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di Virgilio Ilari “
Parte V Storia del riSorgimento 429
Giulio Rocco
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Giulio Rocco
La vera storia del “Mahan italiano”La vera storia del “Mahan italiano”
di Virgilio Ilari
di Virgilio Ilari
Il nome di Giulio Rocco è ben noto agli studiosi italiani, ma soltanto perché nella via a lui dedicata, alla Garbatella, hanno sede ben due università (al N. 25 la San Pio V e ai N. 37-39 Roma Tre). Deve l’ammissione tra i Carneadi della toponomastica romana a Carlo Bruno, direttore generale della marina mercantile e cultore di storia navale napoletana, il quale scoperse nel 1904 un opuscolo scritto novant’anni prima da Rocco, e ripubblicato nel 1911, l’anno di Tripoli e dei piani d’attacco austroitaliano a Malta, con prefazione del capo di stato maggiore della R. Marina, ammiraglio Giovanni Bettòlo1 .
Il saggio, pubblicato a Napoli nel 1814 per i tipi di Angelo Trani, aveva infatti un titolo intrigante: Riflessioni sul potere marittimo. Nel 1972 la Rivista Marittima lo classificò “precursore italiano” del sommo Alfred Thayer Mahan, e nel 1993 il capitano di vascello Ezio Ferrante (1948) gli ottenne da Hervé Coutau-Bégarie (1956-2012) il prestigioso riconoscimento di “pen-
1 Cfr. Carlo Bruno, articoli in Lega Navale, gennaio e settembre 1901, poi in Ricordi marittimi napoletani, Napoli, Stab. Tip. F. Lubrano, 1904, pp. 3-13. Ezio Ferrante, «Giulio Rocco e le sue riflessioni sul potere marittimo», in Rivista Marittima, 1981, n. 5, pp. 45-50. Id., «La pensée navale italienne. I. Giulio Rocco, précurseur oublié», in Fondation pour les Etudes de Défense Nationale, Dossier No. 47, janvier 1993, pp. 8595. L. Donolo, Storia della dottrina navale italiana, Roma, USMM, 1996, pp. 39-42.
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seur oublié”. L’autore, nato a Lettere (presso Castellammare) e appartenente alla nobiltà civica di Napoli, dopo un breve soggiorno alla Nunziatella era entrato per volontà del padre, assieme al fratello maggiore Michele2 , nella marina spagnola, dove entrambi avevano raggiunto il grado di capitano di fregata. Tornato a Napoli dopo la morte del fratello, il 1° gennaio 1813 Rocco era stato assunto nella “regia delle sussistenze militari” [il cui direttore generale, l’abruzzese barone Antonio Nolli (17551830), fu poi trasferito alla marina] e il 22 dicembre aggregato al dipartimento della marina, di cui, con fulminea carriera, fu nominato capo il 31 agosto 1814, cinque giorni dopo la dichiarazione con la quale re Gioacchino Murat notificava la riapertura dei porti al traffico commerciale e riduceva drasticamente i dazi d’importazione3 .
Grand’Ammiraglio di Francia, Murat non aveva certo mancato di associare la sua immagine ai fasti navali del suo regno. La medaglia commemorativa dell’impresa di Capri recava il suo ritratto, con l’emblema “Avvenimento al Regno – presa di Capri”, e l’immagine sul verso (l’isola circondata di vascelli e barche) non alludeva tanto allo sbarco del 4 ottobre 1808 quanto al rifornimento del 13, “diretto” dal re installato alla Villa del Belvedere sopra Sorrento col suo stato maggiore. La scena era stata immortalata da due quadri, di Odoardo Fischetti (ca. 1778-1824) e di Johann Heinrich Schmidt (1740-1818), ora al Museo di San Martino insieme ad un terzo di M. A. Descamp (una cui copia si trova anche al museo della marina francese) che raffigura l’abbraccio del re a Giovanni Battista Bausan (1757-1825) sul ponte della fregata Cerere ingombro di feriti, subito dopo l’epico duello del 27 giugno 1809 con la vittoriosa Cyane. Capri era il soggetto di una cantata di Giovanni Paisiello (1740-1816) e il
2 Un altro fratello, Antonio, divenne procuratore regio nel tribunale civile di Napoli. 3 Nel 1816 Rocco pubblicò una Memoria sulla scelta e istruzione degli allievi [del Collegio] di Marina (Napoli, dalla tipografia di Angelo Trani). Il 16 gennaio 1817 fu ammesso nella Real Società d’incoraggiamento alle scienze naturali ed economiche, fondata nel 1806 da re Giuseppe Napoleone. Con decreto reale dell’8 luglio 1820, Rocco fu incaricato, insieme a Melchiorre Delfico (1744-1835), di tradurre in italiano la costituzione spagnola del 1812. Nel 1825 figurava tra i Soci onorari della Reale Accademia delle Scienze, Sezione della Società Reale Borbonica ed era Socio dell’Accademia Pontaniana., classe di matematiche. Morì nel 1829 (v. necrologio negli Atti dell’Accademia Pontaniana, Napoli nella stamperia della Società Filomatica, 1832, vol. I, pp. xvii-xviii).
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nome del primo vascello costruito a Napoli per conto di Napoleone (una dimostrazione navale inglese aveva fatto slittare di una settimana la data del varo, prevista per il genetliaco imperiale del 1810). Il secondo, varato quando già stava maturando la rottura, si chiamava Gioacchino e le fregate e brick portavano i nomi della regina e dei principi reali.
Il 27 marzo 1815, mentre l’avanguardia napoletana stava entrando a Pesaro, Murat disse al colonnello Sir Hew Dalrymple (1750-1830), inviato di Lord Bentinck (1774-1839), che era stato Napoleone a forzarlo a dotarsi di una flotta d’alto bordo, di cui personalmente non sentiva alcun bisogno e di cui era pronto a disfarsi: come re di Napoli si considerava infatti il naturale alleato dell’Inghilterra, alla quale poteva offrire le forze terrestri che le occorrevano nel Mediterraneo. Nel tomo III delle sue memorie, il ministro del tesoro imperiale François Nicolas Mollien (17581850), acuto critico del sistema continentale creato da Napoleone nell’illusione di mettere in ginocchio l’Inghilterra, sottolinea l’assurdità di aver annesso l’Olanda per garantire l’effettiva chiusura dei suoi porti alle merci inglesi, e di averle poi imposto di ricostituire quella marina da guerra che era stata in passato una delle cause principali della rovina del commercio olandese. Murat aveva perciò doppiamente ragione nel dire a Dalrymple che era stato Napoleone a costringerlo a costruire le sue navi: ma non si rendeva pienamente conto che la funzione delle navi napoletane non era di proteggere il traffico napoletano, ma di troncarlo.
La svolta era cominciata il 26 febbraio 1813, quando, su pressione dei negozianti inglesi di Messina, i Royal Marines erano sbarcati a Ponza riaprendo la base contrabbandiera abbandonata dai borbonici nel 1809. Il 21 giugno Napoleone saltò sulle furie leggendo sul Morning Chronicle dell’11 che Murat (coprendo la trattativa col fittizio armamento della
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squadra napoletana) aveva concluso un accordo commerciale. In realtà la trattativa, condotta a bordo del vascello America, si era interrotta il 5 giugno: a parte un limitato scambio di generi di prima necessità, la fine del blocco non fu prodotta dai colloqui di Ponza, ma dal successivo negoziato con l’Austria e dalla decisione presa il 16 ottobre da Murat di imitare i re di Svezia e di Baviera passando dalla parte degli Alleati. Secondo il Bollettino Commerciale di Milano del 23 novembre, la decisione di modificare il sistema di blocco, era stata presa in consiglio di stato: al termine, Murat aveva inviato un parlamentare a Ponza e ne aveva atteso il ritorno prima di pubblicare il decreto dell’11 novembre che apriva i porti ai legni amici e neutri (americani, turchi e barbareschi), con implicita libertà di effettuare spedizioni e ritorni per conto delle imprese inglesi di Malta, Messina, Siracusa e Gibilterra. Lo stesso decreto e altri successivi avevano inoltre stabilito nuove tariffe doganali, riducendo ad un quarto il dazio sui grani, oli, coloniali, legno di tintura. Auspicando analoga riforma per il Regno italico, il Bollettino commentava che «il blocco annientava il lavoro, l’industria e i capitali e produceva la miseria pubblica e privata».
Il 3 febbraio 1814 Lord Bentinck si rassegnò a malincuore a firmare l’armistizio, ma in cambio (secondo lo storico Maurice H. Weil) dette una forma tanto precisa all’art. II da farne un vero trattato di commercio ad esclusivo vantaggio dell’Inghilterra. Il Giornale degli Annunci segnalava l’arrivo a Napoli, nella seconda metà di febbraio, dei primi 9 legni inglesi da Livorno e Messina; ma già da tempo navi ottomane facevano la triangolazione con la Sardegna. Il 26 marzo il bey di Tunisi rinnovò la tregua, con l’impegno a concludere la pace entro un anno e il permesso di pesca corallifera. Il 6 maggio, dopo la pace di Parigi, Murat abolì il diritto di dogana marittima, autorizzò l’esportazione di grano e olio e abbonò i dazi d’importazione su varie derrate. Sul Giornale degli Annunci del 7 maggio compariva quello del commissario generale delle truppe britanniche in Italia, Freeborne, sceso a Napoli all’Albergo del Sole in Largo Castello 69 per appaltare la fornitura di carne fresca e foraggio.
Il 4 giugno il ministro degli esteri Gallo celebrò il genetliaco di Giorgio III dando una cena di gala agli ufficiali della squadra inglese e fece un toast al sovrano ex-nemico assieme a Lord Oxford, membro influente del parlamento e ospite a Napoli di Jones. Seguirono un ricevimento in onore dei sovrani di Napoli a bordo del vascello Couraçao e una festa a
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Capodimonte per gli ufficiali inglesi. Il 10 Bentinck promise a Gallo che si sarebbe adoperato per far recedere la corte di Palermo dal rifiuto di ammettere i bastimenti con bandiera napoletana e dal divieto per i sudditi siciliani di imbarcare carichi destinati ai porti e coste napoletani.
Il 9 luglio Murat assunse il titolo di re di Napoli in segno di buona volontà verso il re di Sicilia alleato degli inglesi e il 14 decretò il ritorno di Ancona allo statuto di porto franco e la libera esportazione dei cereali. Secondo il generale Filangieri erano in corso trattative per acquisire l’Army Flotilla di Messina, anche se Castlereagh censurava il ballo del Couraçao e il Monitore di Napoli del 26 luglio pubblicava che due legni napoletani predati da un corsaro spagnolo erano stati condotti a Ponza. Il 18 agosto arrivò Fagan, trasferito da Palermo come console generale inglese a Napoli e incaricato dal rappresentante inglese a Palermo (William A’Court, 1770-1860) di ottenere l’apertura dei porti anche alle navi siciliane senza garanzia di reciprocità. Sia pure a malincuore, Murat si piegò e con la dichiarazione del 26 agosto notificò alle altre potenze l’apertura indiscriminata dei porti napoletani a tutte le navi mercantili.
In realtà l’unico tratto comune che si può rintracciare tra Rocco e Mahan è solo l’intento pratico e non teoretico dei loro scritti, rivolti al ceto dirigente dei rispettivi paesi e condizionati dagli idola tribus del momento. Quanto al contenuto, avevano idee opposte, imperialista e navalista il consigliere di Roosevelt, liberale e pacifista il funzionario promosso da Murat dopo aver regalato la sua spada a Bentinck e riaperto i porti del Regno. Significativamente, l’unico autore citato da Rocco (storpiando il nome in “Raynat”) è l’abbé Raynal (Guillaume-Thomas-François, 17131796), curatore dell’Histoire philosophique et politique des établissements et du commerce des Européens dans les deux Indes (in dieci libri, l’ultimo dei quale redatto da Alexandre Deleyre, amico di Diderot e di Rousseau) e convinto, come Montesquieu e Benjamin Constant, dell’effetto pacificatore del commercio.
Quando il libro fu pubblicato, i lettori colti conoscevano Raynal e sapevano dunque intendere nel giusto significato la frase citata da Rocco («le flotte prepareranno le rivoluzioni, esse guideranno i destini dei popoli, esse saranno la leva del mondo») a sostegno del suo I aforisma: «Chi ha il dominio dei mari necessariamente signoreggia».
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«Il dominio – proseguiva il II – poggia sulla forza delle navi da guerra sostenuta dalla prosperità della marina di commercio; forza e prosperità che essendo parti integrali di un medesimo tutto, a vicenda si sostengono. L’accrescimento dell’una non può aver luogo senza quello dell’altra, e con maggiore facilità può darsi una marina mercantile senza quella da guerra, che non questa senza di quella». Il corollario (XII aforisma) era che bisognava svilupparle di pari passo: «il progresso di una marina militare è necessariamente lento e bisogna spingerlo insieme co’ mezzi, su dei quali poggia il di lei sostegno; qualora non si usi una tale accortezza, la sua prosperità non sarà durevole, e tutto al più potrà ricevere uno splendore passeggero, che, in ultima analisi, servirà di aggravio allo Stato, anzi che di vantaggio». La marina da guerra (VI aforisma) «non deve riguardarsi come ogni altra forza militare … in tempo di guerra le è necessario molto più metodo che orgoglio; combinar sempre l’onore delle armi coi propri interessi, né compromettere le forze, se non quando si abbiano sicuri auspici di vantaggi, e pronti mezzi di ristabilire i guasti, che sempre soffre il vincitore medesimo».
Modesta, pacifica, cauta, la marina militare doveva però esserci ed esser pronta fin dal tempo di pace. «Le potenze non sempre sono arbitre della scelta fra la Pace e la Guerra, specialmente le inferiori, anzi si osserva per lo più, che le grandi trascinano queste nelle di loro operazioni secondo il bisogno. In tal caso quelle prive affatto di forze debbono servire in un modo del tutto passivo gli alleati, che sono alla testa degli affari, e vengono costrette di affidare ai medesimi la propria difesa; laddove avendo de’ mezzi da ciò fare, e degli altri, se è possibile, onde cooperare cogli stessi alleati al felice esito delle operazioni, possono meglio badare alla propria salvezza, ed ottenere dei vantaggi nelle vicende, che presenti la guerra, oltre di quelle che hanno a sperarsi nei trattati di pace». Non mancava un’allusione all’Inghilterra: tra i compiti fondamentali del vertice “economico” (vale a dire tecnico) della marina, Rocco poneva infatti «una grande ed assidua vigilanza sullo stato delle forze marittime amiche, in tutto ciò che riguarda la di loro disposizione, le pretensioni di esse, quanto hassi da sperare o temere».