ribelle potrebbe oggi arrivare a contare fino a 70 mila uomini. Il terzo segmento del fronte ribelle è rappresentato dalla componente qaedista raccolta attorno ad Al Nusra e allo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. In origine Al Nusra, gruppo formato nel gennaio 2012 e comandato da Abu Mohammad al-Jawlani, era l’unica realtà qaedista ufficialmente affiliata alla rete guidata da Ayman Al Zawahiri. In pochi mesi Al Nusra si è affermata come la più forte realtà dell’insurrezione in lotta contro il regime di Assad, raccogliendo combattenti siriani e, soprattutto, stranieri. Nel 2013, tuttavia, il gruppo ha dovuto fronteggiare una scissione da parte di quei militanti, soprattutto ceceni, confluiti sotto la nuova bandiera dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, accettando la leadership di Abu Bakr al-Baghdadi, capo di Al Qaeda in Iraq. Dal 2013 ha iniziato a infiltrare propri elementi in territorio

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siriano chiedendo ad Al Nusra di fondersi con Al Qaeda in Iraq (Stato islamico dell’Iraq) per formare un’unica realtà, con la quale stabilire un califfato esteso ai due Paesi. Di fatto, al-Baghdadi ha chiesto ad Al Nusra di accettare la propria leadership e di subordinare la lotta al regime alla costituzione di un califfato esteso da Bassora a Latakia. Un obbiettivo inaccettabile soprattutto per la componente siriana di Al Nusra. Questa diversità di obbiettivi ha pesato sulla tenuta della componente qaedista, innescando quella guerra civile nella guerra civile di cui abbiamo già parlato.


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IL RUOLO DI IRAN E ARABIA SAUDITA Dopo i primi mesi di “genuina” rivolta contro il regime di Assad, la situazione in Siria è presto degenerata, trasformandosi più che altro in uno scontro per procura tra due soggetti esterni, Iran e Arabia Saudita. Due Stati che dai tempi della rivoluzione khomeinista si contendono la supremazia nel mondo arabico-islamico e in tutta la regione: l’Arabia Saudita come capofila dei sunniti e l’Iran degli sciiti. La questione non è mai stata puramente ideologica e religiosa, ma soprattutto strategica. L’Arabia Saudita storicamente percepisce infatti la propria minoranza sciita (localizzata in gran parte nell’area orientale del Paese, dove sono concentrate anche le risorse energetiche del Regno) come una perenne fonte di insicurezza e una quinta colonna dell’Iran. Paese, quest’ultimo, che ha sempre sfruttato le minoranze, compresa quella houthi nello Yemen, dove negli ultimi anni non a caso l’Arabia Saudita è intervenuta militarmente per stroncarne la rivolta contro il governo di Sana’a. I due Paesi si fronteggiano in Libano: l’Iran è il padrino di Hezbollah, mentre l’Arabia Saudita sostiene la famiglia Hariri. Gli effetti della

guerra civile nella vicina Siria si fanno ampiamente sentire a colpi di autobombe e kamikaze, per non parlare dei profughi. Su tutto aleggia lo spettro del nucleare iraniano, considerato da Riyad una minaccia esistenziale alla propria sicurezza. Con questi ingredienti la Siria non poteva che diventare l’ennesimo fronte di scontro tra Teheran e Riyad. Inizialmente sia l’Iran che l’Arabia Saudita avevano mantenuto nella crisi un profilo pittosto basso. Quando però nel corso del 2012 sembrava che il regime stesse per cadere, Teheran ha rotto gli indugi e ha gettato il suo peso dalla parte di Assad non potendosi permettere di perdere la continuità strategica con Hezbollah. Così l’Iran ha messo in piedi una missione militare in Siria guidata dal generale Ibrahim Hamadani, uno dei principali collaboratori del capo della Forza Qods (l'unità speciale dei Pasdaran per le operazioni all'estero), generale Qassem Soleimani. Scopo di questa missione, forte di 2-3 mila consiglieri militari, è garantire assistenza e collegamento alle forze regolari di Assad riorganizzandone gli apparati e inquadrandone e addestrandone le milizie, sia in Siria che direttamente in Iran. Hezbollah, vedendo minacciata la tenuta di Assad, non poteva permettersi di vederlo crollare con il rischio di perdere il suo fondamentale retroterra strategico e logistico e, in ultima analisi, le sue capacità operative. Di fronte a questa situazione, l’Arabia Saudita ha aumentato la propria pressione su Assad in tutte le sedi possibili e soprattutto ha intensificato il proprio supporto finanziario alle realtà radicali e salafite ribelli, che infatti in pochi mesi sono riuscite ad affermarsi sul fronte insurrezionale.

Nella crisi siriana è la popolazione a pagare il prezzo più alto

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Geopolitica

Uno schema che in parte ricorda l’Operazione Ciclone, condotta in cooperazione tra CIA, servizi sauditi e pachistani per supportare la guerriglia mujaheddin contro l’occupazione sovietica dell’Afghanistan negli anni Ottanta. Dietro questa operazione si cela il principe Bandar Bin Sultan, storico ambasciatore saudita a Washington e dal 2012 capo dell’intelligence saudita, che nell’ultimo anno e mezzo ha passato più tempo ad Amman e in Turchia che a Riyad. L’obbiettivo del regno è limitare l’influenza iraniana in Siria e creare le condizioni per rompere l’asse Teheran-Assad-Hezbollah. Non è chiaro quali siano le opzioni in mano a Riyad per un’eventuale successione ad Assad. Mentre sono fin troppo evidenti le mire iraniane: far rimanere in sella Assad e l’effettivo livello di controllo che gli apparati di sicurezza del regno riescono a esercitare sui gruppi fondamentalisti salafiti siriani. L’azione saudita è ostacolata però dalla concorrenza del Qatar che, come accaduto in Libia, punta a far leva proprio sul fondamentalismo siriano (e sugli stessi settori della Fratellanza Musulmana che stanno dietro al Free Syrian Army), secondo un’agenda di politica estera ampiamente consolidata negli ultimi anni. Se quella tra Iran e Arabia Saudita è una vera e propria guerra per procura, in Siria si ritrovano anche altri interessi, a cominciare da quelli turchi. Ankara ha da subito reagito agli eventi siriani con durezza sia per il rischio di vedere esplodere al proprio confine una bomba umanitaria senza precedenti sia perché la destabilizzazione in Siria avrebbe potuto ridare fiato alle attività del PKK. La Turchia ha immediatamente allacciato i contatti con l’opposizione politica ad Assad (raggruppata attorno alla Coalizione Nazionale Siriana) garantendo libertà di azione al Free Syrian Army e non ostacolando l’afflusso di combattenti. Tuttavia questa politica si è rivelata abba-

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stanza inconcludente e priva di un disegno di fondo tanto è vero che negli ultimi mesi Ankara si è vista costretta a rafforzare la presenza militare lungo i confini per arginare una penetrazione qaedista sempre più pericolosa sul proprio territorio. Un discorso a parte meritano Russia e Stati Uniti. La Russia fin dall’inizio della crisi ha garantito supporto politico ad Assad bloccando ogni iniziativa ostile al regime in seno al Consiglio di sicurezza dell’ONU. Nei giorni a cavallo dell’attacco chimico di Ghouta nell’agosto 2013, la Russia ha incrementato se possibile il proprio supporto al regime opponendosi a qualunque ipotesi di intervento militare internazionale e, successivamente, promuovendo l’accordo con gli Stati Uniti sulla distruzione dell’arsenale chimico siriano. Una condotta molto accorta e rafforzata dal dispiegamento senza precedenti di un dispositivo navale nel Mediterraneo Orientale che mirava a salvare Assad, garantendo la continuità del suo potere.

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(immediatamente attribuito ad Assad dalla gran parte della comunità internazionale), sembravano orientati a intervenire militarmente. Il modo in cui la Casa Bianca ha affrontato quella fase ha dimostrato ancora una volta il limite dell’approccio statunitense alla crisi siriana. Con lo spostamento del proprio baricentro strategico verso l’Asia-Pacifico infatti gli Stati Uniti hanno diminuito l’attenzione verso il Mediterraneo Orientale e il Medio Oriente. Per questo Washington ha tenuto per lungo tempo un profilo basso verso la guerra civile in Siria. Un atteggiamento che rifletteva anche i dubbi sulla reale affidabilità dell’opposizione al regime, rissosa, divisa al suo interno ed egemonizzata dai gruppi fondamentalisti e qaedisti, gli stessi che Washington considera terroristi e che combatte in altre parti del mondo. Per tutte queste ragioni la voglia dell’amministrazione Obama di intervenire in Siria è sempre stata minima. L’uso di armi chimiche poteva costituire un pretesto (la famosa “linea rossa” di Obama), ma la sponda offerta da Mosca alla fine ha fatto un favore agli USA togliendoli da un sicuro impaccio. L’EVOLUZIONE DEL CONFLITTO

Bombardamenti ad Aleppo

La Siria è tradizionalmente un cliente di Mosca e un prezioso punto di appoggio nel Mediterraneo Orientale. Questo rapporto di natura clientelare, interrottosi con il crollo dell’URSS, era stato rivitalizzato negli ultimi anni con il ritorno in grande stile di Mosca sulla scena internazionale. A partire dal 2006 la Siria è tornata a essere un sicuro partner commerciale della Russia e a offrire la base navale di Tartus alla marina militare russa. In mancanza di certezze sul dopo Assad, la Russia ha mantenuto costante il suo sostegno al regime, ritenendolo comunque garanzia della propria influenza strategica nel Paese. Il ruolo russo è stato decisivo quando gli Stati Uniti, sulla spinta dell’emozione suscitata dall’attacco chimico di Ghouta

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La guerra siriana è diventata un tutti contro tutti in cui si affrontano interessi di varia natura, interni ed esterni al Paese dove i caratteri di tipo settario sono sempre più evidenti. Le divisioni del fronte ribelle potrebbero favorire il regime nei prossimi mesi, ma difficilmente la guerriglia potrà essere espulsa da alcune roccaforti sunnite. Lo scenario di una partizione più o meno formale del Paese lungo direttrici settarie appare ancora l’esito più probabile di un conflitto che ha tutta l’aria di dover durare molto a lungo. *Direttore di Rivista Italiana Difesa

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LA MICCIA DEGLI UIGURI TRA REPRESSIONE CINESE E VOGLIA DI INDIPENDENZA di Daniele Cellamare*

Lo Xinjiang è una regione autonoma della Repubblica Popolare Cinese che ha assunto nel corso degli ultimi vent’anni una crescente importanza in termini economici e politici. Sullo sfondo di questa complessa evoluzione socio-politica vi è la repressione che Pechino attua ormai da decenni nei confronti degli uiguri. Un popolo originario dello Xinjiang che rappresenta la minoranza etnica turcofona e di religione islamica, che punta al raggiungimento di una maggiore autonomia dal governo centrale, se non addirittura all’indipendenza dalla Cina. Gli uiguiri soffrono per le politiche discriminatorie e l’alto livello di disoccupazione, che hanno portato a sanguinose rivolte popolari.

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opo la crisi afgana e l’avvio della lotta al terrorismo, la Cina ha cercato un nuovo posizionamento nei confronti dei suoi vicini continentali. L’operazione è resa indispensabile anche dalla necessità di organizzare una nuova ripartizione regionale, diventata urgente per colmare il vuoto strategico creatosi dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica. Nell’ambito di una politica estera complessa, Pechino ha dovuto conciliare le sue maggiori preoccupazioni sulla fascia marittima (Taiwan, Giappone e Mar della Cina) con quelle generate dal complesso di accerchiamento, dovuto all’avanzata di Washington nella regione (Asia centrale, Mongolia e India). Oltre a garantire la sicurezza delle sue frontiere (in particolare con la stabilizzazione delle regioni dello Xinjiang e del Tibet), la Cina ha dovuto creare una sorta di obbligata cooperazione con i vicini centroasiatici per la formazione di un diffuso consenso, da utilizzare nel caso di aperto contrasto con gli Stati Uniti. Il primo strumento utilizzato per il raggiungimento dell’obiettivo è stato la creazione della Shanghai Cooperation Organization (SCO), fondata il 4 giugno 2001 dai capi di Stato di Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan, Russia e Cina. Questi Paesi, con l’eccezione dell’Uzbekistan, avevano fatto parte originariamente del cosiddetto Shanghai Five. Dopo l’adesione dell’Uzbekistan i membri dell’organizzazione avevano deciso di trasformarne il nome in quello attuale. La linea d’azione della SCO è fortemente influenzata dalle preoccupazioni dei membri sulla sicurezza, identificando nel terrorismo, nel separatismo e nel fondamentalismo islamico le principali minacce alla loro esistenza. L’organizzazione mira invece a intensificare la cooperazione economica per costituire nel lungo periodo un’area per il libero commercio tra i Paesi aderenti. Sul piano della politica interna sono stati tre gli obiettivi che hanno guidato la nuova diplomazia frontaliera cinese: le garanzie sugli approvvigionamenti di energia e di materie prime, la conquista di nuovi mercati e lo sviluppo economico delle sue

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regioni periferiche. Il bisogno di energia l’ha spinta a moltiplicare gli accordi di approvvigionamento con i suoi vicini. In effetti la Cina, divenuta in pochi anni il secondo consumatore mondiale di idrocarburi, ha notevole interesse a sviluppare partenariati energetici nella regione, essendo dipendente per oltre il 50% dal Medio Oriente per le importazioni di petrolio. Gli interessi di Pechino in Asia centrale sono dunque molteplici: lotta al terrorismo e al separatismo, mantenimento della stabilità politica, sviluppo economico nella regione, contenimento di una eventuale supremazia di attori esterni, conservazione delle vie di accesso alle risorse energetiche e prevenzione di alleanze militari regionali che potrebbero minarne la leadership. Dopo oltre 65 anni dalla nascita della Repubblica Popolare, 50 dalla repressione del Tibet e 25 dal massacro di Tienanmen, la Cina deve oggi fare i conti con il 18° congresso del Partito comunista cinese. Il nuovo decalogo politico, raccogliendo l’eredità delle «tre discipline e le otto attenzioni» di Mao Zedong, delle «quattro modernizzazioni» di Deng Xiaoping e degli «otto onori e otto disonori del cittadino cinese» di Hu Jintao, stabilisce che per il Paese è necessario: • integrare i principi del marxismo con le caratteristiche della Cina attuale; • rafforzare il partito perché sia al servizio dello sviluppo economico e sociale; • governare per il popolo mantenendo il legame di «carne e sangue» con il partito; • perfezionare il meccanismo di democrazia e concentrazione; • promuovere lo sviluppo di pensiero, organizzazione e morale. Anche se nei contenuti non si riscontrano particolari innovazioni, il Quotidiano del Popolo lo pubblica con grande enfasi. Per la dirigenza politica però si stanno profilando altri problemi interni, primo tra tutti quello dello Xinjiang. Verso la fine del 2011, nella capitale della regione, Urumqi, al confine con le Repubbliche islamiche dell’ex Unione Sovietica, gli scontri inter-etnici tra gli uiguri e gli han sono stati violentissimi.

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I cinesi han e gli uiguri musulmani hanno dato vita ad una rivolta sanguinosa e si sono affrontati nelle strade. In questa regione i contrasti si trascinano oramai da decenni, da quando negli anni Quaranta la Repubblica autonoma del Turkestan venne inglobata da Pechino. La città di Urumqi viene militarizzata ed esercito e polizia impongono oltre al coprifuoco la chiusura degli uffici pubblici per tre giorni, bloccano internet, vietano le telefonate all’estero e concentrano tutti i giornalisti stranieri in un unico albergo sorvegliato a vista. Secondo le autorità cinesi, la violenza è stata provocata dalla mobilitazione on line ordinata da Rabiya Kadeer, la leader dei nazionalisti uiguri riparata negli Stati Uniti. Questa donna di oltre sessant’anni e madre di undici figli è diventata il simbolo della minoranza musulmana. Dopo un passato alla testa del suo impero economico (negozi e affari dalla Cina al Kazakistan) ha trascorso sei anni in prigione e si è rifugiata negli Stati Uniti, dove presiede il Congresso mondiale degli uiguri. La ragione dello scontro ha origini lontane. I complessi rapporti tra Pechino e le popolazioni musulmane dello Xinjiang hanno origini prima culturali e poi politiche. La quasi totalità dei cinesi è di etnia han e ha il proprio fondamento nel confucianesimo, se non anche nel buddismo, entrambe non considerate come religione, ma come disciplina nei rapporti relazionali. La catena sociale (che non prevede l’esistenza di un Dio superiore) si esprime nel rapporto tra padre e figlio, così come tra moglie e marito, per sublimarsi in quello tra suddito e imperatore (diventato nella realtà odierna, tra cittadino e partito comunista). La Cina quindi non può tollerare la presenza di altre autorità, fosse pure una divinità, di un referente esterno allo Stato in grado di influenzare la condotta dei cittadini. Questi violenti conflitti interetnici hanno sorprendentemente favorito un successo del Partito comunista cinese: le dure misure repressive hanno fatto registrare un’approvazione popolare quasi mai raggiunta in altre circostanze. Come nel caso del Tibet nel 2008, la ribellione degli uiguri ha rappresentato un pericolo per la stabilità e l’unità del Paese, ma si trattatava pur sempre di una protesta fomentata da gruppi sovversivi residenti all’estero. Lo Xinjiang e il Tibet, anche se si tratta di regioni di grande importanza strategica, sono in realtà considerati dalla cittadinanza come delle colonie (si tratta di regioni arretrate e abitate da popolazioni che, agli occhi dei cinesi, dovrebbero essere grate per la stabilità, la prosperità e le opportunità elargite dal governo centrale). La Regione Autonoma dello Xinjiang (conosciuta anche come Sinkiang) ha raggiunto la sua autonomia dalla Repubblica Popolare

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Cinese nel 1955. Oltre a comprendere buona parte dell’area dell’Aksai Chin (reclamata dall’India come parte integrante dello Stato di Jammu e Kashmir), lo Xinjiang confina con la Regione autonoma del Tibet a Sud e con le province di Qinghai e di Gansu a Sud-Est. Confina inoltre con la Mongolia ad Est, con la Russia a Nord, con il Kazakistan, il Kirghizistan, il Tagikistan, l’Afghanistan, il Pakistan e la parte del Kashmir controllata dall’India a Ovest. Urumqi è la capitale, ma anche la città più popolata di una regione che occupa una superficie di 1,6 milioni di chilometri quadrati e dove vive una popolazione di circa 20 milioni di abitanti. Xinjiang letteralmente significa “nuova frontiera”, secondo un appellativo risalente al periodo della dinastia Qing. Questo nome è però considerato offensivo da molti sostenitori dell’indipendenza, che preferiscono usare toponimi storici o etnici, come Uiguristan e Turkestan Orientale. A loro volta, queste denominazioni vengono associate al movimento di indipendenza e sono quindi considerate offensive dal governo della Repubblica Popolare di Cina e dai molti residenti cinesi locali di etnia han. Quella degli uiguri (“alleati, uniti”) è una popolazione di lingua turca che, pur con delle differenze rispetto al ceppo originario, costituisce uno dei più importanti gruppi turcofoni che hanno abitato l’Asia centrale. Dal secolo XIV, l’affermazione dell’Islam ha radicato nella popolazione la religione musulmana di tipo sunnita. Anche se il culto praticato è stato storicamente attenuato dalla consistente influenza della corrente sufi. La definitiva occupazione cinese (Sinkiang in mandarino vuol dire “nuova provincia”) della regione risale al 1759. Nonostante alcuni pesanti tentativi di assimilazione, la prima effettiva rivendicazione di indipendenza messa in atto dalla popolazione uigura risale al 1830, quando si tentò di ricostituire un sorta di unità spirituale tra i turkestani che abitavano la regione. Intorno al 1930 una ribellione contro il governatore Yang Zengxin portò alla fondazione della prima Repubblica del Turkestan Orientale. Ma le richieste indipendentistiche trovarono maggiore consistenza tra il 1944 e il 1949, con la costituzione della seconda Repubblica del Turkestan Orientale, creata con l’appoggio dell’Unione Sovietica. Il tentativo venne però bloccato dall’armata popolare cinese inviata da Mao Zedong. La breve vita della seconda Repubblica (fondata nel 1944 e conosciuta anche con il nome di “ribellione dei tre distretti”) si concluse nel 1949 quando l’Esercito di Liberazione Popolare prese il controllo della regione. Secondo la versione ufficiale della Cina, l’esercito venne accolto con generosa ospitalità e ricevette la piena cooperazione delle autorità politiche e religiose della Repubblica del Turkestan Orientale, tanto da far ricordare questo processo storico come “la pacifica liberazione dello Xinjiang” (la Repubblica Popolare Cinese considera l’esperienza della seconda Repubblica del Turkestan Orientale parte integrante della Rivoluzione comunista). Al contrario, i sostenitori dell’indipendenza dello Xinjiang ritengono che la seconda Repubblica del Turkestan Orientale sia stata un serio tentativo per ottenere la piena indipendenza. Di conseguenza considerano na vera e propria invasione l’entrata dell’Esercito di Libera-

Rabiya Kadeer, leader dei nazionalisti uiguri

In basso Urumqi, capitale della regione autonoma dello Xinjiang

zione Popolare sul territorio. La regione ottiene formalmente la sua autonomia il primo ottobre del 1955. Oltre a diverse minoranze etniche della Repubblica Popolare Cinese (i cinesi hui e han, i kirghizi, i mongoli, i russi, gli xibe, i tagichi, gli uzbechi, i tartari e i manchu), nella regione vivono attualmente diversi gruppi di turcomanni musulmani, in particolare gli uiguri e i kazachi. Secondo l’ultimo censimento del Duemila, gli uiguri costituiscono la maggioranza relativa della popolazione della regione, anche se un altro consistente gruppo vive nella contea di Taoyuan della provincia di Hunan, nella Cina centro-meridionale. Gli uiguri formano uno dei 56 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti in Cina. Da questo antico popolo discende anche un’altra minoranza etnica cinese, gli iuguri. A causa della forte sinizzazione della regione, gli uiguri temono di diventare una minoranza nella propria terra: tra il 1949 ed il 1973 la quota dei cinesi han è salita dal 3,7% al 38%, fino a superare il 40% nell’ultimo censimento, che non tiene conto del personale militare, dei loro familiari e dei molti lavoratori immigrati non registrati.

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Gli uiguri oggi rappresentano ufficialmente il 46% della popolazione, mentre i cinesi han costituiscono il 41%, cioè il secondo gruppo etnico della regione. La popolazione complessiva ammonta a 7,2 milioni. Sempre secondo il censimento, nello Xinjiang vivono circa una decina di etnie diverse: uiguri (45,21%), han (40,58%), kazaki (6,74%), hui (4,55%), kirghisi (0,86%), mongoli (0,81%), dongxiang (0,30%), tagiki (0,21%) e xibe (0,19%). Le popolazioni uigure, kazake, hui, kirghise, tagike e uzbeke sono sunnite. La consistente minoranza kazaka, che vive nel Nord della regione, sembra anch’essa orientata a rivendicare un ruolo indipendentista dopo la fondazione della Repubblica del Kazakistan. Gli uiguri, i kazaki, i kirghisi, gli uzbechi e i tartari appartengono a etnie centro-asiatiche e turcofone, quindi più soggette all’ideale panturco, che contempla un’unica nazione turca estesa dall’Europa balcanica sino allo Xinjiang. In realtà, soltanto gli uiguri (gli antichi abitanti delle oasi orientali della via della seta, tra il bacino del Tarim e la depressione di Turfan) rimangono i più accesi contestatori del dominio cinese nella regione, percepita come un’area culturalmente e storicamente parte integrante dell’Asia centrale. Sino agli anni Quaranta, l’etnonimo uiguro non veniva ancora usato tra la popolazione locale, che preferiva riconoscere la propria identità con l’oasi di provenienza e con l’appartenenza alla comunità islamica. Solo con la fondazione della Repubblica Popolare Cinese si costituì una più definita identità uigura, anche per marcare una risoluta distinzione dal resto delle popolazioni turcofone dell’Asia centrale sovietica. Nella ricerca di questa nuova identità si riscoprirono i legami culturali e linguistici con la comunità dell’Uzbekistan, ma anche con i gruppi che risiedono nelle altre Repubbliche centro-asiatiche e con la minoranza che popola il Nord dell’Afghanistan. Secondo alcuni analisti, proprio questi legami sono all’origine della militanza di elementi uiguri nelle fila del Movimento Islamico dell’Uzbekistan (dal 2001 ristrutturatosi nel Partito Islamico del Turkestan), la formazione estremista accusata di ricevere finanziamenti da al Qaeda, dalla comunità uzbeka residente in Arabia Saudita e dal traffico di oppio. Tutti accomunati nell’obiettivo di instaurare un califfato islamico nella regione centrale dell’Asia, dal Caspio sino allo Xinjiang. Per la maggior parte degli studiosi, la consistente crescita della percentuale dei cinesi han nella regione è da ricondursi all’attività socio-politica della Xinjiang Production and Construction Corp (XPCC). Questa organizzazione, al contempo di natura militare e amministrativa, è ritenuta responsabile di una massiccia infiltrazione di coloni attraverso la costruzione di fattorie e villaggi disseminati lungo tutto il territorio. La pressante opera di colonizzazione forzata troverebbe anche le sue ragioni nella ricchezza delle risorse minerarie presenti nella regione. La trasformazione demografica è stata comunemente percepita come una seria minaccia, non solo per la conservazione della cultura uigura, ma anche per quella degli altri gruppi di etnia diversa da quella han. I cittadini uiguri lamentano anche la responsabilità delle autorità locali nel provocare e istigare le tensioni tra la popolazione originaria e gli immigrati cinesi, favorendo l’etnia han in tutti i settori sociali, in particolare presso le imprese produttive e nell’amministrazione pubblica. Gli uiguri lamentano infatti la forte discriminazione che li costringe alle sole attività marginali. L’agenzia di stampa ufficiale Xinua ha ammesso in effetti che per la stagione delle raccolte agricole arrivano nello Xinjiang centinaia di migliaia di lavoratori e l’intensa politica di incentivazione delle autorità centrali favorisce ogni anno l’insediamento di oltre 300 mila nuovi coloni. Secondo gli uiguri si tratta di una lenta e inesorabile contaminazione della loro cultura, dato che le uniche specificità culturali che vengono promosse sembrano essere i balli folcloristici, in grado di apportare con la loro commercializzazione valuta estera per le autorità locali. La regione dello Xinjiang è caratterizzata infatti da una tradizione musicale molto variegata, a causa dei numerosi gruppi etnici pre-

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senti. Quella degli uiguri di origine turcomanna è considerata di maggiore rilevanza. Tra tutte le pubblicazioni edite nel Turkestan Orientale, sembra che solo il 16% sia in lingua turca. Gli autori di storia e cultura uigura che trascurino la posizione ufficiale cinese sulla regione vengono citati in giudizio con

Soldati cinesi presidiano la capitale dello Xinjiang

l’accusa di propaganda nazionalista e quindi di separatismo. La conseguenza è che i libri vengono vietati e la casa editrice chiusa. Nelle scuole viene inoltre fortemente ostacolato l’apprendimento della lingua uigura. In una risoluzione del 10 aprile 1997, il parlamento europeo ha condannato la violazione del diritto della libertà di religione, gli arresti e le esecuzioni capitali arbitrarie, così come il più generale annullamento della cultura degli uiguri. Anche Amnesty International e Human Rights Watch hanno più volte segnalato il forte disagio provocato dalla repressione culturale cinese nei confronti

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della cultura uigura. Secondo la storiografia cinese contemporanea, lo Xinjiang rappresenta invece una parte inalienabile della Cina da oltre un millennio e le fonti cinesi evidenziano in qualsivoglia occasione i forti legami storici tra la Cina e la provincia. L’intento è di delegittimare e quindi contenere le pressanti rivendicazioni autonomiste e indipendentiste delle popolazioni di ceppo turco presenti nella regione. Con l’avvento della Repubblica Popolare, lo Xinjiang venne definitivamente incorporato nel territorio cinese e divenne terra di massiccia immigrazione (anche se quasi mai spontanea), creando le premesse storiche e sociali delle attuali frizioni tra gli uiguri e la popolazione cinese. Nel corso del secolo XIX lo Xinjiang era considerato una terra inospitale, buona per burocrati caduti in disgrazia o per avventurieri privi di scrupoli, se non addirittura per criminali. I sostenitori dell’indipendenza dello Xinjiang ritengono che il controllo (in particolare la politica attuata dalla Xinjiang Production and Construction Corps) sia invece un segno tangibile dell’imperialismo cinese. Queste tensioni sarebbero state la causa di incidenti e violenti scontri: la rivolta di Baren del 1990 (che fece registrare cinquanta morti), la rivolta di Ghulja del 1997 (una folla di oltre mille persone

si scontrò duramente con la polizia locale) e le bombe sui mezzi pubblici di Urumqi del 1997 (che provocarono la morte di nove persone e il ferimento di altre 68). Prima del conflitto afgano e della fondazione delle Repubbliche indipendenti ex sovietiche dell’Asia centrale, pochi decenni di relativa calma hanno caratterizzato la vita politica della regione. Nel nuovo contesto geopolitico lo sviluppo dei movimenti indipendentistici dello Xinjiang ha ripreso vigore. La recente storiografia ha evidenziato che negli anni Ottanta Pechino ha offerto campi di addestramento, sia in Pakistan che nello Xinjiang, ai mujaheddin afgani, impegnati nella resistenza anti-sovietica. Non è da escludere che gli stessi cinesi abbiano offerto anche combattenti islamici appartenenti alle popolazioni turcofone della regione. Una volta rientrati dall’Afghanistan, i militanti avrebbero organizzato e sviluppato i movimenti indipendentisti nello Xinjiang. Il 5 aprile 1990 è scoppiata una rivolta nel distretto di Baren guidata dallo studente religioso Zahideen Yusuf, fortemente influenzato proprio dagli ideali della jihad afgana. La rivolta di Baren ha sicuramente segnato l’inizio di una nuova fase della lotta per uno Stato indipendente da parte delle frange più

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estremistiche della minoranza musulmana e turcofona. Le continue agitazioni, azioni di sabotaggio e attività terroristiche hanno causato, oltre a innumerevoli vittime, anche l’inasprirsi delle relazioni interetniche nella regione. Nel 1997 una dimostrazione di studenti uiguri fece registrare la morte di trenta cittadini nella zona di Ili e nello stesso anno due organizzazioni indipendentiste (il Fronte Unito Rivoluzionario e l’Organizzazione per la Libertà del Turkestan Orientale) eseguirono alcuni atti terroristici sia nello Xinjiang che a Pechino e causarono la morte di 23 persone nella città di Urumqi. Le autorità cinesi hanno risposto con diversi arresti e un numero mai precisato di esecuzioni sommarie. La preoccupazione di Pechino è la crescente diffusione dell’islamismo radicale, inteso come ideologia politica in grado di destabilizzare non solo il governo locale, ma anche quello centrale. Le autorità religiose disseminate lungo le oasi del Tamir sostengono inoltre apertamente la guerra santa contro gli infedeli. Le zone più esposte alla violenza islamica si concentrano al momento nel Sud dello Xinjiang, dove è minore la presenza cinese. Anche l’ideologia del panturchismo è fonte di preoccupazione per Pechino, specialmente per il fascino esercitato sulla élite intellettuale uigura, esiliata in buona parte in Turchia. Anche se oggi Istanbul offre rifugio agli attivisti dello Xinjiang, non sembra che la dirigenza turca sia orientata ad appoggiare l’indipendenza della regione, alienando in questo modo sia le buone relazioni con la Cina che quelle legate all’ingresso nell’Unione europea. Già nei mesi di aprile e maggio del 1996 si erano verificate 45 insurrezioni popolari in 15 città della provincia che hanno causato la morte di quasi mille cittadini. Con l’operazione “Colpisci forte!” le autorità cinesi hanno risposto con arresti di massa e numerose esecuzioni capitali. Secondo l’Associazione degli uiguri all’estero (Afp) le persone arrestate furono 62 mila e 183 quelle giustiziate nei mesi di aprile e luglio.

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Geopolitica Un mercato uiguro

Nello stesso anno la direzione del partito comunista dello Xinjiang diede ordine di ostacolare la stampa e la diffusione di tutte le pubblicazioni religiose e nazionaliste. E in particolare di contenere l’influsso della cultura islamica nelle scuole di qualunque ordine e grado. Nei mesi successivi venne proibita la costruzione di nuove moschee e lungo le frontiere tutti i viaggiatori furono sottoposti a perquisizione per scoprire eventuali pubblicazioni di propaganda religiosa o provenienti dalle organizzazioni uigure in esilio. Vennero vietati inoltre i raduni degli islamici di ogni tipologia e natura, inclusi quelli nelle abitazioni private. Durante il mese del Ramadan tra il gennaio e il febbraio del 1997, nella città di Yining un gran numero di musulmani uiguri, in prevalenza donne e giovani, si riunì in alcune abitazioni per festeggiare il ventisettesimo giorno della ricorrenza religiosa. La polizia cinese fece irruzione all’interno delle case e arrestò tutti i partecipanti. Quando il giorno successivo i parenti degli arrestati si riunirono davanti agli edifici delle autorità locali, la polizia disperse la folla con gli idranti. Secondo le testimonianze degli uiguri rifugiatisi in Kazakistan, nel giorno dell’uso degli idranti (6 febbraio 1997) la temperatura oscillava tra i 20 e i 30 gradi sotto zero. Di conseguenza, 146 persone sarebbero morte sotto i potenti getti di acqua e si sarebbero salvati solo coloro che avevano fatto in tempo a togliersi i vestiti. Poiché le proteste non accennavano a diminuire (ai manifestanti si erano aggiunti migliaia di simpatizzanti), la polizia attaccò i dimostranti sparando sulla folla e uccidendo circa 200 persone. Nell’impossibilità di contenere l’impeto delle forze dell’ordine e con l’intento di vendicare i compagni caduti, i musulmani aggredirono la comunità di cinesi han immigrata pochi anni prima nella cittadina, causando la morte di un centinaio di loro. Prima ancora della fine dei disordini, 30 mila soldati cinesi provenienti dalla vicina caserma di Gansu si stabilirono a Yining e bloccarono tutte le vie di accesso alla città. Le autorità impedirono l’ingresso anche a giornalisti e rappresentanti delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani. Gli arresti furono superiori a duemila. Per dissuadere altri potenziali dimostranti, la reazione delle autorità fu particolarmente dura. Il 24 aprile del 1997 tre uiguri vennero condannati a morte e giustiziati immediatamente a causa della loro partecipazione ai disordini. La polizia rifiutò di consegnare le salme ai parenti. Altre 27 persone furono condannate a pene variabili tra i sette anni e l’ergastolo. Testimoni oculari riferirono che i condannati, incatenati e imbavagliati, furono fatti sfilare per la città a bordo di autocarri dell’esercito.

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I soldati avrebbero inoltre costretto alcuni uiguri a inginocchiarsi davanti a loro e a chinare la testa in segno di sottomissione. Un centinaio di cittadini seguì il corteo degli autocarri inneggiando al martirio dei condannati e la polizia aprì il fuoco causando la morte di tre persone e il ferimento di altre dieci. Secondo le forze di sicurezza, i soldati e la polizia avrebbero fatto solo il loro dovere, evitando che la popolazione liberasse i prigionieri con l’uso della forza. Dopo tre attentati dinamitardi compiuti nella città di Urumtschi nel 1997 (che causarono la morte di nove persone e il ferimento di altre 74), otto uiguri furono condannati a morte. Sempre con la stessa accusa, a distanza di pochi mesi, ne furono giustiziati altri nove. A causa dei disordini di Yining, 23 uiguri (venti dei quali giustiziati immediatamente) furono condannati a morte e 44 persone subirono lunghi periodi detentivi. Anche se il Presidente Jiang Zemin ha dichiarato che la provincia dello Xinjiang rappresenta «la più grande minaccia per il suo governo e per l’unità nazionale», per altri funzionari del ministero della Pubblica sicurezza i responsabili vanno ricercati altrove. Nei giorni immediatamente successivi, il ministro della Pubblica sicurezza, Tao Siju e il suo vice vengono comandati nello Xinjiang per coordinare la repressione. Cinque divisioni dell’esercito cinese (indicativamente 60 mila soldati) e altre unità delle forze di sicurezza prendono quartiere nella regione, affiancate da circa 100 mila miliziani dislocati su 58 fattorie statali della Xinjiang Production and Construction Corps per la protezione militare lungo tutto il confine. Secondo fonti ufficiali, nella regione sono stati trasferiti anche 17 mila rappresentanti del governo centrale per una gigantesca campagna di rieducazione per ristabilire la “pace sociale”. Nei comuni particolarmente

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predisposti alla ribellione sono stati licenziati 260 pubblici ufficiali, accusati di aver simpatizzato con i protestanti. La strategia militare cinese punta anche a rafforzare le difese della sede del Centro per la sperimentazione atomica che ha effettuato nell’impianto sperimentale di Lop Nur almeno 45 test nucleari dal 1964. Nel mese di agosto del 2008, tre diverse manifestazioni della popolazione uigura avevano causato la morte di trenta persone. Il 4 agosto (pochi giorni prima dell’apertura delle Olimpiadi di Pechino) l’attentato ai danni di un commissariato di polizia ha fatto registrare la morte di 17 agenti. Dopo alcuni anni di relativa calma, le violenze su larga scala sono scoppiate di nuovo nel mese di giugno del 2009 nella città di Urumqi, la capitale dello Xinjiang con 2,3 milioni di abitanti, che la massiccia migrazione interna ha trasformato in maggioranza cinese (72%). Almeno un migliaio di persone sono scese in piazza per protestare contro l’uccisione di due uiguri in una fabbrica di giocattoli nella provincia di Guangdong, nel Sud-Est della provincia. Poche ore prima gli operai di etnia han avevano preso di mira sei colleghi uiguri accusati di aver stuprato due lavoratrici han. Nella gigantesca rissa che ne era seguita, oltre alle due vittime erano rimaste ferite altre 118 persone. Per contenere l’afflusso enorme che andava gonfiando la manifestazione di protesta, la polizia ha cercato prima di erigere barricate, ma subito dopo ha dovuto fare ricorso ai mezzi blindati dell’esercito. Alla fine dei disordini, l’agenzia Nuova Cina ha parlato di 140 morti, 800 feriti e 300 persone arrestate. Secondo Dolkun Isa, segretario generale del World Uyghur Congress (il Congresso mondiale degli uiguri, l’organizzazione più rappresentativa della diaspora), le cifre sono ben diverse: i morti sarebbero oltre mille e gli arresti cinquemila. Oltre alle violenze delle forze di sicurezza, gli uiguri sarebbero stati oggetto di una serie di feroci attacchi da parte della comunità han e delle bande paramilitari organizzate e dirette dal partito comunista locale.

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Sempre secondo Isa, 150 operai uiguri sarebbero stati uccisi in una fabbrica di trattori vicino al capoluogo e quattro studenti della facoltà di Medicina sono stati torturati e decapitati. Altri sarebbero stati gettati dai ponti o barbaramente trucidati nelle loro abitazioni. Decine di corpi sarebbero stati ammassati alla periferia di Urumqi e successivamente dati alle fiamme. Altri ancora sarebbero stati arrestati nella notte all’interno delle case, denudati, caricati su automezzi dell’esercito e trasferiti in località sconosciute (degli uiguri arrestati a Urumqi, sei sono stati condannati a morte e subito giustiziati). Nella città di Kashgar, l’altra principale città dello Xinjiang (ma al contrario di Urumqi ancora a maggioranza uigura) le forze dell’ordine hanno fatto affluire numerose unità dell’esercito e le autorità hanno deciso di demolire il caratteristico quartiere del vecchio bazar, trasferendo forzatamente le famiglie uigure in nuove costruzioni alla periferia della città. Tra luglio e agosto del 2011 si sono registrati altri sanguinosi incidenti. Una stazione di polizia nella città di Hotan è stata attaccata da un gruppo di uiguri che ha preso in ostaggio diverse persone e dato fuoco all’edificio. Durante l’assalto hanno perso la vita due agenti e la polizia avrebbe risposto al fuoco uccidendo un numero imprecisato di assaltatori e liberando sei ostaggi. Il mese di agosto dell’anno prima, un’automobile carica di esplosivo aveva causato la morte di sette poliziotti cinesi. Alla fine di luglio del 2011 un gruppo di militanti uiguri ha assaltato un ristorante frequentato da cinesi han, causando la morte di sei civili e il ferimento di altri quindici. La polizia ha ucciso a sua volta cinque persone riconducibili all’episodio. Pochi giorni prima aveva ucciso un camionista alla guida di un tir nella città di Kashgar. Il veicolo è finito sulla folla del mercato ammazzando otto civili e ferendone 27. In una nota ufficiale delle autorità di Kashgar si legge che «dietro agli attacchi c’è un gruppo di estremisti religiosi, guidato da criminali addestrati in campi terroristici all’estero». Forse si tratta di un messaggio indi-

Una donna uigura protesta durante una manifestazione

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Geopolitica

retto e nel mese di novembre del 2011 il Pakistan utilizza la comunità uigura per consolidare i buoni rapporti con la Cina. In occasione della visita di una delegazione ufficiale di Pechino nella città di Islamabad, le autorità pachistane hanno inserito nel comitato di accoglienza un gruppo di uiguri per dimostrare all’importante alleato asiatico come la comunità musulmana turcofona residente in Pakistan sostenga Pechino molto più di quanto facciano gli stessi uiguri dello Xinjiang. Islamabad ha cercato in realtà di uscire dall’imbarazzo delle accuse rivolte da Pechino sull’addestramento illegale nel suo territorio del gruppo uiguro responsabile dei sanguinosi attentati di luglio e agosto del 2011. Sembra però che gli uiguri inseriti nel comitato di accoglienza fossero i membri di una nuova associazione di business men che è riuscita a raccogliere soltanto quindici adesioni a fronte di tremila uiguri residenti in Pakistan. I pochi uiguri che fanno affari con Pechino dal Pakistan, per tutelare i loro interessi sarebbero arrivati ad ammettere che i loro fratelli nello Xinjiang non sarebbero mai stati discriminati. Nella prima notte di Ramadan ad agosto, nella periferia di Kashgar, la polizia ha ucciso due uiguri, Memtieli Tiliwaldi di 29 anni e Turson

Poliziotti cinesi nella città di Urumqi

Hasan di 34, ricercati per le violenze scoppiate a Urumqi nel 2009. All’inizio del 2012 Radio Free Asia ha denunciato altre condanne particolarmente severe: Nurahmet Kudret di 35 anni e Islam Urayim di 32, condannati all’ergastolo e Musa Mohammed di 25 anni, a 17 anni di reclusione. I tre uomini, rifugiatisi in Cambogia insieme ad altri 18 compagni, si sono visti negare la richiesta di asilo politico da parte di Phnom Penh. Sia gli Stati Uniti che Alim Seytoff dell’Associazione americana degli uiguri avevano senza successo fatto pressioni sulla Cambogia per evitare il rimpatrio. Nonostante le accuse di favoreggiamento verso il governo di Pechino, le autorità cambogiane hanno negato che la deportazione dei condannati fosse legata a un prestito di 1,2 miliardi di dollari, effettivamente concesso da Pechino poche settimane più tardi. Soltanto a partire dall’11 settembre 2001, Pechino ha iniziato a rendere noti, ponendo accenti drammatici, gli attentati e le altre violente manifestazioni di opposizione al governo centrale avvenute negli anni Novanta.

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II governo centrale ha al tempo stesso cercato di rendere labile (se non del tutto inesistente) la distinzione tra terrorismo e lotta per l’indipendenza, giustificando così la sua politica di repressione contro i temuti “tre diavoli”: terrorismo, separatismo ed estremismo religioso. La regione dello Xinjiang è talmente vasta da costituire un sesto dell’intera estensione cinese. Un territorio incastonato al centro del continente asiatico che in passato è stato il centro nevralgico delle rotte carovaniere che percorrevano la via della seta, salvo poi cadere nell’oblio e nell’isolamento dal resto del mondo quando presero il sopravvento i traffici marittimi. L’importanza dello Xinjiang nello scacchiere centroasiatico è comunque cresciuta non solo per la presenza di riserve petrolifere naturali, ma anche per via dei nuovi accordi sulla costruzione di oleodotti e gasdotti. La via della seta si è oggi guadagnato il ruolo di hub energetico nazionale: lo Xinjiang è la «più grande riserva di petrolio di Pechino» e nel 2008 è stato il secondo produttore nazionale di oro nero, per un totale di 27,4 milioni di tonnellate di greggio. Dopo le riforme dell’era di Den Xiaoping, si è avuto un percettibile miglioramento delle condizioni economiche e sociali. Ma il malumore tra la popolazione di ceppo turco dilaga, anche per l’apparente inconcludenza delle politiche economiche portate avanti da Pechino. Nel primo decennio del Duemila, i consumi di un abitante dello Xinjiang sono stati mediamente il 51% di quelli di un abitante della Cina orientale e i consumi di un abitante della Cina centrale arrivavano a circa il 60%. Questa situazione ha causato, prima nelle zone rurali e poi in quelle urbanizzate, una marcata forma di conflittualità sociale. Secondo diversi analisti, queste proteste potrebbero rallentare non solo la corsa della velocissima locomotiva cinese, ma indurre gravi scompensi nell’economia globale. *Docente presso la Sapienza di Roma

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Geopolitica

COME RISPARMIARE CON IL POOLING & SHARING di Giuseppe Amato*

L’impiego nei nuovi scenari operativi ha richiamato l’attenzione sulle dispendiose duplicazioni e sui diversi gap capacitivi delle Forze Armate delle Nazioni partecipanti. Ciò ha orientato i Paesi membri dell’Unione Europea verso il Pooling and Sharing, cioè lo sviluppo di capacità complementari, sfruttando sistemi interoperabili e standardizzati, fino ad un approccio cooperativo che esalti le sinergie tra Stati e mercati.

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ino a venti anni fa, sicurezza nazionale era sinonimo di difesa. Nel corso della Guerra Fredda, Oriente e Occidente temevano infatti una reciproca invasione. La minaccia era comune, come lo era la risposta: Eserciti basati sulla mobilitazione di massa e sulla coscrizione obbligatoria. Il deterrente era costituito dalla difesa convenzionale sostenuta dalle armi nucleari. La sicurezza si misurava con la forza militare e con la concezione di una potenziale guerra basata su sistemi d’arma. Con il crollo del Muro di Berlino si è assistito al passaggio dall’idea di “guerra basata su sistemi d’arma” (platform-centric warfare) a quella di “guerra basata su network” (network-centric warfare). Nonostante mantenga il suo significato militare, la sicurezza è diventata un problema di dimensioni più ampie e le minacce a essa, almeno per la maggior parte dei Paesi europei ed euroatlantici, sono per loro natura non militari. Esse comprendono corruzione, crimine organizzato, confini insicuri, contrabbando (armi, droga, merci, persone), emigrazione clandestina, conflitti etnici e religiosi, proliferazione delle armi di distruzione di massa, scarsezza di risorse alimentari e naturali (acqua, petrolio e gas) e naturalmente il terrorismo. Infine, non può essere ignorata la possibilità, per quanto remota, di un coinvolgimento del Paese, e del sistema di alleanze del quale siamo parte, in un confronto militare su vasta scala, di tipo tradizionale o, più verosimilmente, “ibrido”, ovvero che implichi sia operazioni militari convenzionali, sia operazioni nello spettro informativo e sia operazioni nel dominio cibernetico. L’ATTUALE SCENARIO Le Forze Armate sono ormai chiamate a giocare un ruolo che va al di là dei limes nazionali, in cui è richiesta sempre maggiore preparazione professionale e competenza. Proprio nel momento in cui sarebbe stata necessaria una maggiore disponibilità finanziaria per affrontare al meglio le nuove sfide sullo scenario mondiale, i Paesi del mondo occidentale si sono trovati a fronteggiare una congiuntura economica sfavorevole, con una profonda crisi finanziaria e una recessione che hanno provocato forti contrazioni dei bilanci della Difesa. Tutto ciò si è tradotto per le Forze Armate in un sostanziale aumento degli impegni a livello internazionale disponendo di risorse sempre inferiori. Le scelte e le strategie dei Paesi e della NATO sono quindi destinate a essere fortemente condizionate da tale ristrettezza economica e la vera sfida sarà proprio quella di "fare di più con meno". Da questa consapevolezza è emersa l’idea di sfruttare meglio

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le risorse disponibili e le capacità esistenti, ma anche di orientarsi verso un mercato della difesa unico che preveda ricerca, sviluppo e procurement comunitari. Necessità che ha orientato i Paesi membri dell’Unione Europea a sviluppare capacità complementari, sfruttando sistemi interoperabili e standardizzati, fino a giungere al consolidamento di un approccio cooperativo per lo sviluppo di capacità per la Difesa: il Pooling and Sharing (P&S).

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POOLING & SHARING (P&S) Analizzando le due parole è possibile scoprire il significato di questo strategia. Sharing: uno o più Paesi mettono a disposizione dei loro partner capacità, mezzi o si impegnano a portare a termine attività per conto di un altro Paese beneficiario. Se questo si verifica su base permanente, le parti beneficiarie possono decidere di concentrare i propri sforzi sull’implementazione di altre capacità che a loro volta potranno essere messe a disposizione degli altri partner. Questa condivisione di risorse consente di disporre di un basket capacitivo di

elevato valore con un inevitabile risparmio sui costi. Pooling: condivisione di specifiche capacità nazionali che vengono messe a disposizione di altri Paesi sulla base di specifici accordi. Il Pooling può essere messo in atto nella fase di sviluppo di una capacità, nella fase di approvvigionamento oppure nella fase di messa a disposizione. Ciò consente ai Paesi che aderiscono all’iniziativa di disporre di una capacità che una sola nazione non avrebbe potuto acquisire con le proprie forze economiche, ma anche di ricerca e sviluppo. Nel dicembre 2010 gli Stati membri dell'UE hanno dichiarato che il P&S era una soluzione che avrebbe condotto a un risparmio di denaro e intravedevano in questa iniziativa comune un aumento dell'efficienza militare dei singoli Paesi partner. Attualmente esistono circa cento progetti in ambito difesa trattati con la logica del P&S. Il 20 per cento di essi comporta una cooperazione bilaterale tra le nazioni, mentre il 60 per cento coinvolge un numero di partner che va da

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cinque a tre. Affinchè il P&S abbia successo e diventi a tutti gli effetti una realtà tangibile in ambito europeo, sono necessari altri fattori: • sim i l e v i s i o n e s t r a t e g i c a ( i Paesi aderenti all’iniziativa devono superare il semplice interesse nazionale; • vicinanza regionale (i “soci” devono disporre della capacità condivisa, senza limitazioni legate a distanze spaziali. La vicinanza geografica diventa quindi un fattore vincente); • condivisione degli obiettivi di cooperazione (i vari Paesi devono essere concordi sulle capacità/iniziative da condividere e realizzarle in modo sinergico); • fiducia e solidarietà (gli Stati partner devono sottoscrivere accordi legalmente vincolanti sulla fornitura di determinate capacità); • pari condizioni di concorrenza per l’industria nazionale della difesa (stesse ricadute in campo economico e occupazionale). Due fattori potrebbero rallentare o addirittura fare fallire un’iniziativa così importante come il P&S: il ruolo della specializzazione e l’industria delle armi. Ponendo l’attenzione sul primo fattore, uno Stato partner può specializzarsi in un determinato ruolo ed essere leader, concentrando i suoi sforzi nello sviluppo di una determinata capacità, evitando un dispendio di energie e risorse concentrandosi contemporaneamente in diversi settori. Molti Stati europei rifiutano di seguire questo approccio per scongiurare il pericolo di diventare dipendenti da altri Paesi partner, perdendo in tal modo la propria autonomia. Passando al secondo fattore, il P&S potrebbe contribuire al fallimento di strutture industriali nazionali, con gravi ripercussioni sull'occupazione e l'economia. Un timore che potrebbe rallentare il processo di standardizzazione, interoperabilità e condivisione. Bisognerebbe evitare di perdere quelle competenze industriali di nicchia che le varie nazioni hanno lentamente

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Geopolitica

Il crollo del Muro di Berlino nel 1989

acquisito. Il P&S è un’iniziativa ambiziosa che porterà gli Stati che aderiscono a beneficiare di una maggiore efficienza operativa dei propri strumenti militari, di una sempre maggiore interoperabilità e a una netta razionalizzazione della spesa militare. Nel novembre del 2011 sono state ufficialmente individuate le aree e le caratteristiche tecnico-operative interessate da un approccio cooperativo tra i Paesi. Le aree capacitive prioritarie sono le seguenti: • Helicopter Training; • Maritime Surveillance; • European Satellite Communication Procurement Cell; • Medical field hospitals; • Air-to-air refuelling; • Future military satellite communications; • Intelligence, surveillance, reconnaissance; • Pilot training; • European transport hubs; • Smart munitions; • Naval logistics and training.

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SMART DEFENCE: LA RISPOSTA NATO AL POOLING & SHARING Lo sviluppo di capacità è essenzialmente una responsabilità nazionale. La contrazione della spesa per la difesa e il costo spesso esponenziale necessari per la crescita capacitiva, impongono di ricorrere a modalità di investimento comuni. Una soluzione idonea a sfruttare le sinergie positive e le economie di scala e che ha riflessi positivi anche sulla standardizzazione. La Smart Defence è uno strumento utile per l’armonizzazione delle risorse finanziarie e materiali e per garantirsi un set di capacità indispensabili per il soddisfacimento di specifici futuri bisogni militari. Ma la Smart Defence è più di tutto questo. Come richiamato anche dalla dichiarazione finale del summit di Chicago sulle defence capabilities, “Toward NATO forces 2020”, è una rivoluzione destinata a caratterizzare il futuro dell’Alleanza. Al tempo stesso non può essere vista singolarmente, ma deve essere posta in diretta relazione con iniziative quali la Connected Forces Initiative e la sua componente sullo sviluppo tecnologico. La Smart Defence può essere una valida risposta a questo, ma anche una garanzia del mantenimento di un livello di standardizzazione procedurale e nell’ambito degli strumenti. Alla base dell’agenda della Smart Defence tre concetti fondamentali: • Priorità, allineamento delle esigenze nazionali nello sviluppo capacitivo con quelle dell’Alleanza; • Specializzazione, concentrazione degli sforzi nazionali nei settori “di forza”; • Cooperazione, elemento moltiplicatore di effetti che consente ai Paesi l’accesso a capacità altrimenti non sostenibili nell’ambito della singola nazione. La Smart Defence rappresenta così un’opportunità ma anche un rischio. Il concentrarsi in specifiche aree capacitive (trascurando eventualmente l’investimento in altre) costituisce un fattore di possibile limitazione per l’autonomia statuale nel campo della difesa. Un elemento che va di pari passo con la certezza nell’accesso a specifiche capacità (Assured Access)

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sviluppate in maniera sinergica e al dibattito sull’allargamento ai partner. Un dibattito che è destinato a rappresentare uno degli aspetti centrali dell’agenda del prossimo Summit NATO previsto in Galles nel settembre 2014. Un’iniziativa centrale che vede l’Italia impegnata in prima linea nello sviluppo di specifici progetti di cui i più significativi sono: • Remote Controlled Vehicles for Route Clearance Operations, in cui l’Italia detiene la leadership; • Pooling & Sharing Multinational Medical Treatment Facilities Role, in cui l’Italia ha assunto la co-leadership insieme alla Francia; • Computer and Information Systems e-Learning Training Centres Network e Individual Training and Education Programme; • Pooling of Deployable Air Activation Modules; • Pooling Maritime Patrol Aircraft; • Pooling CBRN capabilities; • Maritime Situational Awareness Multinational Maritime Information Services. CONCLUSIONI La sfida sarà giungere a una piena interoperabilità dei sistemi europei ed evitare situazioni come quelle verificatesi in Libia, dove alcuni sistemi d’arma prodotti dalla stessa industria non erano in grado di scambiarsi munizionamento. Anche la NATO, con il suo programma Universal Interface mira allo stesso

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Una fase dell’Helicopter Training

obiettivo. Ma anche in tale ambito gli ostacoli verso la piena interoperabilità sono numerosi e scaturiscono tanto da problemi di sovranità nazionale, quanto da impedimenti di natura giuridica derivanti dalla normativa europea che regolamenta il settore degli armamenti. A piccoli passi, condividendo sistemi e capacità già esistenti, gli Stati europei stanno ricorrendo sempre più spesso al P&S, con l’obiettivo di sviluppare e acquisire capacità a costi ridotti. L’obiettivo sarà avviare programmi di sviluppo comunitari che esaltino le sinergie tra gli Stati e i mercati. *Maggiore

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Dottrina

FORTI QUANDO SERVE Prospettive di impiego della componente pesante negli ambienti operativi moderni. Un ritorno ai fondamentali

di Roberto Forlani *

La tesi proposta con questo articolo è che le forze pesanti, nel loro ruolo tradizionale, potranno mantenere le proprie prerogative e dimostrarsi di grande utilità nell’ambito dell’intero spettro dei conflitti, soprattutto in contesti irregolari come quelli contro insurrezionali.

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sistemi d’arma che equipaggiano le forze pesanti non devono essere visti in un’ottica stand alone. Sono invece parte di un complesso di forze pluriarma, nell’ambito di operazioni a elevata intensità e a corto raggio, che in caso di attacchi di precisione e munizionamento non intelligente rendono possibile la manovra con la superiore capacità di sopravvivenza. Gli strumenti in dotazione, come i sensori, potranno essere impiegati per acquisire e mantenere una situation awareness dell’area di operazioni costantemente aggiornata, in coordinamento con tutti gli altri assetti disponibili. Per esaminare l’efficacia delle forze pesanti nei futuri conflitti, bisogna comprendere le caratteristiche dei sistemi d’arma con cui esse sono equipaggiate, in grado di offrire soluzioni di impiego poliedriche in diversi ambienti operativi. I n u n o s c e n a r i o c l a s s i c o c o m b a t (1), a s s e t t i b l i n d o - c o r a z zati permettono alle forze terrestri di condurre lo sforzo principale con azioni offensive dirette e di elevata intensità in modo da sorprendere, paralizzare e neutralizzare un avversario.In terreni pianeggianti o deserti, forze combat prevalentemente corazzate sono invece impiegate per dirigere l’avanzata di formazioni d’attacco, per tagliare le linee di comunicazione avversarie od occupare key terrain in territorio controllato dal nemico, per scardinarne il dispositivo e neutralizzarlo nel momento e nel luogo prescelti. In uno scenario di irregular warfare (ambiente operativo caratterizzato da intensità molto variabile data la capacità di adattamento dell’avversario in termini di tecniche, procedure ed equipaggiamenti) la deterrenza, la protezione delle proprie truppe, l’elevata mobilità unita alla potenza di fuoco rappresentano fattori chiave. LA TIPOLOGIA DELLE FORZE Per rendere più comprensibili le prerogative delle forze pesanti e apprezzarne le capacità che sono in grado di esprimere rispetto ad altre tipologie di forze, è necessario fornire una breve descrizione delle forze di manovra dello strumento terrestre. Le forze pesanti sono costituite prevalentemente da unità carri o meccanizzate, caratterizzate da notevole potenza di fuoco diretto, protezione e mobilità tattica. Consentono di manovrare velocemente sotto il fuoco nemico e di concentrare rapidamente la propria potenza di fuoco contro i punti deboli di uno schieramento nemico. Rappresentano l’elemento fondamentale della manovra in campo aperto e forniscono un livello di protezione balistica al personale, che permette l’azione prolungata in aree sottoposte a intenso fuoco nemico. Le forze medie sono costituite da unità dotate di veicoli ruotati da combattimento blindati. Rappresentano una soluzione intermedia (in termini di mobilità, protezione e potenza di fuoco) tra gli elementi pesanti e quelli leggeri. Caratterizzate da una spiccata versatilità di impiego, esprimono capacità di assolvimento di una vasta gamma di compiti in tutte le tipologie di operazioni. Ciò a dispetto di una serie di considerazioni condivisibili anche nei confronti delle forze pesanti: la complessità del sostegno logistico, la difficoltà di manovra in terreni particolarmente complessi e la vulnerabilità nel combattimento ravvicinato contro avversari diradati, che sfruttano terreni complessi per occultarsi. Le forze leggere sono invece particolarmente idonee al combattimento ravvicinato. Manovrano prevalentemente appiedate e sono rapidamente schierabili per via aerea. Possono

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inoltre muovere su veicoli ruotati per incrementare il proprio raggio d’azione (seppur limitate da una ridotta protezione del personale, da una bassa potenza di fuoco diretto a lunga gittata e conseguentemente da una scarsa capacità di neutralizzazione di veicoli blindati/protetti). Dunque il loro impiego risulta premiante solo se dettato dalla necessità di operare in terreni complessi (come l’ambiente urbanizzato o montano) o quando sia vantaggioso manovrare nella terza dimensione conducendo azioni aeromobili/aviotrasportate. LA NATURA DEI FUTURI CONFLITTI Un’attenta analisi degli attuali e passati conflitti, delle tecnologie militari emergenti, dell’evoluzione dello scenario geo-strategico è in grado di mostrare i trend dei conflitti futuri. Il principale è che conflitti tra Stati su larga scala rappresenteranno una rarità, rispetto a quelli caratterizzati da bassa intensità. Molti addetti ai lavori e professionisti del mondo militare ritengono quindi che l’era dell’impiego massicio di unità «pesanti» sia tramontata. Tuttavia l’analisi delle principali operazioni militari degli ultimi due decenni (incluse le operazioni contro insurrezionali) e l’opinione che i conflitti convenzionali non potranno mai essere scongiurati del tutto lasciano intendere che il ricorso alle capacità classiche fornite dalla forza blindo-corazzata sarà irrinunciabile. Ecco le principali tipologie di minaccia contro cui potrà confrontarsi lo strumento militare nazionale e alleato: avversario organizzato e operante in maniera convenzionale, tipica di una entità statuale; avversario che opera in maniera non propriamente convenzionale, espressione solo di una parte di Stato e avversario non statuale, transnazionale, operante con metodi totalmente irregolari, tipici di quei gruppi terroristici e criminali le cui ambizioni e capacità sono cresciute nel

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Dottrina

Carro armato C1 “Ariete” e VCC80 “Dardo”, Provincia di Dhi Qar, Iraq sud-orientale, estate 2006

tempo. Allo stato attuale esiste una maggiore probabilità di dover fronteggiare elementi armati appartenenti a organizzazioni non-statuali piuttosto che formazioni regolari di eserciti convenzionali. Questa tipologia di minaccia è poco prevedibile e agisce in maniera asimmetrica, evitando lo scontro aperto con forze regolari e sfruttando, a proprio vantaggio, le vulnerabilità di queste ultime: prevedibilità tecnico-tattica, complessità dell’organizzazione, questioni legali e morali e aspettativa in termini di durata dell’impegno (breve/medio termine). Esiste un’ulteriore tipologia

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che è la sintesi delle tre precedentemente esposte: la minaccia ibrida (hybrid threat), caratterizzata da un impiego combinato di diverse tecniche e metodologie di lotta (attività militari regolari, guerriglia, terrorismo, banditismo). L’attenzione e lo studio della minaccia ibrida si sono intensificati a seguito della campagna israeliana condotta nel Sud del Libano contro le milizie Hezbollah, nell’estate 2006. Non è una lotta di forze leggere condotta contro un avversario dotato di basso livello tecnologico e sofisticazione (insurrezione) poiché presenta un certo livello di forza organizzata ed equipaggiata, tipica dell’organizzazione militare convenzionale, ma sostenuta da attori non statuali o terzi Stati (proxy state) con traffici occulti e illegali. Queste caratteristiche rendono irrinunciabile il ricorso ad assetti pesanti. Le operazioni di sicurezza (condotte per rendere possibile la stabilizzazione di un’area di crisi) hanno fortemente caratterizzato gli ambienti operativi moderni. Le operazioni contro-insurrezionali (le più onerose) in Iraq e in Afghanistan sono continuo oggetto di studio e in esse si inscrive l’impiego delle forze pesanti nelle operazioni contro-insurrezionali (COIN). Per insurrezione si intende un sommovimento organizzato volto a rovesciare l’ordine costituito di un governo con l’uso della sovversione e della forza. Gli obiettivi possono essere diversi: la conquista del potere (attraverso una rivoluzione che rovesci l’ordine sociale esistente e collochi nuovi vertici alla guida di uno Stato), il tentativo di distacco dal Paese (per stabilire un’entità autonoma e separata, basata su presupposti religiosi o etnici), il conseguimento di scopi più limitati, per ottenere delle concessioni politiche non raggiungibili senza il ricorso alla violenza. L’insurrezione espleta generalmente attività offensive a livello tattico, organizzandosi a difesa in maniera strategica.

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Ciò vuol dire che non cerca lo scontro decisivo con la forza contro-insurrezionale, non potendosi mai misurare con quest’ultima in termini di capacità operative e potenza di fuoco. Per capire meglio è utile lo schema attribuito a Mao Tse Tung che afferma che l’insurrezione, per raggiungere il successo, deve a un certo punto tramutare la propria organizzazione da irregolare a convenzionale. Il suo operato è infatti diviso in tre fasi: difesa strategica, in cui gode del supporto della popolazione locale attraverso la sovversione e la coercizione; stallo strategico, dove il supporto della popolazione e le capacità operative acquisite rendono l’insurrezione paritaria in termini di forza all’insurrezione; controffensiva strategica, momento in cui l’insurrezione acquisisce capacità di combattimento superiori a quelle disponibili alla forza contro-insurrezionale e la contrasta effettuando una transizione da forme di combattimento irregolare protratte nel tempo a forme di combattimento più convenzionali marcate da tempi operativi molto più celeri. Esempi di tale condotta delle operazioni sono state le campagne in Algeria e Vietnam e, in momenti storici più recenti, le azioni di Hezbollah nel Sud del Libano e del Jaish Al Mahdi in Iraq. Per conseguire il successo in campagne COIN sono quindi di fondamentale valore forze in grado di garantire un’elevata velocità di sviluppo delle operazioni (high operational tempo) e ancorare l’insurrezione alla difesa strategica, negandole l’iniziativa. La disponibilità di forze pesanti può contribuire significativamente a rendere possibile tutto ciò. Occorre inoltre considerare che la stessa insurrezione tenterà di provocare la forza contro-insurrezionale a fare ciò che sa fare al meglio: applicare la forza letale. Ciò è possibile aumentando la difficoltà di discriminazione del partito avversario, cercando di favorire le condizioni per danni e vittime collaterali tra la popolazione, portandosi in posizione avvantaggiata in quella che è la battle for narratives, uno dei pilastri di una campagna COIN. L’impiego oculato e adattivo della forza pesante in tale ambito può contribuire a conseguire anche effetti soft o psicologici (sulla popolazione locale, sull’insurrezione e sulle nostre truppe) che spesso risultano ancora più determinanti degli effetti cinetici o fisici ottenuti con la neutralizzazione dell’avversario. Un perfetto esempio è costituito dalle azioni a

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bassa caratterizzazione cinetica, ottenibili grazie alla disponibilità (e non per forza l’impiego) di una maggiore potenza di fuoco. Una capacità che non risiede solo nella mera disponibilità di assetti da impiegare, ma nello spessore e nell’agilità intellettuale della leadership che dispone l’impiego delle forze. A livello tattico è stato dimostrato che questi assetti sono stati un deterrente e hanno fornito (in qualsiasi condizione meteorologica e di luce) fuoco diretto di precisione, creando le condizioni per condurre azioni decisive in termini di manovra e di supporto alle forze leggere. UNA PERCEZIONE ERRATA Le forze pesanti sono caratterizzate da costi di acquisizione dei sistemi d’arma, ridotta mobilità strategica e onerose attività addestrative per il personale. Occorre poi una catena logistica di un certo peso per il mantenimento in adeguate condizioni operative. Tuttavia il valore delle capacità esprimibili con questi assetti/risorse è enorme, essendo adatte a tutte le operazioni con considerevole fles-

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sibilità e efficacia nel neutralizzare un avversario ben organizzato ed equipaggiato. L’impiego di tali forze non può prescindere però da un addestramento idoneo e continuo, senza cui si perdono le capacità e le esperienze tattiche conseguite nel tempo. Non si tratta solo del livello avanzato di equipaggiamento disponibile, ma della preparazione del personale, in termini qualitativi e non solo quantitativi. È importante creare una capacità di manovra combined arms ai vari livelli (dal battle group alla grande unità). Un impiego oculato delle forze pesanti, soprattutto negli scenari meno convenzionali, può comportare un’organizzazione basata sul compito ricevuto (task organized), che può scendere fino ai minimi livelli (plotone o sezione). LE OPERAZIONI IN AMBIENTE URBANO L’ambiente operativo futuro è destinato a essere caratterizzato da una dimensione fisica sempre più urbana. Le forze pesanti potranno manovrare intorno all’area e fornire supporto di fuoco contro bersagli selezionati e battibili con ridottissimo rischio di danni collaterali (a beneficio delle forze leggere) e il conseguimento di effetti simili a quelli generati dalla massa. In ambienti urbani le forze leggere da sole non hanno la capacità di ottenere risultati decisivi, mentre combined arms team (interoperabilità tra assetti leggeri e pesanti) sono in grado di produrre i migliori risultati, grazie al mutuo sostegno: ridurre le limitazioni della singola componente ed esaltatare i vantaggi di entrambe, garantendo libertà di manovra attraverso la superiorità in termini di potenza di fuoco, mobilità e protezione. I combined arms team consentono un’elevata flessibilità e l’assolvimento di una varietà di compiti normalmente non conseguibili da unità equipaggiate con singoli sistemi. L’impiego efficace di queste forze richiede tuttavia un mantenimento costante e progressivo della capacità operativa, conseguibile solo mediante l’addestramento, che va pianificato nonostante il calo delle risorse disponibili. In sintesi, le capacità esprimibili dalle forze pesanti non possono essere riposte in una bacheca di vetro con scritto “rompere in caso di guerra”. Bisogna invece avere l’ambizione istituzionale di una forza militare di primo livello, dotata di una capacità tale da poter sviluppare la manovra combined arms nell’ambito dell’intero spettro dei livelli di conflittualità.

Potenza di fuoco, mobilità, protezione, osservazione con ogni condizione di visibilità (giorno, notte e meteorologica) sono irrinunciabili in qualsiasi ambiente operativo. Va tenuto in conto anche l’effetto deterrente, piuttosto che cinetico, prodotto dallo shock della combinazione di mobilità e potenza di fuoco, concentrata nell’attaccare punti deboli nemici in tempi e luoghi inaspettati. Ciò è altrettanto vero in contesti contro-insurrezionali, di minaccia ibrida, nelle attività di Military Assistance, di stabilizzazione e sviluppo dove capacità di combattimento ravvicinato in coordinazione con le forze leggere potrebbero risultare fondamentali per il successo.

Pagg. 29 e 30: Carri armati “Leopard” 2A6 e Blindo leggera LAV 25 dell’Esercito canadese in attività operativa, Provincia di Helmand, Afghanistan meridionale, 2008

IMPIEGO TRADIZIONALE E ATTUALE DELLE FORZE PESANTI Durante la Grande guerra, alle forze corazzate era assegnato il compito di penetrare i sistemi difensivi nemici, superando la killing zone e facendo irruzione nel sistema di trincee. Nel corso della Seconda guerra mondiale il classico concetto di Blitzkrieg fu espresso mediante lo sviluppo di formazioni che da soli carri divennero combined arms group, con l’aggiunta della componente meccanizzata (comprendente fanteria, genio e artiglieria). Ottimizzando il tutto con una migliorata capacità di Comando e Controllo grazie all’impiego di apparati radio a bordo dei mezzi. Questo schema classico ha determinato l’utilizzo della forza blindo-corazzata nelle maggiori operazioni militari fino alla campagna in Iraq del 2003. L’evoluzione delle operazioni militari contemporanee, caratterizzate soprattutto da contesti irregolari del tipo contro-insurrezionale, ha eroso la dottrina d’impiego classica. L’impiego di forze pesanti garantisce al meglio la condotta e il successo di attività tattiche fondamentali quali il movimento per il contatto, l’attacco sistematico e il frenaggio; oltre a creare le condizioni per il prosieguo delle altre fasi del combattimento convenzionale.

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ALCUNE LEZIONI APPRESE DALLE ULTIME OPERAZIONI MILITARI Combat (Iraq, 2003). Le forze pesanti sono state impigate per attività ISTAR in qualsiasi condizione meteorologica e di luce, su terreno anche disconnesso e in presenza di sistemi nemici di mascheramento e mimetizzazione per proteggersi dall’osservazione; di ingaggio di obiettivi concentrati o diradati; di neutralizzazione di formazioni equipaggiate con sistemi d’arma avanzati (mezzi corazzati da combattimento dotati di missili anti carro di ultima generazione). Le caratteristiche esprimibili hanno consentito di manovrare rapidamente con una elevata potenza di fuoco in campo aperto, creando effetti decisivi (shock action) e sfruttando il successo. SICUREZZA/COIN/HYBRID WARFARE Iraq (dal 2004). Le forze pesanti si sono rivelate di grande utilità in operazioni condotte in ambienti fortemente urbanizzati. A Bassora, Nassiriya, Fallujah, Sadr City, Ramadi dove i soli mezzi da combattimento della fanteria non avrebbero avuto possibilità di movimento, l’impiego combinato di forze leggere e assetti pesanti (i carri MBT, Main Battle Tank; gli IFV, Infantry Fighting Vehicle, Dardo/Bradley/Warrior o blindati Centauro) hanno rappresentato un’efficace soluzione per muovere e proteggere. Nella fattispecie è stato fatto largo uso delle forze pesanti per avvolgere obiettivi e prevenire il rafforzamento e lo sganciamento del nemico, fornire supporto di fuoco, guidare la fanteria, rilevare la presenza di ordigni esplosivi improvvisati (IED) al posto di mezzi più leggeri e meno protetti e supportare le Forze Speciali. L’esperienza della coalizione ha portato a un approccio delle

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aree urbane per diverse vie tattiche, con elevata protezione dei fianchi garantita dalle forze leggere. Le key position sono invece state occupate con i carri, mantenendo vital ground e supportando l’attività di bonifica degli abitati da parte della fanteria, aggiornando la situation awareness mediante utilizzo dei sistemi di osservazione a lungo raggio e intervenendo con versatilità nell’impiego di calibri e tipologie di munizionamento appropriati al supporto della fanteria stessa, anche in caso di estrazione. Le tattiche a livello minori unità (squadrone/compagnia) sono risultate appropriate, in particolare: nell’erogazione del supporto di fuoco; nella protezione dei fianchi del dispositivo; nella conduzione di pattuglie contro fuoco indiretto; nelle attività di scorta; in supporto alla fanteria, nell’attività di route clearance a inclusione della bonifica speditiva in aree dove l’appiedamento delle truppe era troppo complicato o pericoloso; nel mantenimento delle linee di comunicazione; nell’attività ISTAR; nel garantire una capacità di Quick Reaction Force (QRF). Afghanistan. Le caratteristiche geografiche del teatro operativo afghano, spiccatamente rurale, impongono limitata mobilità tattica e strategica e complessità del supporto logistico. Possono quindi scoraggiare l’impiego delle forze pesanti. Dall’analisi delle lezioni apprese di più contingenti (Canada, Danimarca, US Marine Corps e Italia, per quanto riguarda i Dardo) appare invece evidente che sono state impiegate con successo per garantire sicurezza, libertà di movimento e protezione degli itinerari, capacità di QRF, supporto di fuoco, sicurezza all’ingresso delle installazioni militari, capacità ISTAR, protezione dei fianchi, pattuglie di routine, scorta ai convogli ed esecuzione di attività d’inganno. Hanno avuto considerevole impatto psicologico e fornito deterrenza contro capacità e intento delle forze insurrezionali.

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Dottrina Carri M1 A2 “Abrams” statunitensi, Operazione Phantom Fury, Fallujah, Iraq, novembre 2004

rono colpite gravemente da Hezbollah alle grandi distanze, con impiego di sistemi anti-carro di ultima generazione. Entrambe le forze subirono gravi perdite di personale oltre che un considerevole rallentamento della progressione della manovra. Riconoscendo le cause di tale sconfitta, le IDF furono in grado di prepararsi per condurre con successo operazioni combined arms in occasione della campagna nella Striscia di Gaza nel 2008. Il ricorso a soluzioni tecnologiche (capacità netcentriche e l’impiego dello strumento aereo) non poteva infatti supplire da solo alla manovra terrestre. LA FUNZIONE ESPLORAZIONE

Tutto ciò a supporto delle forze locali, generando ridotti danni collaterali, contando sulla capacità di tiro diretto erogabile da grandi distanze, fornendo situation awareness ogni tempo e con ogni livello di visibilità, semplificando la procedura di targeting anche con impiego di artiglieria semovente e capacità di fuoco di precisione. Largo impiego combinato di forze pesanti a supporto di quelle leggere che scavalcavano dopo la rottura del dispositivo nemico. È stata inoltre registrata una elevata capacità di protezione dagli IED che ha portato addirittura all’impiego di alcune piattaforme (MBT) per l’attività di route clearance mediante l’impiego di kit mine roller. Eventuali danni collaterali derivanti dal passaggio dei cingoli sulle strade sono stati riparati facendo uso degli assetti del Genio al seguito delle truppe. Libano 2006 e Gaza 2008. Le forze di difesa israeliane (IDF) durante l’offensiva del 2006 hanno impiegato le proprie truppe per un periodo considerevole (incluse le unità pesanti, usate come fanteria leggera per tale scopo) in operazioni a bassa intensità in prossimità della Striscia di Gaza. Hanno così perso capacità operative in termini di preparazione del personale e aggiornamento degli equipaggiamenti, rendendo di fatto inefficace la manovra combined arms. In azioni come quelle condotte a Marun Ar Ras e Bint Jubayl sono emerse carenze. Le forze pesanti non sono state in grado di cooperare efficacemente (per carenza di sincronizzazione della manovra) con la fanteria che aveva il compito di garantire la sicurezza delle alture durante l’avvicinamento all’area urbana, rendendo di fatto vulnerabili i fianchi del dispositivo. Le unità di fanteria leggera rimasero quindi intrappolate nell’abitato, mentre le unità pesanti fu-

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La capacità combined arms è fondamentale anche per l’acquisizione di informazioni mediante azione di combattimento (by fire - fighting for information) e lo sviluppo di situazioni operative attraverso azioni. La capacità human intelligence invece non è completamente surrogabile con soluzioni tecnologiche quali l’impiego di droni e sensori. Di conseguenza le funzioni esplorazione e sicurezza sono di primaria importanza tenendo conto della dispersione delle truppe sul terreno (tipica della manovra nei contesti irregolari/contro-insurrezionali) e della decentralizzazione dell’iniziativa e delle responsabilità ai più bassi livelli (mission command). Unità esploranti caratterizzate da combinazione di assetti pesanti e leggeri sono perfette per esprimere appieno la funzione ISR, in quanto uniscono capacità di fuoco, mobilità e disponibilità di truppe sul terreno. Altrimenti le unità non potrebbero effettuare l’esplo-

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razione con livelli di sicurezza sufficienti: una volta localizzati e ingaggiati non ci sarebbe la possibilità di difendersi/sganciarsi, necessitando di assetti per il recupero/sganciamento e ricorso a ulteriore potenza di fuoco. Il connubio tra queste capacità e l’impiego di strumenti di sorveglianza (UAV, sensori, telecamere ad alta definizione) è altamente remunerativo. Nel fighting for information la capacità chiave è l’esplorazione fisica con unità di consistenza adeguata e non facendo affidamento solo su sistemi di sorveglianza passiva. Gli assetti ISR senza protezione infatti non sono idonei all’esplorazione by fire e, potendo operare principalmente by stealth, ritardano i tempi della manovra e il conseguimento degli obiettivi.

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Carri armati “Merkava” e forze aeromobili israeliane, Operazione Just Reward, Libano del Sud, estate 2006

CONCLUSIONI La minaccia contro-insurrezionale non potrà essere neutralizzata solo con azioni di polizia internazionale. In un ambiente warfighting classico (per esempio la campagna in Iraq del 2003), una funzione tipica delle forze pesanti come RSTA (Reconnaissance, Surveillance and Target Acquisition) non potrà essere imperniata su strumenti tecnologicamente avanzati, ma avrà necessità di una componente umana in grado di effettuare attività esplorante by fire. Le caratteristiche del potenziale nemico e l’alta velocità di sviluppo delle operazioni imporranno sempre più la necessità di ricorrere ad azioni di combattimento per l’acquisizione di informazioni. Anche perché le capacità avversarie di occultamento e inganno potrebbero vanificare l’esplorazione di sensori e droni. La disponibilità di forze pesanti con adeguata capacità di mobilità, potenza di fuoco e protezione è irrinunciabile. L’ambiente operativo ha dimostrato che forze leggere sono andate perse facilmente o hanno necessitato di ulteriori forze per salvarsi dal fuoco nemico una volta rivelatesi all’osserva-

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zione/contro esplorazione nemica. Spesso non sono state impiegate del tutto preferendo mandare avanti le unità di primo scaglione, piuttosto che affrontare il rischio di perderle. L’attività tattica di più frequente esecuzione è stata il movimento per il contatto. Le caratteristiche degli scenari contro-insurrezionali contemporanei (in particolare Iraq a partire dal 2004 e Afghanistan) non escludono l’impiego di forze pesanti. Assetti come i carri, il Dardo, il Centauro (ma anche l’artiglieria) sono anzi una irrinunciabile risorsa per le forze leggere, in termini di supporto alla mobilità (i carri anche in funzione route clearance quindi C-IED), protezione delle forze, sicurezza degli itinerari, QRF, supporto di fuoco (si pensi alle indubbie capacità di fuoco diretto, selettivo con ridotto rischio di danni collaterali) e capacità di esplorazione e sorveglianza. Forze leggere o pesanti non potranno mai essere in grado di contrastare da sole un avversario in un combattimento irregolare. Impiegate l’una a complemento dell’altra sviluppano invece capacità uniche di cui l’avversario dovrà tener conto. In ambiente urbano gli assetti pesanti non hanno la pretesa di effettuare la bonifica dell’abitato, ma occupando key position possono fornire supporto di fuoco alle unità di fanteria impegnate in tale attività. In caso di necessità possono contribuire alla loro estrazione (tiro diretto e basso rischio di danni collaterali). Da considerare l’effetto deterrente sugli avversari e rassicurante sulla popolazione. L’attuale esigenza di ripensare lo strumento militare in condizioni di austerità potrebbe spingere verso una componente terrestre caratterizzata da unità per lo più leggere, facilmente proiettabili soprattutto nei teatri di operazione più lontani e dai costi di gestione decisamente più accessibili. Il mantenimento di un’adeguata componente pesante ha costi certamente più elevati e necessita del superamento di diverse criticità in termini logistici, oltre a creare dubbi di carattere politico. L’impiego di forze pesanti consente tuttavia di avere a disposizione uno strumento flessibile, versatile e risolutivo, adattabile a tutti gli scenari operativi e di elevato valore nell’intero spettro delle operazioni. Un aspetto determinante è la preparazione delle forze. La capacità di interoperare tra forze pesanti e forze leggere non è innata e non si può improvvisare. Va formata e mantenuta, in termini di addestramento e di equipaggiamento. Beneficia soprattutto del continuum di esperienza maturata in decenni di operazioni. La rinuncia a tale capacità non garantirà la possibilità di ricostituirla in caso di necessità future, creando così un gap difficilmente colmabile nel breve periodo. *Maggiore NOTE (1) La Dottrina NATO distingue quattro diversi tipi di conflitto, detti anche temi della campagna: combat, security, peace support e peacetime military engagement. Fonte: NATO AJP3 (B) Allied Joint Doctrine for the conduct of operations. BIBLIOGRAFIA NATO AJP – 01 (D) «Allied Joint Doctrine» ed. Dec. 2010; NATO AJP – 03 (B) «Allied Joint Doctrine for the Conduct of Operations», ed. Mar. 2011;

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«Future Character of Conflict», British Ministry of Defence, 2012; «Observation on recent trends in Armored Forces», by David E. Johnson, John Gordon IV, RAND Corporation 2010; «Canadian Armour in Afghanistan», by Maj. Trevor Cadieu, CD, Canadian Army Journal Vol. 10.4 Winter 2008; «Canadian tank squadron’s success in Afghanistan goes untold», by Bob Bergen, Ph. D. on www.cdfai.org ; «Tank operations in modern coin warfare», by Andrew Erskine, Defender, Winter 2007; «The transformation of reconnaissance: who will fight for information on the future battlefield?», by Maj. Curtis D. Taylor, B.S.,US Army Command and General Staff College, Ft. Leavenworth, 2005; «Gone to Fiddler’s Green: Reconnaissance and security for the Corps», School of Advanced Military Studies/ US Army Command and General Staff College, Fort Leavenworth, 2011; «Who will fulfill the Cavalry’s functions? The neglect of reconnaissance and security in US Army Force Structure and Doctrine», by Maj. Keith Walters, Military Review, Jan.-Feb. 2011; «The Death of the Armor Corps» by Gian P. Gentile, on www.smallwarsjournal.com; «A Combined Arms Response to Death of the Armor Corps», by James Smith and James Harbridge, on www.smallwarsjournal.com ; «The future of the Tank», British Army Review n. 153, Winter 2012; «Mechanized Forces in irregular warfare» by Maj. Irvin Oliver, Military Review, Mar.-Apr. 2011; «Decade of War, Volume I. Enduring Lessons from the Past Decade of Operations» by Joint and Coalition Operational Analysis (JCOA), 15 June 2012; «We were caught unprepared: The 2006 Hezbollah-Israeli War», Occasional Paper 26, by Matt M. Matthews, U.S. Army Combined Arms Center Combat Studies Institute Press, Fort Leavenworth, 20; «How to eat steak with a knife and fork! A return to the core competencies that make our maneuver force indomitable», by LTC Andre L. Mackey, Armor Mounted Maneuver Journal, Jan.-Mar. 2013; «The COIN challenge: a parable of leadership and decision making in modern conflict», by Christopher D. Kolenda, Stackpole Books, 2012; «Jungle of Snakes: a century of COIN warfare from the Philippines to Iraq», by James R. Arnold, Bloomsbury Press, 2009; «The defense of Jisr al Doreaa», by Michael L. Burgoyne and Albert J. Marckwardt, The University of Chicago Press, 2009.

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Dottrina

VOLONTARI, UN’ETICA CHE VIENE DA LONTANO Come non rimanere colpiti dalla tristezza unita alla fierezza dello sguardo di tanti militari di fronte alle tragiche visioni dei compagni caduti sul campo o delle popolazioni a cui portano la loro opera per la pace e la stabilità del territorio?

di Ernesto Bonelli*

«Virtù contra furore prenderà l’armi; e fia ’l combatter corto. Che l’antico valore negl’italici cor non è ancor morto». Petrarca

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a condizione militare è ”un modo di essere, fatto di scienza e arte, di poesia e di forza, di pensiero e azione in un rapporto dialettico con la società nella quale e per la quale si opera” , scriveva il generale Gianalfonso D’Avossa. È una professione diversa dalle altre perché implica l’adesione integrale ai valori tradizionali che sono alla base della solidarietà e della capacità combattiva. Da qui la necessità per il professionista “con le stellette” di

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Volontari in Afghanistan


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credere nella sua missione al servizio del Paese e della collettività, dove l’interesse generale deve prevalere su quello personale e immediato. Il militare non può essere solo un cittadino cui sono state consegnate delle armi. Per questo la scelta del profilo morale dei soldati è fondamentale: si tratta di individuare uomini e donne cui verrà chiesto di operare a lungo in un ambiente naturale difficile e lontano dalle abitudini della società occidentale. Soldati che devono possedere la piena capacità di combattimento (l’addestramento necessario per affrontare l’ipotesi peggiore), ma anche le qualità indispensabili per socializzare e adeguare i propri comportamenti alle necessità di sicurezza. Venire a contatto con situazioni di reale sofferenza da parte di popolazioni assai meno fortunate della nostra suscita forti impegni di amore e spirito di carità. Così si esaltano i valori e i principi, autentico retaggio della tradizione italiana. Ecco perché le missioni internazionali umanitarie e di pace costituiscono un’iniziativa di alto valore politico, etico e sociale. Oltre ai favorevoli ritorni di immagine e di stima in ambito internazionale (cui si aggiungono i numerosissimi attestati di gratitudine da parte delle popolazioni e delle autorità locali), determinano un effetto psicologico assai benefico sui militari che vi prendono parte. Ma quale rapporto esiste tra atteggiamenti personali, disposizioni, virtù, vita professionale e valori interiori dei militari volontari? Quale significato ha l’etica nel definire la professionalità dei soldati? In greco ethos (da cui deriva il termine “etica”) significa «costume», «consuetudine». I medesimi significati si ritrovano nel latino mos, moris, da cui deriva invece il termine “morale”. Quando parliamo di etica o di morale facciamo riferimento al costume e più ampiamente al modo di agire, di comportarsi, alle scelte che si compiono in modo più o meno consapevole. Intendiamo un insieme di criteri, di valori, di norme, di tradizioni in base ai quali orientiamo le azioni. Il professionista militare, nel percepire la particolarità del gruppo sociale a cui appartiene, tende a far prevalere il fattore morale, imperniato sui valori della lealtà, del coraggio, del rigore morale, del senso del dovere, del rispetto

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Carlo Pisacane

Lo sbarco dei Mille a Marsala

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Dottrina Volontari combattenti per la libertà per le vie di Milano

dei diritti e della dignità umana, del sereno e generoso spirito di dedizione al prossimo. Va sottolineato che al militare, unico caso tra tutte le professioni, può essere richiesto, quando le circostanze lo rendano necessario, il sacrificio della vita. A nessuno e in nessuna professione può essere imposto tale obbligo. Ma da dove traggono origine questi valori tradizionali presenti consciamente e inconsciamente nei giovani volontari? Il popolo italiano non ha tradizioni guerriere diffuse e consolidate, se non risalenti all’Impero romano. Nell’Italia dei Comuni e delle Signorie, la straordinaria rinascita economica e culturale della penisola contrastava clamorosamente con la sua debolezza strategica. Le lotte tra feudi, signorie e regni erano condotte da milizie mercenarie, spesso straniere o da eserciti di Stati esteri. Niccolò Machiavelli si chiedeva come fosse stato possibile che la terra che aveva dato i natali ai Romani (popolo di eccelse qualità guerriere, oltre che politiche e organizzative) si fosse ridotta a ospitare regimi politici senza saggezza e senza forza. La scienza militare in Italia ha avuto importanti esponenti di pensiero e di armi, soprattutto nel periodo rinascimentale. Ma non è stata in grado di consolidare uno spirito guerriero diffuso. Le cause sono numerose, ma sintetizzando si può dire che abbia molto inciso la carenza di una “nobiltà di spada” (soprattutto nelle regioni del Centro-Sud) e la mancanza di uno Stato unitario, di un potere in cui il popolo potesse riconoscersi. È mancato il sentire comune, l’identificazione condivisa con un territorio e una storia. In che modo dunque questi sentimenti sono comunque riusciti a sviluppare quel forte legame fatto di valori condivisi da cui sarebbe scaturita la volontà di difenderli? Nella primavera del 1796, le forze francesi rivoluzionarie di Napoleone Bonaparte attraversarono le Alpi e dilagarono in Piemonte e in Lombardia, portando con sé l’idea che il popolo italiano avrebbe forse potuto costituire una nazione libera e indipendente. Si vide subito che la lotta per determinare il carattere di un nuovo Stato unitario sarebbe stata immensamente difficile. E ancor più problematico appariva il compito d’inculcare in milioni di contadini analfabeti, in maggioranza dispersi in isolati paesini di montagna, l’idea che da quel momento il primo obbligo di fedeltà andava a qualcosa chiamato “Italia”. Dopo il crollo dell’Impero Romano d’Occidente nel V secolo d.C., la penisola era stata il bersaglio di un’ininterrotta successione di invasioni. La Chiesa e la rete di città largamente autonome dell’Italia centro-settentrionale erano emerse nel caos generale come i nuclei e le fonti più dura-

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ture di autorità politica. I vincoli di fedeltà degli individui avevano assunto spesso la forma di più piccole unità: fazione, partito, quartiere urbano, confraternita o famiglia. Da qui il compito che trovarono di fronte quanti subirono l’attrazione del patriottismo creata dalla Rivoluzione francese: come innestare la “Nazione” in questo frammentatissimo paesaggio, dovendo per giunta fare i conti con l’universalismo del cattolicesimo romano? Così ebbe inizio quel movimento che portò all’unificazione dell’Italia e alla rinascita, nell’intimo di ciascun italiano, dei valori morali fondamentali: il Risorgimento ha compreso in sé anime culturali, correnti politiche, ceti sociali e ambienti assai variegati che hanno guidato la nazione verso l’affer-

Volontari della Brigata paracadutisti «Folgore», in Somalia nel 1993, ripresi su un VCC1

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Volontari in servizio di Ordine Pubblico durante l’Operazione «Strade Sicure»

mazione degli ideali di indipendenza e libertà, ancora oggi fondamento della nostra Costituzione. «Ideali e valori ancora vivi, incisi nel marmo, sul frontone del Vittoriano: “all’unità della Patria”, “alla libertà dei cittadini”. Essi sono a fondamento della Repubblica» scrive l’ex presidente Carlo Azeglio Ciampi. Mentre Benedetto Croce ribadisce che: «Se per storia politica si potesse parlare di capolavori come di opere d’arte, il processo della indipendenza, libertà e unità d’Italia meriterebbe di essere detto il capolavoro dei movimenti liberal-nazionali del secolo decimo nono: tanto ammirevole si vide in esso la contemperanza dei vari elementi, il rispetto all’antico e l’innovare profondo, la prudenza sagace degli uomini di Stato e l’impeto dei rivoluzionari e dei Volontari, l’ardimento e la moderazione; tanto flessibile e coerente la logicità onde si svolse e pervenne al suo fine». Tutto ciò ha trasformato il modo di vivere, di pensare e di combattere. Colpisce ancora la visione di tanti uomini e donne (giovani e meno giovani) che, rispondendo a un impulso di coscienza o alla speranza di un domani migliore, presero le armi senza un vero addestramento militare e parteciparono alle battagli più importanti della storia d’Italia, come i moti del ’48 e le spedizioni garibaldine. Si trattò di un’adesione attiva, frutto di una libera scelta che comportava rischi personali e per le famiglie. Questi erano i volontari del nostro Risorgimento! Gli esempi e i precursori dei nostri volontari. In oltre centocinquant’anni in Italia e nel mondo si sono verificati tanti eventi: due conflitti mondiali, la nascita

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e la fine di imperi coloniali, moltissimi conflitti locali, tragedie naturali, alleanze e rotture tra popoli. Lo spirito che ha sempre animato un volontario è rimasto immutato, saldo nei suoi ideali nonostante tutto. In che modo si realizzò la trasmissione dei valori? La letteratura, la musica e la poesia sono stati gli organi propulsori. A offrire impulso vitale al sorgere e diffondersi del processo politico sono stati proprio gli ideali che la letteratura abbracciò tra la fine del XVIII e XIX secolo. Gli uomini del Risorgimento trasformarono in azione i pensieri dei grandi intellettuali, poeti e artisti, che diffusero nella società l’idea di una resurrezione della cultura italiana ispirata ai grandi temi e valori del passato glorioso del nostro Paese. Le opere di Alfieri, Foscolo, Pellico, Manzoni, Berchet e tanti altri raccontarono i valori eterni della libertà e dell’indipendenza, scelsero le forme linguistiche, i modelli e gli esempi storici, le invocazioni appassionate che spronarono alla causa nazionale e unitaria, creando così l’ispirazione di cui si alimentò il movimento risorgimentale di Mazzini e Garibaldi. Senza contare che molti letterati furono patrioti e rivoluzionari sul campo. Anche la musica diede un grande contributo a questo processo: descrisse l’impeto alla rinascita, nascondendo in temi e rievocazioni del passato la situazione di schiavitù del popolo italiano, per dare voce alla rivoluzione e risvegliare gli animi. Un altro concetto che la cultura del periodo ha il merito di aver diffuso e riempito di significato è l’idea di nazione. Sebbene esistesse da sempre nella cultura occidentale, fu trasformata ed esaltata dal Romanticismo in Europa e ancor più in Italia, dove costituì il fondamento del rinnovamento, della resurrezione dalla morte civile, frutto di secoli di divisione e oppressione. Gli intenti della lotta politico-culturale e sul campo furono la libertà, l’indipendenza e l’unità, temi principali anche delle opere letterarie del periodo, che si intrecciarono alle invocazioni per la Patria e per la Nazione. Esiste una connessione tra l’identità nazionale (il riconoscimento collettivo dell’appartenenza a un Paese) e l’identità militare (il riconoscimento del ruolo di difesa della Patria in armi fino al sacrificio della vita). L’identità nazionale italiana è stata quindi plasmata dalle esperienze maturate sul terreno militare. Ma l’aspetto più interessante è la non spontaneità delle virtù e la necessità quindi di un processo di “formazione”. Secondo Aristotele non possediamo le virtù per natura.

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Dottrina

L’uomo ha però la capacità di acquisirle attraverso il compimento di alcune attività. Il processo formativo nato con il Risorgimento proseguì anche dopo l’Unità d’Italia, quando i politici di destra e di sinistra guardarono all’esercito come strumento principale per “fare gli Italiani”. Nel 1879 Giuseppe Guerzoni, uno scrittore di larga notorietà e devoto amico di Garibaldi, affermò che «l’Esercito era il grande maestro elementare della Nazione e il suo principale educatore». Anche Francesco De Sanctis decise di lasciare un segno sul suo terzo mandato di ministro della Pubblica istruzione presentando un disegno di legge mirante ad agevolare la missione educatrice dell’esercito. Il problema più grande degli italiani - spiegò alla Camera non era infatti la loro ignoranza (spesso sapevano anche troppo), quanto la loro incapacità di convertire la conoscenza in azione. Era una questione di carattere. «Bisogna educare la volontà», annunciò tra gli applausi dei colleghi «a rigenerare davvero il Paese, bisogna educare l’immaginazione, bisogna che tutto quello che è nel nostro cervello abbia efficacia sopra tutte le nostre facoltà». La Camera approvò quasi all’unanimità. Fu dunque l’esercito ad assumersi il compito di educare gli italiani ai valori alla base della coscienza nazionale. Questa era l’ambizione: ricevere dalla società un uomo e imprimergli per tutta la vita il proprio suggello. Durante la Prima guerra mondiale, molti giovani italiani si arruolarono (specie quelli residenti in terre italiane irredente, spesso arruolati nelle unità militari nemiche e partiti volontari col sogno di abbracciare un’unica Italia unita) coscienti della sorte che sarebbe loro toccata in caso di cattura. Cesare Battisti, Damiano Chiesa, Nazario Sauro, Fabio Filzi: chi può dimenticare i loro nomi? Analogamente, durante la Seconda guerra mondiale operarono volontari in tutti i Paesi occupati dalle forze tedesche, soprattutto in Italia dove si richiamavano alla tradizione risorgimentale. Un periodo non a caso definito “il secondo Risorgimento italiano”. Gli obiettivi che perseguivano Garibaldi, Mameli, Pisacane, Manin, Armellini e tanti altri (la libertà, l’eguaglianza e la democrazia) avevano finalmente conquistato le coscienze. Il limite che separa la sicurezza interna dalla sicurezza esterna è ormai pressoché inesistente. I confini geografici si rivelano oggi più che mai porte tra culture e mondi diversi. Il confine tra operazioni belliche e di polizia internazionale, tra missioni di pace e guerra attiva e, non ultimo, tra minaccia alla sicurezza e minaccia agli interessi vitali è labile e ciò rivoluziona il modo di concepire e organizzare le forze armate. Il volontario diventa quindi un professionista della sicurezza che è prima di tutto un combattente e deve essere l’élite nella sua categoria: pervaso da una motivazione ideale più ampia e più matura di qualsiasi altro cittadino. Il volontario è un cittadino che deve accettare e sostenere oneri gravosi, tradotti in limiti consistenti e permanenti alla libertà personale. Deve essere consapevole per primo che la condizione militare è un fardello più pesante da portare rispetto a quello della condizione civile; deve sapere che può morire per la difesa della Patria, come tutti i cittadini, ma sempre prima di loro. Questa immensa disponibilità, per non essere confusa con prestazioni mercenarie, deve essere supportata da una motivazione eccezionale. Un insieme di valori e sentimenti che, seppure in epoche e momenti storici diversi, accomunano il volontario del Risorgimento e quello impegnato nelle moderne missioni militari.

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Un Volontario ripreso durante le operazioni in Afghanistan

«C o m ’ e r a n b e l l i , I t a l i a , i tuoi Mille! In borghese, pugnando contro i piumati, gli indorati sgherri, spingendoli davanti a loro come se fosse un gregge. Belli, belli! E vario vestiti come si trovavano nelle loro officine quando furon chiamati dalla tromba del dovere! Belli, belli! Eran, coll’abito e il cappello dello studente, colla veste più modesta del muratore, del carpentiere, del fabbro. Belli i tuoi Mille, Italia».... ...«Quanti siamo in tutti? domandò, partendo, a un Ufficiale. Coi marinai siam più di mille, - rispose questi. Eh! eh! quanta gente! esclamò Garibaldi con un gesto di meraviglia» (Giuseppe Garibaldi, «I Mille»). *Generale di Brigata (ris.)

Rivista Militare


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NETTUNO 1944 - 2014 70° ANNIVERSARIO THE LANDING AT ANZIO NETTUNO AND THE CAPTURE OF ROME

Per la prima volta dopo settant’anni è stato commemorato l’X-RAY BEACH, il “Punto X” della spiaggia dove la notte del 22 gennaio del 1944 misero piede i primi soldati americani. Questa zona si trova all’interno del Poligono Militare di Nettuno (U.T.T.A.T.) che, tramite il Ministero delle Difesa, ha dato l’autorizzazione alla commemorazione e alla realizzazione di un monumento alla memoria dei Caduti. Le celebrazioni termineranno il prossimo 4 giugno, giorno in cui la Città di Roma venne liberata dai soldati americani.

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Dottrina

ELOGIO DELL’INIZIATIVA «Non ci si parli dunque di generali che riportano vittorie senza spargimento di sangue. Se la lotta sanguinosa forma un terribile spettacolo, ciò valga a far meglio riconoscere tutta la gravità della guerra, ma non induca a poco a poco, per sentimento umanitario, a smussare le spade che si maneggiano, al punto tale da rischiare di veder intervenire qualcuno che ne impiega senza riguardi il taglio affilato per troncarci le braccia» (1). Carl von Clausewitz

T

roppo spesso si ignora questo monito lanciato a tutte le generazioni di militari dal generale Clausewitz, nel suo celebre trattato “Della guerra”. Non si mantiene sempre affilata la spada, giustificandosi con la strutturale mancanza di risorse economiche per la difesa, il naturale desiderio di pace delle civiltà, l’assenza di un nemico chiaramente individuabile e la convinzione che miracoli tecnologici, armi “intelligenti” e “non-letali” possano evitare la necessità di combattere sanguinose battaglie terrestri. Il sudore, l’ardimento e la furia dei singoli hanno sempre dimostrato di essere necessari per la vittoria, risolvendo lo scontro in modo decisivo solo nella metaforica fornace che brucia nei duecento metri che separano le forze contrapposte, alimentata dalla fusione di uomini, mezzi e intere unità. La guerra, come suggeriva Clausewitz, non è altro che un duello (Zweikampf) su larga scala e può essere più facilmente spiegata come uno scontro tra due schermidori che si sfidano per imporre la propria superiorità. Chi è più favorito in un combattimento? Il duellante che ha la spada più tagliente? Il più agile o il più robusto? Oppure il più coraggioso? Non è facile stabilire la qualità determinante con cui si può sopraffare un avversario. Ma due sono le caratteristiche essenziali di un combattente: uccidere e saper morire. Riuscire cioè ad avvicinarsi e colpire il rivale in punti vitali accettando la possibilità di perire nel tentativo di riuscirci, rinunciando così alla fuga o alla resa per aver salva la vita. Aspetti materiali e non materiali dell’abilità di combattimento del duellante

ASPETTI NONMATERIALI

COMPRENSIONE DELLA SITUAZIONE

PROCEDURE FORMAZIONE

ADDESTRAMENTO

Componente cognitiva

VOLONTÀ

ASPETTI MATERIALI

Componente fisica

Componente morale MOTIVAZIONE

FORZA CORAGGIO

DESTREZZA AGILITÀ

ETICA ARMA

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Fig.1

di Gianmarco Di Leo*


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L’abilità di combattere e uccidere, ammettendo l’eventualità dell’estremo sacrificio, è costituita da tre componenti: fisica, morale e cognitiva. Tipiche della prima sono forza, resistenza, agilità o velocità, ma anche l’efficacia dell’arma che si usa. La seconda comprende il coraggio, la volontà, la determinazione e la motivazione. L’ultima include qualità come l’intelligenza, la conoscenza e la capacità di comprendere la situazione, prendere decisioni rapide e adattarsi all’ambiente. Nessuna delle tre componenti ha un ruolo preminente. Sono invece strettamente interdipendenti. In un duello serve a poco avere la spada più affilata e il braccio più forte se non si ha il coraggio di affrontare l’avversario o se non si conosce bene l’arte della scherma per impiegare l’arma nel modo più efficiente (2). Solo la sinergia ottimale dei tre elementi assicura la vittoria (fig. 1). I governi e le forze armate tendono storicamente a sopravvalutare l’importanza della componente fisica, cioè quantità e qualità di armi, sensori e mezzi. Ma in guerra le armate più numerose o meglio equipaggiate sono inutili senza spirito combattivo, coesione e determinazione necessaria per sopportare le sconfitte e ottenere le vittorie. Non basta però nemmeno avere unità militari forti e motivate. Difficilmente otterranno grandi successi senza capacità di comprendere il contesto, senza il supporto di una solida dottrina che disciplini l’impiego migliore e un efficace programma di formazione e addestramento del personale. Anche per le unità militari, solo l’integrazione sinergica delle componenti fisica, morale e cognitiva garantisce le migliori probabilità di vittoria (fig. 2).

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Dottrina

IL RUOLO DELLA DOTTRINA

Aspetti materiali e non materiali del potere di combattimento

ASPETTI NONMATERIALI

«Doctrinas Bello Aptare» (4)

DOTTRINA

COMPRENSIONE DELLA NATURA DEI CONFLITTI DELL’AMBIENTE OPERATIVO

FORMAZIONE

ADDESTRAMENTO

Componente cognitiva

LEADERSHIP

ASPETTI MATERIALI

Componente fisica

Componente morale MOTIVAZIONE

PERSONALE COESIONE

MEZZI MATERIALI

ETICA

EQUIPAGGIAMENTO

Fig. 2

PENSIERO E AZIONE «La dottrina militare non può essere stagnante, […]. La dottrina deve continuare ad evolvere, sulla base dell’esperienza guadagnata, delle innovazioni teoriche e dei cambiamenti stessi della natura della guerra» (3). La componente intellettiva della capacità di combattimento raccoglie in modo strutturato l’insieme delle idee che guidano l’approntamento e l’impiego delle forze armate. Include l’analisi dell’ambiente operativo di riferimento, lo sviluppo dei concetti necessari alla pianificazione dello strumento militare ideale per affrontare le sfide future e l’impiego ottimale delle risorse disponibili nel presente. Una volta stabilito ciò che si può fare, la dottrina illustra come farlo al meglio sulla base dei concetti sviluppati e sperimentati, delle lezioni apprese in addestramento e in operazione, dei vincoli politici e legali imposti dalle superiori autorità (fig. 3). Non esiste una netta separazione tra concetti e dottrina. I primi si consolidano in documenti dottrinali e vengono a loro volta sviluppati sia dalla dottrina esistente che dalle lezioni apprese sul campo. Sono, dunque, gli elementi in costante evoluzione di un ciclo continuo di apprendimento e adattamento attraverso cui le Forze Armate ottimizzano la propria efficienza nell’ambiente operativo in cui sono immerse. Relazione fra Dottrina e Concetti SVILUPPO DELLA CONOSCENZA

TECNOLOGIA Cosa è possibile

POLICY Cosa aspiriamo a fare

Fig. 3

GESTIONE DELLA CONOSCENZA

ESPERIENZE Organizzazione Memoria/Storia LEZIONI IDENTIFICATE/APPRESE

CONCETTI Cosa aspiriamo a fare

LIBERO PENSIERO

IDEE

RISORSE Cosa ci possiamo permettere

SCENARIO FUTURO

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Cosa aspiriamo a fare

Effetti sulle operazioni

DOTTRINA Come farlo al meglio

QUADRO NORMATIVO Vincoli legali

SCENARIO DI RIFERIMENTO

Etimologicamente, dottrina è ciò che viene insegnato. In ambito militare include quindi il “Complesso di principi fondamentali che informano le azioni condotte dalle Forze Armate per il conseguimento di obiettivi. Ha carattere autorevole ma la sua applicazione richiede capacità di giudizio” (SMD-G024). Include l’insieme dei principi e delle procedure che forniscono una visione e una base concettuale uniforme per l’azione (5) . Secondo Clausewitz rappresenta anche una guida per coloro che aspirano a imparare l’arte bellica dai libri. Come la storia militare, la dottrina può facilitare lo studio della professione delle armi, educare le menti dei futuri comandanti o guidarli nel percorso di auto-apprendimento. Non è indicata invece per accompagnarli sul campo di battaglia e forzarli nella scelta della migliore soluzione per risolvere problemi tattici, che devono essere affrontati con la massima creatività. La dottrina non è tanto ciò che viene pubblicato dagli Stati Maggiori o insegnato nelle Accademie, ma che viene reputato utile e interiorizzato da comandanti, istruttori e insegnanti militari attraverso la formazione e l’addestramento quotidiano. La diramazione di un nuovo documento dottrinale è utile solo se il testo è ritenuto valido e diviene tempestivamente parte del bagaglio culturale di chi deve applicarlo. Altrimenti resta un esercizio puramente intellettuale di limitata efficacia. INTELLETTUALI VS COMBATTENTI «Non si può insegnare a vincere più di quanto non si possa diventare un genio studiando»(6). L’affermazione riportata sopra è certamente innegabile e potrebbe demoralizzare chiunque tenti di apprendere l’arte militare sui libri. Sembrerebbe rendere vano qualsiasi sforzo per creare un corpo dottrinale utile che abbia un impatto pratico sulla forza armata.

Rivista Militare


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Raimondo Montecuccoli, nonostante fosse lui stesso un brillante autore di scritti militari, evidenziava che si diventa buoni comandanti sul campo, bagnandosi sotto la pioggia e congelandosi nella neve, non sui banchi di una biblioteca. In effetti nella comunità militare storicamente c’è sempre stata una certa rivalità tra la categoria degli “intellettuali” e quella dei “combattenti”(7), ossia tra quegli ufficiali che più si sono distinti per la loro conoscenza e quelli che più si sono distinti per le loro azioni sui campi di battaglia. Eisenhower, ad esempio, irrideva gli intellettuali definendoli come «coloro che usano più parole di quante sono necessarie per illustrare più di quanto conoscono». Il conservatore generale Gerd von Rundstedt esprimeva chiaramente la sua opinione sulle teorie pubblicate dal giovane colonnello Guderian nel periodo della sperimentazione del concetto di impiego delle forze corazzate: «Sciocchezze, tutte sciocchezze, mio caro Guderian». Anche coloro che hanno dimostrato di appartenere a entrambe le categorie (come Patton, Rommel o lo stesso Guderian) sono generalmente ricordati più per le loro imprese belliche che per quelle intellettuali. Si può persino affermare che sussista quasi una sorta di anti-intellettualismo tra i militari. Ad esempio, il maresciallo francese Maurice de MacMahon, principale responsabile della sconfitta di Sedan nel 1870, chiariva sufficientemente la sua posizione sull’argomento: «Io elimino dalla lista delle promozioni ogni Ufficiale di cui ho letto il nome sulla copertina di un libro». Nel 1890, il superiore gerarchico, ammiraglio Francis Ramsay, dell’allora capitano della US Navy Alfred Thayer Mahan, autore di “The Influence of Sea Power Upon History, 1660-1783”(8) confermava una certa tendenza anti-intellettuale, evidenziando direttamente nelle sue note caratteristiche il proprio disprezzo delle doti di storico dell’ufficiale: «Scrivere libri non è affare degli Ufficiali di Marina». Il primo ministro inglese Lloyd George (1916-1922), riflettendo sulla questione durante la Prima guerra mondiale, notava addirittura che: «I militari... ritengono il pensare una forma di ammutinamento»(9). In realtà, l’impossibilità di trasmettere la genialità attraverso lo studio e la necessità di accentuare la preparazione pratica nella professione delle armi sono state troppo spesso usate come scusa per trascurare l’insegnamento della dottrina e dell’arte militare, a volte con nefasti risultati. Infatti non è sufficiente sperare che nel momento del bisogno si materializzi un nuovo Cesare, un Nelson o emerga un nuovo Napoleone a guidare flotte ed eserciti verso la vittoria. Si deve invece tentare di preparare al meglio i giovani ufficiali e sottufficiali in campo teorico, in modo che anche i meno geniali siano in grado di impiegare le unità loro affidate, sulla base di una solida dottrina condivisa. La genialità individuale così come l’intellettualismo militare devono essere istituzionalizzati affinché abbiano la necessaria efficacia. A livello organizzativo ciò implica che sia favorita e incoraggiata la libera circolazione delle idee, stimolato il pensiero critico e soprattutto che sia trasformato in azione, ossia in capacità, formazione e addestramento. Cesare, Nelson o Napoleone difficilmente potrebbero ottenere grandi successi se non fossero supportati da un sistema che ne valorizzi le qualità o ne sostenga gli sforzi attraverso l’approntamento di unità motivate, addestrate e ben equipaggiate. E che favorisca anche l’interiorizzazione cosciente di principi dottrinali generali uniformemente compresi dai quadri dell’organizzazione. L’INNOVAZIONE PRUSSIANA «La Conoscenza deve diventare Capacità» (10). Clausewitz Un eccellente esempio di intellettualismo militare istituzionalizzato è certamente rappresentato dal caso della Prussia di metà ’800. A

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seguito della disastrosa sconfitta di Jena-Auerstadt del 1806 (causata tra l’altro da un’organizzazione e una dottrina tattica ormai obsolete), il sovrano convocò nel 1807 una commissione di esperti(11) per proporre la necessaria riforma dell’esercito ed evitare che la Prussia potesse nuovamente subire le tragiche conseguenze di una disfatta. La figura centrale della commissione fu indubbiamente il generale Scharnhorst, stimato studioso e pensatore militare del suo tempo, nonché direttore della prestigiosa Militaerische Gesellschaft (Società militare). Ebbe riconosciuta l’autorità di scegliere gli altri membri della commissione. Selezionò così quelli che giudicava intellettualmente più brillanti per il loro contributo di pensiero alla Società Militare e più capaci in combattimento, sulla base del loro rendimento contro i francesi nella recente battaglia di Jena-Auerstadt. Tra il 1807 e il 1812 la commissione di esperti innescò una completa trasformazione dell’esercito, riorganizzandone le unità, pubblicando una nuova dottrina d’impiego (di cui Clausewitz fu co-autore), riformando l’arruolamento, creando e supervisionando tre nuove scuole militari e instillando un nuovo spirito patriottico nei cittadini-soldati. Forgiando soprattutto un nuovo strumento che potesse amministrare e guidare nel lungo periodo il processo di trasformazione della forza armata: lo Stato Maggiore. Costituito da ufficiali meticolosamente selezionati e organizzati (12) , il nuovo Stato Maggiore prussiano rappresentava il centro intellettuale dell’esercito, responsabile della pianificazione operativa e strategica della forza armata, ma anche della condotta delle operazioni in guerra. Gli effetti duraturi delle sostanziali riforme furono evidenti già nel contributo prussiano alla sconfitta di Napoleone I nel 1813 e nel 1815, ma dimostrarono la loro piena efficacia nella vittoriosa campagna del 1870 contro Napoleone III. Un altro caso esemplare di intellettualismo militare istituzionalizzato è rappresentato dalla Germania del 1933. Tra le due guerre mondiali, l’esercito tedesco sconfitto fu costretto

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Dottrina

a una drastica riduzione di personale (centomila uomini, di cui quattromila ufficiali), armi e mezzi (divieto di acquisire carri armati). Ma fu anche costretto a sciogliere il temuto Stato Maggiore, ridimensionato in Truppen-amt (Ufficio delle truppe). Nonostante tali difficoltà, tra il 1919 e il 1926 l’esercito risorse, soprattutto grazie all’energica azione riformatrice del capo di Stato Maggiore “ombra” (13), Hans von Seeckt. Tra le sue prime iniziative, Seeckt approfittò dell’obbligo di ridurre la forza effettiva per congedare tutti gli elementi più conservatori della classe degli ufficiali, lasciando così ampi spazi per quelli giovani, motivati e intellettualmente più dotati. L’addestramento puntava a imprimere nei futuri comandanti lo spirito di iniziativa e di pensiero innovativo. Tutti i sottufficiali erano istruiti come ufficiali e ogni ufficiale veniva preparato al comando di due livelli superiore al proprio. Seeckt ordinò inoltre un’ampia raccolta di lezioni apprese attraverso la costituzione di svariati comitati (impiegando un totale di ben cinquecento ufficiali) responsabili di valutare minuziosamente la prestazione dell’esercito durante la recente guerra, individuare le cause della sconfitta tedesca e proporre le soluzioni ritenute più opportune. La circolazione delle idee era favorita e stimolata anche attraverso numerose riviste professionali come Wissen und Wehr, Deutsche Wehr e Das Militaer Wochenblatt. La dottrina venne completamente revisionata e rifondata sull’idea centrale di una moderna Bewegunskrieg (guerra di movimento) e le idee a corollario di Stosstruppen (truppe d’assalto), Schwerpunkt (concentrazione degli sforzi su fronte ristretto), Kesselschlacht (penetrazione, avvolgimento, accerchiamento e annientamento). Nel 1933 fu diramata la versione finale della pubblicazione “Truppenführung” (condotta delle truppe), che raccoglieva le lezioni apprese nella Prima guerra mondiale e la sperimentazione di nuovi concetti di impiego degli anni ’20. Il processo di evoluzione dottrinale iniziato da Seeckt fu concluso con la pubblicazione Führung und Gefecht der verbundenen Waffen (Leadership e combattimento dei complessi interarma) del 1921. In cronica carenza di risorse finanziarie, l’esercito germanico condusse numerose e poco costose esercitazioni per i quadri/posti comando, ampiamente discusse e analizzate al termine delle attività. Ma incentivò anche esercitazioni creative con simulacri di mezzi corazzati (non avendo i carri armati) per sperimentare sul terreno le tattiche e le procedure previste dalla nuova dottrina. Dal fermento culturale istituzionalizzato emersero figure chiave dell’intellettualismo militare del tempo come Volckheim, Fritsch, Blomberg e Beck, responsabili poi del processo di meccanizzazione della forza armata. Il sistema generò però anche eccellenti comandanti tattici come Mainstein, Model, Kleist, Rommel, Guderian e Balck, in grado di trasformare il pensiero in azione. All’inizio dell’operazione Barbarossa, i rapidi successi ottenuti in Polonia, Francia e Unione Sovietica dimostrarono la straordinaria riuscita del programma di riforme iniziato da von Seeckt nel 1919 e rappresentano ancora oggi un valido esempio di quali benefici si possano acquisire favorendo lo sviluppo creativo di nuove idee. Un’eccezionalità sottolineata dal generale britannico Fraser: «La prestazione militare della Wehrmacht durante tutta la guerra è stata saltuariamente eguagliata e solo in rarissime occasioni superata»(14). DISOBBEDISCO? Nulla è il pensare, tutto è l’agire (15). Napoleone Bonaparte sosteneva che anche le migliori teorie hanno una scarsa utilità se non trasformate in azione. La dottrina è la base su cui si fondano l’addestramento, la formazione e la condotta delle operazioni. Se è inadeguata, obsoleta o, peggio, confusa, tutta l’organizzazione ne soffre e le conseguenze possono essere gravissime. Confrontiamo, ad esempio, due alternative dottrinali relative a un tema centrale come il Comando e Controllo. «Il Re l’ha nominata

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Maggiore poiché riteneva Lei sapesse quando fosse opportuno non obbedire»(16). Il saggio del 1860 da cui è tratta questa citazione, racconta di un Ufficiale che giustificava la propria inazione sul campo di battaglia con il suo obbligo di rispettare gli ordini ricevuti di non muoversi. La manovra, però, è in costante evoluzione, l’area dei combattimenti è sempre caotica, gli ordini possono diventare inadeguati a causa della variazione repentina degli eventi, le comunicazioni possono essere interrotte o le forze nemiche possono svelarsi all’improvviso in posizioni inaspettate. Già nel 1860, a seguito della riforma dell’Esercito prussiano guidata da Scharnhorst precedentemente illustrata, la dottrina prussiana individuava la soluzione al problema della direzione delle operazioni nel normale caos della battaglia nell’Auftragstaktik (17), ossia nel garantire ampi margini di libertà d’azione ai subalterni, lasciando loro l’autorità di decidere autonomamente, pur nel rispetto dell’intento del Comandante superiore, quando fosse necessario disobbedire per cogliere tempestivamente un’opportunità favorevole o reagire immediatamente a una minaccia imprevista. L’errore di omissione veniva dunque considerato molto più grave dell’errore di commissione. Nel 1915, Il Generale Cadorna evidenziava invece che: «Sola è feconda in manovra quella libertà d’azione che si esplica entro l’ambito degli ordini superiori assecondandoli; oltrepassarli significa disobbedire e l’obbedienza – base incrollabile della disciplina militare - non tollera restrizioni o menomazioni di sorta» (18). Appare evidente la differenza di approccio dottrinale. In questo passaggio della Circolare del Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito relativa all’attacco frontale veniva esplicitamente proibita qualunque deviazione rispetto agli ordini ricevuti, senza alcuna deroga. Non era consentita alcuna libertà d’azione ai subalterni che erano considerati solo esecutori

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passivi delle superiori disposizioni. La soluzione prospettata per la gestione tattica delle operazioni era dunque quella di accentuare il controllo (Bef e h l s t a k t i k ) (19), n o n r i d u r l o . L’errore di commissione, non quello di omissione, portava quasi certamente davanti alla corte marziale e sovente di fronte al plotone d’esecuzione. La sconfitta italiana di Caporetto nel 1917, causata in parte proprio dalla rigidità del sistema di Comando e Controllo italiano durante la battaglia, in confronto con l’agilità e la flessibilità di quello tedesco, mostra chiaramente le possibili conseguenze di principi dottrinali inadeguati. Non è però sufficiente l’adozione di una buona filosofia di Comando. Né può bastare l’elaborazione di buoni manuali di tattica per costruire Forze Armate efficienti. Come mostra il caso sopra commentato della Germania tra le due guerre, è necessario un processo di sviluppo concettuale che nel citato caso tedesco è stato particolarmente efficace grazie a uno sforzo collettivo. Il talento individuale di brillanti Ufficiali è stato certamente fondamentale ma non determinante. La nuova Dottrina è emersa in un’atmosfera costruttiva in cui le idee e le intuizioni sono state condivise, interiorizzate nel sistema e provate sul campo, non arbitrariamente imposte dall’alto. Non rifletteva quindi solo il pensiero dello Stato Maggiore o del ristretto numero di «intellettuali» che l’hanno elaborata, bensì l’opinione generale del Corpo Ufficiali, fino ai minori livelli, nonché dei Sottufficiali e dei soldati che dovevano poi applicarla concretamente in battaglia. Concludo la mia breve dissertazione sul tema proposto, che certamente meriterebbe più ampi approfondimenti, con un auspicio che rappresenta anche un’esortazione: «Impariamo a pensare allo stesso modo relativamente ai principi generali, e quando ci riusciremo ... anche [noi] possederemo una Dottrina»(20). *Tenente Colonnello

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NOTE (1) C. von Clausewitz, «Della Guerra», Mondadori, Milano 1997, pp. 299-300. (2) Un eccellente esempio dell’importanza di stabilire procedure efficaci anche nel combattimento individuale si può trovare nella storia del maestro di scherma spagnolo Jeronimo Sanchez de Carranza (1539-1600), fondatore della celebre scuola della Verdadera Destreza (Vera Destrezza). Il maestro pubblica nel 1569 il Filosofia de las Armas y de su Destreza y la Aggression y Defensa Cristiana, in cui racchiude i suoi insegnamenti basati sulla conservazione dell’energia e lo sfruttamento della geometria per sopraffare l’avversario. (3) Gen. C. C. Krulak, premessa al USMC MCDP-1, Warfighting, 1997. (4) «Adattare il Sapere alla Guerra», motto della Scuola di Applicazione e d’Arma di Torino. (5) Richard Holmes, cit. in UK Army Doctrine Primer (2011), pp. 1-4. (6) Comandante Rouyer, cit. in G. Darrieus, «War on the Sea, Strategy and Tactics», 1880. (7) Nella categoria degli «intellettuali» dell’era moderna, possiamo ricordare tra i primi grandi classici: Machiavelli, Maurizio di Nassau, Gustavo Adolfo, Montecuccoli, Vauban, Federico il Grande, Guibert, Jomini, Clausewitz, Mahan e Douhet. Nella categoria dei «combattenti»: gli stessi Maurizio di Nassau, Gustavo Adolfo, Montecuccoli e Federico il Grande, nonché Tourenne, Eugenio di Savoia, Napoleone Bonaparte, Nelson, R. E. Lee e Grant. (8) Uno dei libri più influenti sulla storia militare navale, già nel suo tempo, equivalente al «Della Guerra» di Clausewitz quale fonte per la Dottrina delle forze navali. (9) L. Matthews, The Uniformed Intellectual and His Place in American Arms, Part I, «Army Magazine», August 2002. (10) C. von Clausewitz, «On War», p. 97. (11) Tra i membri principali: il Primo Ministro Barone Karl von Stein, il Generale Gerhard von Scharnhorst, il Colonnello August von Gneisenau, il Maggiore Carl von Grolman e il Maggiore Hermann von Boyen. Al tempo, Karl von Clausewitz era un giovane Capitano e partecipò alle attività ricoprendo l’incarico di assistente del Generale Scharnhorst. (12) Nella Kriegsakademie (Scuola di Guerra) fondata da Scharnhorst nel 1810, ogni anno venivano ammessi solo 150 Ufficiali. Questi ultimi, al termine del corso, venivano poi impiegati in prova allo Stato Maggiore per 2 anni, al termine dei quali solo 3 o 4 venivano selezionati per restare permanentemente in servizio allo SM. (13) In realtà, essendo stato abolito lo Stato Maggiore, ricopriva l’incarico di Chef der Heeresleitung (Comandante dell’Esercito). (14) David Fraser, «And We Shall Shock Them: British Army in Second World War», Cassel Military Paperbacks, 1999. (15) Napoleone Bonaparte. (16) Prince Friedrich Karl of Prussia, «The Origins and Development of the Spirit of the Prussian Officer», 1860. (17) Letteralmente «tattica per missioni». Meglio traducibile come «comando decentralizzato». (18) Circolare n. 191 del 25 febbraio 1915 del Comando del Corpo di Stato Maggiore, Attacco frontale e ammaestramento tattico. (19) Letteralmente «tattica per ordini». Meglio traducibile come «comando centralizzato». (20) Citazione tratta da: G. Darrieus, «War on the Sea, Strategy and Tactics», 1880. Nel testo originale dell’opera, l’autore incoraggia gli Ufficiali della Marina francese del suo tempo a colmare le carenze nel campo della standardizzazione dottrinale.

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Dottrina

CICLO DI ESERCITAZIONI «IRON PUNCH 2013» I

l 2° Comando delle Forze di Difesa (2° FOD), sulla scia dei successi ottenuti con le esercitazioni «Eagle Punch» 2011 e 2012, ha previsto per il 2013 un ciclo di esercitazioni per i reparti dipendenti, denominato «Iron Punch», caratterizzato da uno scenario operativo comune, ideato in ambito NATO per sviluppare i sistemi di Comando e Controllo delle unità esercitate. «Eagle Punch», infatti, nasceva dall’intento del Comandante del 2° FOD, Generale C.A. Vincenzo Lops, secondo il quale i moderni reparti devono essere «… orientati a condurre operazioni full spectrum, condizionati dalla situazione di incertezza economica e responsabili “morali” della preparazione del soldato del sistema 2° FOD, oggi siamo ulteriormente chiamati a fare il massimo con quello che si ha…». Come era facile attendersi, la complessità e il grado di difficoltà del nuovo ciclo addestrativo sono incrementati notevolmente. Questo miglioramento è dovuto anche al fatto che, nelle precedenti analoghe «Eagle Punch», i Comandi reggimento dipendenti dalle Brigate esercitate (Primary Training Audience - PTA) venivano impiegati solo per la realizzazione delle necessarie Cellule di risposta (Lower Control - LOCON). Mentre l’attuale «Iron Punch» prevede che le Response Cell (RC) siano anch’esse esercitate nella veste di Secondary Training Audience (STA). Ciò ha rappresentato, una sfida avvincente per le unità operative del 2° FOD, impiegate oggigiorno nei difficili scenari mondiali. Per di più, coerentemente con la prevista riconfigurazione della Forza Armata, e nell’ottica dell’ottimizzazione delle risorse, non è escluso che il Comandante della Divisione «Acqui», Generale D. Roberto

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di Generoso Mele*

Questo ciclo di esercitazioni, previsto per il 2013, ha rappresentato una nuova avvincente sfida per le unità operative del 2 o FOD impiegate nei difficili scenari internazionali. Un momento di crescita professionale, un vero e proprio valore aggiunto in campo operativo dove una interessante dialettica su procedimenti e dottrina ha rappresentato il vero «punto di forza».

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D’Alessandro (responsabile della pianificazione e della condotta delle «Iron Punch») preveda un momento formativo con più Brigate interessate contemporaneamente. Lo scopo delle esercitazioni è stato, infatti, quello di addestrare i Comandanti e lo staff delle Brigate nella pianificazione e nella condotta di Operazioni militari, ponendo in modo particolare l’accento sull’Operational Planning Process, ovvero su quella delicata fase in cui, dopo un’analitica analisi della situazione contingente e della missione ricevuta, si giunge all’elaborazione di

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Personale del Comando della Divisione “Acqui” durante la condotta dell’esercitazione

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un ordine operativo (OPORDER Operational Order) con il quale vengono emanati ordini e vincoli ai reparti dipendenti. In generale, gli obiettivi che il 2° Comando delle Forze di Difesa si è prefisso, sono stati: • innalzare la qualità dell’amalgama in ambito staff; • migliorare la conoscenza e l’applicazione delle procedure di pianificazione utilizzate in ambito NATO; • affinare la conoscenza della lingua inglese, prevedendola quale «working language» per l’esercitazione; • mettere in atto le procedure operative e le modalità di cooperazione tra le unità di Arma/Specialità differenti; • verificare e sviluppare le capacità del sistema di Comando e Controllo in tutte le unità esercitate; • acquisire una maggiore disinvoltura nell’applicazione del nuovo Manuale di “Pianificazione delle Operazioni Militari Terrestri” ed. 2011, sino al livello reggimento. Tale manuale rappresenta il punto di arrivo di un processo di cambiamento che ha interessato gli scenari operativi e le Operazioni stesse che impegnano il personale italiano nelle missioni fuori dal territorio nazionale. Oggigiorno, infatti, il contesto in cui lo Strumento Militare è impiegato è caratterizzato da notevole complessità e dalla cosiddetta non linearità. La Forza Armata opera, infatti, in ambienti in cui la minaccia è multisfaccettata, in cui gli attori in gioco sono numerosi e con interessi differenti. Si pensi solo al caso dell’Afghanistan in cui, accanto all’Esercito Italiano, operano le Forze Armate di svariati altri Paesi (ponendo il problema della coordinazione), oltre che Organizzazioni Internazionali (IOs), governative (GOs) e non governative (NGOs). Tali caratteristiche, congiuntamente alla crescente importanza assunta dalla popolazione civile presente nell’area d’intervento e all’impiego in Operazioni dello Strumento Militare, quale parte integrante di un sistema di leve di potere espresso dal Paese/Alleanza (1), hanno imposto la revisione del Processo di Pianificazione. In questo modo, inoltre, si è voluto dotare la Forza Armata di un documento unico per la pianificazione delle Operazioni del livello tattico (dal Corpo d’Armata al Gruppo Tattico), che sostituisse il «Manuale Applicativo del Processo Decisionale e di Pianificazione» (PDP) ed. 2000, e che risultasse più coerente con il nuovo metodo sviluppato dalla NATO e noto come COPD (Comprehensive Operational Planning Directive). In sostanza, si tratta della codificazione, sotto forma di manuale, di un processo logico deduttivo che si basa su un approccio multidimensionale e integrato e che prende in considerazione gli effetti (cinetici e non) che si vogliono conseguire, i quali discendono in modo naturale dagli obiettivi settati quale traguardo da Fig. 1

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raggiungere. Il mese di maggio 2013 è stato il punto di partenza di questo ciclo addestrativo, vedendo svolgersi, tra San Giorgio a Cremano e Sassari, la prima di tre Command Post Exercise (CPX) del 2013. L’attività ha interessato la Divisione «Acqui» e la Brigata «Sassari». Il Comando Divisione ha svolto il ruolo di Higher Control (HICON). Al centro del sistema addestrativo, quale Primary Training Audience, ha operato la Brigata «Sassari» che ha stabilito il suo Posto Comando presso la caserma «Ficuciello» in Sassari. La Brigata ha preso parte all’esercitazione insieme ai suoi reggimenti che hanno schierato a San Giorgio a Cremano delle Response Cells, impiegate nell’ambito del Lower Control. Il supporto inerente alle trasmissioni e alle comunicazioni è stato fornito dal 232° Reggimento Trasmissioni (fig. 1). Fig. 2 Lo Spettro dei Conflitti

ESCALATION

L’esercitazione, inserita come già specificato in un progetto addestrativo più ampio, volto a incrementare le capacità dei Comandi nella pianificazione e nella condotta di Operazioni, («Top–Down» Concept), ha rappresentato un importante momento di crescita professionale per tutti i partecipanti, fornendo un notevole valore aggiunto nella sfera delle Operazioni ad «alta intensità», ovvero in quel tipo di attività che possono essere ricomprese nell’ «Articolo 5» del Trattato dell’Alleanza Atlantica. Come è noto, infatti, le Operazioni in cui lo Strumento Militare è coinvolto, si collocano, nell’ambito dello spettro dei conflitti (fig. 2), in un’area compresa tra la pace e la guerra. È in questa porzione in-

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Fig. 3

termedia che si sviluppa la maggior parte delle Operazioni militari del XXI Secolo e, proprio in questo settore, si collocano le cosiddette «Non Art. 5 Crisis Response Operations» («NA5CRO» (2)). Si tratta di Operazioni organizzate in risposta a una crisi, a una situazione di instabilità, e volte a ristabilire delle condizioni minime di sicurezza affinchè gli organi politico-militari preposti alla guida di quel determinato Paese in cui sono condotte si riapproprino delle proprie funzioni. Si pensi al Teatro afgano dove i militari italiani, nell’ambito dell’Organizzazione dell’Alleanza Atlantica, contribuiscono alla stabilizzazione di un Paese in cui le forze insurrezionali cercano di sovvertire l’ordine istituzionale e l’autorità politica eletta. Proprio alla luce di questi scenari di riferimento, caratterizzati, come si è già detto, da alta instabilità, da imprevedibilità, da asimmetricità e considerando un potenziale impiego dello Strumento Militare in Operazioni tradizionali di tipo «war» al momento piuttosto improbabile dato l’attuale quadro geopolitico mondiale, il focus dell’addestramento delle unità dei Paesi dell’Alleanza è principalmente orientato sulle Tactics, Techniques and Procedures (TTPs) tipiche delle Crisis Response Operations (CRO). Ciò nonostante, però, come si evidenzia anche nello «Strategic Concept for the Defence and Security of the Members of the North Atlantic Treaty Organisation» del 2010, la minaccia convenzionale non può essere ignorata e soprattutto, data l’imprevedibilità e il repentino cambiamento di contesti e situazioni, nessuno può affermare con certezza che la situazione non possa tornare, prima o poi, al pre-undici settembre 2001. Ciò significa che vanno comunque preservate quelle capacità di condurre Operazioni di tipo «convenzionale», mantenendo vive procedure e meccanismi tipici del «Warfighting». Fatte queste considerazioni appare subito evidente, in una fase in cui l’addestramento è, come si diceva, mission oriented, quanto sia stata importante l’occasione fornita dal 2° Comando delle Forze di Difesa di spendere un’intera settimana «rinfrescando» procedure e dottrina caratterizzanti le Operazioni «ART. 5». Del resto, nell’ambito della Linea di Sviluppo (LoD - Line of Development) inerente al training dei Comandi, prevista nel Concept of Operations (CONOPS) del Comandante del 2° FOD, si dice chiaramente che le situazioni addestrative (Situational Training Exercise – STX) debbano essere legate al Full Spectrum of Operations, prevedendo, dunque, anche attività addestrative incentrate su scenari di tipo War. Questa volontà e questo fermo convincimento hanno rappresentato i pilastri su cui poggia il ciclo addestrativo «Iron Punch 2013». Nella prima fase, residenziale, la Brigata interessata e i reparti da essa dipendenti, si sono cimentati in una «Esercitazione Quadri»

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(EQ), volta a mettere in risalto gli aspetti salienti e le procedure cardine del processo di pianificazione. La Brigata «Sassari», nel ruolo della Grande Unità Elementare impegnata nel main effort dell’operazione, partendo dal CONOP (Concept of Operation) sviluppato dalla Divisione «Acqui», ha elaborato un proprio Operational Plan (OPLAN) e successivamente un Operational Order (OPORDER) delineando la propria manovra coerente con gli obiettivi d’esercitazione. La seconda fase, invece, svoltasi nel mese di maggio 2013, dedicata alla condotta dell’Operazione, ha visto il Comando Brigata «Sassari» mettere in atto il piano d’azione e attivare le procedure di Comando e Controllo (C2) in un entusiasmante confronto operativo con le Opposing Forces (OPFOR) reso adeguatamente realistico con una serie di attivazioni provenienti dall’HICON e dai LOCON. Proprio il grande numero di «eventi» creati ad hoc dalla DIREX (Exercise Direction), generando (appositamente) una scollatura tra quanto pianificato dalla Brigata e quanto invece emergeva in fase giocata, ha permesso di esercitare il personale a fronteggiare situazioni impreviste, ad attuare procedure di emergenza, a reagire secondo schematismi codificati, a ripianificare sul momento, a prendere le decisioni ritenute più opportune in un lasso di tempo evidentemente limitato. Molto interessante, e particolarmente efficace, è stato il coordinamento tra il PC di Brigata e le RC, avvenuto attraverso una serie di sistemi che hanno impedito, nonostante la concitazione delle attività (quella che in operazioni reali è denominata fog of war), di perdere il contatto tra la postazione Comando e le unità alle dipendenze, permettendo un costante e armonico scambio di disposizioni/informazioni sulla linea di comando (fig. 3). Ciò è stato anche possibile grazie all’utilizzo di sistemi informatizzati di Comando e Controllo quali il «SIACCON» (Sistema Automatizzato di Comando e Controllo), su cui so-

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Enemy line-up

Fig. 4

no state opportunamente caricate mappe e unità amiche e nemiche, che ha permesso un costante monitoraggio della situazione e un controllo effettivo sulla posizione delle unità. Un altro importante tool a disposizione dei partecipanti è stata la «JCHAT», già sperimentata nella realtà nel Teatro Operativo afghano e confermatasi un validissimo strumento in grado di permettere, con immediatezza, un continuo e regolare flusso di informazioni. Molto interessante è stato, inoltre, l’utilizzo del «LOGFAS» (3) (fig. 4 – Enemy-Line up), che permetteva di conoscere, in tempo reale, la situazione logistica e le eventuali perdite subite in battaglia. Un riferimento, infine, lo si vuole dedicare all’utilizzo del «ROC DRILL», la sala situazione allestita dalla DIREX che, a mio avviso, ha costituito un validissimo strumento di lavoro. Si tratta di un active center dove, in fase di rehearsal, i responsabili di ogni cellula funzionale, insieme al Comandante, si riuniscoFig. 5

Scheme of Manouvre

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no attorno ad una grande carta della situazione posizionata al centro, sulla quale è possibile ricreare le posizioni delle unità sul terreno avendo, immediatamente, la percezione della situazione operativa. Nel caso specifico della «Iron Punch», la carta (fig. 5 – rappresentazione grafica della manovra), opportunamente rivestita e posizionata sul pavimento, permetteva all’interlocutore di turno di camminare fisicamente su di essa, muovendo le «pedine» e spiegando molto efficacemente e intuitivamente l’azione o la manovra di volta in volta considerata. Ciò ha costituito un grande valore aggiunto sia per le RC, potendo i vari partecipanti all’attività addestrativa essere fattivamente coinvolti in quello che si pianificava e in quello che avveniva, avendo una chiarissima idea della modalità di svolgimento della manovra, sia per l’HICON e la DIREX che potevano simulare in anticipo la consequenzialità delle attivazioni, avendone un più concreto riscontro della fattibilità e potendo meglio valutare i potenziali effetti da conseguire. In generale, comunque, se il primo momento addestrativo, incentrato sul processo di pianificazione, ha avuto una notevole importanza, avendo permesso a tutto lo Staff del Comando Brigata e dei reggimenti dipendenti di oleare metodologie e procedure e di giungere, attraverso un articolato percorso di analisi, a una soluzione operativa del problema posto, il secondo momento, a maggior ragione, si è rivelato un vero e proprio banco di prova, che ha permesso a tutti, indistintamente, di confrontarsi in modo attivo, generando un ciclo virtuoso di lezioni identificate rivelatesi poi fondamentali nel percorso di crescita professionale di ogni partecipante. Con l’esercitazione, in definitiva, si sono conseguiti gli obiettivi proposti inizialmente. Essa ha rappresentato una preziosa opportunità per migliorare le conoscenze sulle procedure nazionali e NATO, ha incrementato la capacità di coordinamento e di interrelazione tra Staff e Posto Comando, ha premesso di evidenziare gli aspetti dottrinali del processo decisionale in contesti ad

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alta intensità, offrendo l’occasione ai vari componenti dell’Operational Planning Group (OPG) di integrarsi e di cimentarsi in un’attività complessa. È stata un’occasione per far emergere quelle fisiologiche problematiche che occorrono nell’ambito delle Operazioni e in Organizzazioni complesse, dove gli attori in gioco sono molteplici e l’End State finale, invece, unico. In tale ottica, l’hot wash up, che ha interessato sia il Posto Comando di Brigata, con il Comandante collegato in videoconferenza con l’EXDIR (Exercise Direction), sia tutti i partecipanti, ha rappresentato il coronamento finale di un’esercitazione ben riuscita. Sia il Posto Comando che le RC, come anche la DIREX, hanno avuto modo di commentare i punti di forza dell’attività e di evidenziare le sfumature da migliorare, creando un’interessante dialettica su procedimenti e dottrina che ha rappresentato un momento di altissimo spessore addestrativo. *Tenente Colonnello

NOTE 1) L’impiego dello Strumento Militare è solo una delle leve di potere che un Paese può attivare. Accanto a esso, vi è lo Strumento Diplomatico, Informativo ed Economico (DIME). 2) Le cosiddette «Operazioni di risposta alle crisi» (NA5CRO, secondo l’acronimo anglosassone), comprendono le Peace Support Operations (Peacekeeping, Peace Enforcement, Conflict Prevention, Peacemaking, Peace Building) e le «Other non-article 5 Crisis Response Operations» (Support to Humanitarian Operations, Support of Disaster relief, Search and Rescue Operations, Support to Non-Combatant Evacuation Operations, Extraction Operations, Military AID/Support to Civil Authorities, Enforcement of Sanctions), Pub. SME n. 6666 EI-1A «La Dottrina dell’Esercito Italiano», edizione 2002, pag. 27. 3) Il LOGFAS è una suite di applicativi racchiusi in un unico software usato in ambito NATO/EU/UN per assistere/coadiuvare la gestione di ogni aspetto legato alla logistica di forze militari nazionali o di coalizione. È caratterizzato da un Data Base (DB) comune, dalla presenza di 11 applicativi differenti in costante aggiornamento, una elevata flessibilità e una minima complessità dovuta alla particolare struttura del programma e all’uso della lingua inglese. In particolare permette: la pianificazione/valutazione delle risorse logistiche necessarie e dell’endurance mediante l’applicativo SPM, la pianificazione del deployment delle forze nazionali, sotto coordinamento NATO (AMCC) e COI (JMCC) attraverso ADAMS, la gestione dei movimenti e trasporti in Teatro di Operazione sotto il coordinamento del Comando della Forza attraverso EVE e CORSOM, il riporto della situazione logistica e il coordinamento dei rifornimenti tattici delle Operazioni con il LOGREP e SDM, l’elaborazione del calcolo delle risorse belliche di munizionamento maggiore (Battle Decisive Munition: BDM) da accantonare a cura della nazione tramite ACROSS, l’elaborazione del calcolo delle risorse belliche di munizionamento minore, combustibili e classe I (sussistenza) da accantonare a cura delle Nazione, necessarie per affrontare la durata delle Operazioni tramite SPM, la visione geografica delle unità, itinerari, POE e POD mediante il GeoMan.

Personale del Comando della Divisione “Acqui” nella veste di Comando svolgimento HICON (Higher Control)

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STRIKER FIRED O HAMMER FIRED? UN CONFRONTO TRA SISTEMI L’articolo delinea l’evoluzione delle armi corte dotate del “congegno di percussione per lancio” (in inglese striker fired pistols), evidenziando come questa soluzione progettuale, dopo un iniziale abbandono dovuto a problemi tecnologici, sia stata recuperata con successo, impiegando tecnologie moderne e valorizzando le esigenze degli utilizzatori professionali delle armi da fuoco. Lo scritto evidenzia altresì alcuni limiti intrinseci delle armi a percussore lanciato, effettuando un confronto con un’arma dotata di “congegno di percussione a cane” (hammer fired pistol) di produzione nazionale. L’articolo riporta esperienze condotte con armi di proprietà dell’autore e contiene foto originali.

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a suscitato interesse nell’ambiente militare l’adozione da parte delle forze armate britanniche, della pistola Glock 17 generazione 4 (G17 Gen4). A oltre trent’anni dalla fondazione della ditta di Deutsch Wagram (località nei pressi di Vienna), questa notizia offre lo spunto per riflettere sulle ragioni del suo successo. Le caratteristiche che contraddistinguono sin dall’inizio le armi Glock sono due: l’uso di materiale plastico per la costruzione del fusto (al posto dell’acciaio o della lega d’alluminio) e l’impiego di un “congegno di percussione per lancio”, per realizzare quelle che gli americani chiamano striker fired pistols. Il percussore lanciato sembra un particolare di sola valenza tecnica, ma è denso di risvolti operativi verificati con la Steyr M9-A1, arma striker fired non così famosa come quella già citata, ma altrettanto interessante. Il confronto critico sarà con la pistola Beretta PX4, un’arma hammer fired (anch’essa con fusto polimerico) nuova esponente nazionale tra le armi ad azione mista a cane esterno.

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di Fabio Zampieri*

CENNI STORICI L a Roth-Steyr 1907, selezionata per la cavalleria dell’esercito austro-ungarico (foto 1 e 2) fu una delle prime pistole semiautomatiche a essere adottata in grande numero. Quest’arma realizzava la percossa dell’innesco tramite un percussore spinto (o lanciato) da una molla: agendo sulla leva di sparo si provocava l’arretramento del percussore e il suo successivo rilascio. Affetta da diversi inconvenienti, la Roth-Steyr fu presto sostituita dalla SteyrHahn 1912, che abbandonava il percussore lanciato per un più comune congegno a cane esterno. Le armi corte semiautomatiche di questo tipo si affermarono negli anni, diventando lo standard accettato per l’uso militare. Nella foto 2, un disegno tecnico della Roth-Steyr, si nota come le dimensioni dell’impugnatura possano essere ridotte sino a conte-

Foto 1. La pistola Roth-Steyr 1907

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nere le sole cartucce, ottenendo un calcio stretto e buono anche per mani piccole. Un cambiamento inaspettato giunse nel 1981, quando fu fondata la società austriaca Glock; poco dopo vinse infatti la gara per la fornitura di pistole alle forze armate e di polizia austriache, con la prima versione del modello 17 (foto 3, a confronto con una moderna G17 Gen4 – foto 4). La nuova arma riutilizzava il percussore lanciato, reinterpretando in chiave moderna un progetto che sembrava ormai abbandonato. In pochi anni le maggiori case produttrici di pistole si dovettero confrontare con la nuova pistola e alcune decisero di convertire la produzione implementando lo stesso tipo di congegno di percussione. Vediamo cos’è il percussore lanciato e quali vantaggi può dare. IL PERCUSSORE LANCIATO

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Foto 2. Si notano le ridotte dimensioni trasversali del calcio e il percussore lanciato

Foto 3 e 4. La Glock 17 primo modello, come adottata dalle Forze Armate austriache, a confronto con l’ultima versione, detta “generazione 4” (Gen4)

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Molti lettori della Rivista Militare avranno familiarità con la famosa pistola Beretta 92F e sapranno che essa dispone di un cane esterno che (sotto l’azione di una molla collocata nell’impugnatura dell’arma) quando rilasciato colpisce il percussore, consentendo la partenza del colpo se camerato. Nel progettare un congegno di percussione, il punto fondamentale è garantire al percussore l’energia sufficiente a far detonare l’innesco della cartuccia. Energia che può essere ottenuta semplicemente facendo spingere il percussore da una molla ad esso coassiale, evitando così l’uso del cane o di una

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Tecnica

Foto 5. Una pistola Steyr M1-A1 parzialmente smontata. Si nota, in alto, il percussore con la sua molla di lancio

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Foto 6 e 7. L’arma di sinistra si può impugnare molto in alto e consente un comodo accesso al grilletto. La presenza del cane (arma di destra) comporta ingombri verticali e orizzontali maggiori

massa battente. Nella foto 5 si può vedere il percussore di una moderna pistola Steyr con la sua molla di lancio. Che vantaggi dà un sistema del genere rispetto a uno hammer fired? Potremmo sintetizzarli individuandone due: svuotare l’impugnatura dalla molla cinetica del cane e dagli elementi collegati (porta-molla, tappo) e liberare il fusto dalla presenza del cane stesso. Il primo aspetto consente di ridurre le dimensioni trasversali del calcio, sagomandolo ergonomicamente senza i vincoli dovuti alla presenza della molla e degli altri componenti. L’assenza del cane permette invece di abbassare l’asse del carrello rispetto alla mano (ottenendo un rinculo molto più lineare con minore rilevamento), a tutto vantaggio della velocità di ripetizione dei colpi.

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Foto 8. La pistola Steyr M9-A1 oggetto dell’articolo Foto 9. L’arma si trasforma facilmente in una pistola carabina Foto 10. La Steyr M9-A1 al poligono

Le foto 6 e 7 danno invece un’idea dell’ingombro verticale imposto dalla presenza del cane, che costringe più in basso la mano del tiratore rispetto all’arma priva di cane. Si potrebbe obiettare: belle teorie, ma in pratica? Scopriamo allora la Steyr M9-A1.

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LA STEYR M9-A1

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Raffigurata in foto 8, quest’arma si inserisce tra le numerose imitazioni delle pistole Glock presentate negli ultimi anni. Un successo che ha indotto molte case storiche a produrre armi a percussore lanciato con fusto in plastica e ha determinato la nascita di nuove marche. Solo per citarne alcune, ricordiamo tra le firme classiche Walther (PPQ e PPS) e Smith &Wesson (MP), Caracal (F e C) tra quelle apparse di recente. L’arma della Steyr mantiene le sue promesse: l’impugnatura si adatta bene a tutte le mani mentre l’asse della canna è veramente basso sulla mano. Nell’impugnatura (che contiene virtualmente solo il serbatoio) è stato ricavato un vano che consente il montaggio di un calcio. La pistola si trasforma così in una sorta di carabina o in quello che gli americani chiamano short barreled rifle, aumentando la facilità d’uso e la latitudine d’impiego dell’arma (foto 9). Il rinculo è lineare e il rilevamento davvero basso. Nel complesso, l’arma è molto tattica: viene naturalmente in punteria; è quasi il prolungamento del braccio; facilita sia il tiro puntato alle brevi distanze (point shooting) che il tiro mirato alle medie (rosata in foto 10). Il meccanismo di sparo prevede una sola modalità di funzionamento dal primo all’ultimo colpo e la forza di

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Tecnica

Foto 11. Il pacchetto di scatto si separa dall’arma senza bisogno di attrezzi

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trazione da esercitare sul grilletto è intorno ai 2,5 kg, con un reset (cioè la corsa del grilletto in avanti, necessaria al riaggancio della catena di scatto dopo la partenza di un colpo) molto corto. Questa modalità unica di funzionamento enfatizza le caratteristiche tattiche dell’arma, consentendo al tiratore di prendere confidenza e concentrarsi sul bersaglio e non sulla pistola. Lo scatto è del tipo roll over, con un progressivo armamento e quindi rilascio del percussore che, se rende perplessi gli aficionados degli scatti tradizionali, si dimostra più gestibile. Niente sicure facoltative, ma tre automatiche (di cui l’unica visibile esternamente è sul grilletto). Nessuna possibilità di errore dunque e nessun bisogno di chiedersi se la sicura è inserita o meno e se si sta sparando in doppia o in singola azione. L’aver eliminato la molla del cane e gli elementi associati ha consentito di semplificare la struttura dell’arma (con benefici sulla facilità di manutenzione) rendendo il fusto un semplice contenitore di moduli. Senza bisogno di attrezzi, si può separare il pacchetto di scatto dal fusto (foto 11), portando tutti gli interventi correttivi per sostituzione di parti alla portata dell’utilizzatore.

di addestramento differenziati. La prima sensazione che coglie l’utilizzatore di una striker fired pistol è il senso di insicurezza che deriva dall’impossibilità di disarmare completamente il percussore a colpo camerato. Lo striker infatti è parzialmente armato dall’arretramento del carrello e così rimane finché non lo si scarica agendo sul grilletto. La modalità di scatto unico (“ad azione continua”, caratterizzata da un peso di circa 2,5-3 kg e da una corsa contenuta) espone concretamente al rischio di spari accidentali in caso di pressioni non volute sul grilletto. Ciò comporta l’obbligo inderogabile di portare l’arm a all’interno di una fondin a

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MA QUALCHE PROBLEMA C’È Nonostante le caratteristiche positive e la facilità d’uso, le pistole a percussore lanciato suscitano ancora perplessità, specialmente tra i tiratori più tradizionalisti. Alcuni aspetti le rendono sconsigliabili per un impiego generalizzato all’interno di organizzazioni formate da personale con livelli

Foto 12. La pistola Beretta PX4, tipo F, con canna da 4 e da 3,2 pollici. (foto dal sito Beretta.it)

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che protegga con sicurezza la guardia della leva di sparo, impedendo ogni contatto accidentale con quest’ultima. Particolare attenzione va posta anche nell’operazione di re-holstering (rinfoderamento dell’arma). Sono diversi infatti gli incidenti accaduti perché in questa fase elementi della fondina o del vestiario si erano impigliati nel grilletto. Le armi descritte richiedono uno sforzo di consapevolezza particolare e l’uso di elementi di equipaggiamento ad hoc. E possono difettare entrambi in assenza di un addestramento specifico e continuo e di una dotazione completa. Più rassicuranti sono le armi che impiegano congegni a cane esterno, azione mista e sicura abbatti-cane. È il caso della Beretta 92 di dotazione nazionale o la più moderna PX4. CONFRONTO CON LA PX4 La fabbrica d’armi Pietro Beretta ha introdotto nel 2004 una pistola con fusto in polimero che, funzionalmente simile al modello 92, presenta tuttavia caratteristiche che la rendono accessibile a una platea più ampia di utilizzatori (foto 12). Peso minore, presenza di dorsalini intercambiabili di diversa misura e una doppia azione più sfruttabile rispetto alla 92, che agevola la transizione doppia-singola. Quest’ultimo aspetto rende l’arma più user friendly, consentendo di doppiare senza problemi il colpo anche partendo con il cane abbattuto. Ho utilizzato la modello F, dotata di leva di abbattimento del cane con funzioni di sicura facoltativa, nella versione full size (con canna da 4 pollici) e compact (con canna da 3,2 pollici). L’impugnatura di entrambe presenta dimensioni più contenute della sorella mod. 92/98, diventando accessibile anche a mani piccole, comprese quelle femminili. La leva abbatti-cane è sagomata per ridurre il rischio di inserimento

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della sicura manovrando il carrello in velocità. Il carrello chiuso consente di armare la pistola con la tecnica della mano rovesciata (mano debole che serra il carrello dall’alto e mano forte che spinge l’arma) senza rischiare dolorosi pizzicamenti tra canna e carrello. Il feeling resta quello della gloriosa Beretta di ordinanza: pistola solida e tradizionale, sicura ed “educativa”, con in più i vantaggi del polimero (ergonomia, minore conducibilità termica rispetto alla lega di alluminio, maggiore resistenza alle abrasioni). Questa breve introduzione alle armi che impiegano un congegno di percussione per lancio mostra come un impianto che nasce nella belle époque con grande intuizione sia stato recuperato con coraggio quasi un secolo dopo, capitalizzando le tecnologie disponibili e avendo presenti le esigenze degli utilizzatori professionali. *Maggiore

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Tecnica

LEONARDO, GENIO NELL’ARTE DELLA GUERRA

di Sara Greggi*

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lle pendici del Montalbano, tra gli oliveti e i profumi della campagna, si trova una dimora rurale quattrocentesca, tipica del contado toscano. Qui ad Anchiano, frazione di Vinci, il 15 aprile 1452 è nato il più grande genio che l’umanità abbia mai conosciuto, estrema sintesi di creatività e scienza: Leonardo. Pittore, scultore, architetto, ingegnere, anatomista,

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Il celebre autoritratto di Leonardo (Biblioteca Reale di Torino)

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scenografo, inventore e musicista: Leonardo è personaggio versatile, dal talento universale e dalla genialità indiscussa. Uno dei primi scienziati naturali del tempo moderno, sintesi unica e forse irripetibile della sapienza umana, incarnazione dello spirito rinascimentale italiano. Leonardo è un interprete emblematico del nuovo spirito: “A me pare che quelle scienzie sieno vane e piene d’errori, le quali non sono nate dall’esperienzia, cioè che la loro origine, o mezzo, o fine non passa per nessuno dei cinque sensi. […] L’esperienzia è la madre di tutte le certezze. […] Nessuna umana investigazione si può dimandare vera scienza, s’essa non passa per le matematiche dimostrazioni. […] Mia intenzione è l’allegare prima l’esperienza e poi con la ragione dimostrare perché tale esperienza è costretta in tale modo a operare”. Il suo non è un metodo matematico rigoroso, come quello che si affermerà con la fisica galileiana, tuttavia intuisce l’importanza della pratica unita alla teoria. Tutto ciò che è nella mente senza passare attraverso i sensi è conoscenza vana. L’esperienza è la grande maestra da cui scaturisce ogni sapere umano. Attraverso l’osservazione empirica è possibile cogliere il mondo spirituale. Ciò spiega perché Leonardo consideri la pittura la scienza per eccellenza: il pittore deve conoscere molte discipline, come l’anatomia e la geometria, per penetrare nella natura e coglierne l’essenza. Lo studio della prospettiva e delle proporzioni, l’interesse per la geometria dei movimenti, la passione per le forme del corpo, tutto svela il profondo desiderio di cogliere la spiritualità. Ma anche la materia, che spazia dalla dissezione del corpo umano all’osservazione del volo degli uccelli. Degno di nota è l’interesse di Leonardo anche per le scienze biologiche. Fondamentale è il permesso concessogli da papa Giulio II di disseccare i cadaveri, per osservare la struttura del corpo e il funzionamento degli organi umani. Ma è nella meccanica che si dispiega nella sua interezza il genio assoluto di Leonardo. A lui si fa risalire lo studio del movimento sul piano inclinato, assunto come base per la spiegazione del volo degli uccelli e delle leggi della caduta dei gravi, nonché il principio di inerzia: “ogni moto naturale e continuo desidera conservare il suo corso per la linea del suo principio”. Dall’esperienza dei getti d’acqua ricava una curva parabolica che anticipa gli studi di Galileo e Newton: una scoperta decisiva per i suoi studi sulla forma e sulla traiettoria dei proiettili. Proprio dall’esperienza dei getti d’acqua Leonardo intuisce l’influenza dell’aria sulla traiettoria delle palle di cannone. Disegna così proiettili ogivali, straordinariamente moderni, che sfruttano la forma aerodinamica e le alette direzionali delle quali sono corredati. IL CARRO ARMATO E I PONTI MOBILI Notevole è stato il suo contributo nell'arte delle fortificazioni e nella costruzione delle armi. Leonardo considera la guerra una “pazzia bestialissima”, tuttavia dedica una parte rilevante della sua vita allo studio e all’analisi di armi e macchine belliche. Ciò può destare sorpresa solo se non si considera che Leonardo trascorse molti anni al servizio di alcuni dei maggiori Signori dell’epoca per i quali la guerra rappresentava uno strumento essenziale per la gestione del potere. Non è un caso che in una celebre lettera di presentazione a Ludovico il Moro, egli sottolinei le proprie doti di ingegnere militare proponendo potenti armi da fuoco,

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senza però tralasciare le macchine da assedio, le catapulte e altre invenzioni legate a una concezione più tradizionale della guerra. Leonardo si propone di migliorare e rendere più efficaci strumenti già esistenti, oltre a idearne di nuovi. Potenzia ad esempio cannoni e bombarde ancora molto rudimentali, come la bombarda multipla (una speciale casamatta capace di sparare a ripetizione proiettili su più fronti) e la bombarda a frammentazione (capace di lanciare proiettili esplosivi che in aria si frammentano cadendo a grappolo sui nemici). Il cannone con regolazione di alzata costituisce invece la sintesi perfetta della concezione dinamica della guerra: offre la possibilità di mettere a punto la traiettoria dei proiettili con una regolazione di alzata e la mobilità dello spostamento orizzontale del cannone. Novità interessante per l’epoca è l’uso della culatta mobile posteriore che accelera il caricamento rispetto al sistema tradizionale. Il cannone a vapore utilizza come propulsione proprio la potenza del vapore: quando la culatta è incandescente, atraverso una valvola n si immette dell'acqua che trasformandosi in vapore si espande rendendo possibile il lancio del proiettile. La potente arma viene costruita solo duecento anni dopo i disegni di Leonardo. Al genio toscano si attribuiscono anche le origini di uno dei mezzi simbolo della guerra di tutti i tempi: il carro armato. L’idea di un carro coperto capace di penetrare nelle file nemiche in realtà affonda le radici nel Medioevo, ma è solo con Leonardo che acquisisce concretezza. Nella famosa lettera con cui nel 1482 si presenta a corte scrive: “Posso costruire, poi, carri coperti, sicuri e inattaccabili, i quali col fuoco dei propri

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cannoni potranno penetrare tra i nemici senza che questi, per quanto numerosi, possano attaccarli. Dietro il carro potranno seguire le fanterie, in gran numero, illese e senza incontrare ostacoli […]”. Leonardo pensa a un carro pesante, a forma di testuggine, con una torretta interna per l’osservazione del campo di battaglia, armato di cannoni e rinforzato con piastre metalliche. A differenza di altri che hanno pensato a un movimento a vela, Leonardo concepisce un sistema di ingranaggi collegato alle ruote e azionato con manovelle da “8 houmini” all’interno, che possono muovere il carro in ogni direzione. In molti disegni di Leonardo ritroviamo anche l’idea di carro falciante, un elemento tradizionale dell’ingegneria militare sin dall’Impero romano. Proprio in uno dei manoscritti più belli di Leonardo, redatto forse per impressionare Ludovico il Moro, viene rappresentata questa micidiale arma da combattimento campestre. Trainati da cavalli in corsa, i carri falcianti sono dotati di lame taglienti azionate da una trasmissione che prende il moto dall'asse delle ruote. Sanno muoversi nella mischia e colpiscono a morte chiunque capiti vicino. Nel “Codice Atlantico” (la più ampia raccolta di disegni e scritti del genio toscano) vi sono molte rappresentazioni della catapulta, una delle più antiche e suggestive macchine da guerra. Leonardo la rende più potente grazie a piccole e mirate modifiche. In uno dei tanti progetti vi è un congegno a doppia balestra, capace di

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Il carro armato di Leonardo. Il disegno, realizzato a penna e acquarello è contenuto nel “Codice Arundel” attualmente conservato presso il British Library di Londra

produrre una considerevole quantità di energia. I proiettili, di pietra o di materiale incendiario, vengono scagliati a distanze notevoli. Le operazioni di carica sono effettuate attraverso una manovella posta sul lato della catapulta. Tra le armi tradizionali incluse nei progetti di Leonardo, la balestra gigante viene presentata come un’enorme macchina d’assedio e si pone come strumento offensivo dal potere

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destabilizzante. La sua funzione è quella di scagliare grandi dardi per seminare il panico fra i nemici. La corda di tiro può essere arretrata con un sistema meccanico e viene poi fatta scattare per percussioni o con una leva. Le sezioni lamellari ne aumentano la flessibilità e la potenza. Molteplici sono le tipologie di ponte mobile a rapido impiego progettate da Leonardo: poggiato su pali, ad arco, a campata unica, girevole e appoggiato su botti o barche. Di grande fascino è il ponte arcuato, uno di quei “ponti leggerissimi e forti” che lo scienziato promette nella sua lettera al Duca milanese. Leonardo escogita una geniale tecnica di incastro per mantenerlo saldamente in piedi, distribuendo le forze di carico in modo che i pezzi longitudinali si stringano a forbice su quelli trasversali, sfruttando così la sua forma arcuata. Destinato a scopi prettamente militari, è utile poiché permette scavalcamenti di fiume, spostamenti delle truppe veloci e inaspettati, assicurando così l’effetto sorpresa. Nel Codice Atlantico sono illustrate anche due versioni di ponte militare d’assalto. Inizialmente viene concepito per essere trainato o spinto sull’altra sponda di un fiume. Lo scudo frontale e la copertura in legno hanno la funzione di proteggere i soldati. Nella seconda versione la punta è apribile dall’interno e il ponte si muove con una manovella posteriore. Leonardo propone anche un progetto di scala mobile, un tipico mezzo d'assalto alle mura nemiche proprio della tradizione militare medievale. Il suo modello è composto da elementi scomponibili, collegati a un meccanismo “ruota dentata-vite senza fine”, che permette di alzare e abbassare la scala ed è difficilmente respingibile dai difensori. Tra le varie tecniche di assalto alle mura, lo scienziato illustra anche l’uso di arpioni e cinture che permettono allo scalatore

di raggiungere l’obiettivo e che evocano tecniche di straordinaria modernità. Leonardo non lavora solo a macchine d'assalto, ma anche a complessi e sofisticati sistemi di difesa delle mura. Il progetto prevede che i soldati si nascondano dietro le merlate del castello e che, attraverso un sistema a leva, spingano fuori una sbarra trasversale allontanando così i nemici che tentano di entrare con lunghe scale. Uno splendido esempio di innovazione nel campo dell’ingegneria militare è il progetto di una fortezza che si distingue per compattezza capacità di schivare efficacemente l'impatto dei nuovi proiettili. L’intenzione è creare un modello di costruzione inespugnabile. L’INVENZIONE DELL’ELICOTTERO E DEL PARACADUTE Anche il cielo ha suggestionato molto Leonardo, stimolandone genio e fantasia. I suoi celebri studi sul volo hanno permesso di ideare macchine e strumenti assai sofisticati, ponendo le basi per la nascita dell’aviazione moderna. Uno dei disegni più famosi, unanimemente riconosciuto come l’antenato dell’elicottero, è la vite aerea che costituisce un'alternativa ai modelli ad ala battente. La peculiarità sta nell'ipotesi tecnico-scientifica del volo: l'enorme vela a elica, ruotando, deve avvitarsi nell'aria sollevando la macchina. La grande intuizione di Leonardo riguarda un fluido dinamico, presente nell’aria, molto denso, attraverso il quale poter "avvitare" la

L’Uomo vitruviano, l’opera simbolo di Leonardo

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macchina progettata. L’aliante è il più originale tra i progetti sul volo, in cui la posizione del “pilota” permette di bilanciarsi e le ali ricordano quelle dei grandi uccelli. Infatti è proprio osservando il loro volo (delle libellule, in particolare) che Leonardo capisce come la parte interna dell’ala si muova più lentamente rispetto a quella esterna, avendo una funzione di sostegno. Le ali del suo aliante quindi sono fisse nella parte interna, mentre la parte esterna è mossa attraverso un cavo comandato dal volatore mediante delle maniglie. Le macchine volanti possono essere azionate dalla forza dell’uomo o sfruttare la potenza dei venti e delle correnti, affidandosi al volo a vela e aerostatico. Si tratta di un’esperienza del tutto nuova, in cui il pilota non dovrà avvalersi solo della forza, ma dovrà far leva anche sulla propria abilità per raggiungere l’equilibrio. Da qui l’invenzione di macchine come il deltaplano, dotate di un timone per regolare il volo. Frutto del genio di Leonardo è anche il paracadute, il primo in assoluto mai ideato, splendida testimonianza delle idee futuristiche e all’avanguardia del grande scienziato. Nel progetto originale era costruito con una tenda a forma piramidale con tessuto di lino inamidato per aumentarne la rigidità, con misura di sette metri per lato. Quattro corde legate a un'imbragatura tenevano unita la struttura frenante, costituita da quattro aste di legno legate con inserti metallici a formare una piramide. Si ritiene che il grandioso progetto non sia però mai stato realizzato da Leonardo. I suoi studi portarono anche alla progettazione di strumenti per il controllo del volo. Come l’anemometro che serve a calcolare la forza del vento attraverso un legno graduato con delle tacche e una lamella di metallo che viene mossa dal vento. O il sofisticato inclinometro, usato per regolare il volo e che consiste in un pendolo (inserito in una campana di vetro per sottrarsi all’influenza del vento) in cui la posizione della palla indica quella della macchina. LE MACCHINE BELLICHE IN CAMPO NAVALE Fonte di grande ispirazione per gli studi di Leonardo è stata anche la guerra in mare, di cui il cannone navale è uno dei simboli più suggestivi. Ed è proprio dello scienziato toscano l’idea di equipaggiare speciali battelli con piattaforme girevoli sulle quali vengono disposte file di cannoni. O un ampio mortaio squadrato azionato da un solo marinaio dal quale fuoriescono pallottole incendiarie destinate alle navi nemiche. Tra i diversi progetti presentati al duca di Milano troviamo anche il vascello corazzato, una speciale barca da assalto dotata di una prua corazzata in metallo (che serve per speronare l'imbarcazione nemica) e uno scudo ruotante, che si apre nel momento dell'arrembaggio. Tra i tanti progetti mai realizzati, c’è il circumtronico o circumfolgore, che mette in risalto l’impegno di Leonardo nel campo dell’automazione delle armi da fuoco. Questa imbarcazione è dotata di una serie di bombarde che sparano colpi a ripetizione in due direzioni contrapposte. Alla base vi è l’idea scientifica di neutralizzare gli effetti del contraccolpo. Sincronizzando gli spari di due artiglierie contrapposte si evitano i problemi di stabilità che subivano le imbarcazioni sotto attacco. Di estrema suggestione è la barca con falce, escorpio: uno scafo veloce, mosso esclusivamente da remi, in cui un’enorme falce viene sollevata di scatto dal basso verso l’alto e “dall’indietro in avanti”, esattamente come agisce lo scorpione con la sua coda. Ciò che distingue il progetto non è solo il potere offensivo

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Il progetto di un ipotetico antenato del nostro elicottero, in un disegno di Leonardo

della caduta istantanea della falce, ma anche la possibilità che questa sia, tramite una piattaforma girevole, velocemente posizionata sul punto da colpire. Il meccanismo di sollevamento della falce è azionato da una manovella e da ingranaggi. L’imbarcazione è dotata di un dispositivo per la protezione dei vogatori attraverso robusti martelletti con entrate defilate e coperture di pelli che servono per attenuare l’effetto del lancio di fuoco dall’alto. Leonardo pensa anche a un modo per rendere più spedita la navigazione, che possa incidere non solo sull’arte nautica, ma anche sulla conduzione dei conflitti in mare. La sua idea è quella di equipaggiare le barche con grandi pale che tramite manovelle vengono azionate con i piedi o con le mani e aiutate dall’uso di volani, aumentando così il ritmo e l’efficacia rispetto al tradizionale remo. I remi devono essere manovrati con un movimento ripetitivo e una produzione di energia non continua. Il sistema a pale garantisce all'imbarcazione un moto senza interruzioni poiché i manovratori azionano le grandi ruote laterali con il movimento dei pedali. È un viaggio avvincente quello che si compie sfogliando le pagine che hanno consegnato ai posteri le innumerevoli invenzioni belliche di Leonardo. Il suo è un talento unico, messo al servizio delle corti e dei nobili del tempo con professionalità e dedizione. Il genio come “punta estrema del senso pratico” scriveva Jean Cocteau, romanziere francese del Novecento. *Giornalista

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CRONACA DI UN ATTENTATO «IL COLPO DI PISTOLA UDITO IN TUTTO IL MONDO» di Antonello Folco Biagini, Alberto Becherelli e Antonello Battaglia

Rivista Militare pubblica a partire da questo numero una serie di saggi per commemorare il centenario della Prima guerra mondiale, a cui l’Italia prese parte dal 1915. Gli autori sono degli storici dell’università Sapienza, coordinati da Antonello Folco Biagini, proprettore e professore di Storia dell’Europa orientale. Il progetto punta a ricostruire le tappe più importanti del conflitto che travolse il continente europeo, trascinando le potenze dell’epoca in una crisi che si protrasse fino agli anni Trenta. Gli argomenti trattati abbracciano un arco cronologico di ampio respiro, dagli equilibri geopolitici europei del XIX secolo alle relazioni internazionali del primo Novecento. I saggi saranno dedicati all’anno di guerra corrispondente. Nel 2014 verranno quindi trattati tutti gli argomenti relativi al 1914. Un’analisi progressiva che accompagnerà il pubblico nella lettura dei principali eventi e del loro significato. Negli articoli vengono esaminati diversi aspetti: i fronti di guerra, le manovre militari, le grandi battaglie, la sanità militare, la psichiatria, il ruolo delle donne, l’economia e gli studi di ingegneria. Il saggio di apertura è dedicato al casus belli, l’attentato di Sarajevo. Nell’articolo è possibile cogliere gli attimi salienti immediatamente precedenti all’assassinio dell’erede al trono asburgico, arciduca Francesco Ferdinando e della moglie Sofia. Grande attenzione è riservata alle scelte di politica interna ed estera del Regno d’Italia tra Triplice Alleanza e Intesa, al dibattito interno tra interventisti e neutralisti, all’organizzazione militare e all’ingresso in guerra.

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L’attentato di Sarajevo, in cui vennero uccisi l’Arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria, e sua moglie. Disegno di Achille Beltrame per la copertina della «Domenica del Corriere» del 5 luglio 1914

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uel “colpo di pistola udito in tutto il mondo” con il quale il serbo Gavrilo Princip uccide l'arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e la moglie Sofia duchessa di Hohenberg a Sarajevo manifesta tutta la rabbia e la disperazione che le sofisticate alchimie politiche delle relazioni internazionali non sono riuscite a governare e indirizzare. La scelta della data è decisamente simbolica: l’anniversario dell’ultima, epica resistenza serba all’avanzata

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degli Ottomani, la battaglia del Kosovo (la Piana dei Merli) del 28 giugno 1386. Lo studente serbo-bosniaco originario della Krajina (nei pressi di Grahovo) e affiliato al movimento rivoluzionario della Mlada Bosna (“Giovane Bosnia”) non immagina gli effetti devastanti del suo atto, che diviene comunque epilogo drammatico dell’insanabile questione nazionale dell’area balcanica. La guerra che di lì a poco sarebbe scoppiata, per concludersi nel 1918, scardina completamente il sistema internazionale, modifica comportamenti e assetti sociali, lancia parole d'ordine di grande impatto psicologico come l’autodeterminazione dei popoli, lo Stato nazionale, la redistribuzione delle terre. La delusione per gli obiettivi non raggiunti, l'emergere di un nazionalismo sempre più duro e irrazionale, il successo della rivoluzione bolscevica in quella immensa aggregazione di popoli che era l'Impero zarista sfociano in un ventennio di instabilità e conflittualità che arriva fino alla Seconda guerra mondiale. La Conferenza della pace di Versailles non rappresenta il punto finale di una crisi, ma l'inizio di un processo di ulteriore disgregazione del continente europeo, con gli equivoci dei trattati di pace e il ritiro degli Stati Uniti d'America dalla gestione del processo di pace. Una parte dell’opinione pubblica europea interpreta quella discutibile azione terroristica come l'inizio di un processo di trasformazione in cui la Serbia (il “Piemonte dei Balcani”) si pone come punto di riferimento per l'unione degli slavi del Sud. Ancora oggi non è stato del tutto sciolto il dubbio se ad armare quella mano furono i Serbi oppure forze interne che non vedevano di buon occhio l'appoggio dell'Arciduca all’ipotesi trialista. L'Austria, pena la sua decadenza, non può consentire che la Serbia si affermi come una grande potenza balcanica; il Capo di Stato Maggiore, Conrad von Hötzendorf, sosteneva la necessità di una guerra preventiva contro la Serbia per porre fine “alle macchinazioni panslaviste”. Approfittando del cosiddetto “assegno in bianco” (così venne definito con grande efficacia l'assenso tedesco rilasciato da Guglielmo II a ogni iniziativa di Vienna), il 23 luglio 1914 l'Austria-Ungheria invia un ultimatum alla Serbia, concepito in modo da renderlo inaccettabile. Su suggerimento del ministro degli Esteri russo, Sergej Sazonov (ben In alto a destra L’Arciduca Francesco Ferdinando d’Austria

Francesco Ferdinando poco prima dell’attentato

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deciso a impedire lo scoppio del conflitto) Belgrado risponde con toni conciliativi: accetta buona parte delle richieste austriache (a esclusione di quella fondamentale relativa al controllo amministrativo) e propone soluzioni alternative, come il ricorso al Tribunale dell’Aja o alla mediazione delle grandi potenze. Vienna insiste nella propria posizione oltranzista nella presunzione che l'appoggio tedesco contribuisca, come nel 1909, a tener fuori dalla questione la Russia zarista. Che in quel momento è militarmente debole e alle prese con problemi di non poco conto. Sono infatti ancora aperte le ferite della sconfitta subita ad opera dei giapponesi nella guerra del 1904-1905 e da pochi anni si è avviato un processo di trasformazione economica (sviluppo delle ferrovie, imprese industriali nell’area di Pietroburgo e via dicendo) con conseguenti problemi di instabilità sociale. Il 28 luglio 1914 la duplice monarchia dichiara guerra al regno dei Karadjordjević. Per non perdere il proprio ruolo di grande potenza mondiale, la Russia (forte del sostegno della Francia) conferma l'appoggio incondizionato alla Serbia e il 31 luglio lo zar Nicola II ordina la mobilitazione generale. In pochi giorni gli avvenimenti militari prendono il sopravvento e gli schieramenti vanno rapidamente definendosi. La Gran Bretagna, che pure aveva tentato soluzioni diplomatiche, si vede costretta a intervenire a fronte dell’invasione tedesca del Belgio. Invocando una norma precisa del trattato della Triplice Alleanza (l'Austria dove-

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Storia

va preventivamente informare il governo italiano sulle decisioni che prendeva nei confronti della Serbia), l'Italia dichiara la propria neutralità, il 3 agosto 1914. Analogo atteggiamento assumono il governo della Sublime Porta e quello degli altri Stati balcanici. L’episodio scatenante risiede dunque in una missione di routine che l’arciduca Francesco Ferdinando, ispettore generale delle forze armate imperiali, compie per assistere alle manovre del XV e XVI Corpo d’Armata in Bosnia-Erzegovina, sottoposta all’amministrazione austro-ungarica dal 1878 e annessa definitivamente nel 1908. Non mancano i segnali di pericolo che potrebbero suggerire, se percepiti correttamente, una sospensione della visita. La sera del 27 giugno a Ilidža (stazione termale nei pressi di Sarajevo) la duchessa cena all’hotel Bosna. Parlando con Josip Sunarić (che già in precedenza ha raccomandato a Potiorek di cancellare la visita dell’arciduca a causa delle rivolte della popolazione serba) rimprovera bonariamente l’eminente rappresentante del Sabor bosniaco. L’ostile situazione da lui descritta in precedenza non sembra poi così grave e ovunque la popolazione della Bosnia-Erzegovina si è dimostrata amichevole e calorosa nei loro confronti. La speranza più grande di Sunarić è che la duchessa possa conservare lo stesso parere fino alla sera dell’indomani, a visita conclusa. Allora e solo allora il notabile bosniaco potrà liberarsi della responsabilità che grava su di lui. Terminate le esercitazioni il 28 mattina, Francesco Ferdinando torna all’hotel Bosna, dove è atteso dalla consorte per proseguire la visita ufficiale. Il programma prevede una cerimonia di benvenuto delle autorità municipali presso la Beledija, il municipio di Sarajevo sull’Appel Quay, lungo il fiume Miljacka. Si tratta della famosa biblioteca di Sarajevo distrutta nella guerra degli anni Novanta, che sarà riaperta al pubblico proprio in occasione della ricorrenza del centenario dell’attentato, il prossimo giugno. Il generale Potiorek aspetta alla stazione di Sarajevo l’arrivo con un treno speciale di Francesco Ferdinando e Sofia. Ad attenderli, con un convoglio di sei automobili, c’è anche il sindaco di Sarajevo, Fehim Effendi Čurćić e diversi ufficiali che provvederanno alla sicurezza. I sovrani prendono posto nella Gräf & Stift, un’auto sportiva cabriolet nella quale siedono anche Potiorek e il tenente colonnello conte Franz von Harrach. Francesco Ferdinando richiede espressamente che l’automobile sia guidata lentamente per ammirare meglio la città, agghindata con bandiere asburgiche, bosniache e del proprio ritratto. Giunto sull’Appel Quay il convoglio s’imbatte nel primo “ostacolo”: Nedeljko Čabrinović, giovane anarchico dalla complessa personalità, che sta chiedendo a un poliziotto in quale automobile sia seduto l’Arciduca. Pochi secondi e Čabrinović lancia una granata che cade sul tetto ripiegato dell’auto, rimbalza in strada ed esplode sotto la ruota posteriore sinistra della vettura successiva. L’attentatore ingoia subito dopo una pillola di cianuro (che tuttavia non ha l’effetto desiderato) e si getta oltre l’argine della Miljacka, prima di essere trascinato fuori dalla polizia. L’auto dell’arciduca inizialmente prosegue ad alta velocità verso il municipio. Solo in un secondo momento Francesco Ferdinando ordina all’autista di fermarsi per verificare se vi siano morti o feriti, poiché le altre vetture non lo stanno seguendo. Un’auto del convoglio infatti è stata danneggiata e due ufficiali feriti. Poliziotti e investigatori accorrono arrestando quante più persone possibile. La gente grida, alcuni sono feriti in modo grave. Il conducente dell’Arciduca riprende velocemente il tragitto: l’automobile ferma è un bersaglio perfetto per un secondo attentato. Proprio allora la duchessa lamenta un dolore al collo, sfiorato da uno dei frammenti della granata. Le prime vetture del convoglio (con a bordo tra gli altri il sindaco) giungono al municipio senza capire cosa sia accaduto. La situazione assume risvolti paradossali. Il sindaco (tra due file di consiglieri musulmani, cristiani ed ebrei) pronuncia il rituale discorso di encomio e benvenuto. Viene subito interrotto dall’arciduca che mostra segni di nervosismo nei confronti della retorica del sindaco, che stride con quanto appena successo. L’intervento della duchessa consente a un imbarazzato sindaco di riprendere il suo discorso. L’arciduca non può replicare perché il barone Karl von Rumerskirch, che dovrebbe porgergli il testo, viaggiava sulla vettura

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Sofia, Duchessa di Hohenberg

Il Ponte Latino di Sarajevo, luogo dell'attentato

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danneggiata dalla bomba. Quando von Rumerskirch riesce ad arrivare, il foglio che porge all’arciduca è intriso del sangue degli ufficiali feriti. Comprensibilmente nervoso e sarcastico, l’arciduca domanda al generale Potiorek se ritiene che in giornata siano previsti ulteriori attentati rivolti contro la sua persona. Il governatore suggerisce allora di modificare il programma: anziché dirigersi verso il museo nazionale (tappa successiva della visita) attraverso la stretta e centrale via Franz Josef, sarà meglio procedere per la deserta Appel Quay. Altri membri dell’entourage suggeriscono di riportare rapidamente l’arciduca a Ilidža, altri ancora di sospendere la visita e recarsi al Konak, la residenza del governatore. Francesco Ferdinando decide invece di proseguire verso il museo come da programma, non prima però di aver visitato gli ufficiali feriti nell’attentato. Alle 10.45 l’arciduca lascia il municipio. La sua vettura, la terza del convoglio, procede spedita lungo l’Appel Quay. All’angolo con la via Franz Josef, la colonna gira verso destra come previsto dal programma originale, ma il governatore protesta allarmato, indicando di proseguire lungo l’Appel Quay. Il conducente dell’arciduca frena dinanzi al marciapiede affollato, all’altezza del ponte Latino. In quell’istante un altro cospiratore nascosto tra la folla, Gavrilo Princip, capelli scuri e occhi azzurri infossati, estrae la pistola. Un poliziotto vede tutto e tenta di afferrarne la mano, ma viene colpito da qualcuno lì vicino, presumibilmente un complice dell’attentatore. L’assassino è a pochi passi dal suo bersaglio, vengono uditi due colpi di pistola. Princip è subito arrestato: tenta inutilmente di togliersi la vita con il cianuro, che ancora una volta non fa effetto, mentre la pistola gli è tolta di mano dalla folla. L’attentato in un primo momento sembra fallito, ma è lo stesso generale Potiorek a notare il sangue sulla bocca dell’arciduca, colpito al collo. Mentre la duchessa, ferita all’addome, cade verso il marito mentre l’auto fa marcia indietro. I due vengono velocemente con-

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dotti alla residenza del governatore, ma non c’è altro da fare se non costatarne il decesso. La duchessa è la prima a morire, colpita da un proiettile diretto al governatore che ha penetrato il lato della vettura e il corsetto della donna. L’arciduca le sopravvive di poco, ferito da un proiettile che ha perforato il bavero del suo cappotto recidendo la vena giugulare e fermandosi nella spina dorsale. Sono le 11.30 del 28 giugno 1914. Rivolte anti-serbe scoppieranno nelle ore successive a Sarajevo e in altre parti della Duplice monarchia, ad esempio in Croazia. La popolazione serba per rappresaglia all’attentato viene attaccata ovunque nell’impero: case, negozi, scuole e istituzioni distrutti o saccheggiati. I responsabili dell’assassinio dell’arciduca, in gran parte sotto i vent’anni, sono Gavrilo Princip, Danilo Ilić, Nedeljko Čabrinović, Trifko Grabež, Vaso Čubrilović, Cvjetko Popović e Mehmed Mehmedbašić. I giovani appartengono a un gruppo di società segrete, composte principalmente da studenti di estrazione contadina, collettivamente conosciute con il nome di “Giovane Bosnia”. Un movimento rivoluzionario attivo sia nei territori slavi all’interno dell’Austria-Ungheria (Slovenia, Croazia, Dalmazia), sia in Serbia e Montenegro. L’obiettivo della “Giovane Bosnia”, nome di mazziniana memoria, è la dissoluzione della Duplice monarchia. L’ideatore dell’attentato è il serbo-bosniaco Ilić detto “Hadžija”, insegnante e giornalista, traduttore di numerose opere letterarie e politiche e volontario nell’esercito serbo durante la Seconda guerra balcanica. Ilić è un esponente di punta dell’organizzazione e capace di riunire intorno a sé diverse generazioni di giovani rivoluzionari. Sia a Sarajevo, dove vive con la madre che gestisce una piccola pensione, sia a Belgrado, destinazione di molti giovani studenti bosniaci pronti a esser reclutati per cospirare contro gli imperi asburgico e ottomano. Proprio nella pensione della madre, Ilić conoscerà Gavrilo Princip e stringerà un grande rapporto di amicizia. È il 1907 Gavrilo ha tredici anni e si è trasferito a Sarajevo accompagnato dal padre, per intraprendere la car-

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L’attentatore Gavrilo Princip appena catturato a Sarajevo

Il quotidiano «La Stampa» del 29 giugno 1914

riera militare. L’incontro casuale con un commerciante amico di famiglia (dalla coscienza nazionale più forte di quella della famiglia Princip e quindi contrario a far arruolare Gavrilo nell’esercito asburgico, nemico del popolo serbo) farà sì che Gavrilo venga invece indirizzato alla scuola commerciale. Dove resisterà solo tre anni: la propensione agli studi classici è infatti più forte e il ragazzo vince la propria battaglia con la famiglia per avere il permesso di iscriversi al quarto anno del liceo di Tuzla, dove tra l’altro conoscerà Vaso Čubrilović. L’appassionato lettore e aspirante poeta non ci metterà molto a diventare anche un fervente idealista, nonostante a scuola non sia proprio uno studente modello. Nel 1910 è costretto a tornare a Sara-

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jevo, dove nei due anni successivi entra in contatto con gli ambienti della “Giovane Bosnia” e conosce Čabrinović, prima di essere costretto a trasferirsi a Belgrado per aver partecipato a manifestazioni pubbliche contro le autorità (febbraio 1912), che gli costano una nuova espulsione dalla scuola. A Belgrado la situazione è incandescente, fervono i preparativi per la guerra all’impero ottomano e volontari della “Giovane Bosnia” accorrono da oltre confine. Il tentativo di arruolamento di Gavrilo Princip incontra una serie di rifiuti a causa della sua esile costituzione. Il fallimento segna il giovane che vuole dimostrare a tutti i costi di essere in grado di compiere azioni coraggiose e di essere qualcosa di più di un semplice intellettuale. La visita in Bosnia-Erzegovina dell’arciduca diventa quindi l’occasione perfetta per Princip e Ilić per realizzare un’azione dimostrativa diretta contro l’AustriaUngheria. Francesco Ferdinando, a torto o a ragione, è percepito come una minaccia dagli ambienti irredentisti serbi poiché è considerato un sostenitore della soluzione “trialista”, per la riorganizzazione della Duplice monarchia attraverso il riconoscimento alla terza entità slava all’interno dell’impero di dignità pari a quella austriaca e ungherese. Ilić è a tutti gli effetti un esponente degli ambienti irredentisti che ricevono in Serbia addestramento politico e militare, armi e la possibilità di recarsi da Belgrado a Sarajevo. Molto dibattute rimangono ancora oggi le effettive responsabi-

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lità del governo serbo. Dei tredici cospiratori spediti in Secondo alcuni storici, Belgrado avrebbe gravi responsabilità per prigione il 28 giugno, solamenl’assassinio dal momento che sapeva già da tre settimane del te cinque tra i più giovani (inpiano, ma non fece nulla per evitare che i cospiratori attraversas- clusi Vaso Čubrilović e Cvetko sero il confine serbo, né diede informazioni all’Austria. Più concor- Popović) sopravviveranno. Gli de invece il giudizio sul fatto che dietro la cospirazione vi fosse altri moriranno durante la prianche il colonnello Dragutin Dimitrijević, detto “Apis”, leader del- gionia nel carcere militare di la società segreta serba dalle aspirazioni panserbe “Unione o Theresienstadt in Boemia o in morte” (Ujedinjenje ili Smrt), nota come Mano Nera (Crna Ruka). quello di Zenica (il più grande Le autorità austro-ungariche arrestano e processano solamente i della Bosnia-Erzegovina) di tucospiratori e i complici che li hanno aiutati a portare le armi dalla bercolosi e malnutrizione, coSerbia a Sarajevo. Sono in tutto venticinque persone. A eccezio- me Čabrinović e Grabež nel ne di Mehmedbašić che, pur fermato in Montenegro, riesce a 1916 e Princip nell’aprile del fuggire in Serbia per poi essere arrestato di nuovo nel 1916. L’ac- 1918. cusa per la maggior parte di loro è di alto tradimento in combut- La sconcertante notizia dell’asta con ambienti ufficiali del Regno di Serbia. La cospirazione fina- sassinio di Francesco Ferdinanlizzata all’alto tradimento prevede la pena di morte, ma Princip e do e di sua moglie si diffonde altri, non avendo neppure vent’anni al momento dell’attentato, in tutta Europa. Austria-Unghenon rischiano la pena capitale. ria e Germania insistono affinIl processo si svolge dal 12 al 23 ottobre 1914. Il verdetto finale è ché Belgrado apra un’inchieannunciato cinque giorni dopo. Rischiano la pena di morte: Da- sta sull’accaduto, ma la posinilo Ilić, Mihaijlo Jovanović e Veljko Čubrilović (fratello maggiore zione del governo serbo (che di Vaso), coinvolti nel trasporto delle armi. Entrambi agenti della non vuole concedere un’indaNarodna Odbrana (società che attraverso l’attività culturale gine sul proprio territorio) è di funziona anche da servizio d’intelligence per la Serbia), sosten- totale estraneità agli eventi. gono di esser stati contrari all’attentato e di non essere favore- L’Austria-Ungheria ricorda forvoli alla dissoluzione dell’AustriaUngheria, aspirando per la BosniaBIBLIOGRAFIA Erzegovina a un regime di autonomia. Veljko Čubrilović sostiene di esser stato costretto da Princip a L. Albertini, “Origins of the War of 1914” (Vol I-II), London, Oxford Univerpartecipare alla cospirazione, con sity Press, 1953; V. Dedijer, “The Road to Sarajevo”, New York, Simon minacce di ritorsioni contro la sua and Schuster, 1966; A. Tamborra, “L’Europa centro-orientale nei secoli famiglia. XIX-XX”, Milano, Vallardi, 1971; W.A. Dolph Owings “The Sarajevo Trial”, Gli imputati che non rischiano la Chapel Hill, NC, Documentary Publications, 1984; D. MacKenzie, “The pena capitale tentano invece di Black Hand on Trial: Salonika 1917”, Eastern European Monographs, addossarsi tutte le responsabilità 1995; R. Donja, “Sarajevo. A biography”, London, Hurst & Co., 2006; A. dell’assassinio, prendendo le diMitrović, “Serbia’s Great War, 1914-1918”, London, Hurst & Co., 2007. stanze dalle istituzioni serbe. Vogliono dimostrare che l’idea dell’attentato è stata esclusivamente loro, di non essere stati influenzati da Belgrado e di essersi rivolti a malmente alla Serbia il proprio determinati ambienti della capitale serba solo per procurarsi le impegno a rispettare le deciarmi e ricevere aiuto per attraversare il confine. sioni delle grandi potenze per Grabež (che constata di “esser stato guidato dalla Bosnia e non quanto riguarda la Bosnia-Erzedalla Serbia”) definisce l’assassinio di Sarajevo la più grande azio- govina e a mantenere rapporti ne rivoluzionaria della storia. Secondo lui era ormai tempo che di buon vicinato con la Duplice l’Austria, nella persona di Francesco Ferdinando, pagasse per le monarchia. nefandezze compiute in Bosnia-Erzegovina. Nell’ultimatum di luglio, VienPrincip dichiara di essere un nazionalista jugoslavo e di credere na chiede a Belgrado di impenell’unificazione di tutti gli slavi del Sud e nella loro liberazione dire la spedizione clandestina dall’Austria-Ungheria. Popović afferma di essersi unito alla cospi- di armi ed esplosivi dalla Serrazione per vendicare la persecuzione degli slavi condotta dalla bia verso l’Austria-Ungheria e Duplice monarchia. Più colorite le affermazioni di Čabrinović: di contrastare la propaganda “L’Austria è marcia dentro”, poiché uno Stato che non è costitui- militare anti-asburgica arreto sul principio delle nazionalità è fondato esclusivamente sulla standone i responsabili serbi, forza e l’imposizione. Tutti gli imputati menzionano l’obiettivo di presumibilmente coinvolti nelvoler distruggere l’Austria-Ungheria e liberare i propri connaziona- l’attentato. li. La loro linea difensiva non convince però la corte del giudice L’ultimatum risulterà inaccetLuigi von Curinaldi, che considera la Serbia la principale colpevo- t a b i l e p e r l a S e r b i a , c h e le, dato che la Narodna Odbrana e i circoli militari serbi sono avrebbe dovuto abdicare di coinvolti nella trama. fatto alla propria sovranità L’intero processo e le indagini condotte fin dall’inizio tendono a nazionale. L’Austria-Ungheria dimostrare le responsabilità del regno serbo nell’assassinio. La interrompe le relazioni diplosentenza condanna infine Princip, Čabrinović e Grabež a venti matiche. anni di reclusione ai lavori forzati, Čubrilović a sedici anni, Popo- Il 28 luglio, un mese esatto dović a tredici. Ilić, Veljko Čubrilović e Jovanović sono invece con- po l’attentato, dichiara guerra dannati a morte mediante impiccagione e giustiziati il 3 febbraio al Regno di Serbia. Inizia così la del 1915. Prima guerra mondiale.

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Storia Storia

L’ESERCITO TOSCANO DAGLI ANNI DELLA DINASTIA LORENESE (1737) ALL’ITALIA UNITA (1860) La storia del Granducato di Toscana, dopo la caduta della dinastia de’ Medici, alterna periodi di pace, progresso e concordia sociale ad altri caratterizzati da guerre, turbolenze ed insurrezioni. Poco conosciute, le vicende di cui fu partecipe l’Esercito toscano in età lorenese, napoleonica e nel corso degli eventi che condussero all’Unità d’Italia meritano, per la loro importanza, una rinnovata attenzione.

di Riccardo Caimmi*

N

el 1737, duecento anni dopo l’ascesa al potere di Cosimo I de’ Medici, primo Duca di Toscana, moriva, minato nel fisico, nella mente e senza eredi, Gian Gastone de’ Medici, ultimo rappresentante della dinastia. Lo Stato toscano, feudo imperiale, passò a Francesco Stefano di Lorena, consorte dell’Imperatrice Maria Teresa d’Austria, che lo affidò a un Consiglio di reggenza. Nel 1765 il trono passò a Pietro Leopoldo, fondatore del ramo cadetto degli Asburgo-Lorena di Toscana e dopo di lui, nel 1790, a Ferdinando III, che lo resse sino al 1801 e dal 1814 al 1824. Le turbolenze del periodo napoleonico videro la costituzione del Regno d’Etruria, retto sino al 1803 da Ludovico di Borbone-Parma, quindi, sino al 1807, da Carlo Ludovico di Borbone, allontanato poi dalle truppe francesi. Restaurato il Granducato e postolo sotto controllo del loro Impero, nel 1809 i Francesi v’insediarono Elisa Bonaparte Baciocchi, sorella di Napoleone. Caduto Napoleone, il Congresso di Vienna ampliò il territorio granducale, annettendovi lo Stato dei Presidi, il Principato di Piombino e alcuni feudi imperiali: nel 1847, per effetto dell’entrata in vigore dell’atto di reversione, lo Stato toscano acquisì gran parte del territorio dell’ex Ducato di Lucca, perdendo, nello stesso tempo, alcune enclavi in Lunigiana. Dal 1824 al 1859 sulla Toscana regnò Leopoldo II d’AsburgoLorena, un Sovrano che, dopo avere appoggiato nel 1848 gli ideali di chi aspirava a liberare l’Italia dal giogo austriaco, con il tempo mutò visione, allineando la politica del Granducato a quella di Vienna. La storia dell’Esercito toscano in età lorenese, napoleonica e nel corso della breve parentesi repubblicana che precedette l’annessione al Regno d’Italia, copre un arco temporale di 124 anni: dalla fine della dinastia de’ Medici all’annessione del Granducato al Regno d’Italia. La storia del sistema militare toscano in epoca lorenese, ai più poco nota, è stata studiata, nell’ambito di opere che analizzano anche la società, l’economia e le finanze del Granducato, da importanti storici italiani, quali Marcello Verga, Virgilio Ilari, Daniela Ma-

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Giovanni Dal Poggetto, combattente toscano a Curtatone

netti, Nicola La Banca. Più recentemente Bruno Mugnai, in un’importante opera edita dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, ha specificamente rivolto la sua attenzione ai soldati e alle milizie toscane nel

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Settecento. Il periodo napoleonico, per le sue importanti implicazioni militari, è stato maggiormente studiato grazie alle ricerche condotte in ambito universitario, all’attenzione dedicata dall’editoria a questo tema e all’opera tanto del Centro Nazionale di Studi Napoleonici che di altri benemeriti centri e associazioni, ma la sua conoscenza non è ancora completa. Tra gli studiosi che hanno approfondito il tema del contributo dei soldati e volontari toscani al processo di unificazione nazionale, citiamo infine Mario Isnenghi, Anna Maria Isastia e Giuliano Catoni. La storia dell’Esercito toscano lorenese fu quella di una realtà peculiare, per lunghi anni condizionata dall’allineamento del Granducato di Toscana all’Impero Austriaco. Radicalmente riformato in età napoleonica, questo Esercito fu inglobato nell’Armata francese, si riformò in conseguenza della Restaurazione e infine aderì agli ideali patriottici, concorrendo agli eventi del Risorgimento nazionale. Queste pagine sono state scritte anche per onorare il coraggio e il sacrificio dimostrati dai soldati e dai volontari toscani nel corso delle campagne militari svolte in Slesia, Sassonia, Baviera, Catalogna, Castiglia, Lituania, Franconia, Champagne-Ardenne, Veneto e Lombardia.

to. La forza di ciascuno dei reggimenti di fanteria da presidio, diminuiti a due e riorganizzati nel 1753 su base ternaria, scese a 1 300 unità. Altre forze, prima a livello battaglione, poi inquadrate in un reggimento di 1 300 uomini, costituivano la fanteria di Marina: l’avvenuta smobilitazione delle galere dell’Ordine Stefaniano (1748-49), la mancanza di un serio programma di riarmo nava-

L’ESERCITO DI FRANCESCO STEFANO E DI PIETRO LEOPOLDO Inserito a pieno titolo nel gioco della grande diplomazia europea, lo Stato toscano fu oggetto di particolari accordi tra il Regno di Francia e l’Impero tanto che all’estinguersi della dinastia medicea fu assegnato al Duca Francesco Stefano di Lorena. Ciò avvenne grazie al contestuale passaggio del Ducato di Lorena e Bar – un’enclave imperiale in territorio francese – a Stanislao Leszczyński, già Re di Polonia, la cui figlia Maria, alla morte del padre, consegnò il Ducato a Re Luigi XV di Francia, suo consorte. Avendo deciso Francesco Stefano di rimanere a Vienna, al governo del Granducato – occupato dai soldati austriaci del Generale Carlo Francesco di Wachtendonk sino alla primavera del 1737 – fu nominato un luogotenente, il Principe Marco di Craon, e un Consiglio di reggenza. Una volta giunte le truppe lorenesi, fu avviato il processo di riordino dell’Esercito granducale, inizialmente caratterizzato da una non facile convivenza tra la componente nazionale e quella lorenese. Tra il 1736 e il 1739, anno in cui a capo delle truppe toscane fu posto il Generale von Braitewitz, l’Esercito toscano visse una profonda trasformazione: nell’ultima fase medicea esso comprendeva circa 3 000 unità, comprese le milizie scelte dei «lanzi», o «trabanti», alcune centinaia di Cavalleggeri e Alabardieri alemanni e svizzeri e circa 15 000 unità ausiliarie, la cosiddetta Milizia delle Bande - forze più potenziali che reali - ripartite nei terzi di «Maremma», «Lunigiana» e «Romagna». Nei primi anni della reggenza lorenese nel Granducato si stanziò il regiment d’Infanterie «de la Garde de Lorraine», le compagnie di fanteria medicea furono accorpate nel reggimento «di Toscana», le Bande della Milizia furono riordinate in due reggimenti appiedati – un terzo se ne aggiunse nel 1745 – e uno a cavallo e furono istituiti sette governatorati militari. Gli oneri per la difesa dello Stato crebbero: nel 1741, anno in cui fu istituito il Consiglio di guerra e introdotto il Regolamento Militare per la fanteria, per le spese militari (Marina esclusa) fu utilizzata una somma di poco inferiore a 1 900 000 lire toscane, assorbita, in particolare, dalle necessità riguardanti l’artiglieria e le fortificazioni, quindi da quelle per la Guardia Nobile, la Guardia Svizzera e i reggimenti. La necessità di salvaguardare la neutralità nel corso della guerra di successione d’Austria (1740-1748) comportò, peraltro, un aumento del bilancio militare e il ripristino della Milizia, cui fu attribuito il compito di assicurare la sicurezza lungo le frontiere terrestri, poiché in Italia si combattevano, senza avere un concetto ben determinato di ciò che volessero, Spagnoli, Napoletani, Modenesi e più tardi Francesi e Genovesi. La nuova Milizia Nazionale Toscana si formò sulla base di un reggimento Corazzieri e tre reggimenti di fanteria presidiaria, corrispondenti ai vecchi terzi delle bande («Lunigiana», «Maremma», «Romagna»), per un totale di circa 1 000 Cavalieri e 6 500 Fanti. Queste e altre forze furono allertate negli anni 1741-42, 1745-46 e nel 1748, in concomitanza con le operazioni dei belligeranti e nel timore che gli Spagnoli invadessero lo Sta-

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Fourierschütz, 1758-63, a. copia toscana del moschetto austriaco mod. 1745; b. copia toscana del Comissflinte austriaco mod. 1757; c. e d. giberne portamunizioni per Fucilieri e Granatieri; e. sciabola per Granatieri e Sottufficiali (Fonte USSME, aut. 2074 Cod.id.STOR1 Ind.cl.12.4 del 26 mag. 2013, vietata la riproduzione)

le e il fallimento del velleitario progetto di una spedizione navale nel Coromandel (India), rendevano peraltro quasi paradossale l’esistenza di una fanteria di Marina. Nel 1753, anno in cui si avviò la nascita di un vero e coerente Esercito granducale, furono soppresse le milizie nazionali, avviata la creazione di un reggimento di cavalleria e costituite le Guardie di Sanità, la cui forza oscillò tra le 1 600 unità del 1753 e le poco più di 1 000 del 1765.

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Storia Storia La formale indipendenza del Granducato lo salvaguardò dalla guerra dei Sette anni (1756-1763), ma, divenuto Imperatore, Francesco Stefano lo amministrò come se fosse una delle tante Provincie dell’Impero, chiedendo ad Antoniotto Botta Adorno, Presidente del Consiglio di Reggenza, di fornire truppe all’Impero: nel 1758 tale contributo fu quantificato in un reggimento di 3 120 uomini, formato da sei compagnie di Granatieri e da 18 di Fucilieri, ripartiti in quattro battaglioni. Nel gennaio 1758 il Trattato tra Austria e Toscana per sussidi di soldati pose queste forze, definite ausiliarie, sotto le bandiere austriache. Tra gli Ufficiali figuravano Lorenesi, Tedeschi e Toscani. Dopo un laborioso allestimento, nel maggio 1758 il reggimento giunse in Slesia e fra l’agosto e l’ottobre successivo, inquadrato nel Corpo del Generale di origini lorenesi Charles De Ville, e agli ordini del Colonnello de Gondrecourt, partecipò all’assedio di Neisse. In queste prime fasi della campagna il reggimento perse, sia in combattimento che a causa del rigido clima, quasi 900 soldati, tanto che per ripianare le perdite subite dovettero partire dalla Toscana quasi 450 soldati nel 1759 e altri 350 l’anno seguente. Il 15 agosto 1760 il reggimento, inquadrato nell’Armata del Feldmarschall Ernst von Laudon e agli ordini del Colonnello Bretton – che morì nel corso dello scontro – si batté valorosamente a Liegnitz contro i Corazzieri prussiani. Subentrato in comando il Colonnello lorenese von Theillièrs, nel 1761 fu aggregato al Corpo del Maggior Generale Joseph Adam von Bethlen e operò in Slesia per contrastare le incursioni operate in ottobre, sul tergo dell’Armata, dai Dragoni e dagli Ussari prussiani. Le ulteriori perdite furono ripianate con soldati imperiali, in quanto il Granduca versò all’Impero la somma di sessantamila fiorini, consentendo in tal modo che il reggimento continuasse a operare sino al 1763, anno in cui fu sciolto. Sotto Pietro Leopoldo, dopo l’iniziale razionalizzazione delle spese militari, operata mediante la rivisitazione di Comandi, castelli e piazze e una maggiore attenzione all’ammodernamento dell’artiglieria, nell’ultimo quarto del XVIII secolo il progressivo disarmo dell’Esercito granducale divenne palese. Dal 1760 il dissesto finanziario impose restrizioni di bilancio: se nel 1765 lo Stato toscano ancora destinava alle spese militari circa un quinto delle entrate, dieci anni dopo, e nel periodo successivo, le risorse destinate alla componente militare diminuirono costantemente. Una lieve crescita si ebbe dal biennio 17871788, quando fu istituita un’aliquota di soldati addetti alle dogane e costituite nuove compagnie presidiarie. Nel 1767, un anno e mezzo dopo l’insediamento di Pietro Leopoldo, le spese militari furono di quasi 2 500 000 lire, una cifra nuovamente raggiunta nel fosco anno 1796. Nei primi anni di regno di Pietro Leopoldo, i tre reggimenti di fanteria da presidio furono accorpati nel neo-costituito reggimento «Real Toscano», formato da 3 562 uomini ripartiti in 15 compagnie: a quel tempo le compagnie Granatieri fornivano, a rotazione, un Corpo da sbarco per le fregate granducali «Austria» ed «Etruria». Nei primi anni Settanta del secolo si ebbero degli episodi di intolleranza tra i birri e i soldati, in quanto i militari vivevano come un affronto la loro subordinazione alla polizia in materia di ordine pubblico. Nel 1774 tale stato di disagio sfociò nell’assalto di una compagnia

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Compagnia della Milizia di Portoferraio, 1762, Ufficiale e Fucilieri (Fonte USSME, aut.2074 Cod.id.STOR1 Ind.cl.12.4 del 26 mag. 2013, vietata la riproduzione)

Granatieri, poi sciolta, al palazzo del Bargello di Firenze: un terribile tumulto che impressionò molto il Granduca, che temette l’unirsi della popolazione ai soldati. L’anno seguente, al fine di reperire risorse da investire nei progetti di sviluppo socio-economico promossi dal Sovrano, fu avviato un piano di riduzione dell’Esercito. Tale piano, cui fecero da contrappeso gli interventi volti a rendere più efficienti le difese statiche, accentuò il carattere presidiario dell’artiglieria e della fanteria, ridusse a uno squadrone la cavalleria e diminuì i Comandi di Piazza; negli anni seguenti diverse unità di truppa regolata furono inoltre sostituite da reparti di milizie civiche, mentre la direzione dello strumento militare passò alla Segreteria per gli Affari Militari. Sotto Pietro Leopoldo, ha giustamente sottolineato Bruno Mugnai nello studio «Soldati e Milizie Toscane del Settecento», si evidenziò una marcata diminuzione dell’apparato militare toscano rispetto a piccole e medie realtà statali quali Parma e Modena e l’avvio di un processo di vera e propria smobilitazione militare, simile a quelli in atto a Genova e Venezia. L’ESERCITO GRANDUCALE ALLA FINE DEL XVIII SECOLO Nella primavera del 1790, quando il Granduca si trovava in Austria, a Pistoia, Prato, Livorno e Firenze scoppiarono dei tumulti causati dalla crisi e dalla disoccupazione, non più temperate dalla distribuzione di elemosine e viveri, un tempo elargiti da congregazioni, chiese e conventi; le riforme religiose incisero profondamente su queste forme di solidarietà e le soppressioni leopoldine ebbero ripercussioni anche sulle cerimonie religiose, alle quali il popolo era molto legato. L’ordine fu riportato grazie all’arrivo di contingenti imperiali, ma furono ripristinate la pena di morte

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e la censura, per timore del diffondersi delle idee rivoluzionarie provenienti dalla Francia; nell’aprile del 1791, in conseguenza dell’elevazione di Leopoldo I al trono imperiale quale successore del fratello Giuseppe II, salì al trono di Toscana il giovane Ferdinando III, figlio di Pietro Leopoldo II, che accrebbe le spese militari portando gli effettivi di fanteria a 3 875 soldati. Ricostituì la Guardia Reale a cavallo sciolta dal suo predecessore, il battaglione di Firenze e, per ragioni essenzialmente di ordine pubblico, formò un reggimento di cavalleria di 300 soldati, che, nel 1795, assunse definitivamente la denominazione di Dragoni. Nel 1792, anno in cui fu emanato un nuovo Codice Penale Militare, a seguito della dichiarazione di guerra dei Francesi all’Austria, il Granduca Ferdinando III fece ribadire la legge del 1778 sulla neutralità di Livorno e degli altri porti toscani: nel 1793 i Britannici, con il sostegno del Governo asburgico, costrinsero però il Granducato ad aderire alla coalizione anti-francese. L’anno seguente fu ricostituito il Corpo delle Bande, ripartito in quattro battaglioni, ciascuno composto da 3 038 effettivi, e dal 1795, anno in cui fu firmata la pace tra Firenze e Parigi, il Granduca condusse una politica di riavvicinamento alla Chiesa, in funzione anti-giacobina. Nel 1796, quando la Francia dovette affrontare l’Austria e tutte le potenze continentali, solo la Toscana e gli Antichi Stati italiani rimasero neutrali.

tosi con la Corona spagnola, nel 1801 Napoleone creò il Regno di Etruria, ponendovi sul trono Ludovico I di Borbone, che in cambio rinunciò al Ducato di Parma, annesso alla Francia. La guarnigione legittimista di Portoferraio, comandata dal Colonnello Carlo de Fisson e sostenuta dagli Inglesi, resistette però ad oltranza ai Francesi, arrendendosi solo dopo la firma della pace di Amiens (25 marzo 1802), che consegnò la sovranità dell’isola d’Elba alla Francia. Per alcuni anni la Toscana, pur ri-

LE TURBOLENZE DEL PERIODO NAPOLEONICO Nella primavera del 1796, i Francesi del Generale Bonaparte entrarono nel Granducato per la strada dell’Abetone e si diressero su Livorno, che fu occupata il 27 giugno, con il conseguente blocco da parte della flotta inglese e l’irrompere degli scontri all’interno dello Stato; i Britannici occuparono la parte toscana dell’isola d’Elba e sbarcarono nel grossetano, dove si scontrarono con i Francesi. Solo nel 1797, a seguito di lunghe trattative diplomatiche, il Governo fiorentino riuscì a liberarsi dei Francesi e degli Inglesi che si trovavano all’isola d’Elba, ma l’occupazione costò allo Stato una cifra enorme, pari al bilancio di un anno, 10 326 666 lire toscane. Nel 1798 il Re di Napoli, attaccata la Repubblica Romana, mosse, con il tacito assenso di Ferdinando III di Toscana, all’occupazione di Livorno, ma fu sconfitto dai Francesi e perse il Regno, alla cui guida subentrò la Repubblica Partenopea. Nel marzo dell’anno seguente il Direttorio parigino, dichiarata guerra agli Asburgo, decise l’occupazione della neutrale Toscana che fu affidata al Commissario Charles-Frédéric Reinhard e continuò a essere diretta dalle precedenti strutture amministrative, mentre Ferdinando III si rifugiò a Vienna. Gli Austriaci occuparono a loro volta la Toscana dal luglio 1799 all’ottobre 1800, ripristinando il precedente sistema di potere, ma il ritorno dei Francesi pose nuovamente lo Stato sotto il loro controllo. Gli umori del popolo, inizialmente diversificati, grazie alle vittorie degli Austro-Russi in Italia del nord, si spostarono a favore della reazione, tanto che le truppe francesi e la Guardia Nazionale Toscana dovettero reprimere, nella primavera, le rivolte di Viareggio, Camaiore e Pietrasanta, mentre ad Arezzo il movimento insurrezionale creò un Governo provvisorio e organizzò i braccianti in reparti paramilitari, pagati e vettovagliati. Le bande dei Viva Maria bloccarono il flusso dei grani verso Firenze e Siena, s’impossessarono delle imposte dovute alla capitale, ed ebbero la fortuna di non dover affrontare l’Armata del Generale francese Alexandre Macdonald, che, dal napoletano, ripiegò verso il nord Italia utilizzando la direttrice di marcia Roma-Siena-Firenze. L’Armata della fede aretina s’ingrossò e iniziò la marcia verso Siena, Grosseto e la capitale, scontrandosi con i reparti francesi, con quelli della Guardia Nazionale e del neo costituito battaglione Volontari Toscani, generando in ogni luogo violenze e processi sommari. Il clima antigiacobino consentì al lontano Ferdinando III di nominare una Reggenza, che riuscì a organizzare due legioni di fanteria e una compagnia di cannonieri, forze esigue che non poterono impedire la terza invasione del Granducato da parte delle forze francesi del Generale Pierre Dupont. Il 19 e 20 ottobre 1800 Arezzo, che non aveva deposto le armi, fu assaltata e saccheggiata: gli austro-aretini dovettero abbandonare l’Etruria e le truppe italiane del Generale Domenico Pino, tra le quali vi era il battaglione toscano, ebbero ragione, presso Monteriggioni, delle milizie borboniche del Generale, francese e antirivoluzionario, Roger de Damas. Accorda-

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Compagnia Cannoniera, 178095, Cannoniere comune e Cavalleggero comune dello squadrone, poi compagnia Cavalleggeri di S.A.R., 1775-90 (Fonte USSME, aut.2074 Cod.id.STOR1 Ind.cl.12.4 del 26 mag. 2013, vietata la riproduzione)

schiando la bancarotta, godette di un periodo di relativa tranquillità: il nuovo Sovrano si riavvicinò alla Chiesa e morì dopo appena due anni di regno, il 27 maggio 1803, al tempo in cui ripresero le ostilità tra Francesi e Inglesi. La moglie Maria Luigia assunse il governo per conto del figlio Carlo Ludovico, ma nel 1807, in conseguenza del Trattato franco-spagnolo di Fontainebleau (27 ottobre 1807), il Regno di Etruria fu unito all’Impero Francese e, nell’aprile dell’anno seguente, ripartito nei tre dipartimenti di Arno, Mediterraneo e Ombrone. La reggente dovette lasciare Firenze e fu l’ultima umiliazione, dopo l’occupazione di Livorno da parte

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Storia Storia dei Francesi e l’aver dovuto fronteggiare una situazione finanziaria così grave da imporre drastiche misure, tra le quali la riduzione delle spese per la Corte e l’Esercito (fu riformato il reparto delle Guardie del Corpo, dimezzato il numero dei Dragoni, mantenuto un solo reggimento di fanteria). Il 12 dicembre 1807 le truppe toscane, allora essenzialmente costituite dal «reggimento leggiero toscano», già reggimento a piedi «Real Carlo Ludovico» e dallo squadrone Dragoni, giurarono fedeltà all’Imperatore e furono riorganizzate sul modello francese. Il reggimento a piedi, ripartito in due battaglioni composti, ciascuno, da una compagnia Granatieri, una Volteggiatori e quattro Fucilieri, il 6 luglio 1808 divenne il 113ème régiment d’infanterie de ligne, mentre lo squadrone Dragoni fu elevato di livello e assunse il nome di 28ème régiment de Chasseurs a Cheval. Gli Artiglieri da campo e da piazza furono inseriti nei ranghi dell’artiglieria del Regno Italico, mentre sul suolo toscano rimasero le compagnie Guardiacoste e varie milizie sedentarie, da attivarsi in caso di necessità. Furono creati ex novo il bataillon des Vélites de Florence, les Guardes d’Honneur, il 35ème règiment d’infanterie légère, il 13ème régiment des Hussards, il 137ème régiment d’infanterie de ligne, mentre l’84ème régiment d’infanterie de ligne e il 112ème régiment d’infanterie de ligne persero la connotazione prettamente francese grazie all’inserimento di numerosi militari italiani e toscani. Alle operazioni in Spagna contro gli insorti parteciparono, nel 1808-09, il 113° reggimento e il 28° Cacciatori, reparti che si batterono a Castellon de Ampurias (11 luglio 1808), Gerona (5 e 10 agosto 1808) e Figueras (24 agosto 1808). Dal 1810 i medesimi reparti toscani furono nuovamente impiegati sul suolo iberico, battendosi, assieme o separatamente, in Biscaglia e ai confini con il Portogallo, a Puebla de Sanabria (29 luglio 1810), Bonas, (5 maggio 1811), Obrigo (13 giugno 1811), nell’assedio di Ciudad Rodrigo (8-19 gennaio 1812) e tra Santander e Renosa (15 gennaio 1813). Alcuni cenni su altri reparti formati da Toscani: il 3° e il 4° battaglione del 113° reggimento operarono, dal marzo 1811, quale unità reggimentale distinta e per tale motivo chiameremo questo 113° con l’appellativo di 113° bis. Questo reparto, a lungo stanziato in Francia e Germania, nel 1812 fu inserito nella 34a Divisione dell’XI Corpo della Grande Armée e tenuto in riserva tra l’Elba e la Vistola. Mosse con altri reggimenti in soccorso alle colonne in ritirata di Napoleone, entrando in contatto con i Russi a Osmiana il 5 dicembre 1812. Unitamente a due reggimenti di Cavalleggeri della Guardia napoletana, un suo battaglione, nel gelo invernale, scortò l’Imperatore verso Wilna: aggregato al Corpo di Ney, il 113° bis combatté inoltre a Wilna (9 dicembre 1812), Ponary e Kowno (11, 12 dicembre 1812), aprendosi la strada verso la Polonia e raggiungendo Danzica, decimato nei ranghi, il 12 gennaio 1813. L’impegno dei reparti formati da Toscani continuò su ogni fronte: nel 1813 il 28° Cacciatori partecipò alla battaglia di Gohrde (16 settembre 1813), il battaglione Veliti di Firenze e il 35° reggimento a quella di Lipsia (16-19 ottobre 1813), il 113° «spagnolo», rinforzato, combatté all’assedio di Wurzburg (dicembre 1813 - maggio 1814), il 113°, reduce dalla campagna di Russia, concorse invece all’epica difesa di Danzica (gennaio 1813 - gennaio 1814). Un terzo 113° reggimento fu formato sul finire del 1813 e partecipò alla difesa del territorio metropolitano battendosi, in particolare, a Champaubert (10 febbraio 1814). Niccolò Giorgetti, Francesco Frasca, Paolo Coturri e altri autori indicano peraltro numerosi altri reparti composti da soldati italiani nell’ambito dei quali combatterono i soldati toscani: tra essi rammentiamo i reggimenti di linea 64°, 111°, 135°, 152°, 156° e il 1° reggimento Dragoni. Atteso che nelle Armate napoleoniche militarono decine di migliaia di Italiani, è stato calcolato che nella Grande Armée, tra il 1809 e il 1813, militarono 14 600 reclute toscane e ben 23 370 soldati nel periodo 1808-1814, ove si considerino i militari tratti dalle leve annuali, quelli dell’Esercito toscano passati al servizio imperiale e i volontari. Soldati la cui lingua ufficiale di servizio era il francese, sebbene molte testimonianze confermino come nei reparti a spiccata connotazione italiana fosse prassi comune utilizzare la lingua nazionale e toscana. Al tentativo di «francesizzare» la Toscana e le sue popolazioni si oppose la peculiarità e il radicamento della lingua toscana, ma è indicativo, al riguardo, come nei registri ufficiali il nome dei coscritti fosse usualmente tradotto in francese, mantenendo nella forma nazionale il solo cognome. La difficoltà di produrre risul-

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tati superiori a una generica influenza linguistica fece sì che, anche in ambito amministrativo, Parigi acconsentisse all’utilizzo della lingua toscana. Nel 1815, caduto Napoleone, il Congresso di Vienna sanzionò il nuovo ordine europeo e il ricostituito Granducato di Toscana sottoscrisse con l’Impero d’Austria un trattato che lo allineò al sistema asburgico. In caso di conflitto il Granducato avrebbe ricevuto soccorso militare dall’Impero, ma s’impegnava a elevare l’Esercito a 11 500 uomini, da porre sotto comando imperiale, come già si era verificato alcuni mesi prima, quando le forze toscane, nonoBATTAGLIONE UNIVERSITARIO TOSCANO Nato dalla Guardia Universitaria istituita nel 1847 dalle autorità lorenesi, il battaglione partì da Pisa il 22 marzo 1848, forte di una trentina di docenti e 389 studenti, presto raggiunti da altri 70 provenienti da Siena. Guidati dai loro professori, i giovani studenti erano inquadrati da Sottufficiali e i Caporali erano eletti tra loro. Rifiutata l’ingiunzione delle autorità toscane a scegliere se arruolarsi nei reparti regolari o fare ritorno agli Atenei, la maggior parte di essi, 305, si batté con onore contro gli asburgici, a fianco dei Corpi Franchi napoletani, dei civici e dei regolari, nella battaglia di Curtatone e Montanara

stante le rimostranze del Granduca, avevano preso parte alla guerra di Napoli agli ordini del Generale austriaco Laval Nugent. Con il ritorno di Ferdinando III furono reintrodotte le leggi leopoldine e gran parte delle Istituzioni dell’amministrazione e le ripartizioni territoriali tornarono a essere quelle del periodo pre-napoleonico: l’Esercito si ricostituì con una certa difficoltà, anche perché molti militari, specialmente Ufficiali, avevano conservato un positivo ricordo dell’esperienza francese, particolare che li rendeva inammissibili nelle file granducali. La coscrizione obbligatoria, mantenuta du-

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rante la Restaurazione in quasi tutti gli Stati europei, fu abolita e la ricostituzione delle truppe avvenne mediante il reclutamento di volontari, compresi tra i 18 e i 40 anni, e il ricorso all’arruolamento forzato di cittadini discoli («senza arte né volontà di attendere ad un mestiere, privi di mezzi di sussistenza, con propensione alla dissolutezza ed al turbamento della quiete pubblica») mediante provvedimenti coattivi di polizia. Le difficoltà nel reclutamento si protrassero al 1818, quando fu introdotto, con alterni e non risolutivi risultati, un ingaggio per i Sottufficiali e i soldati che si ricapitolavano per tre anni, salvo costringere un certo numero di soldati, che non intendevano ricapitolarsi, a rimanere in armi per 4 o 8 mesi, per mancanza di nuove leve. Dal 1816 la Milizia fu inquadrata in un Corpo che, all’occorrenza, si sarebbe potuto integrare con l’Esercito regolare. Nel 1823 l’Esercito annoverava i reggimenti di fanteria «Ferdinando» e «Leopoldo», l’artiglieria di linea, i cannonieri di costa, i Cacciatori a piedi e a cavallo, il battaglione Guardiacoste dell’isola d’Elba e i Veterani: una forza media di 5 850 soldati. La particolare attenzione che il Governo granducale mostrava nei riguardi del sistema produttivo fece sì che fossero esentati da ogni servizio armato i contadini che lavoravano il podere, se la loro famiglia non era composta da tre o più uomini: un principio ispiratore che fu mantenuto anche nella legge di riforma dell’arruolamento militare dell’8 agosto 1826.

anche contro gli Italiani - per lo più reclutati in Veneto - del 45° reggimento asburgico «Arciduca Sigismondo», riuscirono a rompere il contatto e a ripiegare su Goito, dove, il giorno seguente, i Piemontesi, protetti sul fianco sinistro (oltre il fiume Mincio) dai Toscani del Colonnello de Laugier, sconfissero l’Esercito del Generale Josef Radetzky. Le battaglie di Custoza (22-27 luglio 1848) e Novara (23 marzo 1849) chiusero però in passivo la Prima Guerra d’Indipendenza, il cui corollario fu rappresentato dalla fine della Repubblica Romana (4 luglio 1849) e dalla caduta di Venezia (22 agosto 1849).

ESERCITO E VOLONTARI AL TEMPO DI LEOPOLDO II Nel 1824 ascese al trono toscano il Granduca Leopoldo II che, dimostrandosi tollerante e mite, fu ben accetto alle popolazioni, tanto che i moti del 1831 interessarono i Ducati emiliani e le Legazioni pontificie, ma non il Granducato. La politica estera e di difesa, e conseguentemente gli orientamenti della politica militare, tra il 1825 e il 1834 non mutarono e l’incidenza media della spesa militare sul totale di quella pubblica si assestò su di una percentuale di poco inferiore al 19%, salvo – a fonte di un generale incremento delle entrate – aumentare nel decennio successivo di quasi il 4% e sfiorare, nel 1844, i cinque milioni di lire, soprattutto in conseguenza dell’istituzione, nel 1840, del Corpo dei Carabinieri. Gli anni 1848-49 segnarono una grande impennata delle spese militari che, a fronte di una crescente tassazione, giunsero percentualmente al 27% del bilancio dello Stato al tempo della Prima Guerra d’Indipendenza, per poi scendere di sette punti e tornare a salire tra il 1852 ed il 1854. La componente popolare più emancipata, buona parte del ceto dirigente e soprattutto il Granduca, furono particolarmente colpiti dalle vittoriose insurrezioni di Milano e Venezia del 1848, che avevano spinto Re Carlo Alberto di Savoia a dichiarare guerra all’Austria. Per tale motivo alla Prima Guerra d’Indipendenza partecipò anche un limitato contingente di circa 7 000 soldati e volontari del Granducato di Toscana, al quale si affiancarono quelli dello Stato Pontificio e del Regno delle Due Sicilie. Le norme per il reclutamento dei volontari toscani, originate dalle notificazioni ducali del 25 novembre e del 25 dicembre 1847, stabilivano che per arruolarsi bisognasse avere un’età compresa tra i 18 e i 30 anni, presentare attestati di moralità, stato libero e fede, prevedendo inoltre che il servizio prestato fosse equiparato a quello ordinario. Le truppe del Granducato di Toscana, unitamente ai contingenti alleati pontificio e napoletano, adottarono per il combattimento il vessillo tricolore dell’indipendenza italiana e si batterono agli ordini del Colonnello, di origine elbana, Cesare de Laugier. Pur ridimensionati nel numero a causa dei congedi concessi, i soldati toscani rimasero nel Teatro d’operazioni anche dopo il richiamo in patria delle truppe alleate da parte dei rispettivi Governi. Sicuramente il ricordo della Prima Guerra d’Indipendenza è strettamente legato agli scontri di Curtatone e Montanara, dove i Corpi franchi toscani e napoletani si batterono a fianco dei regolari e dei civici. Il 29 maggio 1848 il solo battaglione universitario toscano, a fronte di una forza effettiva di 280 uomini, patì 61 studenti morti o feriti e 131 prigionieri (circa il 12% del totale): quel giorno i volontari toscani e napoletani – 2 278 a Curtatone, 2 407 a Montanara, circa 1 600 tra Castellucchio, Rivalta, Sacca e Goito – riuscirono a bloccare gli Austriaci provenienti da Mantova, scongiurando l’aggiramento dell’Esercito sabaudo. In particolare, i volontari di Curtatone, dopo essersi purtroppo battuti

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Toskanische Infanterie, 1758-63: Tenente dei Fucilieri del III battaglione; Fuciliere comune del II battaglione; Granatiere comune del I battaglione (Fonte USSME, aut.2074 Cod.id.STOR1 Ind.cl.12.4 del 26 mag. 2013, vietata la riproduzione

Nell’estate del 1849, dopo aver ridotto al silenzio le ultime sacche di resistenza a Lucca, Pisa e Livorno, un Esercito austriaco forte di 15 000 uomini rimise al potere Leopoldo II, che, prese le distanze dalla causa nazionale, smantellò l’intero sistema delle garanzie costituzionali edificato nel 1848: le pressioni popolari seguite al rifiuto di convocare una Costituente nazionale lo spinsero però, il 7 febbraio 1849, ad abbandonare Firenze e a rifugiarsi, con il Papa, a Gaeta. A Firenze fu proclamato un Governo provvisorio, che

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Storia Storia annoverava tra i suoi più prestigiosi esponenti Giuseppe Montanelli e Francesco Domenico Guerrazzi: un esecutivo cui posero fine le truppe austriache affluite dal Ducato Estense, che il 12 aprile del medesimo anno riportarono il Granducato di Toscana nell’orbita dell’Impero asburgico. DA LEOPOLDO II ALL’UNITÀ D’ITALIA Il decennio 1849-1859 fu caratterizzato dal rientro di Leopoldo II in Toscana, di Francesco V d’Asburgo-Este a Modena e Reggio e di Pio IX a Roma, con la conseguente abolizione delle Costituzioni e l’instaurazione di regimi di polizia. Eppure, in questo clima, il Codice Penale Militare del Granducato di Toscana, emanato da Leopoldo II nel 1856, pur essendosi genericamente ispirato alla normativa austriaca, non era una compilazione retriva e reazionaria e anzi, sotto taluni profili, presentava aspetti innovativi: così al titolo II della Giurisdizione militare, l’art. 10 disponeva, con alcune e ben determinate eccezioni, che i militari incolpati unitamente a dei civili di uno stesso delitto, militare o comune, dovessero essere soggetti alla giurisdizione dei tribunali ordinari. Inoltre se un militare fuggiva da un carcere militare era “debitore di diserzione”, se invece fuggiva da un carcere non militare, poteva essergli imputato il solo reato di evasione, a mente dell’allora vigente Codice Civile (art.154). Per quanto riguarda le pene ordinarie, il Codice Penale Militare prevedeva quella di morte (art. 24), l’ergastolo (art. 28), la casa di forza (art. 29), la compagnia di castigo (art. 31) e il carcere (art. 34), mentre la sola pena straordinaria prevista era la fustigazione (artt. 33, 38), che poteva essere inflitta solo a chi fosse nelle condizioni di poterla sopportare. Una pena prevista in tempo di guerra o di pubblica difesa e circoscritta, in tempo di pace, ai soli delitti di diserzione, insubordinazione e furto. Le punizioni corporali, che talvolta surrogavano il carcere, erano inflitte con bastoni o verghe e risultavano comparativamente meno pesanti e riguardavano un minor numero di casi, rispetto a quanto stabilito dai codici militari allora in vigore nei principali Eserciti europei. Le pene fisiche non potevano essere decretate contro gli Ufficiali – per i quali era prevista la detenzione in fortezza e la destituzione – e quando lo erano contro i Sottufficiali erano precedute dalla privazione del grado (art. 44). La disciplina, ispirata al modello austriaco, ma in realtà più blanda, garantiva l’efficienza dello strumento militare, tanto che, nel 1857, i moti mazziniani di Livorno furono soffocati sul nascere dalle autorità toscane. A quel tempo sul Granducato di Toscana e su tutta l’Italia centro-settentrionale stavano per abbattersi i rivolgimenti conseguenti agli accordi di Plombières del luglio 1858, un’intesa segreta franco-piemontese che sanciva l’alleanza militare tra Napoleone III e Vittorio Emanuele di Savoia. Tali accordi tracciavano, di massima, il futuro assetto della penisola, prevedendo l’ampliamento del Regno sabaudo nel nord Italia, la nascita di un regno formato da Marche, Umbria e Toscana nell’Italia centrale, il perpetuarsi della sovranità del Papa su Roma e il Lazio e nessun mutamento nel Sud borbonico. I quattro Stati si sarebbero dovuti unire in una Confederazione che, con scarsa visione politica, ancora si riteneva potesse essere presieduta dal Pontefice. Nel marzo-aprile 1858, alla vigilia di una nuova guerra contro gli Austriaci, dalla Lombardia, dal Granducato di Toscana e da ogni altra regione italiana, accorsero in Piemonte migliaia di volontari: i più validi, tra i 18 e i 21 anni, furono arruolati nell’Esercito sabaudo (65 000 uomini, volontari compresi), altri alimentarono la Brigata posta agli ordini di Giuseppe Garibaldi, nominato Maggior Generale dell’Esercito piemontese. La campagna del 1859, con le vittorie franco-italiane di Solferino e San Martino, permise al Piemonte di consolidare il controllo sulle regioni del nord Italia, consentendo ad esso nel contempo, di trarre vantaggio dalla fluida situazione creatasi nei Ducati e nelle Legazioni pontificie, dove i moti popolari non consentirono il ritorno all’ancien régime: fra l’estate 1859 e la primavera 1860 a Parma e Modena, a Bologna e in Toscana si formarono dei Governi provvisori, che procedettero alla formazione dell’Esercito dell’Italia centrale e alla sua fusione con quello piemontese. In Toscana, in particolare, il 27 aprile 1859 i cittadini fiorentini chiesero l’alleanza con il Piemonte e la guerra contro l’Austria, ponendo fine, con una rapida rivoluzione, alla dinastia dei Lorena e al Granducato di Toscana. In quest’occasione l’Esercito, riorganizzato grazie agli sforzi del

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Generale Federico Ferrari da Grado, alla vigilia della Seconda Guerra d’Indipendenza, mostrò subito una decisa «coscienza italiana», aderendo con immediatezza alla causa nazionale. Vittorio Emanuele inviò a Firenze, per assumere il comando del piccolo Esercito toscano, un ex Generale borbonico di provata fedeltà, Gerolamo Ulloa. Costui avviò la modifica della struttura organica dei reparti, motivo per il quale non fu possibile schierare rapidamente i reparti toscani (due Brigate di fanteria, tre reggimenti di cavalleria e tre batterie d’artiglieria) contro gli Austriaci; infatti, malgrado le truppe toscane si fossero unite a quelle francesi del 5° Corpo d’Armata sbarcate a Livorno, non riuscirono a scontrarsi con gli Austriaci poiché, dopo aver varcato l’Abetone, sopraggiunse l’Armistizio di Villafranca. Il vuoto di potere causato dall’abbandono dei loro Stati da parte dei Sovrani dei Ducati di Parma e Modena e la favorevole situazione determinatasi nelle Legazioni consentì a personalità quali Luigi Carlo Farini a Modena, Leonetto Cipriani e Marco Minghetti a Bologna e Bettino Ricasoli a Firenze di dare vita alla Lega Militare, che, agli ordini del Generale di origine modenese Manfredo Fanti, schierava 4 000 parmensi, 4 000 modenesi, 7 000 bolognesi e ben 12 000 toscani. Fanti, in particolare, stabilita la leva regolare, decise che la Divisione toscana, di ritorno dalla Lombardia, divenisse il nucleo principale attorno al quale raggruppare le altre milizie: un’intuizione che già alla fine del gennaio 1860 condusse alle armi più di 50 000 uomini, una parte dei quali formò due nuove Divisioni toscane. Nella primavera del 1860, a seguito dei pronunciamenti – in Toscana il trionfale plebiscito ebbe luogo nel marzo – tutte le forze della Lega passarono definitivamente nell’Esercito piemontese e il contingente toscano, già Divisione toscana, assunse il nome di 9a Divisione dell’Esercito sardo. In un Esercito che, rispetto all’Armata sabauda, aveva triplicato i propri organici, gli Ufficiali toscani erano circa 1 000 e, in quanto formati nell’Esercito Granducale, d’impronta austriaca, risultavano ben accetti, perchè non formatisi sul campo, ma provenienti da regolari Istituti di formazione militare. Quanto alla spedizione dei Mille, i Toscani erano una settantina, quasi tutti veterani che sapevano combattere.

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CONCLUSIONI Se prima del 1737 i soldati toscani dell’Esercito Granducale risultavano prevalenti rispetto alla componente straniera assoldata, nel primo periodo post-mediceo l’innesto di reparti lorenesi e la loro mancata fusione con la componente toscana rese lo strumento militare poco omogeneo, favorendone la divisione. Per salvaguardare la formale neutralità del Granducato, i ranghi dell’Esercito furono però ampliati e le sue unità, nel corso della guerra di successione d’Austria, tenute in stato di allerta. Dal 1748 la diminuzione delle forze fu però costante e all’Esercito fu dedicata meno attenzione, una situazione che si protrasse sino al 1753, anno a partire dal quale si possono cogliere alcuni segnali di maggiore attenzione verso le Forze Armate. Una particolare menzione merita la partecipazione, dal 1758 al 1763, di un reggimento granducale alla guerra dei Sette anni, dove i soldati toscani combatterono bene, esprimendo un’efficienza superiore a quella dimostrata dal Governo fiorentino per levare, tra i sudditi, le reclute destinate a ripianare le perdite reggimentali. Nel primo periodo lorenese la disciplina del piccolo Esercito di un Granducato posto «sotto tutela imperiale» era comunque dura: le punizioni fisiche rappresentavano la normalità e tra le pene che era possibile infliggere per reprimere i reati vi fu anche il taglio del naso e quella capitale. Nell’ultima età lorenese, viceversa, la pena di morte (abolita per i civili nel 1786) fu prevista, in particolare, per i reati di codardia, quali la ricusazione dell’ordine di combattere, il tenersi fuori dalla mischia, il gettare le armi, il darsi alla fuga, l’abbandono di posto, il rendersi volontariamente inabile al servizio dell’armi essendo in faccia al nemico (artt. 193,195, 196); anche il saccheggio (art.198) prevedeva la massima pena, a riprova degli sforzi volti a conformare le norme del Codice Militare del Granducato all’etica militare. I Lorena, d’altro canto, non riuscirono mai a legare profondamente il popolo alla loro dinastia, che aveva esordito governando a lungo lo Stato dall’estero, sottraendo a Firenze molte opere d’arte frutto del mecenatismo mediceo e privilegiando, nella riorganizzazione dell’Esercito, la componente lorenese. Quanto alle Forze Armate, nel periodo della Restaurazione ebbero un peso sociale e politico inferiore rispetto a quello goduto dai militari in altri Stati della penisola, e ciò in conseguenza dei ricorrenti problemi finanziari, dell’attribuzione all’Esercito di compiti di «civil difesa», della scarsa propensione della nobiltà toscana verso la carriera militare e del fatto che il popolo non trovava nell’Esercito un fattore di promozione

sociale. Tutto cambiò nel periodo napoleonico, quando l’introduzione del servizio militare obbligatorio, la ricostituzione all’insegna dell’efficienza di reparti dell’Esercito ben addestrati ed equipaggiati, l’aumento delle paghe e la possibilità di avanzare nel grado – unitamente ai nuovi fermenti ideali – conferirono ai reggimenti formati da Toscani e Italiani un’incredibile potenzialità, che trovò un positivo riscontro nella partecipazione alle campagne di Spagna: in Catalogna e Castiglia; di Russia: in Lituania e Bielorussia; di Germania: in Franconia; di Francia: nella regione Champagne-Ardenne; d’Italia: in Veneto e Lombardia. Una tragica e gloriosa epopea, che mise in luce il valore di tutti i soldati italiani che si batterono sotto le insegne napoleoniche: Toscani, certo, ma anche Napoletani, Parmensi, Modenesi, Lombardo-Veneti, tutti, per la prima volta, uniti. Un’esperienza che gli anni di torpore seguiti alla Restaurazione del 1815 non poterono cancellare e che riaffiorò, nel 1848 e nel corso delle Guerre per l’Indipendenza, quando i soldati, i volontari e gli studenti toscani si batterono valorosamente al fianco di altri Italiani, in nome della rinascita e del riscatto nazionale. *Colonnello

DOCUMENTAZIONE D’ARCHIVIO, BIBLIOGRAFIA E ILLUSTRAZIONI “Notificazione del 29 dicembre 1847 a firma del Conte V. L. Serristori, Stamperia” Ducale, Firenze, 1847. ASSi, fondo Particolari Famiglie Senesi, “Carte Gabrielli”, 8 bis. “Manifesto del 17 aprile 1848 di Leopoldo II di Toscana sulla sostituzione delle Bandiere di Stato e della Guardia civica con il Tricolore”, Stamperia Ducale, Firenze, 1848, ASSi, fondo Particolari Famiglie Forestiere “Carlo Massotti” 8 bis. “Codice Penale Militare del Granducato di Toscana”, Stamperia Granducale, Firenze, 1856. Gennaro Moreno, “Trattato di storia militare”, vol. I, Antica Tipografia Solani, Modena, 1892. Gabriele Paolini, Notizie dal campo, in “Curtatone e il 1848 toscano, italiano ed europeo: la trasformazione del popolo in nazione” (Atti dei Convegni livornesi per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia), Pier Ferdinando Giorgetti (a cura di), Pisa, 2010. Paolo Coturri, Gianni Doni, Stefano Pratesi, Daniele Vergari, “Partire, partirò, partir bisogna. Firenze e la Toscana nelle campagne napoleoniche”, Ed. Polistampa, Firenze, 2009. Virgilio Ilari, Ciro Paoletti, Piero Crociani “Bella Italia Militar, Eserciti e Marine nell’Italia pre-napoleonica”, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, Roma, 2000. Bruno Mugnai, “Soldati e milizie toscane del ’700”, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, Roma, 2012. Daniela Manetti, “La ‘Civil difesa’. Economia, finanza e sistema militare nel Granducato di Toscana (1814-1859)”, Olschki, Firenze, 2009. Niccolò Giorgetti, “Le armi toscane e le occupazioni straniere in Toscana (1537-1860)”, vol. III, Città di Castello, 1916. Massimo Borgogni, “La gloria effimera. Forze Armate e volontari dalla Prima guerra d’Indipendenza alla breccia di Porta Pia (1848-1870)”, Ed. Unicopli, Milano 2012. Alessandra Contini, Il sistema delle bande territoriali fra ordine pubblico e riforme militari nella prima età lorenese, in “Corpi armati e ordine pubblico in Italia” Livio Antonelli e Carlo Donati (a cura di), Rubettino, Soveria Mannelli, 2003. Mario Isnenghi, Eva Cecchinato (a cura di), Fare l’Italia: unità e disunità nel Risorgimento, in “Gli Italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni”, vol. I, UTET, Torino, 2008. Franco Della Peruta, “Esercito e società nell’Italia napoleonica”, Franco Angeli, Milano, 1988. Costantino Cipolla, Fiorenza Tarozzi (a cura di), “Tanto infausta sì, ma pur tanto gloriosa. La battaglia di Curtatone e Montanara”, Franco Angeli, Milano, 2004. Bruno Mugnai, tavole illustrate con figure in uniforme.

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Storia

TOP SECRET: L’AFFASCINANTE MONDO DEI CODICI SEGRETI I messaggi cifrati che hanno fatto la storia: dall’antica Grecia alla Guerra Fredda. Un viaggio nel mondo dei codici segreti presentato da alcuni giovani allievi della scuola militare ”Nunziatella”

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’esigenza di inviare messaggi è antica quanto l’uomo. Accompagnata spesso dalla necessità di tenerne nascosto il significato o addirittura la sua stessa esistenza. Per questo sono stati inventati i codici segreti. Due le tecniche usate fin dall’antichità: la steganografia e la crittografia. Quest’ultima permette di tenere nascosto il significato di un messaggio o di renderne più complicata (o impossibile) la comprensione. Invece la steganografia serve a nascondere una comunicazione, come la stessa etimologia conferma (“stegano” vuol dire nascosto e “grafia”, scrittura). Per comprendere meglio l’utilizzo di tali tecniche bisogna ripercorrere le vicende che videro le antiche poleis scontrarsi con il potente impero persiano. Ad esempio, per avvisare i compatrioti di un possibile attacco persiano, Demarato scrisse il messaggio segreto su una tavoletta, poi la ricoprì con della cera sulla quale scrisse un ulteriore messaggio, non legato alle vicende belliche. Inviò quindi la comunicazione così composta a Sparta. Nel mondo greco le tavolette di cera erano oggetti d’uso comune e facevano parte della vita di ogni giorno.

di Vincenzo Junio Valerio Musmeci, Nicola de Maio, Vitantonio Cito e Vittorio Guarriello*

Quella particolare tavoletta conteneva un’informazione essenziale per la salvezza di Sparta. Fu grazie all’intuito di Gorgo, moglie del re spartano, che la cera fu raschiata rivelando così l’esistenza del messaggio segreto. Ecco un caso, forse il primo che conosciuto, di utilizzo della steganografia. Questo aneddoto è stato tramandato grazie alla testimonianza dello storiografo greco Erodoto ed è stato poi ripreso dall’abate Tirtemio (XV sec.), che nella sua “Steganographia” spiega meglio l’utilizzo della tecnica. La crittografia invece è stata adoperata per la prima volta dal giovane Caio Giulio Cesare, durante la campagna in Gallia. Cesare utilizzava un alfabeto cifrato per comunicare con le truppe lontane. Il metodo adottato era il seguente: ogni lettera del suo alfabeto cifrato corrispondeva a una lettera di quello normale, spostata però di qualche posizione. Fissando

«Macchina Enigma»

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n=4, ad esempio, partendo dal normale alfabeto, quello cifrato sarà: a=d, b=e, c=f e così via. Il numero 4 sarà la chiave di comprensione del messaggio, di cui Cesare e ovviamente i suoi uomini dovevano essere a conoscenza. Tuttavia, per quanto potesse essere geniale, il metodo del giovane condottiero romano non era infallibile. Per decriptare il messaggio bastava intuire la posizione di una qualsiasi delle lettere e scoprire le restanti. Così fu ideato un sistema che permettesse di associare le lettere in maniera del tutto casuale, o quasi. La difficoltà si sposta però sul ricordarsi gli abbinamenti. Il problema si risolve concordando una frase dalla quale ricavarli. Per esempio, prendiamo come frase un celebre verso “Nel mezzo del cammin di nostra vita” e togliamo le lettere che si ripetono (nelmzodcaistrv). A queste vanno aggiunte le lettere che non compaiono per nulla nel verso (bfghpqu). A questo punto la nuova sequenza a cui associare l’alfabeto regolare sarà: nelmzodcaistrvbfghpqu, quindi in questo modo otterremo A=n, B=e, C=l, D=m. Il metodo enunciato rappresenta un notevole passo avanti nel mondo della crittografia, ma anche in questo caso è possibile decriptare il messaggio effettuando un calcolo matematico. In ogni lingua ci sono lettere che si ripetono più di altre. Quindi per risalire alle corrispondenze alfabetiche sarà sufficiente confrontare le frequenze con cui le lettere compaiono nel messaggio e le frequenze delle lettere nella lingua parlata.

Fig. 1

Fig. 2

I CODICI POLIALFABETICI Un ulteriore passo avanti si ottenne grazie al sistema di Leon Battista Alberti. Architetto, scrittore e matematico, fu uno dei più illustri rappresentanti del nostro Rinascimento. Tuttavia non tutti sanno che era anche un eccellente crittografo. Alberti non si limitò solo a scrivere messaggi cifrati indirizzati ai più alti funzionari dei vari Stati italiani dell’epoca. Nel “De Cifris” teorizzò un nuovo metodo di scrittura criptata basato su un sistema a più alfabeti (detto appunto “polialfabetico”), innovativo rispetto al monoalfabetico adottato da Cesare. Tale sistema si basa su un disco denominato dallo stesso Alberti “disco cifrante”. È formato da due dischi concentrici e rotanti. Sul disco esterno compare la regolare Leon Battista Alberti sequenza alfabetica usata nel linguaggio comune e in aggiunta le cifre da uno a quattro; su quello interno troviamo le lettere messe in modo casuale. Stabilita, ad esempio, la lettera C del cerchio esterno come lettera chiave (e avendola giustapposta in questo caso alla Y del cerchio interno) si configura una particolare corrispondenza tra le rispettive lettere dei due alfabeti. Quindi il messaggio cifrato si apre con una lettera che indica il riferimento a cui si deve far corrispondere la lettera C seguita dalle lettere che conten-

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Fig. 3

gono il messaggio cifrato vero e proprio. Se comunichiamo il testo MESSAGGIO DA LEON, la prima parola sarà YXHTTETSSRV. La Y, che è la prima, indica la lettera del cerchio interno a cui va associata la C, ovvero la parola chiave, che è scritta sul cerchio esterno. Continuando a leggere il messaggio cifrato troviamo la lettera X, questa volta quella del cerchio interno, che ha co-

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Busto di Cesare

me corrispondente sul cerchio esterno la M, nonché l’iniziale della parola MESSAGGIO, poi compare la lettera H che corrisponde alla E e così via (fig. 1). Per comunicare la seconda parola del messaggio, cioè DA, scriverò dunque la nuova lettera, in questo caso C, che indica la lettera a cui far corrispondere la parola chiave stabilita. Allora il messaggio sarà CETQ, dove ET corrisponde ora alla D e Q alla A (fig. 2). Volendo concludere trasmettiamo ora l’ultima parola cioè LEON. Decidiamo l’ultima lettera a cui associare la parola chiave, cioè la D. Con la nuova sequenza alfabetica, la parola criptata sarà DGZNF, poiché la G, letta dal cerchio interno corrisponde alla L di Leon, che sta sul cerchio esterno, la Z corrisponde alla E, la N alla O e infine la F alla N (fig. 3). Ovviamente il destinatario del messaggio ha un disco analogo e conosce la parola chiave precedentemente concordata con il mittente.

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Come dimostrato da questo esempio, il metodo di Alberti permette di associare un alfabeto diverso a ogni parola del messaggio. Ma c’è chi è riuscito a fare anche di meglio, assegnando un intero alfabeto a ogni lettera. Blaise de Vigenère, diplomatico alchimista e crittografo vissuto nella metà del XVI secolo, perfezionò il sistema di Alberti, basandosi su una tabella (cifrario). Essa è costituita da righe, ognuna delle quali presenta tutti i ventisei caratteri dell’alfabeto, ma traslati di una lettera man mano che si passa da una riga a quella successiva. Sopra la tabella è riportato l’alfabeto in chiaro. Proviamo ad esempio a comunicare il messaggio: MANCANO LE MUNIZIONI. Associamo una parola chiave (concordata dal mittente e dal destinatario) al messaggio che si vuole inviare, in modo che le lettere della parola chiave combacino con le lettere del messaggio. Scegliamo come parola chiave, che è detta anche “verme”, ESEMPIO, otterremo quindi ESEMPIOESEMPIOESEM che sovrapponiamo a MANCANOLEMUNIZIONI. A questo punto, basandoci sul cifrario rappresentato, associamo la prima lettera della parola chiave con la prima lettera del messaggio da criptare: la E di ESEMPIO con la M di MANCANOLEMUNIZIONI. Dall’intersezione della colonna corrispondente alla lettera E e della riga che corrisponde alla M si individua la Q, che sarà quindi la lettera che apparirà nel messaggio criptato. Ripetendo l’operazione con la seconda lettera di ESEMPIO, cioè la S, associandola alla seconda di MANCANOLEMUNIZIONI (ovvero la A) e intersecando la colonna di S e la riga di A, si ottiene la lettera S che comparirà nel messaggio cifrato.Ripetendo l’operazione il risultato sarà QSROPVCPWQGCQNMGRU. Proviamo ora a decriptare il messaggio, spieghiamo cioè come farà colui che riceverà il messaggio in codice a risalire a quello originale. Il destinatario vedrà la sequenza sopra riportata come un insieme di lettere prive di alcun significato, all’apparenza. Ma se si associa la parola ESEMPIO, come fatto in precedenza, basterà confrontare le lettere in base alla griglia della tabella (cifrario), in maniera inversa rispetto a quella appena illustrata. Analizziamo quindi la colonna della E, prima lettera della parola chiave e notiamo in che punto della colonna compare la lettera Q, prima lettera del messaggio cifrato. Dunque nel messaggio vero e proprio la prima lettera sarà quella della riga in cui compare la Q. cioè lq M, che costituisce il primo passo per la comprensione del messaggio MANCANOLEMUNIZIONI. Questo metodo rappresenta l’apice massimo della crittografia antica. In epoca moderna saranno i conflitti mondiali a incentivare l’uso della crittografia portando a nuove invenzioni e sistemi di cifratura. LA MACCHINA “ENIGMA” E LA CRITTOGRAFIA MODERNA Alla soglia dell’era industriale, la crittografia e la crittoanalisi non svilupparono nulla di rilevante. Piccoli passi furono compiuti dallo scrittore americano Edgar Allan Poe, autore di un interessante saggio sui metodi crittografici. Fu utilizzato come punto d’inizio dai crittografi britannici della Stanza 40, come veniva chiamato l’ufficio crittografico dell’ammiragliato inglese. Durante la Prima guerra mondiale era preposto alla violazione dei codici cifrati tedeschi. Proprio all’inizio del XX secolo le tensioni tra le nazioni e i rispettivi Stati Maggiori portarono in poco tempo a strepitosi risultati nel campo della crittografia. Tutte le conoscenze fino ad allora acquisite giocarono un ruolo importante nelle dinamiche militari e politiche, condizionando la geopolitica mondiale. Gli Stati Uniti presero parte al con-

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flitto per arginare la guerra sottomarina attuata dai tedeschi nel 1914, con lo scopo di indebolire l’economia inglese e di evitare che aiuti e rifornimenti giungessero alle truppe alleate, attestate sul famigerato fronte occidentale. Non fu certo l’affondamento del transatlantico Lusitania a scuotere la sensibilità americana, ma la minaccia economica che incombeva sui fornitori USA. Il Congresso statunitense (e la maggior parte dell’opinione pubblica) era contrario all’entrata in guerra. La vera motivazione della decisione di abbandonare la dottrina Monroe va cercata in quello che è passato alla storia come “telegramma Zimmerman”, dal nome del ministro degli Esteri tedesco. Nel gennaio del 1917 trasmise via cavo un messaggio cifrato a Bernstoff, ambasciatore tedesco in USA. La notizia era l’imminente decisione tedesca di dare avvio a una nuova dura guerra sottomarina e l’assoluta volontà di mantenere gli Stati Uniti neutrali. Se questo non fosse accaduto era necessario avviare un’alleanza con il Giappone e il Messico, in funzione antiamericana. Zimmerman inviò il suo telegramma in codice tramite la Svezia, Paese neutrale, visto che gli USA non concedevano alle potenze belligeranti di trasmettere sul territorio americano con il cavo sottomarino che lo collegava all’Europa. Qui entrò in gioco l’Inghilterra con i tecnici elettronici della Stanza 40 che intercettarono il telegramma. Inizialmente non riuscirono a capirne il contenuto perchè trasmesso dai tedeschi con un codice nuovo rispetto alle precedenti comunicazioni. La totale decriptazione potè avvenire quando Bernstoff ritrasmise il telegramma al presidente messicano Carranza. Una volta decifrato il messaggio, gli inglesi lo resero subito noto al presidente americano Wilson. Fu allora che l’intero Congresso votò per l’entrata in guerra. Nulla trapelò sul ruolo nella decisione della Stanza 40, ufficio che doveva restare segretissimo. Il successivo armistizio e le pesanti condizioni di pace e pagamenti di guerra imposti alla Germania dai Paesi vincitori segnarono il passo più importante per una futura revanche tedesca. Lo sconfitto e umiliato Stato Maggiore germanico, venuto a conoscenza della vulnerabilità dei propri codici si affrettò a individuare un più sicuro sistema per criptare i propri messaggi. Si affidò dunque alla macchina che qualche anno prima era stata realizzata e brevettata da Arthur Scherbius e Richard Ritter. La cosiddetta “Enigma”, molto simile ad una macchina da scrivere, aveva un sistema che si fondava sul codice di Vigenère. Dal 1926 in poi venne adottata da tutte le forze armate tedesche e in seguito dalla maggior parte della gerarchia nazista. Durante la Seconda guerra mondiale, anche il Regio esercito italiano utilizzò diverse macchine cifranti, tra cui una versione semplificata di Enigma. Non presentava il pannello di commutazione per cui i cifrari prodotti erano più semplici da violare con il metodo scoperto precedentemente da Marian Rejewski, un matematico polacco al quale il governo di Varsavia aveva affidato i manuali d’istruzione di Enigma recuperati dall’intelligence francese. Egli riuscì in poco tempo a progettare una macchina apposita chiamata Bomba, che ebbe scarsa efficacia poiché nel frattempo i tedeschi avevano apportato alcune modifiche al funzionamento di Enigma. Le conquiste fatte da Rejewski non andarono perdute e i progetti di quest’ultimo vennero acquisiti dagli inglesi. Con l’aiuto di grandi matematici come Alan Turing, riprogettarono la Bomba e idearono diversi metodi per forzare le chiavi di codifica tedesche, utilizzati per creare la macchina Ultra. La svolta decisiva si ebbe alla fine del 1940 quando la marina inglese riuscì a mettere le mani su un apparato Enigma intatto e sui documenti di cifratura, dopo aver catturato un sommergibile tedesco nel corso del-

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John Edgar Hoover, direttore FBI

l’operazione Primrose. Da lì in poi le forze dell’Asse ebbero sempre più problemi nel mantenere l’effetto sorpresa durante le proprie operazioni. La prima bruciante sconfitta ebbe luogo a capo Matapan, a Sud del Peloponneso, dove si scontrarono le migliori unità della Regia marina italiana con la Mediterranean Fleet britannica di stanza ad Alessandria d’Egitto. A comandare i due schieramenti c’erano l’ammiraglio di squadra Angelo Iachino e l’ammiraglio Andrew Cunningham. L’episodio di capo Matapan fu la conseguenza di un’operazione messa in atto dal comando superiore della Regia marina, denominato Supermarina, in seguito alle pressanti richieste tedesche di bloccare i convogli che dai porti egiziani rifornivano di materiali bellici e truppe le forze alleate in Grecia. La riuscita o meno dell’operazione per la Regia marina italiana dipendeva dall’effetto sorpresa e dalla copert u r a a e r e a c h e l ’ a v i a z i o ne italiana e tedesca avrebbero garantito.

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Len Adleman (in alto) e Ronald Rivest, inventori del metodo RSA

La disfatta italiana fu totale per la mancanza dei fattori su menzionati e per il fatto che lo scontro avvenne di notte. Le navi britanniche erano infatti munite di radar e di equipaggi addestrati alle operazioni notturne, mentre le unità italiane ne erano sprovviste. L’ammiraglio Cunningham sapeva già da tempo quali sarebbero state le mosse degli italiani, grazie a Ultra che aveva decifrato alcuni dispacci tedeschi. Per lui fu quindi facile assicurare

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la vittoria e il predominio della Royal Navy sul Mediterraneo. Dall’altra parte del mondo l’ammiraglio Yamamoto, comandante della flotta giapponese, nel maggio del 1942 aveva preparato un piano per attaccare a sorpresa le isole Midway ad Est delle Hawaii. Ma come era successo nel bacino del Mediterraneo agli alleati italo-tedeschi, andò incontro a una bruciante sconfitta a causa della decriptazione dei messaggi nipponici da parte degli esperti americani. Per l’ammiraglio Nimitz, comandante della flotta americana del Pacifico, fu semplice preparare la battaglia conoscendo già nel dettaglio i piani del nemico. Predispose un imponente sistema difensivo terrestre e aereo per la difesa delle Midway e fece in modo che i giapponesi intercettassero i falsi piani americani usando un cifrario che sapeva essere stato forzato dal nemico. Quest’ultima mossa garantì alla flotta americana un notevole effetto sorpresa che creò scompiglio e disorientamento tra le varie unità nipponiche, impegnate in un’area troppo vasta per poter essere coordinate correttamente. Anche la riuscita dell’operazione più importante e rischiosa del secondo conflitto mondiale, lo sbarco in Normandia o perazione Overlord, fu garantita dall’efficiente lavoro di decifrazione attuato dagli esperti inglesi e americani sui dispacci tedeschi. Che confermavano come Hitler avesse creduto alla falsa notizia di un imminente sbarco alleato nei pressi di Calais e avesse concentrato lì le sue truppe migliori. Allo scopo di persuadere i tedeschi che l’invasione non sarebbe mai avvenuta in Normandia, gli Alleati prepararono un massiccio piano d’inganno, chiamato operazione Fortitude North, per persuadere i tedeschi ad aspettarsi un attacco in Norvegia, proveniente dalla Scozia. Ancora più importante fu l’operazione Fortitude South, che doveva convincere il nemico ad attendersi l’invasione nella zona del Pas de Calais. Venne creato un fittizio primo gruppo d’armate USA, con falsi edifici, accampamenti ed equipaggiamenti. Nei campi del Kent e del Sussex furono perfino collocati carri armati gonfiabili circondati da finte impronte di cingoli. Gli aerei ricognitori della Luftwaffe su questa zona non vennero abbattuti, proprio perché potessero scattare fotografie e inviare messaggi radio. Il Generale Patton venne addirittura posto al comando per dare maggiore credito al bluff. La contrapposizione tra il blocco sovietico e le nazioni occidentali, la cosiddetta Guerra Fredda, non sfociò mai in un conflitto militare diretto a causa della disponibilità, da parte di entrambi gli schieramenti, di armi nucleari che avrebbero potuto distruggere l’intero pianeta. La lotta si incentrò sulla competizione in campo industriale e tecnologico. La conoscenza dei segreti avversari e la protezione dei propri divenne quindi di fondamentale importanza. Un contesto ideale per lo sviluppo di crittografia e steganografia. La seconda meta del Novecento fu un’epoca d’oro per le spie, che divennero addirittura oggetto di ammirazione del pubblico. Lo dimostrano film di enorme successo, come la saga dell’agente 007. Mentre James Bond usava marchingegni futuristici e armi superpotenti, il più grande alleato delle spie di allora fu proprio la conoscenza degli strumenti matematici alla base della crittografia. I n ambito steganografico, molto si deve a J. Edgar Hoover, direttore del Federal Bureau of Investigations. Nei primi anni Quaranta mise a punto un metodo che prevedeva l’inserimento di microfotogrammi visibili solo con particolari strumenti di ingrandimento all’interno di immagini assoluta-

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IL METODO RSA Per meglio comprendere il metodo RSA è necessario conoscere alcuni fondamentali concetti matematici e avere una conoscenza basilare di numeri primi, aritmetica modulare e invertibilità. ALCUNE NOZIONI DI BASE DI MATEMATICA Definizione 1: Un numero intero maggiore di 1 si dice primo se gli unici numeri interi per cui è divisibile sono 1 e se stesso (es. 2, 3, 5...). Teorema (Euclide): I numeri primi sono infiniti. L’ultimo numero primo che è stato scoperto (2008) è composto da 12 978 189 cifre. Definizione 2: Due numeri sono coprimi se il loro M.C.D. (Massimo Comune Divisore) è 1. Definizione 3: Due numeri si dicono congrui rispetto ad un numero se divisi per questo numero danno lo stesso resto. Esempio: 7 e 12 sono congrui modulo 5 poiché 7/5= 1 resto 2 e 12/5= 2 con resto 2. Notiamo che i resti possibili possono essere compresi, chiamando il divisore «m», tra 0 e m-1. Ad esempio se m=7 i resti possibili possono essere solo numeri compresi tra 0 e 6. Definizione 4: Due numeri sono detti invertibili modulo «m» se il loro prodotto diviso per «m» dà resto 1. Ad esempio 7 e 4 sono invertibili modulo 9 perché 7x4= 28,28/9= 3 con resto 1. Si dimostra che un numero P è invertibile modulo «m» se e solo se P e m sono coprimi. Ne segue che se m è primo, ogni numero compreso tra 1 e m-1 è invertibile rispetto a m, ovvero ad ogni numero compreso tra 1 e m-1 corrisponde un inverso. Ricordiamo che la funzione esponenziale e la funzione logaritmica sono, nel campo dei numeri reali, l’una l’inversa dell’altra: con la prima, infatti, conoscendo base ed esponente, possiamo giungere all’argomento, con la seconda, invece, conoscendo base ed argomento possiamo trovare l’esponente, cioè 32 dà come unico risultato 9 e viceversa 3x dà come unico risultato x= 2. In simboli ax= b se e solo se loga b= x. Facendo riferimento all’aritmetica modulare sappiamo che 32 modulo 5 ha un unico risultato, infatti 32 modulo 5 è uguale a 4 (32= 9 e 9 diviso 5 dà resto 4). Ma l’operazione inversa ha un’unica soluzione? Se scriviamo 3x= 4 modulo 5, quanti possono essere i valori di x? Sono infiniti, infatti x può assumere gli infiniti valori 2, 6, 10…. Insomma, da 3x= 4 non è possibile risalire ad x. L’impossibilità di decifrare un messaggio scritto col metodo RSA cioè di risalire alla chiave per decifrare si basa sul fatto che, diversamente dal caso reale, la funzione esponenziale non è invertibile nell’insieme delle classi di congruenza modulo m. COME FUNZIONA Consideriamo 2 persone A e B: A è colui che cripta il messaggio mentre B lo decripta. B sceglie due numeri primi che chiamiamo P e Q e calcola m= PxQ e n= (P-1)x(Q-1). Poi sceglie un numero v minore di n e primo con esso e calcola d, che sarà l’inverso di v modulo n. L’esistenza di d è assicurata, poiché v e n sono coprimi. A questo punto B comunica v e m ad A, mentre mantiene segreta d, che è utilizzata come chiave per decriptare e che verrà poi in seguito utilizzata da B. Facciamo un esempio: B sceglie P= 11 e Q= 13, trova m= 11x13= 143 e n= (11-1)x(13-1)= 120. Sceglie v= 7 che è primo con 120, in modo che possa essere invertibile con quest’ultimo. Calcola così d, tale che sia minore di 143 e inverso di 7 modulo 120, ovvero d= 103. B così comunica ad A m= 143 e v= 7, mentre non comunica d=103. Se, per esempio, A vuole criptare il messaggio CIAO, scompone la parola dando ad ogni lettera un valore numerico regolandosi, ad esempio, in base al codice ASCII, secondo il quale C= 67, I= 73, A= 65 e O= 79. Per criptare la lettera C, A calcola il resto della divisione tra 677 e m= 143 e ottiene 89. Lo stesso fa con le altre lettere, in modo da ottenere per I= 83, per A= 65 e per O= 40. Il messaggio criptato alla fine risulterà 89 83 65 40. Il messaggio inviato da A deve adesso essere decriptato da B. L’utente B, utilizzando la sua chiave, privata d= 103, calcola il resto della divisione tra 89103 e 143 che è 67, 83103 che è 73 e così via, ottenendo così 67 73 65 79, tradotto in codice ASCII: CIAO. Se un «intruso» intercettasse il messaggio, per poterlo decifrare, dovrebbe conoscere l’inverso di 7 modulo 120 e quindi dovrebbe conoscere P e Q. Ma lui conosce solo PxQ= 143, quindi per risalire a P e Q dovrebbe scomporre 143, procedimento non certo complicato. Tuttavia i numeri primi che si utilizzano hanno centinaia di cifre e quindi il numero m, prodotto di due numeri siffatti, ha centinaia di cifre. Ebbene, la fattorizzazione di un numero, cioè trovare i suoi fattori primi, pur essendo un problema semplicissimo se il numero è costituito da poche cifre, diventa complicatissimo, nel senso che non è risolvibile in un tempo ragionevole, neanche con l’utilizzo di moderni calcolatori, se il numero ha moltissime cifre. Per avere un’idea un matematico disse: «Se perdessimo i numeri P e Q allora è più semplice andarli a cercare in discarica che ricostruirli».

mente normali. In seguito furono sviluppati metodi capaci di occultare in hard disk apparentemente innocui le chiavi di accesso a materiale altamente riservato, tramite la creazione di un sempre maggiore numero di sottocartelle nell’archivio. Oppure, scegliendo una lettera per pagina, si poteva nascondere in un testo assolutamente normale un messaggio segreto. Per quanto fossero efficaci i metodi steganografici erano pur sempre elementari e furono usati soprattutto per comunicazioni di carattere pratico tra funzionari di non altissimo livello. Per lo scambio di informazioni di maggiore rilevanza venne usata la crittografia che, grazie al sistema di doppie chiavi, garantiva una maggiore tutela della segretezza. Un esempio fu la creazione della linea telefonica criptata tra la Casa Bianca e il Cremlino, denominata One time pad, per comunicare senza incomprensioni e interferenze che avrebbero potuto scatenare una gue r r a .

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IL CIFRARIO ASIMMETRICO I metodi crittografici precedentemente illustrati sono tutti a chiave privata. La chiave per criptare è la stessa per decriptare e ciò costituisce un notevole punto debole per i relativi cifrari. Le cose cambiano con il metodo RSA (dalle iniziali dei suoi ideatori), detto a chiave pubblica. L’idea venne a tre matematici: Ronald Rivest, Adi Shamir e Len Adleman che ipotizzarono la creazione di un meto-

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do basato sull’utilizzo di due differenti chiavi, una per criptare e l’altra per decriptare. L’idea si basa sul fatto che tra due utenti (chi invia il messaggio e chi lo riceve) il ruolo non è simmetrico. Il primo ha interesse solo a criptare, il secondo a decriptare. È come una cassaforte con due serrature. Chi possiede la chiave per chiuderla, inserisce ciò che vuole inviare e la chiude. Non ha la chiave per aprirla, ma non gli serve farlo. Il destinatario è l’unico a possedere la chiave per aprirla. Il metodo per mettere in pratica tutto ciò è stato realizzato grazie alla “teoria dei numeri”, uno dei campi della matematica più complicati e nello stesso tempo più affascinanti. È il sistema RSA: ipotizzato nel 1976, trovò la sua applicazione solo due anni dopo. È un algoritmo di crittografia asimmetrica che si basa sull’esistenza di due chiavi distinte, che vengono usate per cifrare e decifrare. Il punto fondamentale è che, nonostante le due chiavi siano fra loro dipendenti, non è possibile risalire dall’una all’altra, garantendo in tal modo l’integrità della crittografia. Per poter realizzare con il cifrario asimmetrico un sistema crittografico è importante che un utente crei autonomamente entrambe le chiavi, denominate “diretta” e “inversa”, e ne renda pubblica una soltanto. Immaginiamo una banca, la cui sede centrale deve comunicare con le varie filiali. Così facendo si viene a creare una sorta di elenco telefonico a disposizione di tutti gli utenti (filiali), che raggruppa tutte le chiavi dirette, mentre quelle inverse saranno tenute segrete dagli utenti che le hanno create e da utilizzare solo quando ricevono un messaggio cifrato con la rispettiva chiave pubblica. In questo modo si garantisce la sicurezza del sistema. Facendo un esempio pratico, se Alice vuole spedire un messaggio a Bob e non vuole che altri all’infuori di lui possano leggerlo, cercherà sull’elenco la chiave pubblica di Bob e con quella potrà cifrare il messaggio. Essendo Bob l’unico a possedere la chiave inversa, sarà anche l’unico a poter decifrare il messaggio, che rimarrà così segreto per tutti gli altri, compresa Alice, che non disponendo della chiave inversa non sarà in grado di decifrare il messaggio da lei stessa creato. Ovviamente il successo di questo sistema si basa sull’assoluta necessità che Bob sia l’unico a essere in possesso della chiave inversa. In caso contrario, avendo entrambe le chiavi, chiunque potrebbe decifrare agevolmente il messaggio. Parlando in termini matematici, il metodo si basa sull’impossibilità di risalire alla base del numero criptato, in precedenza elevato a potenza. Ciò che rende sicuro il metodo è l’enorme difficoltà nello scoprire la chiave privata, legata all’impossibilità di fattorizzare numeri aventi moltissime cifre. Va detto però che per criptare messaggi molto lunghi, bisognerebbe fare dei calcoli (potenze, divisioni) troppo laboriosi. Il metodo RSA si utilizza per messaggi brevi, in genere in combinazione con un sistema polialfabetico. Sistema che è stato adottato soprattutto dagli istituti bancari per la generazione dei nuovi codici PIN delle carte di credito e nell’algoritmo commerciale DES. Queste tecniche crittografiche giocano un ruolo fondamentale anche per le forze armate e di polizia. La possibilità di conoscere in tempo reale le informazioni e le comunicazioni del nemico e nascondere le proprie è di fondamentale importanza nell’ambito di qualsiasi attività di intelligence. Utile a contrastare fenomeni come il terrorismo internazionale. Il massimo utilizzo operativo di queste tecnologie è nelle missioni all’estero, che comportano un’incessante attività investigativa per acquisire dati sul nemico e l’ambiente socioculturale in cui agisce. E a ostacolare costantemente la contro-raccolta. Tecnologie fondamentali anche per le forze di Polizia, che si

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Adi Shamir, uno degli inventori del metodo RSA

trovano impegnate nel contrasto alla criminalità organizzata e hanno necessità di conoscere in tempo reale i movimenti e le intenzioni degli indagati senza che l’attività investigativa venga scoperta, per poter orientare al meglio le indagini e mettere in atto attività di prevenzione mirate. Nell’Esercito italiano esistono diversi reparti responsabili della ricerca e della protezione di informazioni dal punto di vista tecnico. Qui prestano servizio ufficiali laureati in ingegneria elettronica e informatica e personale specializzato in crittografia e steganografia. Il 33° reggimento trasmissioni E.W. (Electronic Warfare) di stanza a Treviso si occupa di fornire il supporto informativo alle grandi unità di manovra. Il 41° reggimento “Cordenons” con sede a Sora (Frosinone) è dotato anche dei modernissimi aerei spia a pilotaggio remoto, il cui compito è quello di fornire la sorveglianza strumentale ai reparti in teatro operativo. *Allievi della Scuola Nunziatella

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Storia

L’AVVINCENTE STORIA DEL CEMENTO ARMATO Con questo articolo si inaugura una serie dedicata alle invenzioni fatte durante la Grande Guerra per scopi militari. Scoperte e oggetti che hanno avuto in seguito un enorme successo nella vita civile, entrando nell’uso quotidiano di milioni di persone che ne ignorano la provenienza. Un esercizio di recupero della memoria che Rivista Militare offre ai lettori più curiosi per mostrare come la storia sia “presente” più di quanto si immagini.

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rmai è diventato sinonimo di scempio ambientale, di volgarità architettonica e orgogliosa presunzione di eternità. Eppure il cemento armato ha una storia gloriosa, anche se sconosciuta ai non addetti ai lavori. Tecnicamente si chiama “conglomerato cementizio armato” o “calcestruzzo armato” ed è composto da acqua, sabbia, pietrisco, ferro e cemento. Un miscuglio che una volta rappreso acquisisce la compattezza del granito. Di cemento armato sono fatti ponti, capannoni, case, condotte dell’acqua, dighe, terrazzamenti agricoli e pali dell’energia elettrica. Persino gli scafi di alcune navi e i contrappesi delle lavatrici. Tanto per far capire quanto sia diventato insostituibile. La sua invenzione risale alla metà dell’Ottocento. All’inizio si nutriva nei suoi confronti, se non una esplicita repulsione, una indubbia diffidenza. Grazie alla realizzazione di innumerevoli opere militari e fortificazioni durante la Prima guerra mondiale divennero evidenti le sue doti di resistenza, flessibilità formale ed economicità. In seguiro verrà apprezzata anche la funzione estetica nell’architettura razionalista, che puntava alla costruzione rapida di edifici privi di orpelli retorici, usando cemento armato, ferro e vetro a vista. Giustamente Pier Luigi Nervi lo definiva: “Il più bel sistema costruttivo che l’umanità abbia saputo creare fino a oggi. Il fatto di creare pietre fuse, di qualsiasi forma, superiori alle naturali perché capaci di resistere a tensione, ha in sè qualcosa di magico.” A patto però che sia impiegato da un progettista di livello. Il nome deriva dal calcis structio romano, ma è dal Settecento che si susseguono le prove sulle capacità di presa e di resistenza di un conglomerato in cui il legante (invece di essere ottenuto per calcinazione dal semplice calcare) derivava da un calcare argilloso, a temperature notevolmente più alte. Alle osservazioni empiriche seguirono i primi studi. Nel 1824 a York venne impiantata la prima fabbrica di cemento “Portland” (così chiamato per la sua somiglianza con la pietra di Por-

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di Flavio Russo*


Russo - storia 1à bozza corretta annarita_def:Layout 1 22/04/2014 13.05 Pagina 89

tland), seguita nel 1840 da quella a Boulogne sur Mer, in Francia. La svolta nella sua adozione si ebbe per una singolare coincidenza. Si osservò che un po’ di impasto, caduto su una griglia di ferro, rapprendendosi si era saldato al metallo, suggerendo così una simbiosi ricca d’inaspettate proprietà. Fu presto chiaro che quel risultato derivava dal fatto che i coefficienti di dilatazione di ferro e cemento sono pressoché uguali. Per cui reagivano alle variazioni di temperatura con lo stesso tipo di deformazio-

Ruderi di fortificazioni della Grande Guerra in cemento armato

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ni, consentendo all’insieme di restare coeso. Si pensò quindi di sfruttare tale proprietà affidando al ferro il compito di resistere alla trazione e al cemento di resistere alla compressione. Ritenendo immune dall’ossidazione il ferro annegato nel cemento si ipotizzò una longevità persino maggiore del calcestruzzo romano. Il tempo avrebbe però dimostrato l’infondatezza dell’ipotesi, lasciando propendere per una durata appena superiore al secolo. Il suo primo impiego sarà la costruzione di uno scafo ottenuto spalmando su di un’armatura di ferro uno strato di cemento, mostrato all’Esposizione Universale di Parigi del 1855. Seguì il brevetto rilasciato a un giardiniere francese per la realizzazione di vasi per piante in conglomerato. Da quel momento i brevetti si moltiplicarono nella costruzione di tubi, serbatoi, solette, elementi di scale. Tutti componenti distanti dall’edilizia vera e propria, dove il cemento debutterà inizialmente soltanto come diaframma antincendio nei grandi magazzini. Se in Europa la diffidenza verso il calcestruzzo armato era ancora presente, in Italia lo si ignorava del tutto, a causa dell’abbondanza di pozzolana e di altre ottime pietre da costruzione. Fu perciò una sfida a tanta testarda repulsione quella lanciata nel 1908 quando si optò per il cemento nella costruzione del ponte del Risorgimento, per celebrare il cinquantesimo anniversario dell’unificazione nazionale. Il progetto ad arco unico era arditissimo. I costruttori vollero tramandarlo in questa epigrafe al centro del parapetto : “Ponte in cemento armato ad un'unica arcata di 100 metri di corda con freccia di 10 metri, costruito con sistema Hennebique dalla Società Porcheddu Ing. G.A.”.

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Roma, Ponte del Risorgimento

L’opera non ebbe grande seguito e si dovette attendere il 1914 per un progetto di una serie di abitazioni firmato da Le Corbusier che utilizzava il cemento armato nella struttura. Con la guerra alle porte si intensificò ad oltranza il ricorso al cemento armato in ambito militare. La sua capacità di formare strutture monolitiche ad altissima resistenza lo rendeva ideale per la fortificazione permanente. Come sperimentato dai Romani, una muraglia in grado di opporsi con l’intera massa agli impatti degli arieti costituiva una garanzia di resistenza. Gli esordi del suo impiego nelle opere difensive possono farsi risalire alla fine dell’Ottocento, preceduti da una serie di studi. In particolare fu evidenziato il comportamento del ferro dell’armatura nella resistenza alle enormi sollecitazioni degli impatti balistici. Sagomando a forma di uncino le estremità dei tondini d’acciaio delle armature la resistenza aumentava ulteriormente. Senza contare i vantaggi derivanti anche dalla sua resistenza al fuoco. Con il tempo vennerro migliorati i dosaggi per le miscele a seconda dell’impiego, fino a ottenere compattezze analoghe a quelle del granito. Dopo essere stato usato per costruire casematte, bunker, hangar per dirigibili e rifugi antiaerei, il cemento armato uscì dalla guerra completamente sdoganato. Al punto da essere usato anche in maniera artistica e creativa nell’architettura. *Storico e ingegnere

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BANDENKAMPF! LE DOTTRINE TEDESCHE DI CONTROGUERRIGLIA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE 2a parte di Gianluca Bonci* Dopo aver esaminato, nella prima parte dello studio, l’organizzazione e le tattiche impiegate dai partigiani dell’Est Europa, nonché i principi fondamentali applicati dalla Wehrmacht nell’ambito della condotta di operazioni di controinsurrezione a livello operativo e tattico, in questa seconda parte del lavoro sono approfondite le tattiche, le tecniche e le procedure adottate dall’Esercito tedesco nelle operazioni di controguerriglia. Inoltre, sono presentate l’organizzazione e le procedure d’impiego degli «Jagdkommandos», unità specializzate nella lotta ai partigiani, che indirizzarono le operazioni su un piano innovativo per un esercito regolare, adottando gli stessi principi degli insorti. Nel paragrafo conclusivo sono infine illustrati i limiti e le ragioni del fallimento operativo della Wehrmacht nella lotta alle formazioni partigiane che contribuirono in maniera decisiva al tracollo dell’Esercito tedesco nel fronte orientale, aprendo così la via verso Berlino alla potente e inesorabile macchina da guerra sovietica: l’«Armata Rossa».

TATTICHE DI CONTROGUERRIGLIA TEDESCHE

I

principi tattici e operativi impiegati per le operazioni di controguerriglia tedesche nella seconda guerra mondiale rappresentarono, per l’epoca, un comparto dottrinale pressoché unico e del tutto innovativo, che accompagnò e guidò i reparti della Wehrmacht nella lotta antibande in quasi tutti i territori occupati d’Europa, tra cui la Russia, i Balcani, i Paesi dell’Europa centrale, la Francia e, a partire dal tardo 1943, anche la penisola italiana. Concordemente con quanto riportato nel Bandenbekämpfung, la condotta della lotta antipartigiana costituì principalmente una questione di superiorità di comando e di stretta coordinazione tra comandi, polizia militare e preposti uffici civili. Il coordinamento, per essere efficace, doveva coinvolgere i principali attori già a partire dalla fase di pianificazione dell’operazione militare vera e propria. Altro fattore di successo nella lotta antibande era rappresentato dall’iniziativa, che doveva necessariamente essere sempre mantenuta dai Reparti della Wehrmacht, anche qualora il rapporto di forze non fosse stato favorevole. Ad ogni azione dei partigiani doveva sempre corrispondere una reazione, favorita dalla scelta da parte del Comandante della tecnica più adeguata allo scopo di infliggere il danno maggiore alle formazioni irregolari. La lotta antibande implicava necessariamente l’impiego di tattiche diverse, sapientemente combinate, evitando l’applicazione rigida di singoli principi, al fine di conferire alle formazioni regolari lo stesso carattere di imprevedibilità dei partigiani. Sempre nello stesso manuale Bandenbekämpfung, si introduceva l’importante riferimento al «centro di gravità» (CoG)(1) che nella condotta di operazioni di counterinsurgency doveva essere costantemente variato in relazione alle caratteristiche specifiche dell’avversario, alla sua consistenza e capacità. Come per le operazioni militari classiche, anche in un contesto asimmetrico la dottrina tedesca teneva in grande considerazione i principi della sorpresa e della disponibilità di una riserva, necessari rispettivamente per favorire le possibilità di successo di un’operazione offensiva e di contromanovrare o supportare lo sforzo bellico in atto.

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Nella pianificazione di operazioni antibande complesse, altri fattori erano reputati fondamentali per la riuscita della missione, tra i quali spiccano: • le condizioni climatiche. Se l’estate favoriva la manovra in termini di mobilità stradale e accesso alle zone boschive, l’inverno, per la presenza del ghiaccio nelle zone paludose, rendeva la superficie pantanosa percorribile per le truppe leggere. La neve fresca poi favoriva la ricerca delle tracce, rendendo così possibile lo svolgimento di operazioni di rastrellamento e di accerchiamento a grande raggio. Senza considerare i vantaggi derivanti dalle ovvie limitazioni in termini di mobilità per le stesse bande, costrette a gravitare in prossimità dei propri stazionamenti per scarsità di provviste e per le condizioni meteorologiche avverse; • l’utilizzo di armi leggere (pistole mitragliatrici, mitragliatrici e cannoni leggeri, ecc…), generalmente privilegiato a discapito di quelle pesanti, che avrebbero ridotto considerevolmente la mobilità e la velocità delle unità in terreni boschivi e paludosi, sebbene esse costituissero un valido sostegno per quei reparti impiegati in compiti di arresto, riserva o sorveglianza; • l’impiego di complessi di armi combinate, che garantivano un’adeguata quanto neces-

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saria flessibilità operativa, costituiti da unità: •• carri: importanti non solo per il consistente volume di fuoco erogato, ma anche per l’effetto psicologico indotto sulle bande partigiane. Tali unità erano per lo più equipaggiate con carri leggeri, non più idonei ad affrontare i moderni e veloci T-34 o i pesanti KV-1 e KV-2, o di preda bellica; •• del genio: vitali per garantire la necessaria mobilità e contromobilità nella boscaglia e per riattare strade, ponti e camminamenti; •• a cavallo: valide se impiegate in compiti di ricognizione da combattimento, specie in aree prive di una rete stradale; • la mobilità delle unità, necessaria per seguire i movimenti delle bande e, se possibile, anticiparli; • l’autonomia logistica che rendeva le unità indipendenti per gli approvvigionamenti di viveri, equipaggiamenti e munizioni, in modo tale da poter infiltrarsi in territorio ostile e combattere per molti giorni; • la cooperazione con reparti autoctoni, profondi conoscitori del terreno. La ricognizione Particolare attenzione era riposta nelle attività di ricognizione, che erano dottrinalmente distinte in: • raccolta di informazioni sulle attività condotte dai partigiani. Essa era condotta a premessa dell’operazione vera e propria, con lo scopo di ottenere un quadro generale della situazione vitale per una corretta pianificazione. Preziosi indizi provenivano dalle attività di vettovagliamento delle bande e dalla quantità di viveri che esse requisivano alla popolazione; • ricognizione prima di un’azione, al fine di ottenere le informazioni operative relative al territorio, alla viabilità e ad altri aspetti di dettaglio, vitali per lo spiegamento delle proprie forze. La missione era condotta attraverso l’impiego singolo o contemporaneo di: •• informatori; •• Jagdkommandos; •• velivoli da ricognizione a volo lento, quali il Fieseler Fi–156, impiegabili solo se il territorio oggetto delle ricognizioni fosse stato sorvolato frequentemente. Ciò per non consentire ai partigiani di dedurre l’imminenza di un’operazione; • ricognizione da combattimento durante un’azione. Essa era attuata durante tutte le fasi dell’operazione, in tutti i settori interessati, compresi quelli laterali e arretrati. I compiti di questa tipologia di ricognizione erano rivolti essenzialmente a: •• prevenire attacchi di sorpresa e controimboscate; •• ottenere informazioni operative sulla dislocazione delle posizioni avversarie; •• individuare possibili vie di fuga; •• scoprire capisaldi o posizioni non individuate nelle ricognizioni precedenti. Tattiche offensive Nel corso della guerra, le unità della Wehrmacht incaricate della condotta di operazioni COIN affinarono sempre di più tali tecniche, raggiungendo spesso, nei territori dell’Europa orientale e nei Balcani, risultati operativamente significativi. L’obiettivo fondamentale delle operazioni offensive era sempre costituito dall’eliminazione e dall’annientamento delle bande partigiane, attraverso l’accerchiamento. Qualora le forze disponibili fossero state insufficienti, l’operazione di accerchiamento era rivolta solo verso la formazione principale avversaria, tralasciando altre aree o unità di livello operativo meno importante. La tecnica di base per la condotta di queste operazioni era essenzialmente costituita da due fasi distinte: • l’accerchiamento degli avversari e lo sbarramento delle possibili vie di fuga: la preparazione e l’esecuzione dell’accerchiamento costituivano momenti delicatissimi per la riuscita dell’intera operazione. Le assembly areas delle unità coinvolte nell’operazione erano selezionate tra quelle più lontane dalle posizioni da attaccare e, possibilmente, da centri abitati o villaggi, allo scopo di non allertare i partigiani. A tal fine era essenziale una buona mobilità delle truppe e una ricognizione preventiva degli obiettivi. L’area da accer-

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chiare era definita in base alle posizioni avversarie e alla natura del terreno circostante (ad esempio nelle zone montuose le linee di accerchiamento seguivano i rilievi). Il momento critico di tutta l’operazione era costituito dal tempo che intercorreva tra l’avvicinamento delle unità alle linee di accerchiamento e il completamento dei preparativi per la difesa e l’interdizione delle possibili vie di fuga. Dopo aver circondato l’obiettivo, le postazioni in corrispondenza di punti particolari come gole, sentieri, paludi, ecc…, attraverso cui il nemico avrebbe potuto sottrarsi alla morsa, dovevano essere rinforzate con l’impiego di pezzi controcarro e reparti blindocorazzati o, in alternativa, in presenza di un terreno aperto, con la costituzione di capisaldi speditivi, capaci di garantire vicendevolmente fuoco di appoggio. Il contatto tra i capisaldi era mantenuto con l’impiego di reparti a cavallo e unità da ricognizione. Pezzi controcarro erano posizionati in corrispondenza dei sentieri e delle strade che conducevano alla linea di accerchiamento. Le unità di riserva erano generalmente poste in posizione arretrata rispetto alla linea di accerchiamento, con gli orientamenti di supportare la manovra offensiva ed, eventualmente, inseguire le forze avversarie che in qualche maniera avessero sfondato la cinturazione; • l’annientamento sistematico delle bande presenti nella sacca, realizzato attraverso una delle seguenti modalità operative: •• la «battuta circolare» o Kesseltreiben: una volta realizzata la cinturazione dell’area, la linea di accerchiamento viene progressivamente ristretta, in quanto le forze accerchianti avanzano contemporaneamente verso il centro dell’area obiettivo. Le ovvie difficoltà di coordinamento, derivanti da diverse velocità di progressione dei reparti in avanzata (dovute non solo all’ostacolo naturale, ma anche e soprattutto alla resistenza nemica) limitavano l’uso di tale tattica solo su aree obiettivo di ridotte dimensioni. La perdita di contatto tra unità contermini

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comportava infatti la creazione di spazi vuoti attraverso i quali l’avversario poteva fuggire (fig. 1); •• la «battuta con linea d’intercettazione» o Vorstehtreiben: in questo caso le unità di un settore della linea di accerchiamento penetrano all’interno dell’area obiettivo, mentre le unità opposte alle prime si irrigidiscono sulle posizioni di partenza. L’avversario viene così «spinto» verso le forze fisse. La riserva doveva essere schierata, ad una congrua distanza, alle spalle delle forze mobili, con il compito di eliminare gli elementi che fossero riusciti a sfuggire alle maglie del dispositivo. Questa tecnica presupponeva una profonda conoscenza del terreno da parte delle unità attaccanti (fig. 2). Oltre alle tecniche di accerchiamento e annientamento sopra descritte, generalmente molto onerose in termini di impegno di uomini e mezzi e poco efficaci dal punto di vista operativo, l’altra grande famiglia di operazioni COIN offensive, condotte dalla Wehrmacht, era quella effettuata attraverso l’impiego degli Jagdkommandos, progenitori delle moderne operazioni di search and destroy oggi condotte dalle Forze Speciali, che esamineremo successivamente. Combattimento nei boschi I boschi, così frequenti nelle aree dell’Europa dell’est e in quelle balcaniche, costituivano terreno ideale per le manovre di avvicinamento a distanza utile di attacco, per lo spostamento occulto di forze, per la costituzione di capisaldi difensivi e per l’annullamento dei vantaggi derivanti dal possesso di armi contro carro e di reparto. In tale ambiente operativo, la Wehrmacht, pressoché incapacitata all’uso dell’artiglieria e del supporto aereo, non impiegabili a causa della scarsa visibilità, individuava i fattori premianti: nell’«urto concentrato delle forze di fanteria» (2), nel combattimento ravvicinato, nella sorpresa. La foresta imponeva la concentrazione delle forze, specie durante le

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fasi di movimento. Quest’ultimo doveva essere attuato attraverso schieramenti serrati in profondità che favorivano, in caso di imboscate, la riunione delle forze, la mobilità nelle fasi del combattimento, una maggiore flessibilità nella reazione, oltre che la rapida trasmissione di ordini e una pronta apertura del fuoco sui fianchi del dispositivo, che erano le parti della formazione maggiormente minacciate. Di contro, lo schieramento in profondità era penalizzato da una maggiore densità delle truppe in movimento, che rendeva la formazione un bersaglio vulnerabile alle imboscate. Il movimento di grosse formazioni nella foresta doveva essere preceduto dal distacco di pattuglie con compiti di esplorazione. Generalmente erano impiegate più pattuglie, schierate sulla fronte e sui fianchi della formazione in movimento. La distanza tra loro doveva essere tale da evitare che le pattuglie fossero ingannate dal rumore di quelle vicine. I compiti delle pattuglie esploranti erano riconducibili essenzialmen-

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te a due tipi di missione: • ricognizione o Erkundung: in cui l’obiettivo era costituito dall’acquisizione di informazioni in merito alla dislocazione, entità, natura e atteggiamento del nemico; • perlustrazione o Aufklärung: più orientata a ottenere informazioni sulle caratteristiche del terreno, viabilità, costituzione del bosco e del sottobosco, presenza di zone paludose, ecc…. La marcia delle pattuglie esploranti o del grosso delle unità in avvicinamento agli obiettivi era senz’altro molto faticosa in quanto il bosco costituiva ovviamente un impedimento oggettivo, che poteva limitare la progressione fino a un massimo di 3–5 km giornalieri. Durante la marcia, unità del Genio erano schierate in posizione notevolmente avanzata per aprire i sentieri e rimuovere eventuali ostacoli attivi o passivi. L’avvicinamento agli obiettivi era eseguito per tappe successive, il che consentiva di mantenere un adeguato livello di controllo sulla formazione. Lo schieramento del reparto nella fase di avvicinamento all’obiettivo era attuato in funzione della densità del sottobosco: tanto più rado era il bosco, tanto più l’unità avanzava in formazione aperta, mentre in presenza di aree difficilmente percorribili, il dispositivo rimaneva serrato e schierato in profondità (fig. 3). L’avvicinamento si concludeva, ovviamente, con l’assalto alle posizioni nemiche. Il passaggio dal dispositivo di marcia, schierato in profondità, ad una formazione generalmente a ventaglio richiedeva una certa abilità di comando e disciplina, anche con truppe ben addestrate, affinché l’effetto sorpresa non venisse a mancare proprio nelle fasi conclusive dell’operazione. La manovra per l’attacco era scelta in base alla consistenza delle posizioni avversarie. In caso di posizioni scarsamente difese la manovra privilegiata era l’aggiramento su uno o entrambi i fianchi o un attacco alle spalle (fig. 3). Se il nemico presidiava in forze capisaldi e postazioni, l’assalto era frontale, con una concentrazione di fuoco e di uomini in un ben determinato punto allo scopo di creare una

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breccia che doveva essere successivamente allargata. In questo caso, potevano essere utilizzati anche i lanciafiamme, considerati molto efficaci nelle aree boschive, ed essere attuati attacchi diversivi in altri punti del dispositivo avversario. Un altro metodo impiegato contro posizioni fortificate era quello dell’infiltrazione che era praticata in aree caratterizzate da bassissima visibilità e dalla presenza di vuoti nelle difese nemiche. In tale eventualità, piccole squadre si infiltravano all’interno delle linee avversarie, neutralizzando progressivamente centri di fuoco, sentinelle e capisaldi minori, allo scopo di disarticolare il dispositivo difensivo nemico e favorire il successivo attacco del grosso dell’unità. Durante l’attacco le armi pesanti non erano impiegate per sezioni o batterie, quanto piuttosto per singoli pezzi. Esse erano piazzate all’ingresso dei corridoi di tiro tracciati dai partigiani all’interno del bosco, con il compito di fissare il nemico nelle proprie posizioni. In questa funzione, il munizionamento preferi-

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bilmente impiegato per i cannoni anticarro era quello perforante, in quanto idoneo per qualsiasi obiettivo e non scoppiava urtando gli alberi, penetrando in profondità, a differenza delle cariche cave che erano invece troppo sensibili alla presenza di ostacoli. Tattiche difensive: transito, postazioni e capisaldi Sebbene lo Stato Maggiore tedesco considerasse le operazioni COIN come una forma di lotta da condurre mantenendo una postura offensiva, la difesa non doveva però essere tralasciata, specie la protezione attiva dagli attacchi dei partigiani. Essa riguardava principalmente: • le stesse unità; • le installazioni amministrative e di comunicazione; • le coltivazioni agricole (da cui trarre un’ingente percentuale di prodotti destinata a foraggiare le proprie truppe); • le linee di comunicazione stradali, ferroviarie e fluviali e il traffico logistico ivi transitante. Gli obiettivi da proteggere erano, quindi, scelti unicamente in funzione della condotta della guerra al fronte contro l’avversario principale: l’Armata Rossa. La protezione e la difesa fissa delle citate infrastrutture, nel concetto di controinsurrezione tedesco, non erano da sole sufficienti a preservare le Lines of Communication (LOC). Per la difesa passiva dovevano essere assegnate solo le forze assolutamente indispensabili; il resto delle unità di sicurezza dovevano essere impiegate con compiti di lotta attiva attraverso la costituzione e l’impiego di Jagdkommandos. Gli stessi Reparti della Wehrmacht, in transito in zone occupate dai partigiani, dovevano autoproteggersi, allo scopo di alleggerire il carico operativo delle unità addette alla sicurezza vera e propria. Postazioni e capisaldi difensivi dovevano sempre essere presidiati con unità non inferiori al livello di Gruppe (3). I membri, oltre che l’armamento individuale previsto, dovevano avere a disposizione anche una pistola lanciarazzi Mod. Very e bombe a mano per la difesa ravvicinata. Il munizionamento era disponibile in quantità pari ad almeno due dotazioni. Per

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l’edificazione di postazioni dovevano ovviamente essere privilegiate le infrastrutture in muratura, mentre quelle in legno erano rinforzate con sacchetti di sabbia. I capisaldi solitamente erano circondati da ostacoli passivi come filo spinato o rami. I dintorni della postazione erano ripuliti da ogni possibile nascondiglio e il campo di tiro doveva essere liberato per almeno 400 metri. Quando possibile erano costruite altane protette che agevolavano la sorveglianza diurna. Aperiodicamente erano distaccate pattuglie con aree di sorveglianza sovrapposte. L’accesso alle postazioni era ovviamente interdetto alla popolazione locale e i lavori all’interno degli acquartieramenti erano svolti da apposite unità del Genio. Tattiche difensive: protezione delle infrastrutture ferroviarie, delle rotabili e delle idrovie La protezione delle installazioni ferroviarie era considerata prioritaria rispetto a tutti gli altri compiti di sicurezza, in quanto le strade ferrate costituivano l’arteria logistica principale di collegamento

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tra il fronte e le retrovie, attraverso il transito di treni blindati. Stazioni, caselli ferroviari, ponti, serbatoi idrici e scambi erano protetti con la presenza di capisaldi e anche sulle linee erano apprestate postazioni difensive (fig. 4). Reparti speciali erano devoluti al pattugliamento e alla difesa della rete ferroviaria con compiti di collegamento, controimboscata e antisabotaggio. Le pattuglie ferroviarie erano sempre rinforzate da cani antiesplosivi. In caso di allarme, semplici procedure provvedevano a bloccare l’intero traffico ferroviario sulla linea interessata (il che avveniva frequentemente già a partire dal gennaio 1943). Strade, ponti, vie idriche e linee di comunicazione costituivano altrettanti obiettivi sensibili, sorvegliati con l’impiego di forze mobili che si muovevano con le onnipresenti Kübelwagen o con piccole imbarcazioni a motore. Nei tratti stradali particolarmente minacciati dalle bande partigiane, il traffico muoveva in convogli serrati e protetti da un’adeguata componente di scorta. Gli unici veicoli autorizzati al passaggio erano quelli della Wehrmacht, questo allo scopo di non intasare le anguste strade sovietiche e, contemporaneamente, precludere la mobilità ai nuclei partigiani che erano quindi obbligati a sfruttare sentieri attraverso i boschi o in aperta campagna (4).

indipendente dalle unità maggiori dell’Esercito o della Polizia Militare, pure impegnate nel controllo dei territori occupati e nelle operazioni COIN. Gli Jagdkommandos erano formazioni altamente specializzate, dotate di grande autonomia operativa e ridotte esigenze logistiche, che ne elevavano mobilità e flessibilità, rendendole più simili a bande partigiane che a unità regolari della Wehrmacht. L’organico previsto era di 39 uomini suddivisi in 4 Gruppen (fig. 5), tale da muoversi con rapidità e discrezione, anche in terreni compartimentati, e allo stesso tempo capace di esprimere una discreta potenzialità operativa in termini di volume di fuoco e flessibilità d’impiego. All’interno dell’unità era prevista anche la presenza di 4 civili, con funzioni di guida e interprete. L’unità, nel corso della missione, poteva essere frazionata per adeguarsi alle contingenti esigenze tattiche, ma l’impiego per singoli Gruppen non era previsto. La natura dei compiti assegnati era essenzialmente offensiva, sebbene già dagli esordi apparve chiara l’alta valenza dei risultati ottenuti nel campo informativo tattico. I principali compiti assegnati potevano essere tranquillamente mutuati da quelli previsti per una formazione partigiana, tra cui: • l’annientamento delle unità avversarie attraverso imboscate e colpi di mano; • le attività di ricognizione; • lo sconvolgimento delle linee logistiche avversarie. Gli Jagdkommandos agivano in settori dove la resistenza era particolarmente attiva, pattugliando il territorio in modo autonomo e indipendente dal resto degli altri reparti. I movimenti avvenivano sempre con il favore dell’oscurità, mentre di giorno l’unità sostava in boschi lontano dagli abitati, evitando contatti anche con la popolazione civile. Come detto, a livello tattico la condotta operativa dell’unità non differiva da quella di una banda partigiana. Dopo una preventiva ricognizione, gli Jagdkommandos, individuati gli obiettivi, predisponevano imboscate, collocavano mine o trappole esplosive, organizzavano colpi di mano allo scopo di eliminare fisicamente l’avversario e instillare in lui un senso di indeterminatezza e insicurezza. L’istituzione degli Jagdkommandos rappresenta tutt’oggi una pietra miliare nell’evoluzione delle dottrine di counterinsurgency, segnan-

Gli Jagdkommandos L’anno 1942, universalmente considerato decisivo per gli esiti finali del conflitto, vide le forze dell’Asse sconfitte in tutti i Teatri d’operazione con le battaglie di El Alamein, Stalingrado e Midway. Nondimeno gli alti comandi della Wehrmacht e delle SS continuarono nella redazione e divulgazione di importanti documenti relativi alla condotta delle operazioni e, nello specifico, di operazioni di counterinsurgency. In merito, il 25 agosto del 1942 lo stesso Himmler (5) emanò un ordine (6) per la costituzione di unità denominate Jagdkommandos, destinate specificamente alla lotta antipartigiana. Le neocostituite unità, da trarre dagli organici dei Polizei Regiment che operavano in territori infestati dalla presenza di bande partigiane, dovevano agire in maniera

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do un progresso sostanziale rispetto alle predisposizioni attuate fino a quel momento. Essi nacquero dal fallimento dei sistemi di lotta precedenti, basati su grandi operazioni di rastrellamento e sistemi di presidio e vigilanza del territorio e delle infrastrutture critiche che lasciavano sostanzialmente intatte le bande partigiane, libere di agire mantenendo l’iniziativa tattica. Gli Jagdkommandos, seppur privi del supporto della popolazione, in quanto operanti in territorio occupato, indirizzarono la lotta di controguerriglia su un piano innovativo per un esercito regolare, adottando gli stessi principi degli insorti. L’esigenza di impiego di unità dei minimi livelli ordinativi, quindi flessibili e leggere, idonee ad operare autonomamente in territorio ostile, dotate di ampia auto n o m i a d i c o m a n d o p e r l’espletamento del compito assegnato, fece nascere le capostipiti e i modelli delle contemporanee unità specializzate nella lotta di controguerriglia, raggiungendo spesso risultati tuttora ineguagliati. CONCLUSIONI Le operazioni antipartigiane condotte dalla Wehrmacht nel secondo conflitto mondiale, specie in Europa dell’Est e nei Balcani, furono tra le più cruente e sanguinose che la storia militare ricordi. All’epoca, come in precedenti conflitti, gli aspetti di counterinsurgency erano ancora considerati come elementi di contorno rispetto alle più vaste operazioni condotte sul fronte orientale o in Europa occidentale dopo il 6 giugno del 1944. I tedeschi dimostrarono però, sia a livello tattico, sia a livello operativo, una sensibilità fino ad allora sconosciuta verso il tema specifico, pur riprendendo e riproponendo in chiave evolutiva alcune misure e predisposizioni già attuate da altri Eserciti in passato, tra cui vale la pena ricordare: • l’impiego di unità di fanteria leggera, come assetto più idoneo alla condotta di operazioni antibande; • l’istituzione di unità specializzate nella lotta ai partigiani (gli Jagdkommandos), con l’impiego integrato di civili con funzione di interprete e guida

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locale; • l’evoluzione, conflitto durante, di un comparto dottrinale dedicato, emanato attraverso specifiche direttive, rivolto da un lato a specializzare sempre più le unità nella controinsorgenza, dall’altro a diminuire progressivamente il livello ordinativo dei Reparti impiegati in tale ambito; • l’attuazione di info operations rivolte a contrastare la propaganda comunista e a ottenere informazioni tattiche. In chiave innovativa, l’apporto della Wehrmacht all’evoluzione dottrinale del comparto COIN si materializzò invece attraverso: • la costituzione e l’impiego di unità aeree (nello specifico il Fliegergruppe z.b.V. 7) con il compito di supportare le operazioni di counterinsurgency condotte da unità terrestri; • la predisposizione di difese attive e passive a protezione di infrastrutture critiche, quali linee ferroviarie e telegrafoniche, vitali per il supporto e il coordinamento delle operazioni principali sul fronte; • l’introduzione di tattiche di counterinsurgency evolute, rivolte essenzialmente all’annientamento delle unità avversarie e al rastrellamento di ampie porzioni di territorio posto sotto il controllo operativo delle bande. Alla loro condotta erano dedicate specifiche unità e Comandi capaci di pianificare e gestire in autonomia interventi complessi. L’aspetto della controinsorgenza venne quindi per la prima volta affrontato in maniera organica, coinvolgendo per la riuscita dell’operazione ogni risorsa e ogni assetto disponibile. Se tali accorgimenti produssero, come detto, un notevole passo in avanti nel fronteggiare la minaccia asimmetrica, l’avversario, pur con alcune innovazioni a livello tattico, si rese protagonista di azioni di sabotaggio e attacchi alle LOC o a infrastrutture critiche, che rientravano nelle canoniche azioni di insurgency, non modificando sostanzialmente le proprie procedure d’impiego rispetto al passato. Le problematiche affrontate dalla Wehrmacht nelle sconfinate e gelide pianure russe non si discostarono molto da quelle affrontate da altri Eserciti in precedenti campagne, ovvero: • le vaste zone da controllare, specie nelle proprie retrovie, resero praticamente impossibile l’attuazione di un efficace controllo del

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territorio, anche con l’impiego di ingenti risorse umane e materiali; • gli assetti dedicati per la lotta alle bande si rivelarono insufficienti, sebbene furono istituite unità speciali; • la percezione delle truppe tedesche come occupanti ed invasori garantì l’appoggio della popolazione sovietica alla causa partigiana. Essa si rivelò elemento determinante in termini di sostentamento, vettovagliamento, rifornimenti, protezione e informazioni operative; • l’adeguamento e l’innovazione del comparto dottrinale della Wehrmacht nel settore della controinsorgenza furono mitigati dall’intangibilità e dalla flessibilità di un avversario che seppe sempre mantenere dalla propria parte l’iniziativa a livello tattico e operativo. In conclusione, i successi dei tedeschi nel campo della counterinsurgency nel corso del secondo conflitto mondiale derivarono, più che dalla realizzazione di grandi operazioni di rastrellamento condotte a livello battaglione/reggimento, dall’istituzione e dall’impiego di unità specializzate, di livello plotone/compagnia, composte da personale militare e civile altamente addestrato e motivato, caratterizzate da elevata autonomia logistica e grande flessibilità operativa, che operarono

NOTE (1) Ciò si contrappone a livello dottrinale a quanto statuito dalla definizione di J. Strange del U.S. Marine Corps War College, per cui il Centro di Gravità (proprio e dell’avversario) è costituito dalle fonti primarie che garantiscono, ad una determinata parte in lotta, forza fisica e morale, efficacia ed efficienza in combattimento e capacità di resistenza. In tale analisi l’individuazione dello stesso è declinata in sottosistemi: capacità, vulnerabilità e requisiti, che sono ampiamente descritti ed approfonditi. Nel Bandenbekämpfung tale concetto invece si riferisce più all’individuazione di determinate vulnerabilità dell’avversario in momenti contingenti della campagna, tralasciando l’analisi sistemica delle altre caratteristiche e quella del proprio. (2) A. Politi, Le dottrine tedesche di controguerriglia 1936 – 1944, Ufficio Storico dello SME, 1991, p. 256. (3) Livello corrispondente ad una squadra di fanteria composta da 9 – 10 uomini. (4) La lotta senza quartiere condotta dalle unità germaniche in Russia trovò un’espressione apicale nella cosiddetta «Strasse frei von jedem Russen», ovvero la politica della strada libera da ogni russo, che interdiva materialmente il transito alla popolazione russa delle principali rotabili del fronte orientale, con il duplice intento di favorire la circolazione e il transito logistico verso la prima linea e di prevenire attacchi e imboscate da parte dei partigiani contro i convogli tedeschi. (5) Heinrich Luitpold Himmler nacque a Monaco di Baviera il 7 ottobre 1900. Iscritto con la tessera n. 156 al Partito Nazional Socialista dei Lavoratori Tedeschi (NSDAP), egli riuscì in breve tempo a scalare i vertici dell’organizzazione fino a ottenere la carica di facente funzioni di dirigente nazionale delle Schutzstaffeln (SS). Himmler giocò un ruolo da protagonista nella cosiddetta «notte dei lunghi coltelli», che vide l’eliminazione, il 30 giugno del 1934, delle formazioni rivali Sturmabteilung (SA), guidate dal turbolento Ernst Röhm, a cui le SS erano peraltro subordinate: portò infatti personalmente a Hitler la notizia e le prove del complotto ordito dal rivale. Come ricompensa Hitler lo incaricò della direzione della Gestapo, la Polizia Segreta del Reich, e decretò la separazione delle SS, come organizzazione autonoma, dallo NSDAP. Nel giugno del 1936 Himmler venne nominato Chef der Deutschen Polizei (ChdDtP), ovvero re-

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secondo le stesse modalità dell’avversario che fronteggiavano: imboscate, raid e colpi di mano condotti con rapidità e audacia in aree controllate dal nemico, seguiti da altrettanto rapidi ripiegamenti all’interno di zone sicure. Esse costituirono le antesignane delle moderne unità specializzate nella controinsurrezione, che a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale furono protagoniste dei conflitti post-coloniali, degli scenari della Guerra Fredda come il Vietnam e l’Afghanistan al tempo dell’invasione sovietica e dei moderni conflitti bellici in Medio Oriente e Asia centrale. *Maggiore

sponsabile dell’intera attività di polizia, politica e segreta, di tutta la Germania. Con lo scoppio del secondo conflitto mondiale egli, per il tramite di Heydrich prima e Heichmann poi, fu mandante e responsabile della «Soluzione Finale», ovvero il turpe programma di sterminio della popolazione ebrea e di altri oppositori al regime nazista. In seguito al tracollo del Reich, fu catturato sotto mentite spoglie, avendo assunto l’identità di Heinrich Hitzinger, da una pattuglia inglese nel villaggio di Barnstedt, il 22 maggio 1945. Il giorno successivo, sottoposto a perquisizione e interrogatorio, si suicidò spezzando una capsula di cianuro che aveva nascosta tra i denti. Dopo l’esame autoptico e il riconoscimento da parte delle autorità russe e americane, fu sepolto in luogo sconosciuto all’interno dei boschi di Luneburgo. (6) Cfr. A. Politi, Le dottrine tedesche di controguerriglia 1936 – 1944, Ufficio Storico dello SME, 1991, p. 75. La circolare, datata 25 agosto 1942, era intitolata «Befehl zur Aufstellung von Jagdkommandos zur Bandenbekampfung», ovvero «Ordine per la formazione di Jagdkommandos per la lotta antibande».

BIBLIOGRAFIA R. Kirchubel, «Operazione Barbarossa I – Sfondamento in Ucraina», Osprey Publishing – RBA Italia, 2009; R. Kirchubel, «Operazione Barbarossa II – Obiettivo Leningrado», Osprey Publishing – RBA Italia, 2009; R. Kirchubel, «Operazione Barbarossa III – Alle porte di Mosca», Osprey Publishing – RBA Italia, 2009; A. Politi, «Le dottrine tedesche di controguerriglia 1936 – 1944», Ufficio Storico dello SME, 1991; Autori Vari, «German Anti Partisan Tactics», Ed. Quickmaneuvres, 2011; H. Plocher, «German Air Force versus Russia», Historica Aviation Publications, 2003; G. Cacciaguerra, Il centro di gravità, in «Informazioni Difesa» n. 6/2012; A. Pietra, «Guerriglia e contro guerriglia. Un bilancio militare della Resistenza (1943-1945)», G. Rossato Editore, 1997; A. De Angelis, La dinamica dei sistemi complessi, gli effetti e gli obiettivi nella pianificazione delle operazioni militari, in «Informazioni Difesa» n. 6/2012.

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Generale di Corpo D’Armata Giangiacomo Calligaris

«Coloro che ci hanno lasciati non sono degli assenti, sono solo degli invisibili: tengono i loro occhi pieni di gloria puntati nei nostri pieni di lacrime». Sant’Agostino

VOLAT AGILE


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Capitano Paolo Lozzi

GRAZIE.... RAPIDE OBSERVAT


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ESERCITO E SOCIETÀ INTERVENTO DEL CAPO DI STATO MAGGIORE DELL’ESERCITO ALL’INAUGURAZIONE DELL’ANNO ACCADEMICO 2013 - 2014 PRESSO L’ACCADEMIA MILITARE DI MODENA

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utorità, signore e signori, gentili ospiti, illustri docenti, a tutti voi il mio più cordiale benvenuto. Innanzitutto, vorrei rivolgere un sentito e commosso pensiero di vicinanza alle popolazioni colpite dal tragico evento calamitoso in Sardegna. È per me un vero piacere essere qui oggi per l’inaugurazione dell’Anno Accademico 2013/2014 dell’Accademia Militare. E sono lieto che qui con me ci sia anche il Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, Generale Leonardo Gallitelli, che saluto calorosamente e ringrazio per aver voluto testimoniare, con la sua presenza, il profondo legame con cui le nostre Istituzioni affrontano in comune la formazione degli Allievi Ufficiali dell’Esercito e dei Carabinieri. Ai cadetti porgo un “in bocca al lupo” da parte del Capo di Stato Maggiore della Difesa, sempre attento agli appuntamenti importanti della vita dell’Esercito, che oggi non è potuto essere tra noi. Un saluto molto affettuoso a tutte le autorità locali, al Presidente della Provincia Sabattini e al Sindaco di Modena Pighi, che considero un amico personale e dell’Accademia, e alla città di Modena, città che da tanti anni ospita la “casa madre” degli Ufficiali dell’Esercito e dei Carabinieri. Desidero, quindi, ringraziare i rappresentanti del mondo accademico e, tra loro, in particolare, il Magnifico Rettore dell’Università di Modena e Reggio Emilia, Professor Andrisano che, intervenendo a questa cerimonia, conferma l’ormai consolidato rapporto di collaborazione tra l’Ateneo Modenese e l’Accademia Militare. Una collaborazione che si estrinseca principalmente nell’opera del corpo docente al quale desidero esprimere la riconoscenza dell'intera Forza Armata. Desidero soprattutto ringraziare il Professor Andreoli che con la sua brillante prolusione ha trattato e toccato argomenti fondamentali che rappresentano la sintesi delle caratteristiche e delle virtù richieste a un Comandante di oggi, delle difficoltà e delle prospettive del servizio allo Stato, scelta alla base della nostra vita, oltre che della bellezza e del peso delle responsabilità e di quel senso di solitudine che deriva dall’esercizio del Comando. Bellezza perchè la responsa-

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Il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Gen. C.A. Claudio Graziano, e il Professor Vittorino Andreoli.

bilità del Comando è sicuramente una forma di appagamento personale che compensa la solitudine che esso comporta, mentre nella solidarietà troviamo l’espressione dell’altruismo che muove una scelta di vita. Oggi, tra noi, sono presenti “maestri” del Comando, personale che ha operato a lungo in operazioni o nel contrasto alla criminalità, scelte che comportano coraggio individuale e lucidità di pensiero. Inoltre, reputo che nella vita militare debba essere sempre mantenuto l’ottimismo al centro di ogni relazione, conservando rapporti sani con il prossimo e giuste prospettive e obiettivi che devono essere presi in considerazione nel percorso di tutta la nostra formazione allo scopo di accrescere la maturità del singolo, guardando sempre al futuro con fiducia. Fiducia ed entusiasmo che più facilmente possono essere garantiti dai Quadri più giovani, mentre è altresì indispensabile che quelli più anziani mantengano costantemente quella dedizione e quell’attaccamento alle Istituzioni, fondamentali nella nostra impegnativa professione. Ringrazio, quindi, il Professor Andreoli perché con il suo intervento ha fornito un’efficace sintesi di questi valori. Invito, pertanto, i giovani allievi a riflettere sulle indicazioni fornite in quanto elementi concreti e importanti a cui far riferimento nel considerare la nostra professione. Un impegno, quello del militare in generale e dell’Ufficiale in particolare, serio e prolungato nel tempo che richiede sacrifici personali e, soprattutto, familiari. Vorrei, inoltre, ringraziare il Generale Tota per il suo operato in un quadro complessivo di scarsità di risorse. La scarsità di risorse è, purtroppo, una costante in questi anni, durante i quali abbiamo, contestualmente, avviato il processo di trasformazione delle Forze Armate, pur continuando ad operare con la stessa efficienza, ricercando gli strumenti migliori per continuare a assolvere con efficacia i nostri compiti. In questo senso, un ruolo centrale è svolto, come espresso in precedenza dal Professor Andreoli, dal computer. L’informatizzazione dello strumento e delle procedure costituisce una grande opportunità. L’informatica ha mutato gli scenari operativi, rendendo il mondo più complesso e dinamico. Fenomeni come la guerra al terrorismo, i nuovi confronti internazionali e i rischi che ne discendono sono tutti fattori legati imprescindibilmente alla capacità di disporre di una mole di dati consultabili in tempo reale per intraprendere la Rivista Militare


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LE RUBRICHE

scelta corretta. Voglio, inoltre, approfittare di questa cerimonia di apertura dell’Anno Accademico, che porterà qualcuno di voi alla stelletta, qualcun’altro al secondo anno, per rendervi partecipi della trasformazione in chiave evolutiva, attualmente in corso, che condurrà obbligatoriamente ad una maggiore efficienza delle Forze Armate nel loro complesso e, in particolare, a rinnovate e potenziate capacità per lo Strumento Militare terrestre. In merito, l’uomo costituisce l’elemento centrale di questo importante processo, che richiede, come accennato, il costante confronto tra scarsità di risorse e mantenimento dell’efficienza operativa. In tale contesto, è necessario che la Forza Armata conservi le stesse capacità operative per i prossimi 10 anni e, in proiezione, anche per gli anni successivi, mantenendo centrale, come accennato, il ruolo delle forze terrestri, confermato da oltre 30 anni di attività operativa in cui le unità dell’Esercito hanno costituito il 75% del totale delle forze impiegate nelle varie missioni. Una previsione che trova la sua conferma negli attuali e, soprattutto, nei potenziali scenari di crisi internazionale. Per mantenere inalterate questa capacità di proiezione delle forze e questa efficienza è fondamentale poter disporre delle risorse necessarie per operare e per garantire un elevato livello di addestramento, sfruttando appieno le nuove opportunità derivanti dal processo di trasformazione e dall’ammodernamento in chiave digitale. Si tratta di passi decisivi. Per quanto riguarda la vostra formazione, essa deve necessariamente contenere tutti i tratti essenziali per plasmare la figura di un Comandante che si troverà a guidare uomini e donne diversi rispetto ai militari del passato. Giovani, desidero ribadirlo, eccezionali. Voi oggi sarete posti alla guida di professionisti maturi che hanno avuto molteplici esperienze sul campo. Essi devono essere comandati con volontà, determinazione e professionalità. In questo senso, come nel passato, è necessario che le nuove leve di Ufficiali conoscano il proprio lavoro meglio dei propri dipendenti così da supportare l’autorità discendente dalla posizione di Comando con l’autorevolezza della professionalità e dell’esempio. Quest’ultimo è un aspetto importante. Indiscutibilmente, al di là delle norme che regolano la vita e i rapporti, per comandare, bisogna anzitutto essere Comandanti a tempo pieno, sempre disposti ad ascoltare e a fornire l’esempio, attraverso la propria opera, la propria parola e i propri comportamenti, anche esterni alla vita professionale. Perché il personale dipendente sa riconoscere l’esempio, cerca l’esempio! Ciò alla luce soprattutto del fatto che i nostri soldati da una parte sono militari professionalmente preparati, dall’altra possono essere talvolta in difficoltà, anche finanziarie, nel generale quadro economico del Paese, e quindi ricercano, oltre all’esempio, anche umanità e comprensione. Questo comporta, per noi Comandanti, una costante dedizione e la disponibilità all’ascolto. Quest’ultima è, in particolare, una capacità importante e apprezzata. Un buon Comandante deve sempre saper ascoltare per poi decidere. Egli non può demandare, ma deve assumersi le sue responsabilità. L’ho imparato in missione e sul terreno. Quando non si prende una decisione, normalmente, il fallimento è veramente di alto profilo. Al termine di questo ciclo accademico, voi diventerete Ufficiali e andrete ai reparti mentre il processo di trasformazione della Forza Armata, che si concluderà nel 2024, sarà in atto e soprattutto ancora in evoluzione, per far fronte ai verosimili cambiamenti di scenari e di esigenze. Voi sarete costantemente protagonisti di questo cambiamento, sia dal punto di vista operativo agendo sul campo, sia dal punto di vista della concezione e sviluppo di questa trasformazione. Lo sforzo di cercare la soluzione migliore è sempre estremamente difficile ed estremamente gravoso. Talora impone dei tagli dolorosi, talora delle scelte, talora dei ripensamenti dettati dall’esperienza e possibili solo a chi ha il coraggio di ammettere gli errori e procedere di conseguenza. D’altra parte, per fornire un esempio concreto, faccio riferimento alle attuali esigenze di ammodernamento in continua evoluzione. Nessun veicolo tattico con cui la Forza Armata è entrata in operazione in Afghanistan, più di 10 anni fa, è ancora in servizio. Ciò in ragione del cambiamento delle potenziali minacce, oggi costituite, specie nei moderni scenari di counterinsurgency, dagli Improvised Explosive Devices (IED). Come conseguenza diretta, tutte le Forze Armate del mondo hanno dovuto adottare veicoli con diverse caratteristiche, con scocche studiate appositamente per resistere agli scoppi. Il conflitto asimmetrico, rispetto a quello convenzionale, pone meno rischi o comporta forse meno vittime, ma è, d’altra parte, più insidioso perché, attraverso la tecnologia, permette all’avversario di indirizzare l’attacco in modo diverso. Chiaramente la capacità di prevedere, di immaginare e sviluppare un’operan.1/2014

I rintocchi della “campana del dovere” segnano l’inizio dell’anno accademico.

zione, certamente diventa sempre più importante tanto quanto la capacità di cambiare, che vuol dire anche modificare le priorità a fronte di disponibilità ridotte di risorse. È qui che entra in gioco la capacità di assumere e assumersi le proprie responsabilità nella solitudine del Comando. In questo momento giovani Ufficiali stanno operando nei Teatri internazionali, stanno operando sul territorio nazionale per contribuire alla sicurezza, stanno lavorando a supporto della popolazione. Che è il mestiere che voi andrete a fare. Io sono certo che avete le caratteristiche, le capacità e l’entusiasmo per affrontare e vincere tutte queste sfide! Sono consapevole dell’impegno che vi è richiesto; nel contempo, però vi assicuro che non faremo nulla per rendere il vostro percorso meno faticoso perché è necessario che la Forza Armata disponga di un prodotto umano di elevata qualità dal punto di vista delle capacità professionali, del carattere e anche della preparazione fisica che è sempre più importante in un Esercito sempre meno giovane. Concludo ribadendo la necessità che voi guardiate con ottimismo al vostro futuro e a quello dell’Esercito e, ringraziando il Generale Gallitelli per il suo intervento e tutti i gentili ospiti per essere oggi qui, dichiaro aperto l’Anno Accademico 2013-2014 dell’Accademia Militare di Modena! Generale di Corpo d’Armata Claudio Graziano

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ESERCITO E SOCIETÀ INTERVENTO DEL PROFESSOR VITTORINO ANDREOLI

L

’Accademia Militare è un’antica Istituzione formativa, che ha le radici addirittura nel 1678, e rappresenta quindi indiscutibilmente un pezzo di storia dell’evoluzione delle teorie dell’educazione e della loro applicazione. Gli Allievi Ufficiali di oggi saranno l’Esercito del futuro, un’Istituzione che ha certamente immesso nella sua componente costitutiva la parola pace. Se l’è data come scopo: crede, cioè, che attraverso il diritto alla sicurezza delle collettività si possa raggiungere questo sogno, che ormai è pienamente dentro la nostra cultura, e che ha radici lontane, nella Grecia antica, con Platone, quando i filosofi del Gimnasium appunto, discutendo sullo scopo delle attività dello Stato, stabilivano che ogni gestione della res publica dovesse condurre alla pace e alla felicità. Insomma un sogno che si deve perseguire anche quando sembra che sia illusorio; non si deve mai abbandonare la grande idea che è quella della pace. Ho già lavorato con l’Accademia, quando ci si preoccupava che fosse un ambiente formativo nel quale si creasse la responsabilità del comando, ma dove regnasse al contempo un’atmosfera di tranquillità, dove lo studio e l’impegno fossero anche gratificanti, dove trovasse posto anche la gioia, parola importantissima che è purtroppo diventata desueta. Si parla troppo di piaceri, di felicità, che sono semplici reazioni a degli stimoli, cessano al loro cessare: e poi sono troppo individuali. Appartengono al singolo. La gioia è certamente una percezione di una situazione di benessere, ma è inclusiva, tiene conto degli altri. Un padre non può essere felice di qualcosa che lo riguarda o che riguarda uno dei suoi figlioli, se gli altri stanno male. La gioia è qualcosa che ha a che fare con l’insieme, con la comunità, è certamente anche contentezza individuale, ma comprensiva della visione della condizione del vicino. La scuola, qualsiasi tipo di scuola, e l’Accademia in particolare, per la grande storia dalla quale viene, deve funzionare più o meno come un’orchestra. L’orchestra deve promuovere, attraverso il combinarsi delle competenze dei singoli e sotto la sapiente e riconosciuta guida del direttore, l’armonia. Infatti anche se gli orchestrali sono perfetti, sanno suonare magnificamente, ma manca la coordinazione, non si giunge alla realizzazione di quel disegno che nella musica è stato concepito dal compositore, e che consente l’attuazione del senso della bellezza e quindi del significato culturale più profondo della musica. Ma nel caso della Scuola, la partitura è disegnata dallo Stato e parlare di Stato ai giorni nostri sembra quasi un peccato. Ma chi ha scelto l’Accademia, lo ha fatto per servire un giorno lo Stato, e per imparare il senso della comunità fin dalla giovane età. Una società che non sia partecipata in maniera efficace, in maniera onesta, in maniera giusta, è un’orchestra in cui anche chi suona bene non dà un grande contributo a comporre l’armonia, a dare un senso a quello che deve essere uno Stato, che oggi diventa più grande, diventa Comunità Europea, attualizzando visioni che solo poco tempo fa sembravano un puro sogno. Lavorai poi ancora con l’Esercito quando ebbi l’incarico di presiedere un gruppo che si occupava di “nonnismo”. Ma oggi ci sono fortunatamente relazioni diverse nell’ambito della Forza Armata, che non hanno più quelle caratteristiche che riscontrai allora. Poi ancora in un’altra occasione, quando ci fu quell’evento straordinario, l’ingresso delle donne nella comunità dell’Esercito, e credo che anche quella scommessa in qualche modo sia stata vinta. Venendo ad affrontare il tema scelto insieme al Comandante dell’Accademia, “difficoltà del Comando, necessità del Comando”, sembrerà forse strano che a parlare del Comando sia uno psichiatra, un professionista che fa quindi riferimento al fondatore della psicologia, Sigmund Freud, che nel 1900 fondò il tema della relazione, il tema dell’analisi dell’io, scoprendo che c’era una dimensione che non era solo quella dell’intelligere, del capire e poi del volere. Sembrerà strano, appunto, perchè Freud teorizzava che il benessere dipendesse dai conflitti interiori, dalle frustrazioni, e quindi anche dai Comandi. Si è addiritura teorizzato che il padre, l’immagine archetipica del Comando, affinchè si realizzasse una crescita sana e corretta, dovesse essere ucciso dal figlio, sia pure simbolicamente. Ecco, sembrerebbe questa una premessa per affermare che non sono il più adatto per parlare del Comando. Ebbene non è così. Cinquantacinque anni dedicati ai disturbi della mente mi hanno convinto che una, forse, delle esagerazioni, e quindi uno degli errori commessi come disciplina, sia stato quello di

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contribuire a sminuire continuamente, progressivamente, il termine Comando e il termine Autorità. Quindi vorrei parlare di Comando e di Autorità. Ed è senz’altro difficile, in questa società in perenne ed accelerato mutamento, in questa società che sembra non lasciare il tempo per pensare. Il sociologo Zygmunt Bauman ha avuto grande successo per una definizione della società. L’ha definita liquida. Vuol dire che non è possibile trovare niente di stabile. È tutto senza corpo, potremmo dire persino senza materia, almeno senza una materia fisicamente concreta. Io la vedo più come una società confusa, contraddittoria, in crisi, e non solo in relazione al crollo delle certezze economiche, come qualcuno vorrebbe farci credere. È una crisi più profonda, esistenziale, di cultura. È una società che ha perso le certezze. Certezze che sono legate ai riferimenti, agli esempi, ai ruoli. Anche al Comando. Nella confusione, nelle difficoltà, nella paura, c’è bisogno di sentirsi dire fai questo, fidati, fallo, io sono con te. Perché una società possa essere ordinata deve avere chiari innanzitutto i principi primi del vivere nel mondo. Ci sono dei principi che i greci chiamavano principi primi, perchè non sono discutibili. La percezione di essere uomo, la percezione quindi, del rispetto che gli altri uomini devono ricevere da me, esattamente tutto quel rispetto che voglio ricevere dagli altri. I principi primi vanno distinti nettamente dalle leggi, lo diceva Platone. Le leggi sono delle decisioni che un organo che ha il mandato per poterle emettere assume per risolvere dei problemi pratici, per organizzare una società, una comunità che muta nel tempo. I principi sono sopra la storia, non si toccano, e Platone ne demandava la definizione ai filosofi, perchè a poter parlare di principi erano coloro che ragionavano sull’uomo, su cos’è l’uomo, qual è il suo senso, e il senso del suo essere nel mondo. E, una volta stabiliti questi principi c’era bisogno dei tecnici, i quali, di quei principi, dovevano concretamente realizzare l’applicazione storica all’interno di quella società. E quindi ecco le regole, che sono delle norme comportamentali all’interno di una specifica comunità. Quindi principi, leggi, regole. Ma se non si vede questa successione è difficile orientarsi: una legge diventa un principio, e allora diciamo che il principio non è applicato con giustizia; le regole finiscono per diventare più importanti delle leggi. E si rimane adolescenti perpetui senza la percezione Rivista Militare


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LE RUBRICHE

di leggi, che semmai servono a guidare la trasgressione. I principi primi afferiscono al rispetto, formano l’etica, che è la guida necessaria per vivere. Le leggi riguarderanno il come vivere, le regole per far funzionare una Istituzione. La confusione oggi è tremenda. La società in cui gli Allievi Ufficiali vivranno, e in cui dovranno svolgere la loro funzione di guida e di comando, è una società in cui vige l’imperativo del “tempo reale”. Il pericolo è l’empirismo, un empirismo talmente rapido a mutare che si configura come una sorta di reazione “stimolo-risposta”, come dare un comando ad un computer, il quale risponde automaticamente. Il “tempo reale” deve essere una modalità di operazione, ma non deve sostituire l’approfondimento, la meditazione, il pensare al significato della vita e al significato di ciò che si farà, che ci si sta preparando a fare. Gli Allievi Ufficiali rappresentano un futuro che qualche volta si fa fatica ad intravedere nei giovani, che sembrano consumarsi nel qui e ora. Ecco perché ha senso parlare con loro di apprendimento, anche e soprattutto di apprendimento dell’esercizio del Comando, che vuol dire rispettare i principi, sapere quali sono le leggi, avere ben chiare le regole, nella consapevolezza di dover essere i primi a usarle e a non tradirle. Una società in cui sono cambiati molto, i giovani, e quindi sono cambiati i soldati, quelli di oggi e quelli di domani, con cui si dovrà più avanti interagire. Sono cambiate le regole. Oggi i soldati sono volontari, sono di età maggiore rispetto a quella che era l’età della coscrizione obbligatoria. Alcuni hanno maturato delle esperienze straordinarie, dovute alla partecipazione alle missioni all’estero, esperienze che arricchiscono. Ma il Comando non è una questione di età. Nella società odierna i giovani sono per lo più immaturi, non ho paura di affermarlo. Sempre di più, nell’ambito di quella che è la mia professione, mi accorgo di grandi maturità razionali, cioè di capacità di capire, di capacità di usare strumenti ad alto contenuto tecnologico, anche di capacità intuitive che certamente sono notevoli, ma vedo sempre di più assieme a questa maturità una immaturità nel saper controllare e nel saper gestire i sentimenti. Vedo persone intelligentissime, che talora però, di fronte ad una frustrazione, sembrano aver perso il significato, non saper gestire una relazione affettiva, per cui nascono reazioni eccessive, emozioni che diventano appunto assolutamente sproporn.1/2014

zionate. Ecco, allora, che il Comando non è solo spiegare gli scopi, i mezzi, ma è anche tener conto di chi è colui, o di chi sono coloro, a cui viene impartito il Comando. È sentire qual è il livello di maturità affettiva, capire se è in qualche modo tale da poter accogliere il contenuto del Comando. Oggi c’è il terrore della solitudine e, non appena si è soli, ci si rifugia nella tastiera e nello schermo del computer. Questa è paura. La paura è un meccanismo di difesa, perché fa percepire che ci sono dei rischi, e quindi è quasi una preparazione a prevenirli, e quindi è benedetta. Ma certo che se si arriva ad aver paura di tutto, ad aver paura della paura, è chiaro che non c’è scampo. Ci sono poi i soldati e le soldatesse. Questo insieme può essere straordinario, purchè sia un rapporto che si inserisce solo nella funzione che ci si accinge a svolgere. Ci sono stati casi in cui questo insieme purtroppo non ha funzionato, ed è bene averlo chiaro fin dall’inizio. L’Accademia è una Scuola che conduce a una professione; gli Allievi un giorno saranno Comandanti, e per comandare c’è una richiesta prima, l’esempio, e comandare comporta un grande senso della responsabilità e un grande senso della giustizia, perchè tutti davanti a un Comandante sono dei soldati, siano essi donne o uomini, tutti hanno gli stessi diritti e non è ammesso che vi siano delle derive sentimentali o affettive. Se è grande la fiducia nei giovani per quello che riguarda la componente intellettiva, è forte la consapevolezza del doverli educare e formare per quello che riguarda la maturità affettiva. E ognuno dovrebbe esercitarsi nelle capacità introspettive, cercare di autovalutarsi anche da un punto di vista affettivo. Per affrontare questo problema è opportuno richiamare un termine fondamentale per dei futuri Ufficiali, per dei Comandanti in formazione: fragilità. Forse un tempo chi teneva le prolusioni avrebbe potuto parlare del potere, della forza. Io insisto sulla fragilità, che è la sensazione e la percezione che ciascuno di noi ha dei propri limiti. Quindi è una condizione esistenziale. È qualche cosa che si lega alla condizione umana, ai suoi limiti. Guai se chi comanda non ha presente la propria fragilità. Io non so se sono riuscito veramente, negli anni, ad aiutare tutti quelli che, sofferenti, si sono rivolti a me, ma se ci sono riuscito, con alcuni almeno, sono sicuro che è stato per la mia fragilità; è perchè so cosa vuol dire malinconia, e allora capisco il depresso, so cosa vuol dire avere voglia di cambiare, avere il desiderio di realizzare cose che mai si è potuto realizzare, so cosa vuole dire pensarsi addirittura diverso da come si è, e allora capisco quelle personalità che noi definiamo “plurime”: insomma, accetto volentieri che mi si definisca fragile. Ho rispetto per il potere, ma ne conosco i pericoli. La fragilità non è una malattia, e non va nascosta. La fragilità è una condizione per cui ciascuno ha bisogno dell’altro, mentre il potere tende a fare (“faccio perchè posso”) senza però porsi la domanda se serva, e a chi serva. Bisogna amare la fragilità, e bisogna in questo senso capire che chi comanda ha bisogno dell’azione, in qualche modo della collaborazione, di colui a cui si rivolge. E allora è bellissimo comandare, perchè è come essere un padre che ha bisogno del proprio figlio. Ed è quindi in quel momento che si avverte il proprio limite, e mettendo insieme le fragilità nasce una forza straordinaria. Ecco la contraddizione, ma è solo apparente, perchè la fragilità non è debolezza. Fragilità, in realtà, significa che, capendo i propri limiti, si dà maggior peso a tutti coloro di cui si ha bisogno per realizzare i propri obiettivi. Voglio terminare e, avendo citato il padre, lo voglio fare richiamando il rapporto a vasi comunicanti tra la professione, che nel caso dei militari è l’esercizio di un’attività pubblica di servizio allo Stato, che naturalmente viene rappresentato dalle persone a cui si deve ubbidienza, e il privato. Non è più possibile distinguerli nettamente, sono solo distinzioni operative, ma un Ufficiale ha anche bisogno di essere “dentro” una famiglia, e tutti abbiamo una famiglia, quella di origine e quella che si forma. Nel passato si voleva che fossero due situazioni completamente diverse e distinte. Io non credo che per conseguire grandi risultati si debba parlare di professione o famiglia, ma di professione e famiglia. Allora voglio terminare invitando a dedicarsi a immaginare, a imparare a guardare il futuro, perchè senza futuro non c’è storia. Bisogna guardare avanti, perchè il futuro ti permette di immmaginarti diverso domani da come sei oggi, e forse oggi non ti piaci abbastanza, ma domani puoi raggiungere quello che vorresti essere. Io esorto a dedicarsi con molta serietà ad apprendere il rapporto del Comando, perchè comandare è difficile, ma nello stesso tempo a coltivare i propri sentimenti e a includere nei propri sogni, oltre a quello di diventare Ufficiali esemplari, quello di costruire una famiglia, perchè, se ben guidata, permetterà senz’altro di essere degli Ufficiali addirittura migliori. Tanti auguri cari Allievi. Professor Vittorino Andreoli

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Rubriche- computer tips & tricks e recensioni:Layout 1 22/04/2014 12.31 Pagina 6

COMPUTER TIPS & TRICKS STOP ALL’AVVIO AUTOMATICO DEI PROGRAMMI INDESIDERATI IN SEI CLICK. Comprendere quali siano i programmi in avvio automatico, allo start-up del computer, è cosa non semplice; un pannello semi sconosciuto li indica ma soprattutto dà la possibilità di killarli.

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Per capire quanti programmi si avviano insieme al sistema operativo windows, basta esaminare la barra di sistema, quella in basso sul desktop. Molti dei programmi che rimangono in esecuzione inseriscono nello spazio a destra una piccola icona, per segnalare la loro attività. Un metodo più preciso di verifica consiste nell’aprire il Task Manager, con la combinazione dei tasti CTRL*ALT*CANC. Questa interfaccia riepiloga tutte le attività del computer; dal pannello “Processi” si potranno osservare sia quelle avviate dall’utente sia i principali servizi del sistema operativo.

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Digitando, dal menù Start nella finestra “Esegui”, il comando “msconfig”, windows, mette a disposizione un’altra interfaccia chiamata “Utilità Configurazione di sistema”. Questa permette all’utente di controllare l’origine ed intervenire sull’avvio di molti programmi allo start-up del computer.

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Dall’interfaccia che si apre, compare l’elenco dei programmi presenti in esecuzione. Le informazioni che vengono fornite sono il nome del programma, il comando corrispondente e il suo percorso. Con “Comando” si intende il nome del file completo della cartella in cui si trova. Studiando questa colonna è facile risalire al programma corrispondente. Con “Percorso” si indica dove l’applicazione è richiamata nel registro di windows: se il valore di questa colonna inizia per “HKLM” si tratta di un processo che si avvia per tutti gli utenti, se inizia per “HKCU” l’avvio è previsto solo per l’utente intestatario della sessione.

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Per capire l’importanza di ciascuno di questi programmi per il buon funzionamento del computer, la ricerca sul browser web è fondamentale. Basta usare un motore di ricerca e digitare il nome del programma; avremo l’indicazione di tanti percorsi che potranno descriverci la bontà dello stesso, oppure la sua già nota capacità di causare danni. Per impedire che un programma si avvii in modo automatico, a questo punto, basta deselezionare la relativa casella. Al successivo avvio del sistema, un messaggio ci avvertirà se lasciare disabilitati o meno tali servizi.

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Prima di addentrarci sul tipo di attività che effettuano i programmi in avvio automatico è bene fare una precisazione: guardando nella scheda “Servizi” in maniera generica avremo un’indicazione del lavoro che questi svolgono, e questo spesso è sufficiente. Ma c’è una grande differenza tra un “computer stand alone” e quello “portatile”. Tutti i sistemi elettronici piccoli, per la loro praticità e funzionalità, hanno bisogno che siano attivi alcuni dispositivi di comunicazione: il dispositivo di puntamento, quello audio oppure il Wi-Fi o bluetooth. Per questo, attenzione a non disattivarli, pena il mancato funzionamento del dispositivo.

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Un’interfaccia molto più completa con la possibilità di modulare le attività di tutti i servizi di windows è la “Gestione computer”, eccedibile da “Start -> pannello di controllo -> Strumenti di Amministrazione -> Gestione computer -> Servizi”. Ogni servizio è illustrato in cinque colonne che ne specificano lo stato e le attività. Se puntiamo sopra qualsiasi servizio e facciamo click con il tasto destro del mouse si apre un menù a tendina dal quale, scegliendo l’opzione “Proprietà”, potremo agire sulle sue modalità di funzionamento. In questo pannello, infatti, attraverso la casella “Tipo di Avvio” si hanno tre opzioni di intervento: l’avvio automatico, la disabilitazione definitiva del programma o la possibilità che manualmente l’operatore lo possa riattivare qualora ne rilevi la necessità. Attenzione quindi: meno programmi in avvio garantiranno maggiore performance al vostro computer. 107


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ENGLISH SUMMARY The Civil War in Syria, by Pietro Batacchi (p. 4). After four years, the conflict in Syria does not seem to decrease. The peace Conference in Geneva contributed to underline the impasse. Expectations were not so high indeed, due to several postponements that took almost a year. Anyway the situation could not have been different for many reasons. First of all, the opposition, especially the military wing that relies on the field, boycotted the meeting. Moreover, Iran (one of the main actors on the scenario) was even not invited to the Conference. Finally Assad’s resignation, which was a fundamental condition for oppositors to start the transition process, is actually not feasible. On the battlefield there is a substantial stalemate, since no one on both sides can demonstrate its ability to prevail. It seems that this situation will continue in the same way for quite long time. Uighurs Between Chinese Repression and Will of Independence, by Daniele Cellamare (p. 12). Nowadays Xinjiang is an autonomous region of Popular Republic of China. During the last twenty years, its importance had an an incredible growth both in economic and political field. The repression that Beijing has adopted for decades against the Uighurs stands in this complex scenario. This population represents the original Xinjiang ethnic minority. Uighurs speak Turkish language and practice Islamic religion. Their aim is to achieve wider autonomy from the central government. They claim even for independence from China due to discriminatory policies implementation and a high level of unemployment. Wide dissatisfaction of the population led to bloody uprisings.

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How to Save Money with Pooling & Sharing, by Giuseppe Amato (p. 22). Armed Forces employment of the of different participating nations in the new operational scenarios drew attention to wasteful duplications and various capacitive gaps. This has driven the European Union member Countries to the Pooling and Sharing, namely the development of complementary capabilities, leveraging standardized and interoperable systems, up to a cooperative approach that enhances the synergy between States and markets. Strong When it is Needed, by Roberto Forlani (p. 26). The thesis proposed in this article is that the heavy forces, in their traditional role, will be able to maintain their prerogatives and prove very useful throughout the entire spectrum of conflicts, especially in irregular contexts such as counterinsurgency ones. Volunteers, an Ethics coming from afar, by Ernesto Bonelli (p. 36). How not to be struck by the sadness coupled with pride in the look of many soldiers, engaged in international missions, in the face of tragic visions of fallen comrades on the field or the populations to which they bring their work for peace and stability in the area? Praise of Initiative, by Gianmarco Di Leo (p. 42). The Army General Staff has recently published the Doctrinal Note on "General Principles and Approach to Land Military Operations" which, however briefly ,lays a new foundation for the reconstruction of the overall doctrinal architecture of the Armed Forces. The Doctrine requires, in fact, a substantial upgrading,

especially in the light of the constant evolution of NATO and Joint Force Doctrine. Some people may underestimate the importance of maintaining a doctrine continuously adapted to the needs of the organization, but I am sure that even the few pages of this article can demonstrate the usefulness of putting proper attention to development, study and, above all, internalization of Military Doctrine within the Armed Forces. A solid doctrinal basis, as described below, even in the few historical examples proposed, is essential for the efficiency of the units and can be decisive on the battlefield for victory on the tactical field . Iron Punch, by Generoso Mele (p. 48). This cycle of exercises planned for 2013 represented a new exciting challenge for the operating units of the 2nd International FOD, used in difficult international scenarios. A moment of professional growth, a real added value in the operational field. An interesting debate about operating procedures and doctrine represented its real strength. Striker Fired vs Hammer Fired, by Fabio Zampieri (p. 54). The article outlines the evolution of handguns equipped with the "percussion device for launching" (striker fired pistols), pointing out that this design solution, after an initial abandonment due to technological problems, has been recovered successfully using modern technology and meeting the needs of professional users of firearms. The article also highlights some of the inherent limitations of launched percussion weapons, making a comparison with a hammer fired pistol of national production. The article reports experiments carried out with weapons owned by the author and contains original photos.

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Leonardo, the Genius in the Art of War, by Sara Greggi (p. 60). Behind an evocative and imposing medieval castle on the slopes of Montalbano, and surrounded by a beautiful landscape, with vineyards and olive trees, there is an ancient land full of history. Going through the olive groves and the smells of an old campaign trail, the "green road", it is possible to reach a fifteenthcentury rural residence, typical of the Tuscan countryside. Here, in Anchiano, hamlet of Vinci, on April 15, 1452 was born the greatest genius that humanity has ever known, the synthesis of creativity and science, rationality and feeling: Leonardo. Chronicle of an Attack, by Antonello Folco Biagini, Alberto Becherelli, Antonello Battaglia (p. 66). On the occasion of the centenary of World War I, will be published a series of essays by a group of young historians of the University of Rome “Sapienza”, coordinated by Prof. Antonello Folco Biagini. The aim of the project is to outline the most important issues of a conflict that wrecked the European continent and dragged the world’s leading powers in a crisis that, unexpectedly, lasted for years. The topics covers a long time span: from the geopolitical balances in nineteenth century Europe to the international relations in early twentieth century. The assassination of Sarajevo, casus belli, is the article opening the series. It makes it possible to capture the salient moments immediately preceding the assassination of Archduke Franz Ferdinand, heir to the Habsburg throne, and of his wife Sophia. Insights in the fragile “European concert” on the eve of the conflict, the colonial competition, the various irredentisms, the establishment of nationalisms and the tensions between the

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powers, will also be provided. In this contest, special attention will be paid to the political choices, both domestic and foreign, of the Kingdom of Italy in between Triple Alliance and Triple Entente; to the internal debate between interventionists and neutralists; to the military organization; to the decision to go to war. Each year the essays will be devoted to the correspondent year of war. The fronts of war, the military manoeuvres, the great battles, military health care, psychiatry, the role of women, economics and engineering studies, will not be neglected. A progressive analysis will accompany the reader in the interpretation of the main events and the major issues.

countless tragedies that it caused, acted on technological development as a powerful engine. It is no exaggeration to say that the discoveries and innovations that took place between the summer of 1914 and the end of 1918 exceeded by far all those that appeared in the previous half-century (which, in its turn, was a period among the most fruitful in history). Upon closer inspection, however, in most cases these were neither original contributions nor new creations without a basis, but rather functional improvements and refinements.

The Tuscan Army, by Riccardo Caimmi (p. 72).

After reviewing, in the first part of the study, the organization and the tactics employed by the partisans in Eastern Europe, as well as the basic principles applied by the Wehrmacht within the conduct of counterinsurgency operations at the operational and tactical levels, this second part of the work analyzes the tactics, techniques and procedures adopted by the German Army for counterinsurgency operations. Moreover, it describes the organization and procedures for the employment of "Jagdkommandos", units specialized for fighting the partisans. These units channeled their operations into an innovative basis as for a regular army, by adopting the same principles of the insurgents. In the concluding paragraph are illustrated their limits and the reasons for the operational failure of the Wehrmacht in its fight against partisan groups. Such a failure contributed significantly to the collapse of the German Army on the eastern front, thus opening the way to Berlin for the inexorable and powerful Soviet war machine: the "Red Army".

The history of the Grand Duchy of Tuscany, after the fall of the dynasty of the de 'Medici, alternates periods of peace, progress and social harmony with other periods characterized by wars, turmoil and uprisings. The events which the Tuscan Army took a part in during the Lorenese, Napoleonic and Risorgimento ages are little known but deserve, due to their importance, a renewed attention. Top secret: the fascinating World of Secret Codes, by Vincenzo Junio Valerio Musmeci, Nicola de Maio, Vitantonio Cito, Vittorio Guarriello (p. 80). The codes and coded messages that made history: from ancient Greece to the Cold War. A journey into the world of secret codes presented by some young students of the Military School “Nunziatella”. The Engaging Story of Concrete, by Flavio Russo (p. 88). The terrible catastrophe that the Great War was, beyond the

Bandenkampf!, by Gianluca Bonci (p. 92).

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RECENSIONI Luca Girotto: « La Grande Guerra. Der Lange Georg “Il Lungo Giorgio”. Un’artiglieria navale bombarda Asiago», Gino Rossato Editore, 2010, pp. 140, euro 18,00. Una ricostruzione fatta con metodo, basata sulla ricerca di testimonianze e documenti originali, di immagini inedite e rarissime che mostrano le distruzioni procurate dall’artiglieria austriaca un secolo fa. È la storia del “Lungo Giorgio”, raccontata nel nuovo volume di Luca Girotto, pubblicato con il contributo del Comune di Calceranica al Lago e Cassa rurale di Caldonazzo. Il dettagliato approfondimento documenta la creazione, l’uso al fronte e il declino di una leggenda della Grande Guerra, un cannone possente di calibro 35 centimetri, a molti noto come “der Lange Georg”: il poderoso pezzo di artiglieria, originariamente creato per la marina imperial-regia dalle industrie Skoda, finito in dotazione all’Esercito. Il “Langrohkanone 35 cm L45”, questa la sua classificazione tecnica, concorse alla distruzione dei paesi dell’Altopiano di Asiago nella tragica primavera del 1916. Durante l’offensiva, meglio nota come “Spedizione Punitiva”, “Il Lungo Giorgio” condivise gli obiettivi con altre importanti bocche da fuoco asburgiche. I pesanti cannoni, al di là della loro reale e indubbia importanza bellica, contribuirono a elevare il morale e la fiducia delle truppe imperiali nell’imminente preparazione dell’attacco contro le linee italiane. Rilevanti furono pure i danni alle abitazioni altopianesi, tant’è che Asiago e Gallio, fino ad allora considerate difficilmente raggiungibili dal nemico, furono colpite dalle grosse granate sparate da oltre 20 chilometri di distanza. Per la popolazione iniziava l’esodo di massa e la condizione di profughi. Il libro di Luca Girotto (medico ospedaliero, che vive e lavora a Borgo Valsugana) porta nuove informazioni sulla Prima Guerra Mondiale consumatasi sull’arco alpino, ma soprattutto consegna ai posteri un’esaustiva raccolta iconografica (170 foto) e storiografica degli eventi, offrendo una visione oggettiva del “cannone navale da montagna”, permettendo una volta per tutte il distinguo tra mito e realtà. Marcello Ciriminna

... Ricordo che quando “el canòn” ha sparato la prima volta sono andati giù tutti i vetri delle finestre per il colpo. Nessuno aveva pensato di avvertirci. Tutti i vetri del paese sono scoppiati per il soffio d’aria (Paola Giacomelli).

Vincenzo Di Michele: «Io, prigioniero in Russia», L’Autore Libri Firenze, 2010, pp. 139, euro 12,10. Un’altra testimonianza della terribile campagna di Russia è il libro di Alfonso Di Michele, partito da Pietracamela, paese alle pendici del Gran Sasso, per andare a combattere su fronte del Don una delle più cruenti campagne militari. Oltre duecentomila soldati inviati in Russia per quella che si credeva una guerra lampo. Novantamila morti e solo diecimila prigionieri rimpatriati tra il 1946 e il 1954 dai campi di prigionia sovietici. Uno di questi era appunto il padre di Vincenzo Di Michele, valido giornalista e scrittore, autore del volume “Io, prigioniero in Russia”. La sapiente regia dell’autore tira le fila delle memorie scritte da Alfonso Di Michele solo poco prima di morire. Pur desiderando farlo da tempo, non ci era mai riuscito: tanta era ancora la sofferenza legata a quei ricordi, che l’ira e il rancore avrebbero prevalso. Dalla partenza con la Divisione Julia, battaglione L’Aquila, (il cui motto creato da Gabriele d’Annunzio “D’aquila penne ugne di Leonessa” rendeva bene l’idea della forza e della tenacia di questi alpini), il racconto si snoda attraverso l’avanzata verso il Don: miseria, desolazione, freddo e gelo. La realtà del fronte, dove un fiume ghiacciato divideva due eserciti e due gioventù. Il soldato Di Michele ha avuto un pensiero anche per il nemico “Non posso non dedicare un pensiero benevolo anche per quei ragazzi... lì inermi su quel manto nevoso”. Ma non era molto il tempo per pensare perché l’offensiva russa segnò la disfatta di un Esercito a cui seguì il ripiegamento e la prigionia. “Il vero dolore fu vedere tutti quei compagni feriti che ci supplicavano e ci chiedevano aiuto…” e con questo strazio nel cuore iniziò la marcia verso il campo di concentramento di Tambov sotto le parole incalzanti Davai, Davai (avanti, cammina). La prigionia, l’ospedale di Bravoja in Siberia, il campo di lavoro in Kazakistan: non ci sono parole per descrivere i patimenti e le sofferenze, il dolore per i compagni morti di stenti e la perdita della dignità umana, solo in parte mitigato dalla grande umanità e generosità delle donne russe. La fine del conflitto ha restituito una gioventù fiaccata nel fisico e nel morale. Tre anni e mezzo sono stati donati dall’Alpino Alfonso Di Michele alla patria per una guerra che deve essere raccontata. “Chi avrà la fortuna di ritornare dovrà raccontare quel che è stato di noi”, come conferma Dante Muzi, che con Alfonso ha condiviso anche la prigionia, “quella che vedi nei film è la guerra degli eroi; la nostra era la guerra dei poveri, di chi ha sofferto e lottato per un tozzo di pane…”. Questo è il valore aggiunto del libro di Vincenzo Di Michele, che ha più che meritato i numerosi riconoscimenti ottenuti. Non si può che concordare, segnalando ai lettori, soprattutto ai giovani, la piacevole lettura. Annarita Laurenzi

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.... nessuno dei propri familiari, neanche in battute fugaci, si darà per vinto nel dire: “È morto”. Ma loro, sia Andrej di Mosca o Giacomo di Treviso, che Ivan di Pietroburgo o Giovanni di Cuneo, questa volta sotto forma di polvere, in verità, giaceranno nel tempo in questi immensi territori oggi teatri di grandi battaglie, in quel generico e unico appellativo di “Milite Ignoto” (Alfonso Di Michele).

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Giuseppe Caforio: «Soldiers without Frontiers: the View from the Ground», Bonanno Editore, 2013, pp. 416, euro 35,00. Il libro presenta e analizza i dati di una ricerca comparativa transnazionale condotta tra il personale militare di nove diversi Paesi con esperienza di guerra asimmetrica. I Paesi interessati sono stati: Bulgaria, Danimarca, Italia, Filippine, Slovenia, Sud Africa, Corea del Sud, Spagna, Turchia. 542 militari dei diversi gradi e di tutte le Forze Armate di questi Paesi sono stati ascoltati mediante interviste strutturate in profondità. La scelta dei Paesi, scrive l’autore (Generale della Riserva e Sociologo militare), è stata fatta evitando quelli con maggiori esperienze di combattimento (sui quali esiste già un’abbondante letteratura) e puntando invece su medie e piccole potenze che nei precedenti decenni non avevano avuto importanti esperienze di tal tipo. Scopo principale della ricerca – effettuata da un team internazionale coordinato dall’autore – è stato quello di cogliere gli aspetti umani dello spiegamento di personale militare in missioni in ambienti di guerra asimmetrica, quali l’Afghanistan, l’Iraq, il Libano, il Sudan, il Chad, i Balcani, il Golfo Persico, ecc. Si sono, in particolare, volute esaminare sia le reazioni individuali e di gruppo di fronte ad ambienti umani e naturali molto diversi da quelli dei Paesi di origine dei militari intervistati, sia le relazioni intercorrenti tra gli uomini impegnati sul terreno e gli altri attori presenti sul territorio: Forze Armate locali, popolazione autoctona, militari degli altri contingenti, organizzazioni non governative (ONG). I ricercatori sono partiti dalla considerazione che le operazioni che gli strumenti militari dei Paesi industrializzati sono oggi prevalentemente chiamate a svolgere si sono concretizzate e definite attraverso un percorso storico che è iniziato nel 1960, dalla descrizione delle nuove Forze Armate come Constabulary Forces – una sorta, cioè, di polizia internazionale. Definizione elaborata dallo studioso americano Morris Janowitz, che già scrisse all’epoca: “L'istituzione militare è destinata a diventare una forza di polizia che viene continuamente disposta ad agire, impiegando un livello minimo di forza, con un atteggiamento protettivo e cerca di raggiungere una relazione equilibrata tra le parti, piuttosto che la vittoria“. Per gli intervistati l’esperienza in quest’ambiente operativo, così diverso da quello tradizionale, ha comportato la necessità dell’adattamento a condizioni di vita e di lavoro mai vissute prima e comportanti una sfida significativa alle capacità personali e professionali. L’operare in mezzo a popolazioni civili, tra le quali spesso gli insurgents si mascherano e si nascondono, evitando con cura ogni “danno collaterale“, il dover “conquistare le menti e i cuori“ di tali popolazioni (spesso di cultura e mentalità assai diversa), ha costituito un aspetto nuovo e problematico per le truppe. Il libro, analizzando le risposte degli intervistati (spesso citandole direttamente), fa toccare con mano le reazioni, gli stati d’animo, i comportamenti dei protagonisti. Per la prima volta non leggiamo i resoconti ufficiali o le ricostruzioni dei media, ma ascoltiamo le voci, e una “visione dal basso”, come recita il sottotitolo del volume, di coloro che hanno visto, vissuto e sperimentato su se stessi l’azione e la permanenza in ambienti di guerra asimmetrica. Vengono così evidenziate le impressioni all’impatto con ambienti naturali e umani così diversi da quelli dei Paesi di origine; le difficoltà di rapportarsi (e fidarsi) di militari locali, anch’essi diversi per lingua, mentalità, cultura, preparazione; la “scoperta” di popolazioni e modi di vita e di pensiero estranei al mondo da ciascuno conosciuto, la necessità di rapportarsi positivamente con essi. Si rivelano poi gli stati d’animo di uomini che si trovano per la prima volta ad essere sotto il fuoco avversario, a dover temere l’insidia delle mine e degli esplosivi, a essere testimoni di morte e distruzione, perdita di compagni, a dover sparare contro altri esseri umani per difendere se stessi. Si scoprono le ansie, le paure e le loro conseguenze psicologiche fino a quel “post-traumatic stress disorder” di cui si aveva notizia soltanto dalla letteratura americana. Di fronte alla cruda e complessa realtà del conflitto asimmetrico tutto viene messo al vaglio e in discussione: l’azione di comando, le regole di ingaggio, l’addestramento ricevuto, i mezzi e le armi in dotazione, la cooperazione internazionale. Di tutto ciò il libro dà ampia e diretta testimonianza, offrendo, infine, al lettore incredulo la possibilità di verificare in proprio, di controllare i risultati, attraverso il sito web nel quale sono stati immagazzinati i dati della ricerca, accessibile attraverso una password che l’autore offre al lettore. Il libro è scritto in inglese, sia per la dimensione internazionale della ricerca, sia per poter disporre di una più vasta audience internazionale ed inserirsi, così, nella più significativa letteratura sulle esperienze in conflitti asimmetrici. Francesco Lombardi

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...“occorre puntualizzare che affrontare operazioni di guerra asimmetrica oggi significa per il personale impiegato dover assolvere una molteplicità di funzioni spesso marginali od estranee alle funzioni militari tradizionali. Operazioni che la letteratura sul tema chiama ‘stability operations’ e ‘nation building’ e che comportano una vasta e diversificata serie di attività sul campo, quali assistenza umanitaria, aiuto alla ricostruzione, contributo alla governance, addestramento delle Forze Armate locali, azioni di vero e proprio combattimento, attività di intelligence, spesso simultaneamente piuttosto che in sequenza“ (Giuseppe Caforio).

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APPROFONDIMENTI a cura del Centro Studi Internazionali (Ce.S.I.) La politica del Vietnam nel contesto delle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale

di Francesca Manenti

A quarant’anni dalla storica battaglia tra la Marina della Repubblica del Vietnam e la Marina della Repubblica Popolare Cinese per il controllo delle isole Parcel, le rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Meridionale rappresentano ancora il fattore di maggior criticità per il governo di Hanoi. In quell’occasione, il 19 gennaio 1974, in seguito agli scontri avvenuti sulle isole Robert, Duncan e Drummond, la Cina occupò l’intero Crescent Group, ossia quella parte di arcipelago controllata fin dal 1950 dall’allora governo del Vietnam del Sud, iniziando una disputa che tutt’ora continua a influenzare inevitabilmente le relazioni tra i due Paesi. Il difficile rapporto con Pechino costituisce il focus principale della politica estera del governo vietnamita. Le ripetute dimostrazioni di forza da parte della Cina per affermare la propria sovranità su circa il 90% delle acque del Mar Cinese Meridionale si scontrano inevitabilmente con gli interessi nazionali di Hanoi, che così vede limitato l’esercizio dei propri diritti di pesca e di esplorazione in una regione ricca di risorse ittiche ed energetiche. La così detta “nine dots line” (conosciuta anche con il nome di “U shaped line”), la linea di demarcazione presentata nel 2009 alle Nazioni Unite da Pechino e che dovrebbe indicare l’estensione massima delle sue acque territoriali, include all’interno della Zona Economica Esclusiva (ZEE) cinese le isole Parcel e l’arcipelago delle Spratley. Questi due ultimi gruppi di isole sono entrambi rivendicati dal governo del Vietnam in quanto rientranti nella propria ZEE, come sancito dagli accordi della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto Marittimo. Le misure restrittive adottate dalla Marina Cinese per interdire l’accesso dei pescherecci stranieri nelle acque contese sono state, in passato, causa di incidenti tra Pechino e Hanoi. La crescente instabilità del contesto regionale, alimentata dalle prevaricazioni cinesi, ha spinto il governo di Hanoi a incrementare progressivamente il budget destinato alla Difesa, con un aumento di circa il 150% dal 2008 al 2011, per arrivare, nel 2012, ad una spesa militare di 3,3 miliardi di dollari. L’aumento delle risorse a disposizione delle Forze Armate è finalizzato al potenziamento delle capacità aeree e navali del Paese, al quale, entro il 2015, dovrebbero essere destinati circa 400 milioni di dollari. Oltre ai quattro velivoli da combattimento Su-30MK2, equipaggiati con missili Cruise antinave Kh-59MK, acquistati dalla Russia nel 2011, entro il prossimo anno dovrebbe essere completata la consegna di sei sottomarini convenzionali, classe Kilo, anch’essi di fabbricazione russa. I primi due esemplari, HO-182 Hanoi e HQ-183 Ho Chi Minh City, sono già a disposizione della Marina vietnamita. Le necessità di porre un argine all’aggressività politica cinese e conseguentemente di difendere i propri interessi nazionali hanno portato il governo vietnamita a cercare di consolidare le proprie alleanze nella regione, soprattutto con Filippine e Nuova Zelanda. Nel primo caso, i due governi hanno recentemente sviluppato una forte cooperazione politica e militare, come evidenziato dalla sottoscrizione del Philippines-Vietnam Action Plan e dal Memorandum of Understanding nell’ottobre del 2011. Tali accordi disciplinano le iniziative bilaterali in materia di sicurezza, di Difesa e di cooperazione marittima fino al 2016, permettendo ai due governi di istituire un sistema di comunicazione privilegiato tra le rispettive guardie costiere e di incentivare il reciproco scambio di informazioni. Per quanto riguarda la partnership con la Nuova Zelanda, Hanoi ha recentemente siglato nuovi accordi in materia di assistenza militare, di information sharing e di partecipazione a eventuali attività di antiterrorismo e di peacekeeping nella regione. L’importanza strategica della regione del Mar Cinese Meridionale e la posizione geografica che il Vietnam ricopre all’interno di essa hanno permesso al governo di Hanoi di diventare un interlocutore privilegiato di quei Paesi che, pur essendo attori extraregionali, guardano al Pacifico come a un teatro di primario interesse. Durante la visita in Vietnam del Primo Ministro indiano Mianmohan Sing, lo scorso novembre, Nuova Delhi si è impegnata ad iniziare un programma di addestramento per operazioni combat sottomarine destinato alla Marina vietnamita, come parte di un incrementale accordo di cooperazione bilaterale che dovrebbe comprendere una linea di credito di circa 100 milioni di dollari in favore di Hanoi per l’acquisto di armamenti. Un supporto agli sforzi vietnamiti di rinforzare il proprio dispositivo di Difesa è giunto anche dagli Stati Uniti: lo scorso dicembre il Segretario di Stato, John Kerry, ha annunciato l’interesse di Washington a dare inizio ad un nuovo programma di assistenza in ambito di sicurezza del valore di circa 18 milioni di dollari, per migliorare le capacità di intervento delle unità di pattugliamento marittimo nelle operazioni di R&S e di disaster response. Nonostante Hanoi abbia la necessità, anche attraverso la fitta rette di accordi internazionali, di difendersi dalle ingerenze di Pechino, i rapporti con la Cina sono fondamentali per la sopravvivenza economica vietnamita. L’interscambio economico registrato nel 2012 si attestava intorno ai 41,2 miliardi di dollari, con un valore di importazione e di esportazione di Hanoi rispettivamente di 28,8 miliardi e 12,4 miliardi di dollari. Il dossier economico è di grande importanza per il governo vietnamita, il quale annualmente deve affrontare un voto di fiducia in Parlamento (Assemblea Nazionale) per poter proseguire il proprio mandato. L’attuale Primo Ministro, Nguyen Tan Dung, nel novembre 2012, era stato sottoposto a dure critiche da parte del Partito Comunista, che detiene la maggioranza dei seggi all’Assemblea, per non aver saputo portare avanti una politica economica in grado di porre rimedio alle difficoltà causate da un alto tasso di inflazione e di pressante debito pubblico. La recente visita del Primo Ministro cinese, Li Keqiang, in Vietnam, lo scorso ottobre, è stata l’occasione per il governo di Hanoi di rilanciare la cooperazione economica bilaterale e cercare così di raggiungere un interscambio economico di 60 miliardi di dollari entro il 2015. In base alle considerazioni precedenti, appare evidente quale sia il paradosso della politica vietnamita. Se, da un lato, il governo di Hanoi ha un bisogno vitale dell’interscambio commerciale con Pechino, dall’altro, questa necessità potrebbe influire sull’indipendenza del Paese nella gestione delle dispute nel Mar Cinese Meridionale. La Cina, infatti, potrebbe utilizzare la leva economica per attenuare le rivendicazioni vietnamite nella regione ed erodere così l’opposizione alla sua politica di espansione. L’affrancamento del Vietnam dalla dipendenza economica da Pechino e, quindi, dall’ambiguità di fondo della sua politica estera, potrebbe passare attraverso l’innalzamento qualitativo degli accordi di cooperazione con gli altri Paesi rivieraschi della regione. Infatti, al momento, il nucleo delle relazioni internazionali di Hanoi è costituito da intese di natura prettamente militare. In futuro, se queste costituissero il punto di partenza per lo sviluppo di una maggior integrazione anche economica, il Vietnam potrebbe trovare una valida alternativa all’interscambio con la Cina. Così facendo, il governo di Hanoi potrebbe portare avanti le proprie rivendicazioni marittime senza temere eventuali ritorsioni da parte cinese.

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