RIVISTA MILITARE 2011 N.1

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EDITORIALE

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UNITI, ADESSO COME ALLORA Le celebrazioni dei 150 anni dell’Italia unita offrono l’opportunità di riflettere su un momento di particolare rilevanza nazionale, civile e militare. Il 17 marzo 1861 fu punto di arrivo ed allo stesso tempo di partenza, per i cittadini e per i soldati dell’Italia preunitaria, che credettero fermamente in una appartenenza comune. Un percorso che ebbe inizio da lontano, passando per i moti del 1820-21-30 e per le successive guerre d’indipendenza, che trovarono ispirazione e forza nelle idee illuministe che, sorte come esigenze, si tramutarono in principi. Il processo poi si accelerò. Ed in circa due anni, dalla primavera del 1859 a quella del 1861, una penisola divisa in sette Stati divenne un unico nuovo Regno. Proprio il Manzoni, nel 1821, con arguzia intellettuale, elencò gli elementi comuni delle genti «italiane»: lingua, sangue, cuore, altare. Con le opportune ponderazioni, oggi si possono riprendere le sue parole e riconoscerne l’attualità. Nella ricerca di attuazione di quegli ideali di amor di Patria, ispirati anche alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, furono risolutive proprio le imprese militari. Lo furono tanto le vittorie militari degli eserciti franco/piemontesi, quanto lo scontro tra l’esercito austriaco e quello franco-sardo nella battaglia di Solferino e San Martino (1859). Tali eventi, così come l’impresa garibaldina dei Mille e quella dei Bersaglieri a Porta Pia del 1870, sono la testimonianza più concreta della volontà e dello spirito di sacrificio che guidarono gli uomini in questo articolato percorso di unificazione. Un cammino reso ancor più complesso dal fatto che i sette Stati preunitari, a partire dal 1849, si erano trovati di fronte ad un bivio: rinnovarsi internamente in senso costituzionale, combattendo a fianco dello Stato sabaudo, oppure allearsi strettamente con l’Austria appoggiandosi agli elementi più conservatori, con il rischio di separarsi dalle forze politicamente e culturalmente più vive del Paese. Gli schieramenti, fra loro incompatibili, si scontrarono sui campi della dialettica intellettuale e su quello delle armi. Gli Stati meno sensibili al mutare dei tempi e alle richieste di innovazione, scelsero di procrastinare di due anni la propria caduta, sebbene la funzione storica del loro essere politico fosse ormai esaurita e superata dal principio di «nazionalità», inteso come nuovo «diritto delle genti» e basato sulle antiche origini comuni e sul concetto di autodeterminazione dei popoli. Il sacrificio e la determinazione di soldati e cittadini che già si sentivano parte di un’unica entità nazionale, l’Italia, presero il sopravvento innescando il processo di unificazione del Paese. Ad oggi, tutto questo rappresenta la conferma di quanto profonde siano le nostre radici e quanto forte sia la nostra identità, sotto il profilo storico, culturale ed etico. Proprio l’epopea garibaldina ne è il simbolo. Garibaldi fu espressione fulgida di Comandante, di Soldato, vivissima testimonianza di generosa adesione ad ideali che richiedevano perseveranza e spesso abnegazione. Affermare che i moderati riuscirono a realizzare le proprie idee grazie a coloro che combatterono, e riconoscere che i rivoluzionari riuscirono ad agire poiché supportati dalle idee di uomini illuminati, è doverosa considerazione. L’unificazione nazionale, sancita nel 1861, ma di fatto raggiunta con la vittoria della Grande Guerra e con il ricongiungimento di Trento, Gorizia e Trieste alla madrepatria, fu persino esempio e modello per alcuni Paesi dell’Europa che, attorno ad un nucleo statale più moderno ed avanzato, costruirono nuove realtà istituzionali autonome, grazie a movimenti popolari. Oggi le Forze Armate, inserite in una realtà ben più ampia di quella nazionale, sono lo specchio positivo dell’Italia ed il prodotto genuino di quel processo storico che 150 anni fa vide tutte le fasce sociali impegnate ed attive nel conseguimento della sua unità. Lo spirito di allora si manifesta non solo negli interventi che le Forze Armate di oggi sono chiamate ad affrontare lungo tutto il territorio nazionale, ma ancor di più nelle operazioni fuori area, dove trasferiscono, consapevolmente, l’idea di uno Stato coeso nel sostegno alle politiche di difesa e sicurezza delle Organizzazioni internazionali di cui facciamo parte. Ciò a testimonianza che l’unità è forte nelle coscienze dei cittadini e dei soldati, adesso come allora.

Generale Biagio Abrate Capo di Stato Maggiore della Difesa


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Sommario

www.esercito.difesa.it riv.mil@tiscali.it

1 Editoriale 4 Il concetto operativo dell’Esercito Italiano 2010-2030 del Gen. C.A. Domenico Rossi Sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito

n.1/2011 gennaio - febbraio - marzo

70 Esercito e pubbliche calamità di Marco Buscemi

78 Forze Armate del XXI secolo: realtà di valore che crea «valore» di Ciro Esposito

84 4 maggio 1861. La nascita dell’Esercito Italiano di Ernesto Bonelli

16 L’Iraq sta cambiando di Claudio Angelelli

20 Medio Oriente di Daniele Cellamare

28 Arabia Saudita: punto di situazione di Antonio Picasso

36 Tecnologia e guerra di Luigi Robello e Luigi Puleo

44 SPECIALE

La Scuola Sottufficiali dell’Esercito

96 Trieste all’Italia di Giuseppe Fernando Musillo

Rubriche 104 Approfondimenti 112 Recensioni in copertina

46 Il Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione dell’Esercito di Antonio Iammarrone

48 La formazione «di base» dei Marescialli di Flavio Lauri

56 Qualità nella formazione

Intervista al Comandante della Scuola Sottufficiali dell’Esercito Gen. D. Roberto Ranucci a cura di Marco Ciampini

64 Universi paralleli di Mauro Brugnara

Il sacello del Milite Ignoto, presso l’Altare della Patria, sublime sintesi dell’assoluta devozione al dovere, quale più pura poesia del vivere militare.


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IL CONCETTO OPERATIVO DELL’ESERCITO ITALIANO 2010-2030 Il pericolo più grande che l’Esercito Italiano deve evitare, ad ogni costo, è non trovarsi pronto a rispondere all’evoluzione degli scenari futuri, contraddistinti da una natura dei conflitti incerta e complessa. In questa prospettiva concettuale, la Forza Armata si sta preparando a operare delle scelte che gli permetteranno, in un futuro non troppo remoto, di dotarsi di unità operative, le più dinamiche possibili, e formare Comandanti in grado di esercitare, con grande autonomia, una spiccata leadership. In tale ottica, il presente articolo descrive quali sono gli elementi principali del «Concetto Operativo dell’Esercito Italiano 2010-2030» che si pone l’obiettivo di definire i presupposti per lo sviluppo di capacità operative future, fissando le aree capacitive di maggiore evoluzione e tratteggiando le principali linee di sviluppo da seguire. Molti di questi concetti confermano la bontà di molte scelte fatte negli ultimi dieci anni, quali ad esempio il processo di digitalizzazione delle unità terrestri, ma introducono anche la necessità di una preparazione nella conduzione di operazioni «Full Spectrum» e, soprattutto, l’integrazione con le altre componenti militari e civili.

PREMESSA Gli eventi che hanno maggiormente caratterizzato l’ultima decade, e condizionato la storia recente, e che molto probabilmente saranno ricordati come epochmaking per la nostra organizzazione, sono rappresentati, da un lato dal sempre maggiore impiego in una varietà di Teatri Operativi, dai Balcani a Timor Est e, più recentemente, in Iraq, Afghanistan e Libano, e dall’altro dall’impegno profuso dall’Esercito, con continuità, sul territorio nazionale in concorso alle Forze di Polizia. La molteplicità dell’impegno milita-

re è stata condizionata non solo dalla maggiore o minore distanza dall’Italia, ma anche, e soprattutto, dalle caratteristiche dell’ambiente operativo. In particolare, poichè in uno specifico Teatro Operativo possono essere condotte contemporaneamente o senza soluzione di continuità attività riconducibili a diverse tipologie di operazioni (in relazione al concetto di «Three Block War») (1), risulta complesso e di difficile determinazione il livello di intensità dei conflitti. In tali contesti, l’Esercito Italiano ha evidenziato una grande abilità di adattarsi rapidamente ai nuovi sce-

nari operativi in virtù della combinazione di una serie di fattori, primo fra i quali il «combat ethos» dei nostri soldati, che si sono distinti a livello internazionale per competenza, conoscenze e soprattutto per un alto senso del dovere, in circostanze contrassegnate da estrema austerità, difficoltà e incertezza, dimostrandosi capaci di interagire con la popolazione locale. Un secondo fattore, molto importante, è rappresentato dalle lezioni apprese, che contribuiscono a innescare un processo di revisione capacitiva lungo le singole linee d’azione, secondo un approccio DOTMLPFI (2).


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temporale 2010-2030.

SCOPO E METODOLOGIA Lo scopo che si vuole raggiungere con il COpEI è quello di dare una visione di come l’Esercito Italiano intenderà operare in futuro, delle capacità di cui dovrà dotarsi e delle linee guida e le priorità per la trasformazione e l’ammodernamento dell’intero strumento militare terrestre. D’altra parte, qualsiasi cambiamento nella struttura di un Esercito, in termini di organizzazione, di equipaggiamenti e delle relative capacità espresse, deve essere necessariamente frutto di una rigorosa analisi e di adeguate attività di verifica. Pertanto, il COpEI è stato inquadrato nel più ampio contesto del Processo di Pianificazione Generale dell’E.I., di cui rappresenta, tra l’altro, un momento di sintesi di direttive politiche e documenti interforze e della NATO e da cui trae i fattori di

Due rangers del 4° reggimento alpini paracadutisti: un tiratore scelto e il suo osservatore.

Nonostante i lusinghieri risultati conseguiti, non intendiamo autocompiacerci, né tantomeno autocelebrarci. Infatti, per poter mantenere e migliorare la nostra efficacia operativa nei confronti di avversari sempre più imprevedibili e adattivi che operano soprattutto nella dimensione terrestre, abbiamo bisogno di «investire» fin da subito nello sviluppo delle capacità al fine di disporre, con un orizzonte temporale ventennale,

di uno Strumento Militare Terrestre in grado, ancora una volta, di assolvere con successo le missioni assegnate. Per conseguire questo obiettivo è stato elaborato il Concetto Operativo dell’Esercito Italiano (COpEI) per l’orizzonte

pianificazione per derivare le esigenze di capacità/nuovi sistemi d’arma che verranno dettagliati nel conseguente Piano di Ammodernamento e nei discendenti documenti, denominati «Esigenze Operative», per la relativa acquisizione.


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L’ESERCITO VERSO IL FUTURO INTERVISTA AL GENERALE DI CORPO D’ARMATA GIUSEPPE VALOTTO, CAPO DI STATO MAGGIORE DELL’ESERCITO Quali sono i motivi per i quali la Forza Armata ha ritenuto di elaborare il Concetto Operativo dell’Esercito (COpEI) 2010-2030? L’Esercito Italiano, in questi anni ha sentito l’esigenza di dotarsi di un quadro concettuale per poter tracciare le linee guida per l’evoluzione della Forza Armata (F.A.) e affrontare, e possibilmente anticipare, le prevedibili sfide del futuro, avvalendosi delle esperienze e delle lezioni apprese provenienti dai contesti operativi che vedono le nostre unità schierate in aree di crisi. L’obiettivo che ci si è posti è duplice: da una parte disegnare lo strumento che meglio si adatti alle sfide percepite e dall’altra rendere questo strumento abbastanza flessibile per meglio adattarsi alle sfide future. Qual è l’approccio metodologico applicato per la redazione del COpEI? L’approccio che è stato seguito si rifà a un processo logico, denominato Processo di Pianificazione Generale dell’Esercito Italiano (E.I.) che non definisce solo il Concetto Operativo dell’Esercito, ma anche il conseguente Piano di Ammodernamento nonché le esigenze di adeguamento infrastrutturali. In particolare, tale processo, partendo dagli inputs politici e strategico-militari nonché dal contesto operativo corrente, conduce alla definizione di specifiche ipotesi di impiego dello strumento militare (planning situations). Il Concetto Operativo dell’E.I. successivamente porta a stabilire il concetto di impiego e le esigenze di forze per il futuro che, mediante l’elaborazione del Piano di Ammodernamento dello strumento militare terrestre, porta alla programmazione dell’acquisizione di nuovi sistemi d’arma, affinchè il Paese disponga, in ogni momento, di forze equipaggiate con sistemi di ultima generazione. Ciò avviene attraverso l’elaborazione di specifiche esigenze operative, per l’acquisizione dei citati nuovi mezzi e materiali (indicati nel piano di ammodernamento), e una coerente e armonica definizione delle esigenze infrastrutturali. In ultimo, è sempre necessario attivare una ciclica attività di verifica delle risultanze delle precedenti fasi con una specifica correzione di eventuali scostamenti frutto della complessità, mutevolezza e incertezza della realtà operativa. Quali sono le sfide alle quali il COpEI vuole principalmente rispondere? In estrema sintesi, il Concetto Operativo dell’E.I. si pone l’obiettivo di identificare la Vision dell’Esercito Italiano necessaria per definire come esso dovrebbe condurre le future operazioni terrestri al fine di assolvere i compiti assegnati e di quali capacità si dovrà dotare per poter operare, in ambienti complessi e incerti caratterizzati da una vasta gamma di minacce imprevedibili, per periodi di tempo indeterminati. Quali sono le ipotesi fondamentali alla base del COpEI? Per fronteggiare le sfide del conflitto futuro, i Comandanti e le unità dell’Esercito dovranno tendere a migliorare alcune caratteristiche che hanno sempre e comunque contraddistinto la nostra organizzazione. La prima fa riferimento alla capacità di adattamento «operativo» dei Comandanti, che implica soprattutto che l’Esercito abbia Comandanti fino ai minimi livelli in grado di comprendere ed agire in ambienti complessi, mentre la seconda si riferisce alla capacità di adattamento dell’organizzazione nel suo complesso, che implica l’acquisizione di un’attitudine che comprende: • la capacità di generare forze in modo ciclico e di rinnovarle secondo trends che rispondono a implicazioni militari di lungo periodo in modo tale che, al termine delle fasi di preparazione, potranno essere resi disponibili ai Comandi operativi nuovi pacchetti di forze adeguati a fronteggiare nuove situazioni operative; • la flessibilità di sviluppare nuovi sistemi d’arma con caratteristiche più marcate nella protezione e precisione di ingaggio; • l’impiego di formatori professionalmente preparati e periodicamente impiegati in operazione; • l’addestramento di unità e la formazione di Comandanti in grado di essere impiegati in diversi contesti operativi, differenti incarichi e molteplici missioni. Quanto precede potrà essere conseguito attraverso un maggior impiego di unità di fanteria e la riconfigurazione/attribuzione di capacità Dual Role/Use a quelle unità dell’Esercito che oggi sono configurate per assolvere compiti altamente specifici ma scarsamente occorrenti. Perché si è reso necessario introdurre il concetto di un «ciclo ideale a sei»? Negli anni ’90, l’Esercito era strutturato su tre bacini di capacità, orientati uno alle operazioni di proiezione, uno ai compiti di difesa collettiva sul territorio nazionale e uno ai compiti di presenza e sorveglianza. Questa situazione è andata modificandosi nel corso degli anni 2000 con l’aumento degli impegni operativi e con la progressiva professionalizzazione. Tuttavia, pur immettendo in ciclo operativo tutte le unità «professionalizzate», non si poteva andare oltre un cosiddetto «ciclo a 4» perché la professionalizzazione dell’Esercito non era ancora completata. Oggi la situazione è cambiata in molti sensi: • l’Esercito è completamente composto di Volontari, moltissimi dei quali già con consistente esperienza e professionalità; • gli impegni operativi sono cresciuti esponenzialmente con incremento dello stress operativo;


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• è sempre più richiesto l’intervento dell’Esercito in supporto alle Forze di Polizia sul territorio nazionale. Tutto ciò ha generato l’esigenza di disporre di un ciclo operativo sostenibile nel lungo periodo, volto a tutelare prima di tutto l’integrità psico-fisica della componente umana. Questo nuovo «ciclo operativo ideale» è articolato su sei fasi (ciascuna di circa sei mesi), caratterizzate da incrementali livelli di efficienza e prontezza: ricondizionamento, addestramento generico, approntamento specifico, disponibilità all’impiego sul territorio nazionale e standby (come contributo terrestre per la flessibilità strategica), approntamento specifico per l’impiego in T.O. e impiego in missione. Questo ciclo operativo permette, tra l’altro, alla F.A. di rendere sempre disponibile addirittura 1/3 della sua componente operativa, valore di gran lunga superiore alla capacità attuale, che ammonta a 1/4. Che cosa si intende per unità dual role? La piena implementazione di un ciclo a sei richiede che la maggior parte delle unità possano ricoprire due funzioni, il che significa: • per la maggior parte delle unità, di disporre dell’expertise necessaria a operare in contesti di sicurezza nazionale o pubbliche calamità; • per le unità carri, di disporre di mezzi sia per operazioni di difesa collettiva in alta intensità sia di mezzi per svolgere compiti in operazioni di supporto alla pace; • per le unità di artiglieria, oltre che essere le naturali custodi della «cultura artiglieresca» a supporto delle unità di manovra e per la difesa c/a, di disporre di mezzi ed expertise per fornire l’ossatura di unità specialistiche quali i Provincial Reconstruction Team o unità di addestratori, gli Operational Mentoring Liaison Team (OMLT). Quali sono gli effetti del COpEI in ambito F.A.? L’implementazione del Concetto Operativo avrà sicuramente molteplici effetti su tutta la Forza Armata. Per citarne alcuni - quelli che considero più immediati - desidero sottolineare: • da un punto di vista capacitivo e ordinativo, l’aumento delle pedine di manovra di livello reggimento disponibili, in linea con le ipotesi di pianificazione di riferimento. In tal senso, verrà svolto un processo di ottimizzazione e razionalizzazione delle capacità esistenti al fine di ri-orientare quelle a minore impiego negli scenari operativi correnti e futuri; • il sensibile miglioramento della qualità di vita del personale militare in quanto il passaggio ad un Ciclo Operativo Sostenibile su 6 fasi semestrali consentirà, in primis, di tutelare l’integrità psico-fisica del personale e l’impiego razionale dei materiali e delle tecnologie e, in secundis, maggior tempo a disposizione per ottimizzare le fasi di addestramento/familiarizzazione con i mezzi di nuova introduzione e amalgama pre-impiego. Quanto precede assicurerà non solo la realizzazione di uno strumento militare sostenibile, efficace e flessibile, ma anche la disponibilità di un pacchetto di forze per continuare ad assicurare il proprio dividendo di competenza alla sicurezza della Nazione. Infine, il nuovo COS determinerà la riduzione del tasso di logoramento di personale, mezzi e materiali, un’accurata metabolizzazione delle lezioni apprese ed un’armonica acquisizione di nuovi mezzi e materiali; • la disponibilità, per la Forza Armata, di un efficace strumento a disposizione per individuare, con scientifica precisione, le carenze capacitive e le ridondanze. In tale quadro metodologico, la definizione di un’unica regia di Forza Armata, responsabile sia della pianificazione generale, sia della verifica trasversale di coerenza, origina un virtuoso ciclo di affinamento capacitivo teso ad ottimizzare e razionalizzare lo strumento militare terrestre; • che il Concetto Operativo ci consentirà di avvicinare la pianificazione generale, cioè il processo, per sua natura più astratto, con cui «disegniamo» lo Strumento Militare Terrestre nel suo complesso in funzione del Livello di Ambizione e la pianificazione operativa che indica quali sono le unità da impiegare in funzione di una missione operativa contingente. Noi vogliamo che il ciclo operativo ideale, concepito quale strumento di pianificazione generale ma che offre il vantaggio di pacchetti di forza omogenei completi di tutte le capacità operative necessarie a fronteggiare ogni ipotesi di pianificazione, possa servire anche per esigenze della pianificazione operativa con minimi adattamenti contingenti. In che modo il Concetto Operativo è coerente con il Progetto «Forza NEC»? Il COpEI è stato pensato per sincronizzarsi con il Progetto «Forza NEC», per completarne la portata e migliorarne l’efficacia. Infatti, le lezioni apprese dall’attuazione di tale progetto, iniziato nel 2007, hanno mostrato la piena rispondenza sul piano tecnologico e la contestuale esigenza di adeguare gli obiettivi complessivi dell’impresa «Forza NEC» al fine di non costituire «due Eserciti» a diverso grado di digitalizzazione e, conseguentemente, a differente livello di ammodernamento, ovvero «a due velocità». Ciò porterebbe ad un sovra-impiego delle unità medie digitalizzate e a una effettiva mancanza di interoperabilità delle stesse con le unità leggere e pesanti. Con le linee guida tracciate dal COpEI verrà riallineata la strategia di ammodernamento delle unità in maniera omnicomprensiva. Difatti, pur mantenendo il concetto delle «spire» per l’immissione di nuovi materiali man mano che viene raggiunto un adeguato livello di maturità tecnologica, procederemo ad ammodernare i pacchetti di forza omogenei invece delle singole Brigate. In tal modo, avremo sempre dei bacini di forze che esprimono tutte le capacità operative necessarie, equipaggiati con il meglio che la tecnologia può offrire in quel dato momento e pronti per l’impiego per l’assolvimento dei compiti previsti dai Macroscenari di riferimento e in coerenza con il ciclo operativo ideale. Il Concetto Operativo avrà una validità ventennale o si pensa che possa essere aggiornato nei prossimi anni? Innanzitutto, è da sottolineare che il COpEI è un documento di policy a valenza strategica. In tal senso, l’orizzonte temporale non può che essere di lungo periodo perché la sua implementazione richiede misure attuative che dovranno realizzarsi per stadi successivi. In linea con quanto previsto dal quadriennale Processo di Pianificazione Generale dell’Esercito (tempistica legata soprattutto alle similari tappe di pianificazione generale previste nei cicli della NATO nonché della Difesa), ci saranno ovviamente dei momenti di verifica e di aggiustamento agli scostamenti di situazione. Ritengo, comunque, che l’impostazione del documento manterrà nel tempo la sua validità e rilevanza che verrà assicurata proprio dal suo costante aggiornamento.


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CONTESTO OPERATIVO DI RIFERIMENTO Il COpEI è stato elaborato partendo dalla descrizione dell’ambiente operativo futuro, attraverso la «lettura» di quanto è oggi osservabile e dei trend che scaturiscono da queste osservazioni. Come già accennato, le caratteristiche più evidenti del contesto operativo (figura 1) sono la complessità, la non linearità e la forte dinamicità, dovute essenzialmente alla vasta gamma di relazioni esistenti tra gli elementi che lo costituiscono. Pertanto, risulta difficile prevedere come un tale sistema nella sua interezza si possa modificare nel tempo, mentre appare più

verosimile adottare una serie di ipotesi sulla possibile evoluzione degli elementi di conflittualità più significativi.

tizione per le ridotte risorse energetiche, dalla crescente incapacità di molte Nazioni di creare condizioni di sicurezza e sviluppo e, non ultimo, dalla crescente disponibilità di tecnologie che potrebbero offrire maggiori opportunità a gruppi armati. Contesto nazionale In parallelo, sul piano nazionale, i nostri valori quali lo sviluppo culturale, sociale e politico della società ci potrebbero chiamare a fronteggiare fattori di instabilità che derivano dall’immigrazione clandestina, da attività criminali a carattere transnazionale nonché da tensioni sociali e

culturali prodotte da una scarsa integrazione etnica ed esacerbate dalle tensioni economiche nonché dalle continue sfide ambientali ed ecologiche.

sistenza dei conflitti, congestionamento di tutte le dimensioni dell’area delle operazioni, difficoltà di discriminare gli elementi ostili rispetto all’ambiente umano circostante, la presenza di attori multinazionali e interministeriali. D’altra parte, permarranno quegli elementi immutabili tipici della «natura della guerra» quali la presenza più o meno estesa ed evidente di violenza, emotività, volontà politica, rischio, calcolo razionale, esito imprevedibile e fortuna, che contribuiscono a mettere in luce la fondamentale condizione di incertezza della guerra (figura 2). Ruolo della tecnologia In questa visione del contesto operativo futuro, si innesta il ruolo della tecnologia nel campo militare, i cui vantaggi saranno sempre più ridotti dalle contromisure avversarie, dall’alta specializzazione richiesta al personale e dalla condotta delle operazioni in ambienti dove l’elemento umano continuerà a rivestire maggiore importanza rispetto alla tecnologia stessa. In futuro, dunque, i progressi tecnologici continueranno a rappresentare una componente essenziale dell’efficacia militare e, in tal senso, l’Esercito dovrà continuare a sviluppare contromisure connesse alle future minacce, adottando però un approccio sempre più evolutivo in materia di sviluppo delle forze (piuttosto che rivoluzionario o innovativo) ove la comprensione delle modalità di applicazione della tecnologia sia correlata e commisurata al tipo specifico di compito e di operazione da attuare. La minaccia e i rischi

Contesto internazionale Caratteristiche dei conflitti futuri Si ritiene che le principali sfide a livello internazionale abbracceranno tensioni tra Stati che potrebbero derivare da mutamenti climatici, dalla sovra-popolazione e dai suoi effetti sociali (disoccupazione, criminalità e terrorismo), dalla compe-

L’ambiente operativo in cui le nostre unità saranno chiamate a operare, influenzato dalle sfide appena descritte, presenterà delle caratteristiche nuove rispetto al passato quali, ad esempio, asimmetria e per-

L’Esercito sarà chiamato a confrontarsi con una vasta gamma e tipologia di avversari che potranno adottare, per il perseguimento dei loro fini, tutti i metodi e le risorse disponibili, di carattere sia «convenzionale» sia «non convenzionale». Le


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forze che si contrapporranno alle nostre unità potranno essere di tre tipi: irregolari, statuali e ibride. Le prime adotteranno strategie tendenti a negare o ridurre la superiorità

data dalle nostre capacità convenzionali attraverso un’applicazione della forza in ambienti compartimentati (urbano, litorale e montano) e in presenza della popolazione civi-

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Un intervento a fuoco con un mortaio «Thomson» da 120 mm in Afghanistan.

le. Le seconde, con cui rischiamo in futuro di doverci confrontare a causa di tensioni derivanti dalla competizione per l’accesso a risorse primarie limitate, dal voler ricoprire un ruolo di guida in determinate aree geografiche o da contrasti di tipo ideologico-religioso, opereranno secondo modalità di tipo più «convenzionale». Tra queste due tipologie di avversari, si inserisce la cosiddetta «minaccia ibrida», associata ad avversari in grado di utilizzare in modo sinergico metodi di combattimento «diretto» (anche con l’impiego di sistemi d’arma controcarri e contraerei), tattiche proprie della guerriglia (imboscate, IED) e azioni terroristiche che coinvolgono direttamente la popolazione. Chiudono l’analisi del contesto operativo di riferimento i rischi derivanti da disastri e catastrofi naturali e le


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Un posto di controllo nell’ambito dell’Operazione «Strade Sicure».

pandemie, che potrebbero essere causate/amplificate anche dall’azione involontaria dell’uomo o volontaria di potenziali avversari. Il ruolo dell’Esercito sarà quello di integrare le capacità civili nazionali preposte istituzionalmente alla prevenzione e/o gestione della situazione di crisi e di garantire, nel contempo, la protezione dei propri assetti in modo che possano continuare a svolgere le funzioni istituzionali in situazioni degradate.

IL LIVELLO DI AMBIZIONE (LEVEL OF AMBITION - LoA) DELLA FORZA ARMATA Proseguendo nel processo logico seguito per l’elaborazione del COpEI, sono stati presi in considerazione le missioni della Difesa (3), i discendenti compiti della componente terrestre (4) e i Macroscenari (o tipologie di contesti operativi) di riferimento (5) per definire lo sforzo massimo sostenibile per l’Esercito, come riferimento prin-

Il nuovo Veicolo Blindato Medio (VBM) 8x8 «Freccia» in Afghanistan.

cipale per lo sviluppo concettuale e capacitivo della Forza Armata (F.A.). A tale fine, contestualizzando l’ambiente operativo futuro e le minacce sopra descritti, è stata sistematizzata una serie di ipotesi di pianificazione (planning situation) per ogni Macroscenario, per ciascuna delle quali sono stati dettagliati compiti, condizioni, e forze necessarie. Per il Macroscenario «A» sono state sviluppate planning situations che

vanno dalla difesa della Nazione a quelle situazioni assimilabili all’attuale operazione «Strade Sicure». Nel Macroscenario «B» sono state ricomprese quelle ipotesi di pianificazione in cui le nostre unità sono impiegate in operazioni che vanno dalla difesa collettiva NATO alle Non-Combatant Evacuation, al controterrorismo, comprendendo anche gli orientamenti di impiego di un bacino di forze in stand-by ad alto livello di prontezza. Infine, le ipotesi di pianificazione ricomprese nel Macroscenario «C» descrivono quelle condizioni nelle quali lo strumento terrestre concorre a operazioni di contro-insorgenza, di peacekeeping/peace-enforcing o di assistenza militare. Per l’Esercito, e in generale per le Forze Armate, non appare costo efficace disporre di forze dedicate a soddisfare simultaneamente tutte le ipotesi di pianificazione associate ai tre Macroscenari. È stato, quindi, necessario individuare due «opzioni strategiche», mutualmente escludenti, che prevedono che la Nazione adotti due tipi di «posture» in funzione della rilevanza degli interessi


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minacciati (interessi non vitali - Prima Opzione Strategica; interessi vitali Seconda Opzione Strategica). Ciascuna è caratterizzata da un fattore di contemporaneità di planning situation, particolarmente significative per probabilità di occorrenza e livello/tipologie di forze richieste, in modo tale che, dotandosi delle capacità necessarie per affrontare tale combinazione di ipotesi di pianificazione, si possa fare fronte a tutte quelle a «minore impatto capacitivo». Si viene, quindi, a delineare il Livello di Ambizione della F.A. che, nello specifico, si estrinseca nella condotta delle operazioni previste nella Prima Opzione Strategica, ovvero di quelle condotte nell’ambito del Macroscenario «C», delle operazioni di presenza e sorveglianza previste dal Macroscenario «A» e il mantenimento di un bacino di forze ad alto livello di prontezza come contributo terrestre al force package del JRRF (6). Tali tipologie di planning situations, che prevedono che l’impegno si protragga nel tempo, oltre a essere le più probabili, sono quelle che richiedono maggiori risorse umane e materiali e pertanto consentono di coprire tutto lo spettro di operazioni possibili, a meno ovviamente di una situazione di guerra generale. Completa il Livello di Ambizione la necessità di assicurare un bacino di forze specifiche per le operazioni a più alta intensità (tipo warfighting, quindi unità carri, artiglieria terrestre, artiglieria contraerei) riscontrabili nella Seconda opzione strategica.

IL COPEI: L’IDEA CENTRALE E LE IDEE DI SUPPORTO Alla luce dei parametri di riferimento descritti in precedenza, il COpEI propone una «strategia vincente» basata su principi e regole che garantiscono, da un lato, la condivisione in ambito

F.A. delle scelte da adottare e, dall’altro, la verifica puntuale della disponibilità delle risorse necessarie per la sostenibilità nel tempo del Livello di Ambizione. L’idea centrale: l’adattabilità L’esperienza insegna che non esiste una condizione predefinita che assicuri la vittoria. Una strategia vincente, pertanto, potrà essere tale se ispirata al principio dell’adattabilità. L’Esercito, dunque, nel prossimo futuro deve continuare a mantenere un’adeguata agilità per adeguarsi

prontamente alla mutevolezza e dinamicità del contesto operativo. Tuttavia, la forma di adattabilità generale richiesta va intesa nella sua accezione più ampia, che non riguarda esclusivamente la sfera prettamente operativa, ma che si estende anche a quella organizzativa. Queste due forme dell’adattabilità non sono escludenti, al contrario si completano a vicenda, agevolando, peraltro, la percezione della situazione corrente e di quella futura, e dunque facilitando l’individuazione e l’elaborazione, appunto, di una strategia «vincente».

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Da questa idea centrale di adattabilità operativa e organizzativa è possibile, inoltre, dedurre una serie di idee di supporto (riportate in modo schematico in figura 3) che sono di ausilio per esplicitare le caratteristiche dell’adattabilità nelle sue due forme principali e per guidare il processo di ammodernamento dello strumento militare terrestre. Le idee di supporto Partendo dall’analisi delle possibili interazioni tra i singoli attori del contesto operativo, le idee di sup-

porto contribuiscono a delineare, sulla base delle missioni assegnate e dei compiti da svolgere visti nei precedenti paragrafi, le caratteristiche delle capacità future. Con riferimento all’adattabilità operativa vale sottolineare l’interazione reciproca tra la comprensione della situazione ai diversi livelli delle operazioni (strategico, operativo, tattico e sub-tattico), la pianificazione di azioni letali e non-letali, l’acquisizione di informazioni, la valutazione degli effetti e lo sfruttamento dei dati acquisiti per l’adeguamento della pianificazione per conseguire risultati


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maggiormente costo-efficaci. In particolare, le unità dell’Esercito, fino ai più bassi livelli, saranno chiamate a condurre attività immerse in un ambiente operativo «complesso» adottando dispositivi sempre più decentralizzati e pluriarma. Tali attività, che prevedono in genere l’impiego simultaneo di tecniche di combattimento e di stabilizzazione con l’ausilio di assetti interforze/multinazionali o interagenzia/interministeriali, perseguono un duplice scopo: da un lato quello di mantenere l’iniziativa sull’avversario e dall’altro quello di rafforzare il rapporto di fiducia con la popolazione e le autorità locali. I prolungati e logoranti impegni operativi degli ultimi decenni, che molto probabilmente caratterizzeranno anche il prossimo futuro, hanno reso necessario introdurre il secondo gruppo di idee di supporto, che fanno riferimento all’adattabilità e flessibilità organizzativa. Nello specifico, sulla base delle recenti rivisitazioni dei cicli addestrativi e di quelli di impiego delle unità, è stato individuato un «nuovo ciclo operativo ideale» articolato su sei fasi (ciascuna della durata di circa sei mesi), e caratterizzate da incrementali livelli di efficienza e prontezza (figura 4): ricondizionamento, approntamento generico, approntamento specifico, disponibilità all’imUna minore unità del 32° reggimento genio guastatori dotata di veicoli MRAP (Buffalo e Cougar) in Aghanistan.

piego sul territorio nazionale e JRRF, approntamento specifico per l’impiego in Teatro Operativo e impiego in missione. L’adozione di questo nuovo ciclo operativo comporta in linea generale: • la definizione di capacità necessarie per soddisfare contemporaneamente gli impegni riconducibili alle ipotesi di pianificazione caratterizzate da un alto grado di occorrenza (operazioni per la gestione delle crisi, controllo del territorio nazionale, esigenze JRRF); • la realizzazione di sei bacini capacitivi omogenei che si alternano senza soluzione di continuità lungo le diverse fasi del ciclo operativo;

• la disponibilità contemporanea di due pacchetti capacitivi, uno dedicato all’impiego sul territorio nazionale o in stand by e l’altro per l’impiego in tre differenti Teatri Operativi di diversi livelli ordinativi; • la flessibilità per fronteggiare (con un impegno limitato a 6 mesi) un’eventuale minaccia improvvisa contro l’integrità territoriale nazionale e della NATO/UE o per la risoluzione di crisi/gestione di calamità naturali; • un adeguato periodo di ricondizionamento per le unità, da dedicare alle attività di formazione e movimentazione del personale, di manutenzione dei mezzi e materiali e per l’introduzione di nuovi sistemi. Facendo ricorso a una semplice metafora, potremmo affermare che il nuovo ciclo operativo equivale a una sorta di «balestra» posta in tensione. Tuttavia, la trasformazione di tele energia da «potenziale» in «reale» richiede la disponibilità, in termini quantitativi e qualitativi, di adeguate «frecce», ovvero di General Purpose Units (GPU), cioè di unità polivalenti (nell’ambito della stessa funzione operativa) in grado di operare nell’intero spettro dei conflitti,


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funzionali per la sostenibilità del ciclo a 6. In tale contesto, l’Esercito dovrà sviluppare, nel prossimo futuro, da un lato, le predette unità polivalenti e dall’altro le unità cosiddette «duali» capaci di assolvere una funzione operativa principale e una alternativa. Per esempio, le unità «pesanti» (combat e combat support), tradizionalmente progettate per un impiego in operazioni warfighting, dovranno acquisire una sempre maggiore flessibilità operativa per svolgere anche compiti tipici delle unità di manovra per impegni a livello nazionale o nei Teatri Operativi a bassa-media intensità oppure in quelli ad alta (ad esempio fornire la struttura di unità specialistiche quali i Provincial Reconstruction Team - PRT o di unità di addestratori, Operational Mentoring Liaison Team OMLT). Tale soluzione, che ha lo scopo di aumentare il numero disponibile di «frecce da scoccare», impiegando in maniera omogenea tutte le unità del nostro Esercito, da un lato, contribuisce a evitare l’inutile «congela-

mento» di risorse umane e materiali pregiate e, dall’altro, favorisce un maggior periodo di permanenza dei soldati presso le famiglie.

IMPLICAZIONI CAPACITIVE Sulla base di quanto sopra descritto, il COpE rappresenta il «blocco di

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Una pattuglia, dotata di Veicoli Tattici Leggeri Multiruolo (VTLM) «Lince», in azione in Afghanistan.

pietra portante» dell’intera architettura dell’Esercito, in quanto consente l’individuazione oggettiva del dimensionamento «quantitativo» e «qualitativo» delle capacità future. È da sottolineare, in generale, che tale processo prevede per circa il 40% delle nostre forze una profonda trasformazione (ma che si riassume in una maggiore disponibilità di forze di manovra) che investe sia le piattaforme sia il settore del Comando e Controllo (le cosiddette «Forze medie»), mentre per le rimanenti forze leggere e pesanti, la razionalizzazione assume una forma di evoluzione che prevede l’introduzione di sistemi di C2 digitalizzati e piattaforme di per sé non rivoluzionarie ma comunque più protette. In particolare, accanto alle tradizionali capacità combat, è necessaria la realizzazione/ammodernamento di ulteriori potenzialità «letali» e «nonletali» (figura 5), per esempio: • incremento e standardizzazione delle capacità di Comando, Controllo, Comunicazione e Computer delle unità, al fine di favorire lo sviluppo del Comprehensive Ap-


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proach e di ricercare il massimo grado di interoperabilità in ambito interforze, multinazionale, interministeriale e interagenzia; • potenziamento delle unità di manovra e ribilanciamento delle unità, incrementando il numero di unità polivalenti di tipo leggero/medio volte a coniugare una letalità altamente selettiva con l’elevata mobilità e a garantire una serie di misure di protezione, per ridurre al minimo la vulnerabilità dei nostri soldati; • continuo aggiornamento delle unità del comparto «Forze Speciali/Forze per Operazioni Speciali» (FS/FOS) dell’Esercito al fine di garantire aderenza ed efficacia al contrasto della minaccia mutevole proveniente dalle forze irregolari;

rance» con l’acquisizione di veicoli/piattaforme e materiali specialistici che riducono in maniera sostanziale la necessità di appiedamento del personale dedicato alla ricerca degli ordigni, in particolare improvised explosive device (IED); • razionalizzazione e ammodernamento delle unità di supporto di fuoco al fine di migliorarne precisione ed efficacia di ingaggio in aree urbanizzate e, nel contempo, incrementarne la gittata. Tali requisiti andranno accompagnati da un adeguamento della capacità di scoperta e designazione degli

• potenziamento delle capacità RISTA-EW con assetti specialistici sin dal livello reggimento di manovra che garantiscano un’adeguata capacità di esplorazione e sorveglianza (manned/unmanned), incrementata da capacità specialistiche nei campi della ricerca informativa e della cyberdefence; • potenziare la capacità «rout-clea-

obiettivi e di integrazione delle diverse sorgenti di fuoco; • acquisizione della capacità Security Force Assistance (SFA) per addestrare le Forze di sicurezza dei Paesi Partner, supportandoli nell’esecuzione dei loro compiti istituzionali, e garantire loro un efficace «engagement» sia in tempo di pace sia in tempo di crisi;

• acquisizione della capacità Reception, Staging, Onward Movement & Integration (RSOM&I) per ricevere, accogliere, instradare e, infine, integrare le Forze giunte in Teatro Operativo, affinché queste possano tempestivamente assumere le responsabilità operative senza ritardi e inefficienze; • rimodulazione degli assetti di sostegno logistico (in particolare quelli dedicati al rifornimento, al trasporto e al mantenimento) per garantire una maggiore flessibilità e aderenza alle unità di manovra.

CONCLUSIONI Rimozione di macerie in seguito al terremoto in Abruzzo.

Le Forze e le capacità che l’Esercito dovrà esprimere nel futuro, per agire con efficacia e successo nelle crisi internazionali, pur presentandosi «sostanzialmente» simili a quelle attuali dovranno essere revisionate e ricondizionate per conferirgli maggiore idoneità a scenari sempre più diversificati e imprevedibili. Qualora negli anni futuri saranno confermate le ipotesi di riferimento riportate nel COpEI, l’Esercito e la Difesa potrebbero essere chiamati a operare scelte anche radicali se vorranno impiegare in modo ottimale ed equilibrato il patrimonio umano e materiale che la Nazione gli ha messo a disposizione. Tali scelte dovranno privilegiare versatilità e adattabilità, caratteristiche che, in realtà, richiedono uno sforzo notevolissimo sia da parte dell’organizzazione sia da parte delle sue componenti. Allo stato attuale l’Esercito presenta una situazione capacitiva sbilanciata; occorre dunque tendere a uno sviluppo armonico ed equilibrato nei termini sopra indicati, attraverso la liberazione di risorse umane, materiali e tecnologiche eccedenti per concentrarle, attraverso un processo di trasformazione, in capacità più occorrenti. Tale processo di trasformazione potrebbe avere una diversa gamma di soluzioni a partire per esempio dalla riconversione di


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alcune unità con determinate capacità in unità con altre capacità, oppure con il conferimento di una funzione dual role o attraverso la ristrutturazione organica di altre unità. Pertanto, se le strutture organizzative, i materiali e le infrastrutture potranno avere un grado di flessibilità inferiore, l’uomo, per contraltare, dovrà possedere una gamma di capacità superiori a quella del passato, a cui dovrà essere abbinata una formazione più a largo spettro ma, nel contempo, più aderente agli skills richiesti dalle operazioni. La sfida della versatilità della componente umana nell’organizzazione Esercito potrà essere vinta solo se affrontata congiuntamente dall’istituzione e dai suoi soldati. In conclusione, l’Esercito dovrà gravitare sulla formazione e sulle scuole, senza tralasciare il benessere degli uomini e delle sue famiglie, perché l’uomo rappresenta il fattore di successo su cui investire per la trasformazione del prossimo futuro. Il soldato, infatti, è un sistema complesso, custode di un patrimonio di valori (quali l’altruistico senso di servizio, lo spirito di Corpo, il coraggio fisico e morale) e di capacità necessarie per servire il Paese nelle situazioni più difficili per la sicurezza dei propri connazionali e di tutta la comunità internazionale. Domenico Rossi Generale di Corpo d’Armata, Sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito

NOTE (1) Ovvero condurre, contemporaneamente e nello spazio di tre isolati di un centro abitato, quasi tutte le operazioni contemplate nello spettro dei conflitti, dalle Operazioni Non-art. 5 (NA5CRO) alle CounterInsurgency (COIN), alle operazioni di combattimento tipiche degli scenari art. 5 o aiuti umanitari. (2) Doctrine, Organisation, Training, Materiel,

Leader, Personnel, Development, Facilities, Interoperability. (3) Difesa dello Stato; Difesa degli spazi euro-atlantici; Contributo alla realizzazione della pace e della sicurezza internazionali; Concorsi e compiti specifici. (4) Difesa e ripristino dell’integrità del territorio nazionale e dell’Alleanza Atlantica; Controllo e sorveglianza del territorio nazionale e dell’Alleanza Atlantica; evacuare e/o assicurare l’incolumità dei connazionali non combattenti e di contingenti nazionali all’estero in un Paese in stato di crisi; intervenire nella prevenzione e contrasto di attività che

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possano minacciare interessi al di fuori del territorio nazionale; condurre operazioni di gestione delle crisi (PSO, COIN, ecc.); fornire supporto, consulenza e addestramento in favore di Forze Armate straniere; intervenire in favore di popolazioni colpite da pubbliche calamità. (5) «A - ALPHA» - «Sicurezza degli spazi nazionali»; «B - BRAVO» - «Reazione Immediata in situazioni di crisi»; «C - CHARLIE» - «Gestione di situazioni di crisi». (6) Il concetto di Joint Rapid Responce Force (JRRF) rappresenta un efficace strumento per garantire la necessaria flessibilità strategica, ovvero la capacità di intervento in tempi ridottissimi e per periodi di tempo limitati: • a premessa della riconfigurazione di assetti predisposti per fronteggiare una diversa opzione strategica (prevalentemente un’eventuale transizione dalla 1a alla 2a opzione strategica); • in caso di esigenze improvvise, nell’ambito di una stessa opzione (come ad esempio il recente contributo alle attività di assistenza alla popolazione di Haiti). A sinistra. Elementi di una pattuglia da ricognizione in Libano. Sotto. VTLM «Lince» escono dalla Base avanzata di Bala Morghab in Afghanistan.


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L’IRAQ STA CAMBIANDO L’Iraq vive oggi un momento critico nel processo di evoluzione verso la stabilizzazione democratica. Una sfida da vincere affinchè il Paese possa mantenere il ruolo di potenza equilibratrice nell’area mediorientale, immune da debolezze che possano risvegliare le mire degli ambiziosi vicini. Il traguardo non è lontano grazie anche all’aiuto internazionale e alla buona volontà della popolazione. Il passo decisivo sarà quello della classe politica cui spetta il compito delicato di traghettare il Paese verso un governo realmente democratico.

Dopo tre mesi di permanenza in Iraq, credo sia giunto il momento di fare una riflessione sulla situazione economica, politica, sociale e militare che si respira in questo ricco ma sfortunato Paese, quando tutto sembra stia cambiando, ci auguriamo verso il meglio. Nell’aria pesante e calda di Baghdad c’è un fermento insolito e una grande voglia di fare, un desiderio di affermazione che, fino a poco tempo fa, non si scorgeva. Conosco un po’ questo ambiente perché è la terza volta che ci torno. Venni qui a maggio del 2005, a Nas-

siriya, con il contingente italiano, comandato a svolgere un’attività specifica per la nostra Forza Armata e vi restai il tempo necessario per portare a termine l’incarico, ripartendo dopo pochi giorni, con sensazioni forti e il rammarico di non aver potuto conoscere di più del mondo che mi circondava. Ritornai, poi, in Iraq nel luglio del 2006, questa volta a Baghdad, con l’incarico di Capo del Team che si occupava dell’Educazione, Addestramento e Formazione delle Forze di Sicurezza irachene nell’ambito della NATO Training Mission - Iraq

Una foto scattata subito dopo un attentato alla TV irachena «Al Arabia».

(NTM-I) e Advisor del Capo dell’Iraqi Training and Doctrine Command, Major General Naqshbande. Ci restai per quasi undici mesi, nel momento più difficile per l’Iraq, spaccato tra rivalità etniche e violenze indescrivibili che falciavano più di cento vittime al giorno, come conseguenza dei soli atti terroristici, e rientrai in Italia nel maggio del 2007. A quel tempo, avevo un’idea più chiara del territorio, avendo gi-


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13 Km a sud-est di Baghdad. L’Italia, d’altro canto, conserva la presenza più numerosa e significativa nella NTM-I, con 78 militari, tra cui il Vice Comandante, l’Advisor nell’Ufficio del Ministro della Difesa, gli Advisors nel Joint Staff Command College (JSCC), nel War College (WC) e nel più alto Istituto di Formazione Militare iracheno, ovvero il National Defence College (NDC). A questo, inoltre, si deve aggiungere la gestione assoluta della Gendarmerie Training Division, ove sono presenti una cinquantina di Carabinieri dedicati all’addestramento della Iraqi Federal Police, la più capace e affidabile Forza di Polizia in Iraq che, dopo questa riconfigurazione italiana, ha assunto il nome attuale, al posto di National Police. Ecco, questo hanno fatto e stanno continuando a fare i nostri militari in Iraq. Con il loro lavoro, metodico, altamente professionale, paziente e rispettoso della sovranità e delle tradizioni irachene, stanno aiutando il Paese a uscire fuori dal baratro della violenza incontrollata, insegnando le tecniche più evolute ed efficaci di polizia militare e di gestione delle situazioni di crisi. Ci viene riconosciuto un approccio positivo e propositivo, che dà risultati incontestabili e facilita la transizione dal «combat» allo «stability». Lavorano con la NTM-I militari di 14 Nazioni diverse, tra cui rato un po’ dappertutto, fino a nord nel Kurdistan, nella regione del Dahuk e precisamente a Zakhu, dove esisteva un’Accademia Militare per Ufficiali Kurdi, sul confine tra Iraq, Turchia e Siria. Rientrai in Italia anche con una conoscenza meno superficiale degli iracheni, avendo lavorato a stretto contatto con loro, acquisito la loro fiducia e solide amicizie, che ho poi ritrovato ancora più forti oggi tornando in Iraq. Quest’ultimo mio tour, infine, cominciato i primi di giugno del 2010 e che si protrarrà presumibilmente

fino a giugno del prossimo anno, mi vede Vice Comandante della NTM-I e mi sta offrendo l’opportunità di approfondire ciò che avevo lasciato in sospeso tre anni fa. La posizione che occupavo allora non è più in mano italiana, ma è stata acquisita dalla Gran Bretagna che mantiene, nell’ambito della Missione, una posizione forte e il controllo assoluto dell’unica Accademia Militare irachena rimasta e dislocata ad AR-Rustamya a circa

Un posto di controllo iracheno.


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e della morte, a Baghdad si percepisce il rinnovamento e la voglia di venire fuori da questi problemi e iniziare una rinascita concreta della società. Queste però, fortunatamente, non sono soltanto sensazioni, ma effetti di un processo evolutivo che è andato avanti e che ora si materializza, in parte, con la transizione della responsabilità del controllo della sicurezza alle Forze irachene. Questo è un momento delicato, durante il quale gli americani, in forza di un accordo stipulato dal Presidente Bush nel 2008 con il Governo iracheno, hanno ridotto a 50 000 la presenza di militari sul territorio, passando dal combattimento al solo supporto addestrativo, di intelligenSopra. Il Generale Claudio Angelelli incontra il Generale Babaker Zebari, Capo di Stato Maggiore della Difesa. A destra. Carta dell’Iraq.

Ucraina e Albania. Che grande soddisfazione per me è stato vedere un Ufficiale e un Sottufficiale albanese lavorare fianco a fianco agli altri, dopo l’ingresso nel 2009 dell’Albania nella NATO. Questa era la principale finalità della Delegazione Italiana Esperti in Albania, nonché lo scopo della mia missione quando, tra il 2002 e il 2004, a Capo della Delegazione Italiana di Esperti (DIE), mi aggiravo per le caserme albanesi cercando di offrire il massimo della collaborazione, addestrando i militari e preparandoli al grande balzo che poi avrebbero fatto dopo pochi anni, come nuovi membri della NATO, partecipando così alle varie missioni di questa grande Organizzazione in tutto il mondo. Tornando, però, al tema principale in trattazione, nonostante continuino gli attentati e le bombe, che lasciano nell’aria sgomento profondo e l’acre odore dell’esplosivo


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ce e cooperativo, continuando nell’opera di stabilizzazione. Per contro, tra le Forze di Sicurezza irachene è in atto un altro passaggio di responsabilità, che vede come soggetti principali le Forze Armate irachene, che cedono il controllo interno del territorio alle Forze di Polizia, concentrando così l’attenzione e gli sforzi verso le problematiche di confine. Noi sappiamo bene quanto complicato e arduo sia quest’ultimo Task. L’Iraq è sempre stato circondato da Paesi interessati a spartirsi le sue copiose risorse interne e una sua debolezza costituirebbe il miglior viatico per un inasprimento delle attenzioni di questi ultimi, con rischi di futuri e già sperimentati conflitti. L’Iraq, quindi, era e deve essere un Paese forte, indipendente e deve continuare a esercitare nel Medio Oriente un ruolo di potenza equilibratrice, come elemento di distensione e non motivo di tensione nell’area. Questi concetti sono noti a tutti, ma molti non sanno o non credono che questo traguardo sia raggiungibile. Io, invece, credo di sì. Lo ripeto da giorni ai molti giornalisti di tutto il mondo che, curiosi di notizie, vengono qui alla NATO in cerca di quegli aspetti che potrebbero fare «scoop». Ma la risposta è sempre la stessa: positiva e basata su dati oggettivi. Gli attentati sono diminuiti dell’80% rispetto al 2007. I morti per atti di terrorismo sono diminuiti della stessa percentuale e le Forze di Sicurezza irachene (ISF) sono le artefici di questo miglioramento. Le ISF sventano attentati, trovano depositi di armi, arrestano gli insurgents e, quindi, controllano il territorio. Certo, questi atti violenti continuano a esserci, ma non è affatto facile contrastare completamente questo genere di azioni. Lo vediamo noi in Italia, dove per fortuna questi fenomeni non esistono ma dove si sono verificati attentati contro le Forze di Sicurezza, contro Magistrati e contro la proprietà privata. Anche da noi si lotta tenacemente, si contrasta il fenomeno, ma

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non credo che si riesca mai a debellarlo del tutto. Succede anche in altri Paesi evoluti; in Spagna, in Gran Bretagna, in Francia, negli USA, quindi non meravigliamoci dell’Iraq. L’Iraq sta risorgendo, con l’aiuto internazionale e con la buona volontà degli iracheni. Il passo fondamentale lo deve ora fare la classe politica formando il nuovo Governo al più presto. La gente comune è stanca, vuole essere governata dai politici che ha eletto a marzo, con grande fiducia e sfida

nord, vanno avanti spediti in tutto il Paese. Nuovi alberghi, strade, ponti, dighe, pozzi petroliferi, centrali elettriche, metropolitane, linee ferroviarie e porti. L’Italia, forse non è molto noto al pubblico, è tra i maggiori partners dell’Iraq e la nostra imprenditoria è desiderata. Forse il sacrificio dei nostri soldati non è stato vano. Abbiamo offerto un sostegno al Paese in difficoltà, abbiamo perso dei bravi ragazzi convinti della bontà della loro opera, però possiamo anche dire

delle minacce e i rischi corsi riversandosi in massa alle urne. In quel caso le Forze di Sicurezza irachene hanno superato la prova di efficienza ed efficacia dell’Organizzazione. Hanno conseguito un risultato vincente. Ora tocca ai politici. L’importante è che governino, che avviino il processo evolutivo proprio dell’Iraq e non provocato da altri. Ci deve essere, e sono sicuro che ci sarà, uno sforzo indigeno interno, che produca il risveglio anche di chi è pessimista. L’esempio trascinerà tutti verso la positività di pensiero e, quindi, verso il benessere. La democrazia esiste. Le risorse economiche le hanno. I programmi infrastrutturali, e non più solo al

Una foto aerea di Baghdad.

a voce alta che abbiamo compiuto il nostro dovere e che questo ci è riconosciuto, soprattutto dagli iracheni. Il Generale Babaker, Comandante delle Forze Armate irachene, quando parla del nostro contributo alla rinascita dell’Iraq si alza in piedi e lo fa non per piaggeria, ma per il grande rispetto che nutre verso gli italiani e verso coloro che hanno sacrificato la loro gioventù per un Iraq libero, democratico e indipendente. Claudio Angelelli Generale di Divisione, Deputy Commander NATO Training Mission - Iraq


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MEDIO ORIENTE Nel tortuoso cammino intrapreso nel tentativo di risolvere la spinosa questione mediorientale si distinguono l’impegno e l’energia con cui il Presidente Barack Obama sta conducendo la difficile operazione. Lo slogan dell’Amministrazione americana «due Stati entro un anno!» disvela l’importante obiettivo di portare a compimento al più presto il processo di pace tra israeliani e palestinesi, così a lungo atteso. Tuttavia, permangono diverse questioni delicate, in un’atmosfera costellata da conflitti e tensioni dove ancora profonde sono le distanze da colmare.

Le opinioni espresse nell’articolo riflettono esclusivamente il pensiero dell’autore.

Ai primi di agosto del 2010 la tormentata regione del Medio Oriente si infiamma ancora una volta. La cittadina costiera di Eilat, nell’estremo Sud di Israele e sulle rive del Mar Rosso, viene raggiunta da alcuni missili a media gittata sparati dal Sinai egiziano. Due di essi cadono

in mare e altri due in una zona desertica alla periferia della città. Un altro missile raggiunge invece la città di Aqaba, il principale porto della Giordania, e causa la morte di un tassista e il ferimento di quattro cittadini giordani. Secondo il portavoce della Polizia israeliana, Micky Rosenfeld, il lancio di missili dal Sinai non è certo una novità. Gli artificieri israeliani sostengono che si tratti di missili Grad, dello stesso tipo di quelli usa-

L’incontro tra Netanyahu, Abu Mazen e il Presidente statunitense Barack Obama.

ti da Hezbollah in Libano e ultimamente anche da Hamas nella Striscia di Gaza. Gli analisti militari aggiungono che nel Sinai centro-settentrionale si trovano alcune formazioni islamiche legate ad al-Qaeda e dislocate in quella regione per il controllo delle basi logistiche necessarie per il passaggio delle armi e delle munizioni dirette a Gaza. In effetti, proprio da questa regione nell’ottobre del 2004 sono partiti i responsabili dell’attentato all’hotel Taba (34 morti e 170 feriti), l’anno successivo per la zona turistica di Sharm el Sheik (88 morti e 150 feriti) e poi alla volta di Dahab (23 morti e 80 feriti). In effetti, nel corso del G20 di To-


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ronto il Presidente americano Barack Obama si è rivolto direttamente al Premier turco Recep Tayyp Erdogan facendogli presente le sue preoccupazioni sulla politica adottata nei confronti di Israele e dell’Iran (la Freedom Flottilla e il voto contro le sanzioni a Teheran) e ventilando la possibilità che il Congresso respinga lo stanziamento per le forniture di armi per la Turchia, in particolare i droni necessari per combattere i ribelli curdi. Anche tra Israele e il Libano soffiano di nuovo venti di guerra. Nell’impervia vallata che divide il kibbutz Misgav Am dal villaggio libanese di Adaisseh, nell’alta Galilea, ci sono stati scontri a fuoco con le forze libanesi. Gli israeliani perdono un alto Ufficiale della riserva e altri due soldati rimangono gravemente feriti. In campo libanese perdono la vita due soldati e un giornalista, oltre a cinque feriti. È lo scontro più rilevante dalla fine dei 34 giorni di guerra tra Israele e la milizia sciita Hezbollah (14 agosto 2006). Al di là delle reciproche accuse, la vera novità è costituita dal fatto che Hezbollah non è intervenuto nel conflitto, un evento decisamente inusuale. L’Esercito regolare libanese ha sempre evitato lo scontro diretto con gli israeliani, lasciando mano libera prima alle milizie palestinesi, poi a quelle sciite di Amal e infine a Hezbollah. Secondo l’intelligence israeliana il problema è di più ampia portata ed è costituito dalla crescita della presenza di uomini del Partito di Dio nelle fila dell’Esercito libanese. Le unità operative inviate da Beirut a ridosso del confine meridionale erano in precedenza composte da una netta maggioranza di cristiani, percepiti dal Comando israeliano come elementi ostili a Hezbollah, e il cambio di rotta degli ultimi tempi deve ancora essere spiegato sotto un profilo tattico. In ogni caso, il Presidente libanese Michel Suleiman ordina plateal-

mente all’Esercito di «opporsi ad ogni costo all’aggressione sionista», seguito a ruota dal Presidente siriano Bashar Assad che assicura il totale e sicuro sostegno agli alleati libanesi. Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, prende la palla al balzo per sostenere la legittimità della sua milizia e aggiunge minaccioso che «non resterà a guardare in caso di aggressione». Il giorno dopo lo scontro, il Libano torna ad essere uno scenario di grande rilievo. Il Presidente siriano Assad e il Re saudita Abdullah bin Abdel Aziz si recano a Beirut per una visita congiunta al Premier Saad Hariri e al Presidente del Parlamento, Nabib Berri. Hezbollah, l’unica milizia a non aver disarmato, sicuramente non gradisce la presenza delle forze ONU nell’area meridionale del Paese (circa 13 000 soldati) che rende

Cartina d’Israele e suoi confini.

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Soldati israeliani.

più difficile il rafforzamento del loro arsenale a Nord del fiume Litani con cui minacciare o colpire Israele. Solo pochi giorni prima, il Tribunale militare libanese aveva condannato a morte per spionaggio - a favore di Tel Aviv per informazioni sulla leadership e sui siti segreti della milizia sciita - un preside di scuola libanese, immediatamente dopo aver eseguito la stessa condanna a un altro civile per la fornitura di documenti riservati del Partito di Dio al Mossad israeliano. Anche sul fronte palestinese la situazione è ancora tesa. Il Presidente Abu Mazen e il Premier Salam Fayyad, insieme a tutto lo stato maggiore di Fatah, si recano ai solenni funerali organizzati per Amin alHindi, l’ultimo palestinese del commando di Settembre Nero che pianificò la strage di Monaco alle Olimpiadi del 1972, dove vennero massacrati undici atleti israeliani. Morto all’età di 70 anni in Giordania, viene sepolto a Gaza con corone di fiori dell’Autorità palestinese e il picchetto d’onore (21 colpi sparati al cielo). La cerimonia di Stato a Ramallah è stata voluta personalmente da Abu Mazen, dopo quella organizzata un mese prima per Abu Daud, un altro ideatore della strage morto di vecchiaia a Damasco. In questa atmosfera ancora tesa, il Presidente americano Barack Obama rilancia il dialogo di pace tra Israele e Palestina. Alla fine del


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mese di agosto, pur avendo a disposizione scarse garanzie di successo, decide di invitare alla Casa Bianca i due leader, nel tentativo di chiudere definitivamente il dossier Medio Oriente. Le precedenti Amministrazioni americane non sono riuscite a trovare la strada giusta in questo terreno minato, pur avendo investito tempo, risorse ed energie per portare le due parti intorno al tavolo delle trattative (Accordi di Oslo tra Rabin e Arafat nel 1993, Barack e Arafat a Camp David nel 2000 e la «Road Map» del Presidente Bush nel 2002). Pur essendo favorevole alla nascita di uno Stato palestinese, Barack Obama conosce bene i punti più delicati della questione: il destino di Gerusalemme, quello dei profughi palestinesi, i confini esatti del nuovo Stato e le garanzie per la sicurezza di Israele.

Gli atteggiamenti dei due leaders mediorientali sono ancora distanti. Netanyahu, propenso ad un negoziato diretto, non accetta che siano fissate precondizioni all’incontro, come la sospensione degli insediamenti. Abu Mazen è favorevole a riprendere la trattativa dai punti in sospeso dal 2008 ma chiede che gli insediamenti vengano immediatamente bloccati. Gerusalemme è contesa tra israeliani e palestinesi perché entrambi la vorrebbero capitale dei rispettivi Stati, ma l’ipotesi di dividere in due la città santa non è mai passata nei precedenti negoziati. Anche il «diritto di ritorno» è oggetto di scontro. I palestinesi chiedono che venga riconosciuto, in via di principio, il

Una manifestazione a favore di Hezbollah.

diritto dei palestinesi fuggiti o espulsi al ritorno nelle terre dell’attuale Stato di Israele, ma Tel Aviv rifiuta di condividerne il principio stesso. Per il Presidente Obama si tratta di una questione di interesse nazionale per gli Stati Uniti e decide la data dell’incontro (26 settembre 2010) alla casa Bianca e alla presenza del Presidente egiziano Hosni Mubarack e del Re Abdullah di Giordania, due partners della politica americana in Medio Oriente e indispensabili per una soluzione di pace. Netanyahu e Abu Mazen sono «costretti» ad accettare. Il capo dei negoziatori palestinesi, Saeb Erekat, si affretta a raggiungere Ramallah per incontrarsi con il Comitato Esecutivo dell’OLP, l’organismo palestinese deputato al negoziato di pace. Al tempo stesso Netanyahu convoca una riunione della dirigenza del Likud, il partito a cui deve rispondere, o meglio la coalizione a maggioranza di destra che avversa ogni concessione significativa ai palestinesi e che non nasconde la sua affinità ideologica con il movimento dei coloni. Lo slogan dell’Amministrazione di Washington - «due Stati entro un anno!» - sembra condiviso in linea di massima da entrambe le parti, ma Netanyahu chiede che la futura entità palestinese nasca come Stato disarmato. Abu Mazen, sorretto dai moderati dell’ANP, non sembra porre obiezioni su questo punto e si dichiara pronto ad affidare i propri confini ad un contingente militare della NATO. Ma i palestinesi più intransigenti si affrettano a riaffermare il loro no al negoziato e lanciano un appello al boicottaggio dei coloni. Anche Hamas, dalla Striscia di Gaza, chiude le porte alla trattativa e il portavoce del movimento integralista liquida la faccenda in termini perentori: «non ci sentiamo impegnati da questa imperiosa chiamata al dialogo». Il Premier palestinese della Striscia,


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e leader indiscusso di Hamas, Ismail Haniyeh, decide di chiamare il suo ultimo nipote «Recep Erdogan» in onore del Premier turco Erdogan, che dopo l’assalto israeliano alla Freedom Flottilla fu protagonista di un duro confronto diplomatico con il Governo di Tel Aviv. Mentre si mettono a punto la data e il luogo dell’incontro (Assemblea generale dell’ONU a New York o riunione del G20 a Pittsburg) si muovono gli uomini delle rispettive diplomazie. L’inviato speciale di Obama, Gorge Mitchell, si unisce al primo vertice tra israeliani e palestinesi organizzato a Washington da Yasser Abbas, il figlio di Abu Mazen, e sembra che qualche timido risultato venga raggiunto. Netanyahu sarebbe disposto a congelare per un anno gli insediamenti in Cisgiordania, ma non a Gerusalemme («quella è la nostra capitale, non una colonia») mentre Abu Mazen insiste sullo smantellamento totale delle colonie. L’oggetto del contendere, i nuovi insediamenti a Gerusalemme, hanno una loro mappa precisa: Neve Yaakov, 377 case; Pisgat Zeev, 198; Har Homa, 117; Gerusalemme Est, 2 700 nuove costruzioni. La moratoria in corso (che è stata adottata all’inizio dell’anno e che riguarda solo la Cisgiordania) scade il 26 settembre e Washington spera che l’avvio del dialogo serva a sbloccare questa situazione così delicata. Ma prima dell’incontro tra il Presidente Obama e il Premier Natanyahu, a Washington arrivano notizie drammatiche. Due uomini e due donne, di cui una incinta e tutti compresi tra i 25 e i 40 anni d’età, coloni a Beit Hagai, nell’insediamento ebraico di Kiryat Arba, vengono massacrati da un commando palestinese. Dopo essere stati investiti da una scarica di colpi di armi automatiche all’interno della loro autovettura, i killer estraggono con calma i loro corpi e infliggono i colpi di grazia per essere certi che i quattro non abbiano scampo. L’epi-

sodio accade sullo svincolo della Strada 60 per Beni Naim, nello stesso luogo dove due mesi prima è stato ucciso un poliziotto israeliano, e solo l’intervento dell’Esercito - che impone subito il coprifuoco in tutta la zona - riesce a placare la furia dei coloni che vogliono vendicarsi. Il momento e il luogo sono stati scelti con cura. È il primo sangue che viene sparso sui negoziati in corso e ad Hebron, una trincea di 500 coloni ebrei in un mare di 100 000 palestinesi, è venerata la tomba di Abramo divisa tra una moschea e una sinagoga. Le rivendicazioni sono addirittura due: Al Aqsa e le Brigate Qassam: «è solo la prima di future eroiche operazioni, la nostra risposta alla continua aggressione contro il nostro popolo». Il giorno dopo un nuovo agguato palestinese ferisce gravemente altri due civili israeliani. Le Brigate Ezzedin al Qassam sono il braccio armato di Hamas che controlla la Striscia di Gaza dal giugno del 2007. Le Brigate dei Martiri di Al Aqsa (dal nome della principale moschea di Gerusalemme) costituiscono il braccio militare del partito di Al Fatah. Più forti ed organizzate nei Territori occupati, a Gaza hanno perso la battaglia contro le milizie di Hamas. Ma le due fazioni non hanno solo deciso di coalizzarsi, ma hanno creato un fronte comune contro Israele alleandosi con altre tredici fazioni palestinesi, con l’obiettivo di far saltare i negoziati di pace (tra le più importanti la Jiahd islamica, i Comitati di resistenza popolare, le Brigate al-Ansar, Saif al-Islam e il gruppo Humat al-Aqsa, collegato alla corrente salafita vicina ad alQaeda). «Abbiamo deciso di creare un centro di coordinamento per le nostre operazioni contro il nemico» dichiara Abu Obeidah, il portavoce delle Brigate Ezzedin al Qassam durante una conferenza stampa a Gaza e aggiunge che «il nemico sionista sarà colpito in ogni luogo e in qualsiasi momento». Le minacce vengono prese molto seria-

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mente dall’intelligence israeliana, specialmente dopo la scoperta che Hamas è arrivata a disporre di razzi capaci di colpire anche oltre la città di Tel Aviv, a quasi cento chilometri da Gaza. In un clima già molto teso si inserisce il Presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad sentenziando, in occasione della «Giornata di Gerusalemme» a sostegno del popolo palestinese, che «i negoziati sono nati morti e quindi destinati a fallire» e aggiungendo che i popoli di quella re-

Manifestanti a Gaza.

gione saranno in grado di far sparire il regime sionista dalla scena mediorientale, senza risparmiare un duro attacco al Presidente Abu Mazen, accusato di non rappresentare i palestinesi al tavolo delle trattative: «su cosa vuole trattare? ... chi gli ha dato il diritto di svendere un pezzo di Palestina?». Durante le manifestazioni della stessa Giornata di Gerusalemme, gli fa eco da Beirut Sayyed Hassan Nasrallah, il leader del movimento scii-


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ta Hezbollah: «la Palestina, dal mare (Mediterraneo) al fiume (Giordano) appartiene al popolo palestinese e nessuno può rinunciare a un centimetro della sua terra». Prima della scadenza della moratoria sugli insediamenti, durante un incontro tenuto a Sharm el Sheikh e presenziato dal Segretario di Stato Hillary Clinton, l’inviato speciale della Casa Bianca chiede a chiare lettere il rinnovo della moratoria, ma Netanyahu non è in grado di sciogliere la riserva: i partiti nazionalisti che sostengono il Governo, specialmente dopo gli attentati ai coloni, non vogliono neanche sentirne parlare. Anzi, le autorità cittadine di GeruIl muro del pianto a Gerusalemme.

salemme hanno deciso di discutere ai primi di ottobre un progetto per la costruzione di 1 362 nuove unità abitative al di là della Linea Verde del 1967, a Giuat Hamatos, area di confine tra i quartieri di Talpiot e Gilo, attualmente abitata soprattutto da arabi. George Mitchell vola a Damasco e si incontra con il Presidente Bashar Assad nel tentativo di portare anche la Siria al tavolo delle trattative con Israele. La Siria ha sempre appoggiato e aiutato le organizzazioni palestinesi più radicali, ostili ad una intesa con Tel Aviv, e condiziona la ripresa di un negoziato di pace a un chiaro e pubblico riconoscimento israeliano che le alture del Golan occupate nel 1967 saranno interamente restituite alla Siria. Israele, a sua volta, non sembra opporsi a un riti-

ro pressoché totale dal Golan, ma vuole da Damasco la rottura della sua alleanza con l’Iran e la fine del sostegno a Hezbollah in Libano e ad Hamas a Gaza. Quando Mitchell rientra senza aver trovato alcun accordo, Abu Mazen gioca con il Segretario di Stato americano la carta dell’estrema proposta di compromesso, ovvero una proroga di tre mesi della moratoria sulle attività edilizie delle colonie ebraiche in Cisgiordania. Alcune proposte americane, formulate per favorire i colloqui di pace in Medio Oriente, vengono respinte dai Paesi arabi. In particolare, il «cielo aperto» agli aerei israeliani della El Al, la compagnia di bandiera ebraica, viene respinto con decisione dall’Arabia Saudita che considera un sacrilegio il sorvolo della


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Mecca e degli altri luoghi sacri. Ma nei giorni successivi il Presidente Obama sottopone all’attenzione del Congresso il più importante contratto di armamenti mai presentato: 60 miliardi di dollari in valore di aerei ed elicotteri da combattimento destinati all’Arabia Saudita. Per il «Wall Street Journal» si tratta di una politica più ampia di rafforzamento degli alleati arabi alle prese con la crescente minaccia dell’Iran e anticipa che sono previste ulteriori trattative per forniture navali e di difesa antimissile per un valore di decine di miliardi di dollari. Le delegazioni internazionali impegnate nel negoziato si spostano in massa dall’Egitto a Gerusalemme per una nuova tornata di colloqui. Anche se Hillary Clinton dichiara che i due leaders si stanno seriamente impegnando per trovare un accordo, Abu Mazen minaccia di abbandonare i colloqui nel caso che la moratoria non venga prolungata, forte della votazione dei Ministri degli Esteri della Lega Araba che hanno varato una bozza di risoluzione nella quale si chiede al Presidente Obama di «fare pressione su Israele per un congelamento totale e immediato degli insediamenti». Il quotidiano israeliano «Yedioth Ahronoth» riporta però che Netanyahu è oggettivamente impegnato in gesti di buona volontà: la proposta di un prossimo round dei colloqui a Ramallah come segno di fiducia verso i palestinesi, il possibile rilascio di alcuni prigionieri e il trasferimento all’ANP del controllo di un numero, anche se limitato, di aree territoriali in Cisgiordania. Le reazioni dalla Striscia di Gaza non si fanno attendere. Un gruppo di miliziani palestinesi, il Popolar Resistence Committee, rivendica il lancio di due razzi Grad verso le città israeliane di Ashqelon e di Ashod e una decina di colpi di mortaio verso altri villaggi ebraici a ridosso della Striscia, sottolineando che «l’operazione continuerà sino al fallimento dei negoziati». Anche se i lanci non

Il Premier israeliano Netanyahu a colloquio con l’inviato speciale americano George Mitchell.

hanno fatto vittime, l’attacco aereo israeliano di risposta causa la morte di un palestinese, e il ferimento di altri due, mentre percorrevano uno dei tunnel che collegano Gaza con l’Egitto e che sono abitualmente usati per la merce di contrabbando, armi comprese. I primi segni di cedimento si fanno sentire. Un sondaggio pubblicato sulla stampa di Tel Aviv rivela che il 56% degli israeliani ritiene il negoziato un semplice gesto di cortesia rivolto al presidente Obama, il 71% che non si arriverà a nulla di fatto e il 51% vuole che negli insediamenti si continui a costruire. A Gerusalemme Est scoppiano tumulti sulla Spianata delle Moschee dopo l’uccisione di un palestinese per mano di una guardia privata israeliana: gli ebrei feriti sono dieci e otto i palestinesi arrestati. In Calabria, nel porto di Gioia Tauro, vengono rinvenute all’interno di un

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container sette tonnellate di esplosivi T4 e secondo il questore di Reggio Calabria si tratta di materiale diretto a Hozbollah o Hamas, per alimentare lo scontro con Israele. In ogni caso, il presidente Obama riesce a conservare il suo ottimismo: «entro un anno un accordo di pace e un membro in più qui all’ONU, lo Stato indipendente della Palestina!». In effetti, questo Presidente ha osato più di ogni altro predecessore, mettendosi personalmente in gioco all’inizio del proprio mandato (Clinton, molto più prudentemente, aveva giocato questa carta per ultima) ma gli israeliani devono aver fatto i loro calcoli. Hanno probabilmente deciso di giocare la loro partita dopo il mese di novembre, ovvero dopo una probabile sconfitta elettorale di Obama alle legislative, con la speranza di ricavare maggiori guadagni da un Congresso spostato a destra. Di questa opportunità deve essere al corrente anche il Presidente Abu Mazen, se dichiara perentorio: «Israele scelga subito tra gli insediamenti e la pace», mettendo a dura


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Una gigantografia di Abu Mazen in Cisgiordania.

prova, con questo ultimatum, i già incerti negoziati in corso. Intanto a Gerusalemme Est la tensione rimane molto alta. Lungo la strada che collega l’orto di Getzemani al Monte degli Olivi muore un piccolo palestinese di appena quattordici mesi a causa dei lacrimogeni sparati dagli israeliani. E proprio nel cuore del quartiere arabo di Ras al-Amud, che per i palestinesi costituisce il fulcro della capitale del futuro Stato. Nel distretto di Salfit, un insediamento nella Cisgiordania del Nord, alcuni coloni interrompono, anche se solo con un giorno di anticipo, il divieto imposto dal Governo e installano una ventina di caravan e alcuni prefabbricati sulle colline intorno a Revava, vicino a Nablus. Anche se non si tratta ufficialmente di abitazioni in muratura, queste strutture mobili «occupano» di fatto centinaia di terreni agricoli nell’area di Wadi Abu Ali, sulle proprietà di famiglie arabe.

Una via di Gaza.

Il leader dell’estrema destra nazionalista annuncia che già dal giorno dopo avranno inizio le costruzioni vere e proprie. Gli risponde Amr Moussa, il leader della Lega Araba, mettendolo in guardia sulla possibilità che si interrompano i negoziati se Netanyahu non riesce a trovare una soluzione per bloccare gli insediamenti illegali che, secondo Moussa, occupano il 42% della Cisgiordania. Anche la magistratura palestinese interviene nello scontro. Un tribunale della Cisgiordania stabilisce che vendere, o tentare di vendere,

un terreno a un colono israeliano è un reato passibile di pena di morte, perché significa boicottare le aspirazioni di un intero popolo. Il giudice Ta’et at-Twil è perentorio: «la decisione rappresenta il consolidamento di un principio giuridico preesistente (l’anno prima era stato condannato a morte un uomo che aveva ceduto il suo terreno a una società israeliana) e protegge il progetto palestinese di costruire uno Stato indipendente». La sentenza ha quindi lo scopo di scongiurare una «colonizzazione legale», ovvero fondata su regolari transazioni economiche. La doccia fredda sui già fragili negoziati arriva ai primi di ottobre. Il Comitato esecutivo dell’OLP e il direttivo di Fatah, a conclusione di una riunione tenuta a Ramallah con Abu Mazen, decidono che i colloqui diretti con Israele non devono continuare senza un totale congelamento della politica ebraica di insediamenti. Il Presidente palestinese lascia però ancora aperto uno spiraglio e aspetta di prendere una decisione definitiva sui negoziati dopo essersi consultato con i Ministri degli Esteri della Lega Araba, convocati a breve in Libia. Intanto, alle Nazioni Unite, il Consiglio per i Diritti Umani approva un rapporto che prevede un’azione legale contro Israele per gli attacchi alla Freedom Flottilla, che aveva tentato


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di forzare il blocco navale su Gaza per portare aiuti alla popolazione. La risoluzione, proposta dal Pakistan a nome della Organizzazione delle Conferenze Islamiche - approvata con 30 voti favorevoli, uno contrario e 15 astenuti - stabilisce che ci sono «prove evidenti che permettono di perseguire i crimini di omicidio volontario, torture e trattamenti inumani per causare volontariamente grandi sofferenze e ferite gravi». Dopo pochi giorni, il Presidente iraniano Ahmadinejad si reca a Beirut, per una visita di tre giorni, per incontrare le massime autorità libanesi, compreso il Presidente Suleiman. Hezbollah raduna migliaia di sostenitori e tappezza le strade principali della capitale libanese di gigantografie dell’ayatollah Khomeini e della guida spirituale Ali Khamenei. Ahmadinejad firma una serie di accordi economici per un valore di 450 milioni di dollari, tra cui spicca quello per la costruzione di una raffineria di petrolio in Libano e un altro per la fornitura di gas naturale. Il messaggio è chiaro: ribadire l’importanza strategica che ricopre per Teheran il Paese dei cedri, che si affaccia sul Mediterraneo e che è pronto a combattere strenuamente il vicino regime sionista. Durante la visita alla cittadina di Bint Jbeil, nel Sud del Libano e al confine con lo Stato ebraico - colpita duramente nell’ultima guerra - il Presidente iraniano dichiara che «il mondo deve sapere che i sionisti sono destinati a scomparire ... non hanno altra scelta che arrendersi e tornare nei loro Paesi di origine». Da Roma - durante una manifestazione «Per la Verità su Israele» - gli risponde laconicamente il Vice Premier dello Stato ebraico, Silvan Shalom, che riferendosi ad Ahmadinejad conclude il suo intervento dicendo: «tu vivrai un breve periodo, Israele esisterà per sempre». Oramai gli argini del negoziato si sono rotti. Netanyahu autorizza la costruzione di 240 nuovi alloggi nei rioni di Ramot e di Pisgat Zeev, oltre la linea di demarcazione in vigo-

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re dal 1967, ovvero nei territori che fanno parte di Gerusalemme Est. Per i palestinesi si tratta di «un chiodo ulteriore sulla bara dei negoziati» e gli Stati Uniti esprimono il loro «profondo rammarico» per il via libera concesso dalle autorità israeliane. Le ruspe si rimettono in moto anche in Cisgiordania e i coloni iniziano la costruzione di 544 nuovi alloggi. All’università islamica di Gaza, davanti ad un’aula affollata di studenti e docenti, Mahmoud Zahar, uno dei principali capi di Hamas, prende la parola e rivela, con grande naturalez-

il fallimento del summit di Camp David nel luglio del 2000. Questa è la prima volta che un alto esponente di Hamas rivela pubblicamente che gli attentati esplosivi commessi durante la seconda Intifada - scoppiata dieci anni fa - erano stati compiuti dietro un preciso e diretto ordine di Yasser Arafat. Zahar ha anche sostenuto che la decisione di Arafat di negoziare con Israele è stato uno dei fattori che hanno determinato il suo isolamento politico («un grave sbaglio e un errore tattico») esortando il Presidente

za, che Yasser Arafat - l’allora Presidente dell’Autorità palestinese - ordinò ad Hamas di lanciare attacchi terroristici contro Israele non appena si rese conto che i colloqui di pace con Israele non stavano andando nella direzione da lui voluta. «Il Presidente Arafat diede istruzioni ad Hamas di compiere un certo numero di operazioni militari nel cuore dello Stato ebraico dopo che aveva realizzato che i suoi negoziati con il Governo israeliano di allora erano falliti» ha dichiarato Zahar senza specificare quando Arafat diede l’ordine di effettuare quella sanguinosa offensiva, anche se è lecito ricondurla agli attentati suicidi che fecero strage di civili israeliani dopo

Un carro israeliano danneggiato nei combattimenti in Libano del 2006.

Abu Mazen a ritirarsi immediatamente dai colloqui di pace con Israele. Infine, ha concluso l’intervento dichiarando che oggi Hamas ha migliorato di molto le proprie capacità di introdurre clandestinamente nella Striscia di Gaza armi e forniture militari, in preparazione del prossimo scontro armato con Israele. Daniele Cellamare Docente di Storia delle Istituzioni Militari


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ARABIA SAUDITA: PUNTO DI SITUAZIONE L’incremento della presenza di al–Qaeda sul territorio yemenita e l’esposizione oltreconfine del pericolo zaiditha rendono fortemente instabile il territorio saudita, profilando la minaccia concreta del terrorismo e della guerriglia tribale. In questo scenario, fatto, tra l’altro, di debolezze strutturali del sistema istituzionale e di molteplici contraddizioni sociali, l’Arabia Saudita si staglia come potenza regionale della Penisola arabica in virtù del suo ruolo sempre più rilevante non solo nel contesto mediorientale ma anche in quello internazionale.

Le opinioni espresse nell’articolo riflettono esclusivamente il pensiero dell’autore.

FATTI RECENTI: DALL’INFILTRAZIONE DI AL-QAEDA ALLA «QUESTIONE ZAIDITHA» Tra la fine del 2009 e i primi mesi del 2010, l’Arabia Saudita si è vista costretta a intervenire militarmente lungo la precaria e disomogenea linea di confine con lo Yemen. La scelta di Re Abdullah di muovere le sue Forze Armate in un conflitto, per quanto si tratti di un caso di guerriglia, non ha precedenti nella storia del Paese, dalla sua unificazione nel 1932 a oggi. Eccezion fatta per l’intervento nella prima guerra del Golfo, contro l’Iraq di Saddam Hussein, per la liberazione del Kuwait a fianco della coalizione ONU. Due sono le motivazioni che hanno spinto il Governo di Riyadh a prendere questa decisione: l’incremento della presenza di attivisti di al-Qaeda sul territorio yemenita e l’offensiva lanciata dalla minoranza zaiditha, di confessione sciita, contro il Governo di Sanàa. Entrambi i fattori sono stati classificati come fonti di

instabilità non solo per lo Yemen, ma anche per il fronte interno saudita. Peraltro il rischio che il primo esportatore mondiale di petrolio sia esposto a fenomeni di terrorismo e di guerriglia tribale rappresenta un problema per la sicurezza dell’intera comunità internazionale. Da tutto questo emerge l’interesse di Riyadh affinché il confine yemenita diventi impenetrabile sia per i membri dell’organizzazione guidata da Osama Bin Laden, sia per i mi-

liziani sciiti, potenziali destabilizzatori dei già precari equilibri interni confessionali ed etnici del Paese. La presenza di al-Qaeda in Arabia Saudita non è una novità. Essa stessa è la terra di origine del suo leader e fondatore. Inoltre, elemento ancora più rilevante, nella visione di ricostituzione del Grande Califfato, l’Arabia Saudita dovrebbe essere strappata dalle mani di una Monarchia, a giudizio di Bin Laden, corrotta e alleata con l’Occidente. Per al-Qaeda, la liberazione delle città sante al Profeta Maometto, La Mecca e Medina - alle quali dovrebbe seguire quella di Gerusalemme (alQuds nella cultura araba) - rappresenta sia l’obiettivo ideologico, sia il target operativo delle sue attività terroristiche nel mondo. Negli oltre vent’anni di vita dell’organizzazione di Bin Laden, si contano sette attentati di varia portata che si sono verificati sul territorio saudita, provocando un totale di quasi 90 morti e che le autorità per la sicurezza nazionale possono accreditare con certezza ad al-Qaeda. Attacchi, questi, effettuati prevalentemente contro le sedi governative locali e le differenti realtà straniere presenti nel Paese: dalle basi militari degli Stati Uniti ai pozzi petroliferi. Tuttavia, la Monarchia di Riyadh, in


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collaborazione con le agenzie di sicurezza e di intelligence straniere, ha deciso di applicare una rigida politica di contenimento del fenomeno. Attualmente sono centinaia i sospettati qaedisti detenuti nelle carceri del Regno. Decine sono, invece, i casi di attentati falliti grazie all’intervento tempestivo delle Forze di Polizia. La nuova legge contro il terrorismo, inoltre, prevede il severo controllo dei flussi di immigrazione, per il controllo della forza lavoro proveniente dai Paesi islamici dell’Asia centro-meridionale, in particolare Pakistan, Malesia e Indonesia. Ed è proprio da oltre confine, da questi Paesi, ma anche dall’Iraq, dal Kuwait e appunto dallo Yemen, che si registra l’infiltrazione di qaedisti determinati a coinvolgere la popolazione locale.

Si calcola che su 28 milioni totali di abitanti, circa il 22% della popolazione del Regno sia composto da stranieri. Nella maggior parte dei casi si tratta di immigrati clandestini, che raggiungono l’Arabia Saudita per trovare impiego come operai presso le infrastrutture dei giacimenti petroliferi. A questa manovalanza viene negata la cittadinanza e spesso le condizioni di lavoro sono ai limiti dello sfruttamento. Più volte le organizzazioni internazionali, quali Amnesty International e Human Right Watch (HRW), hanno accusato il Governo saudita di non rispettare i diritti umani. In un simile contesto, collegato alla mancanza di riforme strutturali della Monarchia, il proselitismo di al-Qaeda trova facilmente consenso. Fa leva sul basso tenore di vita e sulla mancanza di

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riconoscimento politico degli stranieri da parte delle autorità nazionali. Il messaggio di Bin Laden, inoltre, acquisisce ancora più forza propagandistica nel momento i cui i «comunicatori» della dottrina qaedista si focalizzano sulla presenza di società petrolifere ed eserciti stranieri - quello degli Stati Uniti primo fra tutti - sul sacro suolo dell’Islam. Ai loro occhi si tratta di un sacrilegio di cui è responsabile la Monarchia stessa. Un discorso analogo, ma dalle dimensioni significativamente ridotte, può essere fatto per quanto riguarda il «pericolo zaiditha». La confessione religiosa del gruppo che fa capo all’Imam Zayd ibn Ali è solo collaterale allo sciismo vero e proprio. Quest’ultimo, infatti, conta i dodici Imam che hanno ereditato la guida


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del popolo musulmano direttamente dal Profeta, per questo vengono chiamati «duodecimani». Gli sciiti che, invece, abitano le montagne lungo il confine tra l’Arabia e lo Yemen si limitano a contare solo cinque Imam quali prosecutori di Maometto. Al di là di tale differenziazione, le attività di guerriglia di questa realtà tribale - appoggiata dall’Iran e in passato anche dalla Libia - hanno interessato da sempre solo il Governo yemenita. Negli ultimi mesi, però, il rischio che il fenomeno potesse dilagare anche oltre le frontiere ha costretto Riyadh a intervenire con le proprie forze. Dalla seconda metà di novembre 2009, è stato effettuato un elevato numero di raids aerei e di operazioni congiunte su terra, tra le Forze Armate yemenite e quelle saudite, per la soppressione di questa sorgente di criticità. Finora l’impatto ha avuto risultati positivi in termini militari. Le attività dei guerriglieri sono state marginalizzate e smembrate. Tuttavia, bisogna segnalare tre elementi a disca-

pito del successo di questo intervento. Per prima cosa l’eccessiva lunghezza dell’impegno armato di per sé. Dopo oltre tre mesi, il fatto che i due Paesi non abbiano ancora portato a termine il piano tattico lascia pensare che i guerriglieri - attenti

conoscitori del territorio in cui operano e probabilmente sostenuti da altre tribù della regione - abbiano volutamente scelto di ridurre l’intensità degli scontri, al fine di trovare nuove risorse ed energie, tornando a colpire, quindi, in un secondo momento, quando i loro oppositori avranno probabilmente abbassato il livello di attenzione. Non ha giovato, inoltre, il rimbalzare di notizie sull’uccisione o meno di alcuni capi zaidithi, che fanno parte del clan degli al-Houthi. Più volte il Governo di Sanàa, in pieno accordo con quello saudita, ha comunicato la cattura oppure la morte del leader AbdulMalik al-Houthi, o di uno dei suoi fratelli. Queste notizie però sono state sempre smentite. Questo significa che molti dei comandanti dei guerriglieri riescono a non essere intercettati e sono ancora in grado di gestire gli scontri. Ultimo e forse più dannoso elemento in sfavore di queste attività militari congiunte è il fatto di aver provocato una massa di profughi nella regione in seguito al bombardamento dei villaggi. Profughi, anch’essi sciiti ma non in armi, che non vengono ospitati dall’Arabia, né dispongono della benevolenza da parte dello Yemen. Ancora HRW ha denunciato la morte


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di centinaia di civili in seguito ai raids dell’Aviazione saudita condotti in Yemen e la nascita di un flusso di sfollati privi di alcun aiuto umanitario. Si sono venuti a creare, quindi, gruppi sociali «deboli», facilmente esposti alla strumentalizzazione e al coinvolgimento nella lotta armata contro le autorità locali, sia da parte del movimento zaiditha sia dalla stessa al-Qaeda. Lo scenario, quindi, risulterebbe controproducente all’iniziativa di Riyadh, che si limita all’uso della forza. Va aggiunto, infine, che il timore della Monarchia è che lo zaidismo entri in collegamento con la comunità sciita che abita nelle Provincia Orientale del Regno, Ash Sharqiyah, e dove costituisce il 75% della popolazione. La zona, peraltro, è l’epicentro delle attività petrolifere saudite. Ne consegue che, se gli sciiti della Penisola arabica - mossi anche da pressioni esterne, quale l’Iran - diventassero un elemento di disturbo sociale omogeneo, la stabilità dell’intera area ne risentirebbe.

GLI ANACRONISMI DI UNA MONARCHIA ASSOLUTA In controtendenza con l’immagine di stabilità politico-economica che l’Arabia Saudita mostra alla comunità internazionale, è difficile non rilevare le incrinature e le debolezze strutturali del suo sistema istituzionale. Il Paese resta nelle mani di una Monarchia assoluta. Già questo, nel pieno del terzo Millennio, appare un anacronismo. I risvolti di arretratezza caratterizzano la sua società, connotata da un forte sentimento religioso e dalla mancanza di una middle class che possa costituire il nucleo di un’eventuale borghesia nazionale. In ultima analisi, va aggiunto il fatto che l’economia del Paese si presenta come un sistema monoproduttivo, impostato unicamente sulle risorse petrolifere e privo di un comparto industriale differenziato. La prima fonte di preoccupazione per gli alleati occidentali emerge dallo «stato di salute» di cui gode la

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Monarchia saudita. In particolare, sono le incognite sulla successione al trono, in seguito a un’eventuale scomparsa di Re Abdullah, a destare apprensione. Il Sovrano, ultra-ottuagenario, ha preso in mano il potere nel 2005, succedendo al fratello Fahd. In realtà, a causa della prolungata malattia e dello stato di avanzata anzianità di quest’ultimo (Re Fahd era nato nel 1921), Abdullah ha governato di fatto il Paese per circa dieci anni come principe reggente. Ora però si sta presentando il dilemma su chi, tra i suoi fratelli ancora in vita, abbia le capacità di assumere la leadership del Paese. Secondo la tradizione islamica, infatti, l’eredità della Corona non è patrilineare, bensì viene trasmessa in senso «orizzontale», tra i fratelli appunto. Attualmente il primo erede che in linea di successione riceverebbe lo scettro è il Principe Sultan, nato nel 1926, quindi solo due anni dopo Re Abdullah. Tuttavia, Sultan è affetto da un male incurabile, quindi non sono in molti a fare affidamento


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sul passaggio della guida del Regno da Abdullah a quest’ultimo. Alla fine del 2006, per diretta iniziativa del Sovrano, era stata creata una commissione ad hoc per la scelta dell’erede al trono. Con questo gesto il Re si dimostrò sia consapevole dei rischi ai quali era esposta la Corona sia della necessità di avviare una lenta ma progressiva stagione di riforme politiche. Pur conservando un’impostazione assolutistica, alcuni centri di potere - soprattutto quelli più vicini al Sovrano - sono consci del fatto che l’autoritarismo, la censura delle libertà individuali e la stretta osservanza religiosa ri-

schiano di essere controproducenti per l’intera Monarchia. Risulta, però, difficile interrompere questa catena di potere tenuta saldamente nelle mani della dinastia degli alSaud. Si calcola che, fra Principi della Corona e quelli di sangue, siano circa ventimila i detentori del titolo di «Altezza Reale». I membri maschi del ramo al-Faisal dispongono del titolo di Emiro e sono quattromila. Questo vuol dire che ogni decisione politica nasce dal potere contrattuale che ogni singolo Principe ha in un determinato momento con il Sovrano. L’attribuzione di un incarico governativo è determinata

dalla positività o meno nei rapporti personali tra il Re e la sua corte. Risulta impossibile, quindi, immaginare un’uniformità di vedute e di prospettive politiche all’interno di un centro di potere e di interessi economici tanto ramificato. In ambito sociale, gli esempi di contraddizioni che si registrano nel Paese sono all’insegna della quotidianità. Qui la condizione femminile, in termini di libertà e diritti personali, è vincolata al rigido rispetto della Sharia. Solo due anni fa il Governo di Riyadh ha permesso alle donne - che rappresentano il 50% circa della popolazione - di ottenere la patente di guida automobilistica. In Arabia Saudita, tuttavia, è fatto loro divieto di lavorare e viaggiare da sole se sposate, o semplicemente accedere ai servizi sanitari senza l’autorizzazione di un loro familiare di sesso maschile. Nel settore della scolarizzazione, i dati della Banca Mondiale hanno sottolineato un incremento della presenza femminile nelle scuole primarie. Tuttavia, alle donne, per quanto possano accedere a tutti i livelli di istruzione, sono vietate le facoltà universitarie di architettura, ingegneria e giornalismo. Il 2008 è stato l’anno delle prime cittadine saudite laureate in legge. In


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controtendenza con questa situazione, nel febbraio 2009 ha suscitato aspre polemiche presso le massime autorità religiose nazionali la decisione di Re Abdullah di includere nel suo nuovo Governo anche la Signora Noura al-Fayez, in qualità di vice Ministro dell’Educazione, con delega per il settore femminile. Si è trattato di un primato storico, nonché di un’eccezione. La posizione da «seconda linea» occupata dalla Signora al-Fayez, in quanto il Ministero è stato assegnato al Principe Faysal ben Abdallah ben Mohamed, lascia intendere che la titolare dell’incarico non disponga di un’autonomia illimitata. Ciò non toglie che la scelta del Sovrano costituisca un segno di discontinuità nell’universo femminile saudita. Bisogna ricordare, inoltre, che il Sovrano saudita si considera il Custode dei Luoghi Santi dell’Islam. È un primato, questo, vincolato a evidenti ragioni geografiche. La Mecca e Medina sono sotto giurisdizione del Governo di Riyadh. D’altra parte, la dinastia degli al-Saud è legata storicamente alla dottrina teologica del wahabismo, fondata da Muhammad ibn Abd al-Wahhab, vissuto nel XVIII secolo dell’Era Cristiana. Questo teologo, protetto dal Capostipite della Casa Reale, l’Emiro Muhammad ibn Saud, interpretò il Corano secondo la rigida e ultra-ortodossa scuola hanbalita. Ancora oggi molti precetti religiosi e politici del Regno discendono direttamente da questa tradizione. Tuttavia, i maggiori detrattori del Governo, fra cui Osama Bin Laden, attribuiscono al Sovrano e alla sua corte uno stile di vita corrotto e contrario al wahabismo stesso. Infine sul fronte economico, il fatto che la produzione industriale resti legata unicamente al comparto petrolifero appare penalizzante per tutto il Paese. Le fluttuazioni del prezzo dell’oro nero al barile sul mercato internazionale, soprattutto negli ultimi cinque anni, sono state registrate come scossoni troppo violenti per

l’economia monoproduttiva saudita. Ne è conseguita la scelta di avviare una politica di diversificazione industriale, che permetta, da un lato, di evitare le brusche oscillazioni sul breve periodo, dall’altro, di creare una fonte alternativa di in-come, in previsione della riduzione delle riserve petrolifere sul lungo periodo. Collateralmente Riyadh ha cercato di creare un’unità monetaria fra tutti i Paesi membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC): Bahrain, Emirati Arabi, Kuwait, Oman e Qatar. Il Khaleeji, questo il nome della

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moneta unica, sarebbe dovuto entrare in circolazione proprio all’inizio del 2010. L’obiettivo, nutrito fin dall’inizio degli anni Ottanta, era creare un sistema monetario concertativo, una moneta di scambio comune per circa 32 milioni di persone e, soprattutto, un soggetto forte, in ambito finanziario di fronte al dollaro, in quello petrolifero - vale a dire in sede OPEC - di fronte all’Iran. Il progetto, però, è venuto meno in seguito alla crisi immobiliare internazionale del 2008 e all’insolvenza di Dubai alla fine del 2009. Questi due episodi hanno messo ancora di più in evidenza come l’Arabia Saudita e i suoi partners del GCC siano giganti produttivi con una struttura economica fragile, che necessita immediate riforme politiche e sociali per sopravvivere. Il Governo, istituito lo scorso anno da Re Abdullah, è stato accolto proprio sotto questi auspici. D’altra parte, scomparso Re Fahd, sull’attuale Sovrano si erano riposte le speranze perché il Paese intraprendesse un cammino di apertura al mondo esterno, in particolare a quello non islamico. Ancora quando Abdullah era Principe reggente, la sua fama di riformatore, favorevole a un mai avvenuto confronto culturale con altri sistemi sociali, era circolata presso le


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Cancellerie dell’Occidente. L’influenza del wahabismo resta un ostacolo difficile da oltrepassare. UNA POTENZA REGIONALE CON AMBIZIONI DI LUNGO PERIODO Il quadro della situazione appena presentato non esclude, comunque, che l’Arabia Saudita resti una potenza regionale della Penisola arabica e la sola che possa tener testa all’Egitto in seno alla Lega Araba, in termini di peso politico nel contesto mediorientale quanto internazionale. Ovviamente la visibilità e il protagonismo di cui Riyadh dispone poggiano unicamente sulla sua egemonia economica. All’inizio di giugno 2009, in occasione della sua visita in Medio Oriente, il Presidente statunitense, Barack Obama, scelse come prima tappa del suo viaggio la capitale del Regno. L’incontro con Re Abdullah divenne celebre per un discusso inchino abbozzato dal leader della Casa Bianca di fronte al Sovrano. Ben più importanti però sono i parametri di importanza adottati dagli Stati Uniti nel confrontarsi con i loro partner regionali. Prima dell’Egitto, la cui alleanza con gli USA non è fonte di

discussione, per Washington è prioritario preservare le risorse energetiche saudite, utili per la sua locomotiva industriale. Prima della consolidata libertà di navigazione nel Mediterraneo, con la prospettiva di un’eventuale escalation della crisi iraniana, è necessario conservare la possibilità di attracco, da parte della US Navy, ai porti di tutta la Penisola arabica che si affacciano nel Golfo Persico. Sulla base di questa partnership bila-

terale ed esclusiva, il Regno della dinastia degli al-Saud si ritiene in grado di portare avanti una politica estera in sede mediorientale individuale, che spesso contrasta con la collegialità richiesta sia ai membri della Lega Araba sia a quelli del Consiglio di Cooperazione del Golfo. La ragione di questo atteggiamento è legata a una sorta di psicosi di debolezza nutrita dall’Arabia Saudita nei confronti dell’Egitto e dell’Iran. Riyadh ha sempre visto questi due Paesi come i suoi più validi e potenziali avversari, il primo in ambito politico diplomatico, il secondo prevalentemente nel settore energetico. Non è incidentale il fatto che negli ultimi anni l’Arabia si sia dimostrata significativamente pro-attiva in questioni di politica regionale che la tradizione ha sempre considerato una sorta di monopolio del Governo egiziano. Rimane sua la più concreta proposta a firma araba, datata 2002, per una «Road Map» nel processo di pace israelo-palestinese. È vero, in questi ultimi otto anni, Il Cairo è rimasto l’epicentro dei negoziati per i colloqui di pace nell’ottica di «due popoli due Stati», come pure per la riconciliazione interna


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all’Autorità Nazionale Palestinese. In entrambi i casi, tuttavia, l’Egitto suo malgrado non è riuscito a raggiungere un risultato positivo e duraturo. Al contrario la cosiddetta «Proposta saudita» resta un documento dotato di una potenziale negoziabilità. Esso prevede il pieno riconoscimento di Israele e la pace con tutti i Paesi arabi, in cambio del ritorno ai confini anteriori del 1967, oltre che la creazione di uno Stato palestinese indipendente con capitale a Gerusalemme Est e il ritorno dei palestinesi nelle terre perse con la «Guerra dei Sei Giorni». È stato sulla base di questo documento che si giunse al summit di Annapolis alla fine del 2007. Per quanto oggi si giudichi l’evento un episodio «di facciata», non si può negare che, nelle settimane successive alla conferenza, il mondo sperò davvero di vedere realizzare il sogno della pace fra israeliani e palestinesi. Il Cairo oggi mantiene un rapporto privilegiato con la Presidenza palestinese di Abu Mazen e il suo partito al-Fatah. Ne è conseguito l’incrinarsi dei suoi rapporti con Hamas. Il Segretario generale del movimento islamico, Khaled Meshal, ha compiuto un vero e proprio tour esplorativo presso alcuni Governi dei

Paesi membri del GCC, Barhein, Kuwait, ma soprattutto Arabia Saudita, con l’intento di definire nuove alleanze e cercare nuovi mediatori, in seguito all’esplicita chiusura ricevuta dal Governo di Hosni Mubarak. Nella fattispecie ci si attende che la Monarchia saudita possa cogliere l’occasione e soddisfare l’ambizione di assumere il ruolo di vero e proprio ago della bilancia nella questione israelo-palestinese. Un secondo esempio delle proiezioni dell’Arabia Saudita verso il Mediterraneo a discapito dell’Egitto ci viene offerto dal caso libanese. A metà dicembre 2009 la nascita del Governo Hariri è avvenuta grazie alla disponibilità congiunta di Riyadh e di Damasco nell’accettare che l’esecutivo fosse guidato da un Primo Ministro vicino ai sauditi, Saad Hariri appunto. Al tempo stesso la compagine ministeriale avrebbe dovuto includere gli interlocutori libanesi della Siria: i due partiti sciiti di Amal ed Hezbollah, insieme all’ex Generale Michel Aoun. La stabilità governativa di Beirut, per quanto precaria, è sostenuta anche in questo caso dall’Arabia Saudita, la quale proprio ad Annapolis ha riaperto il dialogo diplomatico con la Siria.

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Come conclusione di questa panoramica delle attività diplomatiche di Riyadh, bisogna ricordare il risultato emerso dalla recente visita in Arabia, oltre che in Barhein e Kuwait, da parte del Segretario di Stato statunitense Hillary Clinton. L’obiettivo del giro di consultazioni prevedeva che i leaders esportatori di petrolio facessero blocco comune sia per contrastare le ambizioni nucleari dell’Iran, sia per convincere la Cina ad abbandonare la strada diplomatica filo-iraniana. Quest’ultima operazione si sarebbe dovuta impostare sul potere di influenza che il GCC può avere nei confronti di Pechino. Il 58% delle importazioni di greggio cinesi, infatti, giungono dalla Penisola arabica. Lo scenario sperato dal Dipartimento di Stato, però, non si è compiuto. Riyadh ha preferito mantenere una linea di cautela e di appeasement, non volendo danneggiare le relazioni con la Cina e tanto meno aumentare le frizioni con l’Iran, dal momento che le difficili condizioni di sicurezza interna del Paese rischiano di coinvolgere anche la comunità sciita. Antonio Picasso Giornalista, Esperto di Relazioni Internazionali


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TECNOLOGIA E GUERRA CONSIDERAZIONI SULL’IMPATTO DEL PROGRESSO DELLA TECNICA SULLA CONDOTTA E TEORIA DEI CONFLITTI Nel corso della storia si sono rilevati vari modi di condurre i conflitti, a seconda del livello di sviluppo raggiunto dalla tecnologia applicata agli armamenti. Le rivoluzioni militari, tuttavia, non sono state causate direttamente dall’evoluzione tecnologica, anche se quest’ultima è stata uno dei fattori determinanti. Le discontinuità, generate dalle rivoluzioni nel continuum storico, hanno indotto a interpretazioni discordanti riguardo l’impennata qualitativa impressa dall’innovazione tecnologica alle forme e teorie della guerra. Le varie decifrazioni dipendono dagli elementi che vengono ritenuti fondamentali per il determinarsi delle rivoluzioni, siano essi di natura economica piuttosto che tecnica, nel senso di un perfezionamento qualitativo dello strumento militare.

Nel nostro tempo, la profonda trasformazione delle tecnologie di informazione consente una comunicazione in tempo reale nelle zone più remote del globo. Pertanto la loro diffusione ha ridotto i costi della comunicazione, aumentandone al contempo l’efficacia: di fatto i mezzi di comunicazione di massa hanno raggiunto ormai una copertura globale e, con la loro immediatezza, influiscono sulla percezione degli eventi da parte delle opinioni pubbliche. Tale mutamento è stato recepito anche nella sfera militare, dove le tecnologie dell’informazione sono state introdotte nei moderni sistemi d’arma, a tal punto da aumentarne notevolmente la capacità distruttiva con l’ulteriore scopo di ridurre al contempo i danni collaterali. Le tecnologie informatiche permettono di

Un AH-129 «Mangusta» lancia dei flares durante un volo operativo in Afghanistan.


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conoscere gran parte delle informazioni disponibili circa la situazione sul campo di battaglia e sul nemico in modo così rapido e puntuale da consentire una manovra repentina al fine di assicurare una netta superiorità sull’avversario. Il mutato quadro mondiale, che ha visto la nascita di nuovi soggetti, quali ad esempio le organizzazioni terroristiche, che si muovono in un contesto che era di esclusivo dominio degli Stati, spinge a tener conto di ulteriori elementi. Se, infatti, i concetti riguardanti la Rivoluzione degli Affari Militari (Revolution in Military Affairs - RMA) trovano applicazione in un conflitto di tipo convenzionale, ove si ha la contrapposizione tra due o più Stati o Alleanze di Stati, con i loro Eserciti, i loro apparati industriali, socio-economici e ovviamente politici, quando il confronto vede interessato un attore internazionale insolito/inusuale, allora la mera applicazione dei sopraccitati criteri potrebbe non risultare aderente alla situazione contingente. In questo articolo si cercherà di analizzare come i mutamenti avvenuti negli ultimi anni nel contesto internazionale, aggiunti agli effetti delle ultime RMA, abbiano prodotto una rivoluzione tale da trasformare non solo sul piano tattico, ma anche su quello strategico la condotta dei conflitti, se non addirittura provocare un ripensamento a livello teorico della guerra. LA RIVOLUZIONE NEGLI AFFARI MILITARI, I SUOI EFFETTI E I FATTORI DETERMINANTI La RMA (1), come evidenzia il Generale Jean, riguarda una vera e propria rivoluzione della tecnica, della dottrina e della struttura delle forze militari che può addirittura, attraverso una loro trasformazione, condurre a un cambiamento nella strategia di sorprendere il nemico. Essa si distingue dalle «Rivoluzioni

militari» dove l’innovazione tecnologica entra nel tessuto sociale di una popolazione, influenzandone i fattori economici, industriali, demografici e culturali (2). L’assimilazione dell’evoluzione tecnica nelle dottrine fa sì che le stesse scelte tecnologiche dipendano dagli obiettivi politici che si intendono perseguire, dall’ambiente generale in cui si opera, dalle strutture della società e dal sistema di valori in essa dominante. I rapporti tra tecnologia e guerra sono molto più complessi di quanto appaia a prima vista. È ormai evidente che alle concezioni strategiche

occidentali, incentrate sul concetto di vittoria e basate sull’imposizione al nemico della propria volontà politica dopo avergli inflitto una sconfitta militare, ne stanno subentrando altre più elaborate, di stampo multiculturale, che tengono conto anche delle differenze esistenti fra i vari avversari, come ad esempio, nei conflitti di carattere etnico e identitario, quelle fra le fazioni locali in lotta e le forze che intervengono dall’esterno. Dalla caduta del muro di Berlino e dal successivo crollo del Blocco Sovietico la guerra è tornata a essere un fenomeno politico-sociale e i fattori non materiali hanno nuovamente occupato il ruolo centrale che avevano avuto sempre nel corso della storia. La valutazione dell’impatto dello

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sviluppo tecnologico sulla potenza militare comporta altresì l’analisi di diversi fattori che, combinandosi in modo diverso, determinano le capacità operative. Il Generale Jean indica che tra i principali fattori vi sono la potenza di fuoco, la protezione, la mobilità, le comunicazioni e l’intelligence. In particolare, egli evidenzia che: • la potenza di fuoco è aumentata notevolmente; rispetto al passato, infatti, abbiamo assistito a un netto e repentino progresso nelle gittate, nella precisione, affidabilità, celerità di tiro, quantità di artiglierie, aerei e munizioni nonché

L’Eurofighter.

riguardo la produzione di missili di vario tipo tanto da rivoluzionare l’arte militare. Tutto ciò ha consentito di imperniare le operazioni sulla manovra del fuoco anziché su quella delle forze; • la protezione è un fattore correlato alla potenza di fuoco. La letalità delle armi moderne ha condotto a una protezione ricercata attraverso la dispersione, l’occultamento, le contro misure elettroniche; • la mobilità è un’altra componente che ha subito una trasformazione estrema. Il significato geostrategico della distanza e della posizione è stato praticamente annullato a seguito dell’introduzione di ferro-


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guentemente sulla politica e sulla strategia. In tale quadro, le operazioni militari sono sempre più eventi comunicativi riguardanti gli avversari, l’opinione pubblica propria e internazionale. CONSIDERAZIONI E CRITERI ALLA LUCE DELLA NUOVA MINACCIA

Sopra. Un AH-64 «Apache».

vie, motori endotermici, meccanizzazione, aerei e missili; • le comunicazioni rappresentano il sistema nervoso che consente ai centri decisionali di controllare potenza di fuoco e mobilità. La loro interruzione ha effetti catastrofici sulla coesione dei sistemi militari e, per tale motivo, oltre a garantire potenza e coerenza, il sistema delle telecomunicazioni rappresenta di pari passo una vulnerabilità; • l’intelligence è passata dai metodi di acquisizione basati su reti di spie con pattuglie esploranti e combattimento di contatto guidato «a vista» dal Comandante in Capo, alle nuove metodologie che si appoggiano a una rete elaborata di sensori aventi come punto dominante un satellite di osservazione che consente di coprire l’intero campo di battaglia. Il problema principale sta nell’eccesso degli elementi informativi da scremare e trasformare in un quadro della situazione aderente il più possibile alla realtà. Oggi più che mai, l’informazione è fondamentale anche per quanto riguarda i rapporti intercorrenti con i sistemi politico-sociali, attraverso la sua forte e decisiva influenza sull’opinione pubblica e conse-

Il crollo del blocco sovietico e la fine della Guerra Fredda hanno determinato un mutamento del concetto di guerra. Il mondo post-bipolare è caratterizzato da un’alta conflittualità per cui la probabilità del verificarsi di guerre è diventata più elevata rispetto al passato (3) nonostante sia improbabile, almeno per il momento, il pericolo di un escalation tipo termonucleare. Ciò in parte è dovuto, tra l’altro, all’entrata in gioco di nuovi attori quali terroristi di varie provenienze, gruppi etnici che cercano di stabilire il controllo sul territorio, agenzie private e gruppi criminali. Tutti i maggiori conflitti del 1994 (circa 31) avevano origini interne allo Stato (anche se solo alcuni, come quello della Bosnia, hanno avuto implicazioni internazionali). Da qui le diverse tipologie di conflitto odierno: dalle guerre tra Stati ai conflitti etnici, localizzati un po’ ovunque dai Balcani alla zona centro asiatica dell’ex impero sovietico,

all’Africa; per non dimenticare i cartelli della droga che proteggono e allargano i loro interessi e la minaccia terroristica che a differenza di tutte le precedenti è totalmente deterritorializzata e quindi estremamente difficile da colpire. Si tratta, dunque, di un momento storico molto confuso dove le diverse forme di guerra si sovrappongono e coesistono contemporaneamente: esse vanno dalle crisi interne agli Stati ai conflitti asimmetrici al terrorismo internazionale, situazioni che fanno emergere nuovi attori e dove le categorie del passato faticano a trovare spazio. Il pensiero strategico occidentale si è andato costruendo sulla base delle teorie di Clausewitz; di fatto adesso è importante vedere come lo Stato Sovrano, l’attore principale della sua teoria, stia subendo dei cambiamenti e quanto questi ultimi influiscano sulla guerra. Lo Stato è la cornice politica entro cui la stessa teoria politico-strategica di Clausewitz si inserisce. Quando parla di politica, Clausewitz pensa a quella dello Stato e la considera sempre come un agire razionale per il bene del proprio Stato (4). Come ha notato Creveld lo Stato è il protagonista della guerra solo nell’epoca contemporanea e principalmente dopo la pace di Westfalia. In Nave «Garibaldi», della Marina Militare Italiana.


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precedenza altri erano stati gli attori principali: vari tipi di leghe, associazioni, città stato, ordini religiosi e altre entità. L’idea di Stato slegato dal Governo è completamente estranea all’antichità quando non esisteva l’idea di combattere per lo Stato. Nell’alto Medioevo la popolazione era completamente esclusa dal campo di battaglia in quanto gli eserciti erano piccoli, composti di soli cavalieri di famiglia nobile. La politica era legata alla guerra così come alla società e alla religione che non costituivano ambiti separati come nello Stato moderno (5). Elemento fondamentale del cambiamento di ruolo dello Stato è la globalizzazione che è importante per comprendere, come dimostra la Kaldor, la nuova conflittualità e il problema del terrorismo (6). I conflitti asimmetrici costellano tutta la storia militare. Sono guerre che hanno visto protagonisti, da una parte, un Esercito appartenente ad una grande potenza e, dall’altra, truppe guerrigliere con mezzi e tecnologia nettamente inferiori. In tali circostanze il primo è stato messo in difficoltà o addirittura sconfitto dal secondo. Tutto il colonialismo occidentale è segnato da conflitti asimmetrici e le sconfitte non sono mancate. Sono stati una costante anche di tutta la Guerra Fredda. Si pensi a tutte le guerre scoppiate nell’ambito della decolonizzazione, al Vietnam, all’Afghanistan. Oggi un tale conflitto è una minaccia costante per gli eserciti tradizionali perché gli avversari, notevolmente più deboli dal puro punto di vista militare, cercano nuovi mezzi e strategie per ridurre il divario. Liang e Xiangsui vedono l’asimmetria come un concetto strategico fondamentale per la guerra di questo secolo. Per loro l’asimmetria è la «ricerca di modi di azione in direzione opposta rispetto ai contorni dell’equilibrio della simmetria» (7). Comprendere questo principio per loro significa individuare i punti deboli del nemico e sfruttarli a proprio vantaggio (8). La parte

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più debole anziché scegliere lo scontro frontale, dove non avrebbe nessuna possibilità, preferisce altre strade come la guerriglia urbana, la guerra terroristica, la guerra santa, una guerra prolungata. «Nella maggior parte dei casi, la parte più debole sceglie come asse principale della battaglia quelle zone o quelle linee operative dove il suo avversario non si aspetta di essere colpito e il centro di gravità dell’assalto è sempre un punto che provocherà un profondo shock psicologico nell’avversario» (9). Per ottenere que-

ce difficoltà ai fini di una risposta adeguata alle minacce (12). Tra le principali minacce si annovera il terrorismo internazionale ormai in grado di causare tanti morti quanti una guerra. Il terrorismo, secondo la visione di Meigs, ricava la sua forza dall’asimmetria operativa che lo caratterizza (13). Il vantaggio del terrorismo, però, non è tanto legato a queste capacità, ma all’incapacità dei sistemi sicurezza di riconoscere la sua mutevolezza e di cogliere in tempo le sue novità. Secon-

sto risultato non servono armi nuove, ma nuovi criteri (10). Bisogna capire quali elementi associare e come, uscendo dalla semplice sfera militare entro cui anche il pensiero di grandi strateghi, come Sun Tzu e Clausewitz, era bloccato (11). La guerra del Golfo del 1991 ha dimostrato a tutti la straordinaria disparità tecnologica esistente. La soluzione per chi vuole avere delle chances di successo è, quindi, quella di adottare soluzioni asimmetriche. Un conflitto asimmetrico ha, come sue caratteristiche, il fatto di utilizzare tattiche o strategie inusuali e strumenti non riconosciuti dalle leggi di guerra e che non fanno parte degli arsenali delle forze regolari. Tali armi sono dirette contro settori specifici (quello civile piuttosto che militare) in modo da evitare la forza dell’avversario. Tutto questo produ-

Elementi di una pattuglia italiana in Afghanistan.

do il Generale Jean, è il terrorismo che possiede l’iniziativa. Esso può scegliere i tempi, i luoghi e i mezzi per colpire. Tutto ciò, sommato all’evoluzione tecnica, ha favorito l’attacco sulla difesa (14). La novità non è il fenomeno in sé, ma i suoi obiettivi e le sue modalità. In passato cercava con gli attentati un dialogo con il potere costituito; c’era una sorta di limitazione nelle attività terroristiche. Inoltre gli obiettivi perseguiti erano politici e, quindi, almeno in linea teorica, realizzabili. Oggi, invece, il terrorismo sembra essere sempre più legato alla religione divenendo Iperterrorismo (15), in altre parole un terrorismo con una visione apocalittica che non consente nessuna limitazio-


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L’atterraggio di un elicottero NH-90.

ne degli obiettivi sia di quelli da colpire sia di quelli che l’organizzazione si pone. I nuovi terroristi sfruttano perfettamente i vantaggi che la globalizzazione e il liberismo offrono loro: la deterritorializzazione, confini sempre più porosi, scarsi o inefficaci controlli sui flussi finanziari, oltre che comode basi operative in quei luoghi dove l’autorità statale è venuta meno (Afghanistan, Somalia, alcune zone dell’ex impero sovietico). Grazie a tutto ciò il terrorismo ha risolto uno dei suoi problemi principali del passato, ossia le fonti finanziarie. Oggi, grazie ai mercati offshore e alle organizzazioni non governative a essi legate, i terroristi riescono a ottenere e reinvestire i guadagni che provengono da operazioni criminali, traffici illegali, so-

stegno economico dato dai simpatizzanti o dalla diaspora. In più diventa una minaccia molto difficile da colpire ed eliminare perché non ben identificabile sul territorio dal momento che oggi la guerra può essere ovunque e in nessun luogo (16). Il terrorismo può utilizzare qualunque arma, da quelle convenzionali a quelle chimico-batteriologiche, a strumenti innocui quali gli aerei di linea. Queste nuove minacce e questi nuovi concetti d’arma fanno da sfondo all’idea di guerra senza limiti (17) ovvero una guerra che utilizza qualunque strumento per raggiungere lo scopo. L’idea essenziale è quella di combattere una guerra in condizioni d’inferiorità tecnologica. Il terrorismo è la strada intrapresa da chi si trova in una condizione d’inferiorità tecnologica o strategica o entrambe perché «esso sfugge (...) alle regole del tempo di pace e ai rischi

del tempo di guerra e diventa un modo di agire e di ricattare permanente, efficace e poco costoso» (18). Secondo Qiao Liang e Wang Xiangsui questa strategia rientra pienamente nelle possibilità di scelta di chi oggi vuole vincere una guerra. Essi ritengono, infatti, che si stia affermando sempre più il concetto «d’operazioni di guerra non militari». Quest’ultimo sarebbe ben più rivoluzionario di qualunque sviluppo tecnologico ancorato a vecchi concetti di guerra e d’armi (19). La guerra terroristica si caratterizza perché utilizza mezzi limitati per ottenere scopi illimitati. Per i terroristi, quindi, non esistono regole e questo fatto mette in crisi i moderni eserciti che invece sono costretti al contrario ad osservare molte regole (20). «L’avvento di un terrorismo sul modello di Al Qaeda ha rafforzato l’impressione che una forza nazionale, indipendentemente da quanto sia potente, avrà difficoltà a prendere il


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sopravvento in un gioco senza regole» (21). La strategia di questo terrorismo, basata sul nascondersi e proteggersi, cerca di conseguire risultati sempre più consistenti e di acquisire subito notorietà sfruttando i media (22), tentando di eludere lo scontro con il nemico e con i suoi elementi di forza. Da queste constatazioni discende che, essendo i terroristi degli attori che non rispettano le regole, il modo migliore per combatterli potrebbe essere «proprio quello di andare oltre le regole» (23). Soprattutto bisogna evitare di leggere la sfida terroristica dal solo aspetto militare. Le guerre del futuro avranno un campo di battaglia più ampio del passato che coinvolgerà tutti i settori, da quello militare a quello economico. I LIMITI DELLA TECNICA Secondo alcuni autori l’alta tecnologia non sarebbe in grado di fronteggiare le sfide e le minacce analizzate, anzi sarebbe addirittura controproducente. Di quest’opinione è Creveld che considera dei «dinosauri» i moderni sistemi d’arma (aerei, arti-

Semoventi di artiglieria Pzh 2000 durante un’esercitazione di tiro.

Il lancio di un missile MIM 104 «Patriot».

glieria pesante, missili) (24). La scelta del termine non è casuale. In primo luogo indica un animale enorme, con una capacità di movimento limitata. In secondo luogo identifica un animale estinto. Questi sistemi sarebbero, quindi, dei prodotti di un’epoca passata incapaci di operare e ottenere risultati in quella attuale. Sulla stessa lunghezza d’onda sono Qiao Liang e Wang Xiangsui che paragonano i moderni eserciti, in confronto agli avversari, «come un elefante in un negozio di porcellane» (25). Questo in quanto operano diversi elementi che tendono a modificare

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l’ambiente dove il pensiero strategico e le Forze Armate sono cresciuti e si sono sviluppati. La globalizzazione è uno di questi, così come la crisi dello Stato e la nascita di organizzazioni che lo sostituiscono o agiscono parallelamente a esso. Questi nuovi attori possono assumere diverse forme così come i possibili scenari futuri. Il risorgere dei mercenari, così come la trasformazione del crimine organizzato e i conflitti interni allo Stato, rappresentano le novità rispetto al periodo storico seguente alla pace di Westfalia. L’ambiente globale, dove si combatte la guerra al terrorismo, è un ambiente in cui caso e incertezza si moltiplicano. Le informazioni di cui si dispone sono moltissime ma ciò non fa che aumentare la confusione in quanto, per poter utilizzare la mole delle informazioni in maniera efficace, è necessario un lavoro di analisi e sintesi che però, oltre a richiedere tempo, è spesso inadeguato. Talvolta, non servono più computer o un enorme lavoro di intelligence, quello che in realtà serve è soprattutto l’intelligenza, specie quella umana, quello che Clausewitz definisce «colpo d’occhio» (26). CONCLUSIONI Allo sviluppo e all’estensione di nuove minacce si accompagna anche un ampliamento del campo di battaglia. Fino all’inizio del XX secolo il campo di battaglia aveva due sole dimensioni: terrestre e navale. Il progresso tecnologico e l’invenzione di nuovi mezzi hanno introdotto altre due dimensioni e di conseguenza altre due forme di guerra: quella sottomarina e quella aerea. Con i satelliti si conquista la dimensione spaziale e con la digitalizzazione e i computer si apre il cyberspazio. La tecnologia, specie quella informatica, ha reso il campo di battaglia tendenzialmente infinito e concetti come profondità, larghezza e altezza dello spazio operativo so-


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no diventati obsoleti (27). Ne consegue una massa enorme di settori da controllare per le forze di sicurezza, ma anche una quantità di possibili obiettivi per chiunque voglia portare a termine un attacco. Così chi ha il compito di proteggere deve possedere una varietà spropositata di informazioni. Gli eserciti necessitano di una trasformazione per tenere conto di tutto ciò e la tecnologia è diventata l’ago di questi mutamenti. È la guerra del Golfo nel 1991, dove si opera a tutti i livelli (tattico, operativo e strategico) contemporaneamente producendo la paralisi del sistema difensivo iracheno, che mette in evidenza il divario tecnologico. La tecnologia non può far tutto e anzi si trova in gran difficoltà, se non nell’impossibilità di agire, all’interno di situazioni ben diverse da una guerra tradizionale, dove il civile si confonde con il militare, il criminale col terrorista, il soldato con il mercenario.

mento, quindi del livello tattico, ma confonde i confini e crea oscurità a livello strategico (28); non riesce a chiarire gli obiettivi politici dell’azione in netto contrasto con il pensiero di Clausewitz che invece riteneva un’assoluta priorità quella di averli sempre e comunque ben chiari. Secondo Sullivan e Dubik quello che nel futuro cambierà e, in gran parte è già cambiato, è la condotta della guerra, ma tre aspetti rimarranno uguali al passato. In primo luogo le cause delle guerre che sostanzialmente non si discosteranno molto da quelle del passato. «Le persone, sia che siano leader di Stati-Nazione sia di qualche altro tipo di organizzazione, combatteranno ancora le guerre come il risultato della paura, dell’odio, dell’avidità, dell’ambizione, dello spirito di vendetta e di una schiera di altre emozioni umane sempre presenti» (29). La natura della guerra quindi non cambierà, essa resterà «un atto che ha per scopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà» (30). Oppure la guerra sarà sempre «lo scontro volontario di molti che si schierano su due fronti opposti nell’intenzione di piegarsi fisicamente

A sinistra. Un UAV RQ-1 / MQ-1 «Predator». Sotto. Lancio di un satellite a mezzo di un vettore Delta II.

La stessa tecnologia impiegata per piegare con relativa facilità l’Iraq di Saddam Hussein nel 1991 e per «vincere» in Kosovo si è dimostrata perfettamente inutile, per fare esempi relativi ai soli anni Novanta, in Somalia e Cecenia. In Afghanistan, all’interno della guerra al terrorismo, ha dovuto essere coadiuvata dalle Forze Speciali a terra e da tattiche tutt’altro che innovative. Questo è proprio uno dei limiti riscontrati a proposito della RMA. Infatti, quest’ultima permette di avere un’idea chiara del singolo combatti-

Un MLRS.

l’un l’altro» (31). L’ambiguità, l’incertezza, il pericolo, la paura così come la morte e la distruzione saranno sempre presenti. Un terzo elemento è il fatto che la tecnologia non potrà mai risolvere tutti i problemi legati alla guerra. «La guerra è materia di cuore e volontà in primo luogo, solo in un secondo momento di armi e tecnologia» (32). La tecnologia non ha mutato la natura della guerra, perché l’esperienza storica mostra come le guerre del passato, ma anche le ultimissime e più tecnologiche, siano caratterizzate dall’incertezza, dal caso e dalla scarsezza di informazioni. Secondo Dalpane «l’incertezza pervade e penetra la guerra fin nella sua essenza, la costituisce» (33); essa, insieme alla violenza fisica, rappresenta il carattere originario della guerra (34) e contribuisce a mantenere invariata la sua teoria. Luigi Robello Tenente Colonnello, in servizio presso il 1° reggimento AVES «Antares» Luigi Puleo Maggiore, in servizio presso il 1° reggimento Sostegno AVES «Idra» NOTE (1) C. Jean, Guerra, Strategia e Sicurezza, «Sagittari», La Terza, 1997. (2) B. Moller, «The Revolution in Military Affaires: Myth or Reality?», Copen-


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hagen, Peace Research Institute, IIS Working Paper, n. 15, 2002, pp. 10-12. (3) W. Coralluzzo, «Nuovi nomi per nuove guerre», (a cura di) A. D’Orsi, cit.. (4) G. E. Rusconi, «Clausewitz, il prussiano. La politica della guerra nell’equilibrio europeo», Einaudi, Torino, 1999. (5) M. van Creveld, «The Transformation of War», The Free Press, New York, 1991. (6) Cfr. M. Kaldor, «Le nuove guerre. La violenza organizzata nell’età globale», Carocci, Roma, 2001. (7) Q. Liang, W. Xiangsui, «Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione», Libreria Editrice Goriziana, Gorizia, 1999, p. 183. (8) Ivi, p. 184. (9) Ivi, p. 183. (10) Ivi, p. 56. (11) Ivi, p. 125. (12) C. S. Gray, Thinking Asymmetrically in Times of Terror, in «Parameters», vol. XXXII, Spring 2002 pp. 5-14. (13) M. C. Meigs, Unorthodox Thoughts about Asymmetric Warfare, in «Parameters», vol. XXXIII, Summer 2003, pp. 4-18. (14) C. Jean, I barbari e i borghesi, in «Limes», La guerra del terrore, supplemento al n. 4/2001, p. 42.

(15) F. Heisbourg, «Iperterrorismo. La nuova guerra», Meltemi Editore, Roma, 2002. (16) C. Galli, «La guerra globale», Laterza, Roma-Bari 2002. (17) Q. Liang, W. Xiangsui, op. cit.. (18) P. Lellouche, «Il nuovo mondo. Dall’ordine di Yalta al disordine delle Nazioni», Il Mulino, Bologna 1994 p. 560. (19) Q. Liang, W. Xiangsui, op. cit., p. 83.

Pulizia di mortai da 120 mm «Thomson».

43

Un carro «Ariete» in addestramento.

(20) Ibidem. (21) Ibidem. (22) Ivi, p. 116. (23) Q. Liang, W. Xiangsui, op. cit., p. 118. (24) M. van Creveld, «The Transformation of War», The Free Press, New York, 1991, p. 208. (25) Q. Liang, W. Xiangsui, op. cit., p. 184. (26) C. von Clausewitz, «Della guerra», Mondadori, Milano, 1970, p. 61. (27) Q. Liang, W. Xiangsui, op. cit., p. 72. Come evidenzia Galli i concetti di guerra navale, terrestre e aerea sarebbero ormai superati e inutili perché la guerra globale che si sta sviluppando si svolge nel non spazio globale e il culmine di tutto ciò sarebbe rappresentato dal terrorismo. Cfr. C. Galli, «La guerra globale», Laterza, Roma-Bari, 2002, p. 60. (28) E. A. Cohen, A revolution in Warfare, in «Foreign Affairs», vol. 75, n. 2, pp. 37-54. (29) G. R. Sullivan e J. M. Dubik, op. cit., p. XXVI. (30) C. von Clausewitz, op. cit., p. 19. (31) L. Bonanate, «La guerra», Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 10. (32) G. R. Sullivan e J. M. Dubik, op. cit., p. XXVIII. (33) F. Dalpane, «Clausewitz, guerra e incertezza», Clueb, Bologna, 2001, p. 14. (34) Ivi, p. 15.


SPECIALE

LA SCUOLA SOTTUFFICIALI DELL’ESERCITO UNA SCUOLA DI COMANDANTI


La consapevolezza che il ruolo formale di Comandante non può essere disgiunto dall’acquisizione della necessaria autorevolezza e preparazione professionale fa emergere la questione della formazione come centrale per la nostra Forza Armata. In tal senso, si colloca la funzione svolta dal Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione dell’Esercito, organo preposto alla gestione unitaria del settore «formazione» per tutto il Personale dell’Esercito, e dalla Scuola Sottufficiali dell’Esercito per la formazione di Marescialli Comandanti di plotone. Questi ultimi devono possedere spirito d’iniziativa, senso di responsabilità e una preparazione «a tutto campo» come evidenziato dal Generale di Divisione Roberto Ranucci, Comandante della Scuola Sottufficiali, nel corso dell’intervista realizzata dal Direttore di «Rivista Militare», Generale di Brigata Marco Ciampini. Egli parla della sfida che sta portando avanti e che mira alla formazione di una nuova figura di Sottufficiale, poliedrica e flessibile, capace di interagire a livello interarma e internazionale. Il ruolo della formazione emerge anche nei parallelismi che negli ultimi anni si sono sviluppati tra mondo militare e aziendale e che nel nostro Paese si sono concretizzati in un percorso di fattiva collaborazione tra Esercito e universo imprenditoriale. Parallelismi, anche a livello di Quadri. Ne scaturisce un rapporto sinergico e innovativo capace di rendere il sistema Italia ancora più competitivo a livello planetario.


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SPECIALE

Rivista Militare

IL COMANDO PER LA FORMAZIONE E SCUOLA DI APPLICAZIONE DELL’ESERCITO Nell’anno 2000, tra i provvedimenti volti al riordino e alla riorganizzazione dell’area scolastico-addestrativa della Forza Armata, viene istituito il Corso Pluritematico, attività di studio di livello elevato riservata a Capitani e Maggiori che hanno già svolto il Corso di Stato Maggiore. Quest’ultimo viene trasferito, quale distaccamento della Scuola di Guer-

ra, dalla sede di Civitavecchia a quella di Torino. Nel 2002, il Corso di Stato Maggiore e il Corso Pluritematico vengono inglobati a pieno titolo nell’ambito dell’Istituto e posti alle dipendenze del neo-costituito «Reparto Master», a cui è devoluta la responsabilità di presiedere alla nuova attività svolta in collaborazione con l’Università

degli Studi di Torino: il «Master di II livello in Scienze Strategiche». Dal 1° giugno 2003, contestualmente all’incremento del livello ordinativo, l’Istituto assume la denominazione di «Scuola di Applicazione e Istituto di Studi Militari dell’Esercito» e, di fatto, si identifica come l’unico polo didattico a livello universitario preposto alla formazione e qualificazione, di base e avanzata, di tutti gli Ufficiali dell’Esercito. Dal 1° settembre 2005 l’Istituto ha anche il compito di assicurare il sostegno logistico-amministrativo al neo-costituito Centro Studi Post Conflict Operations, il cui Direttore si identifica nel Comandante della Scuola. Infine, nel quadro dei provvedimenti di riordino dell’area della Formazione e Specializzazione, a partire dal 1° gennaio 2006, il Comandante della Scuola assume la funzione di «Comandante per la Formazione». L’Accademia Militare, la Scuola Sottufficiali dell’Esercito e il Comando Raggruppamento Addestrativo dell’Esercito (R.U.A.) A sinistra. Il Generale di Corpo d’Armata Giuseppe E. Gay, Comandante per la Formazione dell’Esercito. In Apertura. Il Generale Gay e il Comandante della Scuola Sottufficiali dell’Esercito, Generale di Divisione Roberto Ranucci, passano in rassegna il 2° battaglione Allievi Marescialli in occasione della cerimonia della consegna dei gradi all’11° Corso «Tenacia» avvenuta a Viterbo il 24 settembre 2010.


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transitano alle dirette dipendenze del Comandante per la Formazione. Dal 3 agosto 2009 la Scuola di Applicazione e Istituto di Studi Militari dell’Esercito ha anche assunto le funzioni del Comando di Vertice dell’Area Scolastica, acquisendo la responsabilità della gestione unitaria del settore «formazione» per tutto il personale della Forza Armata. Dal 1° febbraio 2011 la Scuola di Applicazione e Istituto di Studi Militari dell’Esercito ha assunto la nuova denominazione di «Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione dell’Esercito».

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• area della formazione di base; • area della formazione avanzata; • area della formazione linguistica. Per assolvere tali compiti ha alle proprie dipendenze tutti gli Istituti di formazione di base e avanzata della Forza Armata fra i quali spiccano l’Accademia Militare di Modena, le due Scuole militari di Napoli

loro futuro impiego nell’ambito di Comandi Nazionali e multinazionali. Questa scelta è andata consolidandosi nel tempo con il trasferimento al Palazzo Arsenale dei corsi che si tenevano presso la Scuola di Guerra di Civitavecchia e con l’istituzione, nel settembre 2005, del Centro Studi per le «Post Conflict Operations». Il

e Milano, la Scuola Sottufficiali di Viterbo, il Raggruppamento Unità Addestrative per i Volontari di Capua, nonché la Scuola Lingue Estere di Perugia. Con circa 1 000 Ufficiali frequentatori ogni anno, un centinaio di studenti civili, 118 professori universitari e 30 docenti militari che insegnano oltre 100 materie universitarie e 28 materie militari di carattere tecnico-professionale, il Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione dell’Esercito oggi si caratterizza come uno dei poli didattici di eccellenza nel panorama italiano e come nuovo centro culturale di prestigio per la città di Torino. L’offerta formativa della Scuola di Applicazione dell’Esercito è ampia e variegata e va dalla formazione di base, dedicata ai futuri Comandanti di minore unità, alla qualificazione superiore rivolta agli Ufficiali più esperti in vista del

Palazzo dell’Arsenale a Torino, sede del Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione dell’Esercito.

LA SCUOLA OGGI Il Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione dell’Esercito ha la responsabilità della gestione unitaria del settore «formazione» per tutto il personale della Forza Armata. In particolare: • quale Comando di Vertice dell’Area Scolastica ha il compito di assicurare la formazione di base e avanzata degli Ufficiali, dei Sottufficiali e dei Volontari e di assicurare la formazione linguistica di tutta la Forza Armata; • quale Comando della Scuola di Applicazione dell’Esercito ha il compito di presiedere alla formazione di base degli Ufficiali del Ruolo Normale (RN), del Ruolo Speciale (RS), della Riserva Selezionata e di quelli a nomina diretta, nonché di presiedere alla formazione avanzata degli Ufficiali del Ruolo Normale; • quale Centro Studi Post Conflict Operations ha la responsabilità di sviluppare il progetto connesso con la creazione di un Polo di Eccellenza della Forza Armata preposto allo studio e alla ricerca in materia di operazioni post-conflittuali e alla formazione di personale militare e civile destinato a operare sul campo. In sintesi, i compiti affidati al Comando sono ripartiti in tre macroaree di attività:

Centro, in particolare, ha lo scopo di contribuire a valorizzare e sostenere l’esperienza acquisita dall’Esercito Italiano nel settore delle operazioni di ricostruzione e di supporto alla pace nelle aree di crisi; esso provvede a formare e specializzare dirigenti militari e civili, nazionali e internazionali, da impiegare nell’ambito dei processi di stabilizzazione e ricostruzione post-bellica, promuovendo una «via italiana» del post conflict management. Antonio Iammarrone Maggiore, in servizio presso il Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione dell’Esercito


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SPECIALE

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LA FORMAZIONE «DI BASE» DEI MARESCIALLI Sopra. Il Tenente Colonnello Flavio Lauri, Capo Ufficio Coordinamento Didattico dell’Istituto e già Comandante del Gruppo artiglieria da montagna «Aosta» del 1° reggimento artiglieria terrestre, inquadrato nella Brigata alpina «Taurinense», è laureato in Scienze Strategiche e in Scienze Politiche. Dal settembre 2008 al settembre 2010, ha ricoperto l’incarico di Comandante del Battaglione Allievi Marescialli dell’11° Corso «Tenacia». A sinistra. Allievi durante una lezione sul combattimento nei centri abitati.

IL MARESCIALLO COMANDANTE DI PLOTONE LE FONTI NORMATIVE Con l’entrata in vigore del decreto legislativo 12 maggio 1995, n. 196, risalente al 1° settembre 1995, ha trovato attuazione l’art. 3 della legge 6 marzo 1992, n. 216 in materia di riordino dei Ruoli del personale non direttivo delle Forze Armate. Viene così istituito il Ruolo dei Marescialli ai quali l’articolo 6 del citato decreto legislativo n. 196 attribuisce specifiche caratteristiche professionali. In particolare, «i Marescialli sono di norma preposti ad unità operative, tecniche, logistiche, addestrative e ad Uffici e svolgono, in relazione alla professionalità posseduta, interventi di natura tecnico-operativa nonché compiti di formazione e di indirizzo del personale subordinato. Gli stessi

espletano incarichi la cui esecuzione richiede continuità d’impiego per elevata specializzazione e capacità di utilizzazione di mezzi e strumentazioni tecnologicamente avanzate. Nel prosieguo del relativo profilo di carriera al personale che riveste il grado di Primo Maresciallo sono attribuite funzioni che implicano un maggior livello di responsabilità, sulla base delle esigenze tecnico-operative stabilite in sede di definizione delle strutture organiche degli Enti e delle Unità. In tale contesto i Primi Marescialli sono i diretti collaboratori di superiori gerarchici che possono sostituire in caso di impedimento o di assenza assolvendo, in via prioritaria, funzioni di indirizzo o di coordinamento con piena responsabilità per l’attività svolta».

Tale quadro normativo ha consentito di delineare, nell’ambito della categoria Sottufficiali, una nuova figura professionale: il Maresciallo Comandante di plotone. Con l’avvio del 1° Corso Allievi Marescialli nell’ottobre del 1998 ha così avuto inizio un nuovo iter formativo dei Marescialli dell’Esercito Italiano che, nel corso di questi primi dodici anni, ha visto susseguirsi presso la Scuola Sottufficiali dell’Esercito 2 761 Allievi che, avvicendandosi tra loro nelle diverse unità delle Forze Operative Terrestri, hanno assolto e assolvono uno dei compiti più delicati e gravosi, quello appunto di Comandante di minore unità. I complessi scenari in cui operano le unità della componente terrestre sono spesso caratterizzati da gravi forme di instabilità politica e sociale


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che spesso si manifestano in disordini di massa e dilaganti forme di povertà, corruzione e violenze. In queste circostanze l’attività diuturna delle unità dell’Esercito è volta a contribuire alla ricostruzione di condizioni di vita quotidiana, di relazioni sociali, di servizi e, soprattutto, di cornici di sicurezza idonee allo sviluppo di forme di società migliori di quelle esistenti. In queste situazioni, chi, come le unità dell’Esercito, è preposto in primo luogo a garantire la sicurezza per sé e per gli altri, ha la responsabilità di gestire sul A destra sopra. Allievi in addestramento al pattugliamento. A destra sotto. Il Maggiore Alessandro De Vergori, Ufficiale addetto alla Pubblica Informazione e addetto dell’Ufficio Personale e Benessere della Scuola, ha alle spalle una vasta esperienza di comando in ambito Scuole di formazione ed è stato anche Aiutante Maggiore del Reparto Supporti dell’Istituto. Sotto. Il Tenente Colonnello Silvio Manglaviti ricopre gli incarichi di Capo Sezione Rapporti con l’Università nel Reparto Accademico e insegnante titolare di Topografia Militare ed Elementi di Geopolitica applicata alle Operazioni militari ai Corsi Allievi Marescialli e di Tattica e Funzione Operativa Intelligence, ai Corsi di Branca; è Laureato in Studi Internazionali, specializzato quale Ufficiale geografo ha prestato servizio in Italia e all’estero. Egli è in possesso di una vasta expertise tecnico-professionale acquisita soprattutto in campo internazionale. La Scuola Sottufficiali possiede, in sostanza, Quadri di provata preparazione e capacità con esperienza anche in campo internazionale che garantiscono una formazione di elevato profilo.

campo l’uso proporzionato e adeguato della forza. Esso rappresenta non solo un concetto giuridico ma anche un fattore culturale che costituisce una specificità della nostra cultura italiana. In concreto, si traduce nella capacità di chi comanda le unità schierate di usare il potere delle armi con ragionevolezza e solo quando non sussistano altre possibi-

lità di persuasione ovvero di gestione della situazione violenta in corso. Inoltre, l’evoluzione dottrinale e tecnologica d’impiego delle minori unità, l’internazionalizzazione dei rapporti, la professionalizzazione del soldato sono tutti fattori con i quali il Maresciallo, una volta inserito a pieno nella realtà lavorativa, misurerà le proprie capacità umane e professionali. Emerge, quindi, con forza, l’immagine di un ruolo professionale complesso, che richiede personalità fortemente motivate, tecnicamente preparate, moralmente e caratterialmente mature, autorevoli nella consapevolezza delle responsabilità che il grado rivestito gli attribuisce. Tali caratteristiche costituiscono per ogni Maresciallo un riferimento indispensabile per individuare il proprio percorso evolutivo umano e professionale. Contestualmente, gli stessi parametri rappresentano costante e


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INQUADRAMENTO CONCETTUALE DEL CORSO FORMATIVO “DI BASE” DEGLI ALLIEVI MARESCIALLI DELL’ESERCITO OBIETTIVO

Tab. A

ATTIVITÀ FINALIZZATE AL CONSEGUIMENTO DELL’OBIETTIVO ATTIVITÀ SPECIFICHE

PERSONALE PREPOSTO

ESSERE

• Insegnamento ed esercitazioni di “Etica ed azione di comando” • Valutazione dell’attitudine militare • Lezioni ed esercitazioni relative alla leadership e tecniche di comunicazione • Osservazione e valutazione del personale dipendente: redazione della documentazione caratteristica • Conferenze e Briefings

Linea di Comando Sub-Agenzia Socio-psicologia e Comunicazione Relatori

SAPERE

• Discipline del corso di laurea • Perfezionamento della lingua inglese (JFLT) • Materie tecnico professionali (armi ed esplosivi IED-C-IED, impiego, comando e controllo, logistica, NBC, regolamenti e normativa di base, ecc.) • Briefings (E-CAS, CIMIC, Operazioni COIN, ecc.)

Docenti Universitari Insegnanti militari Linea di Comando Relatori esterni

• Educazione fisica (atletica e nuoto per il conseguimento del titolo IEF/AIEF) • Attività esterne tecnico-tattiche (movimento in montagna, nei boschi, ecc.) • Esercitazioni di tiro a fuoco in poligono e simulato (FATS – TTS) • Attività tecnico-tattiche continuative con ausilio di simulatori (TTS e simulatore di IED) • EQ per l’applicazione del PDP-Speditivo • Corsi di paracadutismo, pattugliatore scelto, CRO, Cbt Centri Abitati • Esercitazioni a fuoco di squadra e plotone

Linea di Comando Istruttori Militari

SAPER FARE

SAPER FARE BENE

• Corsi specialistici in relazione all’Arma/Specialità/Corpo d’impiego (Fanteria, Alpini, Artiglieria, Genio, Cavalleria, Trasmissioni, Trasporti e Materiali, Sanità)

continuo riferimento per la definizione degli obiettivi didattici della Scuola Sottufficiali dell’Esercito (SSE), quale specifico Istituto di Formazione che li persegue, ponendo in essere un percorso formativo che ha inizio con l’iter «di base» (Corso Allievi Marescialli) e prosegue con una fase «avanzata» (Corso di Branca). L’ITER FORMATIVO «DI BASE» L’obiettivo primario che lo Stato Maggiore dell’Esercito ha affidato alla Scuola Sottufficiali dell’Esercito (SSE) è quello di formare Marescialli Comandanti di plotone e Marescialli qualificati Infermieri Professionali che posseggano un’adeguata preparazione tecnico-professionale e un bagaglio culturale appropriato al ruolo di appartenenza. Attraverso un percorso evolutivo, caratterizzato da successivi adeguamenti e aggiornamenti, già approvato dallo Stato Maggiore dell’Esercito, la Scuola è giunta alla definizione dell’attuale iter formativo. Esso si concretizza coniugando una didattica di livello universitario - assicurata dalla stretta collaborazione con l’Università degli Studi della Tuscia di Viterbo (corso di laurea di 1° livello in «Scienze Organizzative e Gestionali» per il personale assegna-

Comandi/Scuole/Centri d’Arma/Specialità/Corpo d’impiego

to alla specializzazione «comando») e l’Università di Roma «Tor Vergata» (corso di laurea in «Infermieristica» per il personale assegnato alla specializzazione «sanità») - con un impegnativo programma di attività tecnico-professionali, teoriche e pratiche, svolte in sede e fuori sede, presso i Comandi/Scuole/Centri d’Arma e Specialità dell’Esercito e in aree e strutture militari dislocate sul territorio nazionale. Tale percorso formativo, concepito secondo i principi della didattica rivolta agli adulti che privilegia l’apprendimento pragmatico e parteci-

pativo piuttosto che quello basato sull’approccio eruditivo e nozionistico, segue quattro concetti tra loro intimamente correlati. In primo luogo tutte le azioni e i comportamenti sono volti a educare alla forma militare e a far maturare in ciascuno le caratteristiche necessarie a esercitare nel ruolo di Comandante una leadership convincente ed efficace (essere). Ciò viene perseguito con l’azione continua e costante dell’intera linea di comando integrata da nozioni ed esercitazioni specialistiche opportunamente ideate e condotte dalla sub-agenzia di socio-psicologia e comunicazione ovvero da qualificati interventi esterni appositamente strutturati in conferenze e briefings. Adeguati spazi sono poi dedicati all’erudizione, universitaria e tecnico-professionale, secondo un programma concepito per ampliare e consolidare il bagaglio di conoscenze appropriate al ruolo cui gli insegnamenti sono rivolti (sapere). Lo sviluppo di numerose e diversificate attività pratiche che coinvolgono in gruppo e individualmente Il Capitano Luca Giovangiacomo a colloquio con un Allievo: il dialogo costruttivo con gli Allievi è parte integrante della formazione militare.


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gli Allievi ne stimolano la partecipazione attiva, mirando a far acquisire specifiche capacità e a spronare l’intima volontà di migliorarsi (saper fare). Infine, una fase specialistica, collocata al termine del ciclo formativo e rivolta ai neo Marescialli appena assegnati alle Armi/Corpi/Specialità di prossimo impiego, che presso i rispettivi Comandi/Scuole/Centri svolgeranno specifici corsi per acquisire le conoscenze e le capacità necessarie per ben operare quando l’esperienza

Sopra. Una lezione di nuoto. A sinistra. Attività sportiva sul campo di atletica.

ne completerà la loro professionalità (saper fare bene). Quest’ultima, infatti, matura necessariamente nel tempo, e si persegue attraverso un processo autonomo di apprendimento continuo, nella consapevolezza che il ruolo di leader e di Comandante di minori unità è necessariamente correlato ai migliori valori militari e a conITER FORMATIVO DI BASE DEI MARESCIALLI DELL’ESERCITO ITALIANO Tab. B CONCORSO DI ARRUOLAMENTO RUOLO MARESCIALLI DELL’E.I. - SPECIALIZZAZIONI COMANDO

SANITÀ

ALLIEVI MARESCIALLI PRESSO LA SCUOLA SOTTUFFICIALI DELL’ESERCITO IN VITERBO

1° ANNO

FASE FORMATIVA COMUNE – OBIETTIVO: FORMAZIONE DEL LEADER COMANDANTE DI MINORE UNITÀ LIVELLO SQUADRA Studi universitari (1° anno di Scienze Organizzative e Gestionali), acquisizione di specifiche conoscenze e conseguimento di relative capacità tecnico-professionali inerenti la leadership e l’impiego di minori unità – livello squadra FASE FORMATIVA DISTINTA PER SPECIALIZZAZIONE

2° ANNO

PRESSO LA SCUOLA SOTTUFFICIALI DELL’ESERCITO IN VITERBO

PRESSO LA SCUOLA DI SANITÀ E VETERINARIA DELL’ESERCITO IN ROMA

Studi universitari (2° anno di Scienze Organizzative e Gestionali), studio intensivo della lingua inglese e JFLT, acquisizione di specifiche conoscenze e conseguimento di relative capacità tecnico-professionali necessarie al LEADER COMANDANTE DI MINORI UNITÀ – LIVELLO PLOTONE DI BASE

Studi universitari (1° anno di Infermieristica), acquisizione di specifiche conoscenze e competenze specialistiche finalizzate ad operare l’esercizio della professione quali responsabili dell’assistenza generale infermieristica nell’ambito dell’organizzazione sanitaria militare

ESAME FINALE E NOMINA AL GRADO DI MARESCIALLO Studi universitari (3° anno di Scienze Organizzative e Gestionali)

3° ANNO

Completamento della formazione tecnico-professionale CORSO D’ARMA/SPECIALITÀ presso i rispettivi COMANDI/SCUOLE/CENTRI

Studi universitari (2° anno di Infermieristica)

TESI DI LAUREA ASSEGNAZIONE AI REPARTI D’IMPIEGO Studi universitari (3° anno di Infermieristica)

4° ANNO

TESI DI LAUREA ASSEGNAZIONE AI REPARTI D’IMPIEGO

cetti quali la dignità individuale e il desiderio di voler fare bene. In tabella A, è sinteticamente esposto l’inquadramento concettuale appena descritto con alcuni riferimenti relativi alle attività specifiche più significative. L’Allievo consegue, quindi, il grado di «Maresciallo» al termine di due anni di corso, quando avrà completato la fase di preparazione tecnicoprofessionale che lo renderà idoneo al comando di un’unità di livello plotone. L’iter di base si conclude con la frequenza del 3° anno durante il quale, in funzione dell’Arma/Specialità d’assegnazione, i neo-Marescialli della specializzazione «comando» completano la propria preparazione tecnico-professionale prima dell’afflusso ai reparti, frequentando appositi corsi presso i Comandi/Scuole/ Centri d’Arma/Specialità. Al contempo, concludono gli esami universitari previsti dal 3° modulo universitario e predispongono la tesi di laurea di 1° livello in «Scienze Organizzative e Gestionali». Al termine del primo anno in comune, gli Allievi assegnati alla specializzazione «sanità» sono trasferiti alla Scuola di Sanità e Veterinaria dell’Esercito in Roma dove affrontano il corso di laurea triennale in «Infermieristica». L’iter così strutturato conferisce agli Allievi Marescialli:


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SPECIALE

Rivista Militare

• conoscenze e capacità necessarie ad assolvere la funzione di Comandante di squadra di base (1° anno) e di plotone di base (2° anno) con attenzione particolare nel maturare la capacità d’istruttore di uomini; • corretta «forma» militare; • adeguata condizione fisica;

livello plotone nelle diverse situazioni operative. Per lo svolgimento di questo intenso programma, la Scuola utilizza i poligoni e le aree addestrative disponibili nel Lazio ma anche in altre regioni del territorio nazionale e dispone di moderni ausili didattici, aule e simulatori di tiro e attrezzatu-

dell’Allievo Maresciallo in quanto, unitamente al primo ciclo di discipline universitarie, gli Allievi prendono parte a numerose attività teorico-pratiche relative a varie discipline tecnico-militari in cui vengono consolidate uniformemente le loro conoscenze e stimolata la propensione individuale alla leadership. A partire dal mese di giugno, inoltre, gli Allievi sono avviati a una fase intensiva di attività pratiche fuori sede, dal «corso di paracadutismo» al «Campo addestrativo» di 4 settimane, per perfezionare, mediante un ciclo di esercitazioni in bianco e a fuoco, le capacità a operare, quali leaders, in unità elementari dell’Arma Base fino a

A sinistra. Una lezione nel laboratorio linguistico. Sotto. Allievi Marescialli in Palestra.

• conoscenza generale delle caratteristiche, dei compiti, delle procedure e delle modalità d’impiego delle unità fino a livello reggimento; • capacità d’impiego dei sistemi d’arma e degli equipaggiamenti in dotazione; • capacità di operare adeguatamente in ambiente montano; • conoscenza della lingua inglese (acquisizione di un livello JFLT pari a L2, R2, W2, S2); • abilitazione al lancio con il paracadute (con la tecnica della «fune di vincolo»); • qualifica di pattugliatore scelto; • abilitazione alla guida degli autoveicoli militari; • qualifica di istruttore/aiuto istruttore militare di educazione fisica. Le attività militari, teoriche e pratiche, si sviluppano in maniera progressiva e costante secondo un criterio di coinvolgimento personale progressivo nell’arco del triennio di corso: dalle nozioni basilari a livello individuale, fino al raggiungimento delle capacità d’impiego di unità a

re di ardimento necessarie per l’addestramento e la valutazione degli Allievi. Il 1° anno di corso rappresenta la fase formativa comune per entrambe le specializzazioni (comando e sanità) e si compone del 1° modulo universitario, del 1° modulo tecnico professionale e del 1° modulo comando. Esso rappresenta un momento complesso e fondamentale nella formazione di base

livello squadra. In sostanza il 1° anno costituisce la fase più intensa sotto l’aspetto psico-fisico, ove è fortemente sperimentata soprattutto la spinta motivazionale degli Allievi i quali sono progressivamente indotti a operare e a condurre esercizi pratici sotto stress e sforzo fisico. Al termine del 1° anno agli Allievi vengono attribuite le rispettive specializzazioni. I frequentatori asse-


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gnati alla specializzazione «comando» proseguiranno l’iter presso la SSE mentre quelli destinati alla specializzazione «sanità» vengono trasferiti alla Scuola di Sanità e Veterinaria dell’Esercito di Roma per proseguire l’iter orientato alla formazione degli Infermieri professionali. L’attività del 2° anno è, per la specializzazione comando, inizialmente orientata allo svolgimento del 2° modulo universitario e al perfezionamento della conoscenza della lingua inglese. In particolare, per quanto riguarda l’inglese, gli Allievi seguono un corso intensivo della durata di tre mesi al termine del quale sono sottoposti al Joint Forces Language Test (JFLT) a cura della Scuola Lingue Estere dell’Esercito per attestare ufficialmente il grado di conoscenza della lingua raggiunto. La seconda parte dell’anno è, invece, dedicata principalmente allo svolgimento di specifici corsi di qualificazione in attività operative particolari - Operazioni di Risposta alle Crisi, Combattimento nei centri abitati e Corso di pattugliatore scelto. A questi si aggiunge un «Campo addestrativo» di 4 settimane, per perfezionare, mediante un ciclo di eserci-

Allievi sostengono un test sugli esplosivi.

tazioni in bianco e a fuoco, le capacità degli Allievi a operare, quali leaders, in unità elementari di base a livello plotone. Al termine del 2° anno è previsto l’esame di immissione in ruolo per il conseguimento del grado di Maresciallo e la successiva assegnazione alle Armi/Specialità

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dell’Esercito a cura di SME-DIPE. L’attività del 3° anno è svolta fino a dicembre presso la SSE per lo sviluppo dell’ultimo modulo universitario e, a partire dal mese di gennaio, l’iter prevede l’assegnazione presso i Comandi/Scuole/Centri d’Arma e Specialità dell’Esercito al fine di acquisire l’idoneità al comando del plotone dell’Arma/Specialità/Corpo di assegnazione (Fanteria, Cavalleria, Artiglieria, Genio, Trasmissioni, Trasporti e Materiali). Comunque, la Scuola Sottufficiali dell’Esercito, responsabile dell’iter formativo nel suo complesso, supervisiona le attività affinché siano garantiti, da un lato, la continuità del ciclo formativo e, dall’altro, i necessari collegamenti con l’Università della Tuscia in relazione alla fase finale di studi relativa all’elaborazione delle tesi. Prima di essere assegnati ai reparti, i Marescialli saranno convocati presso la SSE per la consegna delle Lauree. I grafici in figura 1 evidenziano, in termini percentuali e per ciascun anno di corso, quale sia la distribuzione del totale dei periodi di cui si compone ciascun anno accademico in relazione alle quattro «macro attività» indicate in legenda. Esse racchiudono, complessivamente, il totaFig. 1


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le delle attività didattiche e pratiche che si svolgono presso la Scuola. Dall’analisi dei dati in esame emerge chiaramente come il tempo dedicato alla componente tecnico-professionale sia sempre preponderante rispetto alle altre aree d’insegnamento considerate. Ciò è plausibile in ragione del ruolo considerato e degli specifici compiti peculiari che ad

Sopra. Una lezione universitaria. A destra. Un Allievo Maresciallo sostiene un esame sulle procedure radio.

esso competono. Peraltro, gli spazi dedicati alle altre aree risultano commisurati al conseguimento dei rispettivi obiettivi didattici. CONCLUSIONI La missione, assegnata alla Scuola Sottufficiali dell’Esercito, di provvedere alla formazione dei Marescialli dell’Esercito Italiano, rappresenta un obiettivo importantissimo per l’intera Forza Armata. La centralità del ruolo di Comandante di plotone per l’efficacia dello strumento militare è stata ampiamente confermata dalle operazioni che la Forza Armata ha sostenuto e sta sostenendo da circa un ventennio in diversi teatri operativi, fuori area come sul territorio nazionale. Ovunque siano intervenute unità dell’Esercito, è risultato determinante il ruolo di chi è stato posto alla guida delle forze schierate

Il lancio con paracadute.

sul terreno, spesso piccole formazioni operative, capaci di interpretare con intelligenza, maturità, equilibrio e professionalità gli ordini ricevuti portando a compimento missioni in condizioni spesso molto difficili. La Scuola Sottufficiali dell’Esercito lavora per realizzare programmi che siano sempre più aggiornati e aderenti alle reali necessità di conoscenza di professionisti capaci e competenti. In linea con i principi della formazione rivolta agli adulti e coerente-


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demico, forniscono agli Allievi un’ampia piattaforma formativa che contribuisce significativamente ad accrescere il panorama di contenuti e di riflessioni, attraverso cui i Marescialli maturano quella sensibilità culturale importantissima anche ai fini dell’impiego. In sintesi, la sfida più impegnativa consiste nel riuscire a realizzare programmi e attività che, attraverso un costante aggiornamento, siano di stimolo alla crescita delle professionalità individuali, passaggio fondamentale per la crescita dell’intera organizzazione. La consapevolezza che il ruolo formale di Comandante, attribuito con il conseguimento del grado di Maresciallo, non potrà mai avere senso compiuto senza la

Addestramento tecnico-tattico.

mente agli obiettivi di crescita dell’Istituzione, ogni attività viene concepita affinché risponda a questi requisiti. A tale riguardo risulta essere determinante il cosiddetto «processo di osmosi». Definito dallo Stato Maggiore dell’Esercito in relazione alla politica d’impiego del personale, esso consente d’inserire tra i Quadri dell’Istituto personale, Ufficiali e Marescialli provenienti dall’area operativa, le cui recenti esperienze lavorative contribuiscono a mantenere aderente alla realtà il sistema formativo. Per contro la permanenza presso l’Istituto consentirà agli stessi di poter usufruire di alcune opportunità importanti di crescita professionale tra le quali quella di poter frequentare corsi intensivi di inglese e poter così sostenere il JFLT. Inoltre, la continua ricerca di opportunità di conoscenza per tramite di vissuti professionali significativi e concreti viene perseguita e conseguita integrando le lezioni con conferenze e briefings tenuti da persona-

le qualificato proveniente dalle più recenti esperienze d’impiego della Forza Armata. Le collaborazioni, poi, con l’Università della Tuscia, giunta oggi a elevati livelli d’integrazione, e con altre organizzazioni del mondo istituzionale e acca-

Sopra. Il Generale di Corpo d’Armata Giuseppe Emilio Gay durante la cerimonia di consegna dei gradi. A sinistra. Il giuramento di una neo Maresciallo.

necessaria autorevolezza che lo stesso Comandante deve essere in grado di suscitare nei propri dipendenti, costituisce il punto di riferimento per orientare tutti gli sforzi della Forza Armata che, per tramite della Scuola Sottufficiali dell’Esercito, forma i leaders delle minori unità. Flavio Lauri Tenente Colonnello, Capo Ufficio Coordinamento Didattico presso la Scuola Sottufficiali dell’Esercito


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INTERVISTA AL GENERALE DI DIVISIONE ROBERTO RANUCCI, COMANDANTE DELLA SCUOLA SOTTUFFICIALI DELL’ESERCITO

QUALITÀ NELLA FORMAZIONE L’elevata valenza operativa, nonchè l’esperienza di comando acquisita nel corso degli anni, hanno portato il Generale Ranucci a ricoprire incarichi di prestigio, tra cui il comando della Brigata «Ariete» nel difficile e imprevedibile contesto del Teatro iracheno e attualmente il comando della Scuola Sottufficiali dell’Esercito. Oggi, con quest’ultimo incarico, egli ha raccolto la sfida per una preparazione poliedrica, funzionale e flessibile del Sottufficiale dell’Esercito, Comandante di uomini capace di interagire a livello interarma e internazionale.

Signor Generale, nell’ultimo decennio l’Esercito ha subito una serie di trasformazioni, si è spesso parlato anche di un’Accademia preposta alla formazione dei Marescialli, cosa implica l’uso di questa terminologia e qual è il compito che oggi la Scuola assolve? In realtà, la denominazione corretta è tuttora Scuola Sottufficiali dell’Esercito; nel 1998, infatti, a seguito delle radicali trasformazioni che hanno caratterizzato la nostra Forza Armata e in virtù dei nuovi compiti assegnati dallo Stato Maggiore dell’Esercito, l’Istituto ha assunto que-


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st’ultima denominazione. Ciò ha comportato una grande evoluzione; con l’avvio del 1° corso Allievi Marescialli, l’Istituto è diventato responsabile della formazione dei Sottufficiali destinati a diventare Comandanti di Plotone di tutte le unità operative e logistiche dell’Esercito. Pertanto, suppongo che l’appellativo «Accademia» sia unicamente connesso con la valenza degli aumentati obiettivi formativi assunti dall’Istituto.

Frequentare l’Accademia, oggi come nel passato, significa appartenere a

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Sopra. La cerimonia del cambio del Comandante della Scuola Sottufficiali dell’Esercito tra il Generale di Corpo d’Armata Vladimiro Alexitch e l’attuale Comandante, Generale di Divisione Roberto Ranucci. Nella pagina a fianco. Un momento dell’intervista. A destra. Il Generale Ranucci già Comandante della Brigata «Ariete» in Iraq. Sotto a sinistra. I vincitori del concorso affluiscono presso la Scuola Sottufficiali dell’Esercito.

una élite selezionata e prestigiosa, severamente istruita e addestrata a svolgere con professionalità i compiti militari che il Paese le affida. Come vi preparate a questa sfida? La Scuola ha operato, e opera tuttora per qualificare i giovani Allievi quali futuri «Comandanti di Uomini» (nel senso lato della parola), con l’obiettivo di sviluppare le capacità decisionali specifiche del ruolo. Ciò avviene fornendo loro una preparazione di alto profilo che coniuga una didattica di livello universitario -

assicurata dalla stretta collaborazione con le Università degli Studi della Tuscia a Viterbo e di Tor Vergata a Roma - unita a un impegnativo programma di attività militari, ove spiccano diversi campi addestrativi e le attività aviolancistiche.


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Sopra. La cerimonia del passaggio della stecca. A sinistra. Una lezione di spagnolo.

È necessario formare il personale militare ad affrontare i suoi impegni in linea con il momento storico in cui opera. Ciò è dettato essenzialmente dalla imprevedibilità degli scenari che ci si trova ogni giorno ad affrontare nelle moderne operazioni militari. Lei è d’accordo con questa affermazione? I moderni scenari asimmetrici richiedono un elevato grado di autonomia decisionale ai minori livelli ordinativi. Oggi, e nel prossimo futuro, la valorizzazione e lo sviluppo del potenziale umano rappresentano l’obiettivo prima-


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rio cui tendere, attraverso la formazione di soldati culturalmente preparati, coscientemente motivati e consapevoli del proprio ruolo. In tale quadro gli strumenti operativi fondamentali sono le risorse tecnologiche e il bagaglio culturale/professionale del personale. In quest’ottica è stata inserita nell’iter formativo la nuova materia «Elementi di geopolitica applicata alle Operazioni militari», che orienta i futuri «Comandanti», sulle diversità culturali che «incontreranno» durante le missioni internazionali. In definitiva, alla preparazione tecnico-professionale deve corrispondere un’adeguata sensibilità culturale per ben interpretare il ruolo assegnato alla Forza Armata nei nuovi contesti operativi, caratterizzati da diradamento dei dispositivi e da una minaccia ancora più imprevedibile e immanente.

di carattere tradizionale, storico ed ambientale che, presenti nell’attività dei giovani frequentatori, contribuiscono gradualmente, senza condizionarli, al completamento della loro personalità. I riti che punteggiano la giornata degli Allievi, le usanze che si ripetono nel tempo costituiscono uno stile di vita che si

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proietta nel futuro conservando la peculiare identità dell’Istituzione militare. In questo contesto, l’insegnamento dell’etica militare quale valore assume e come viene trasposta nei giovani frequentatori? Con l’insegnamento dell’etica militare, che da sempre si basa sui valori e sui prin-

Nel delicato processo formativo concorrono, quindi, diversi fattori Sopra. Una panoramica aerea della Scuola Sottufficiali dell’Esercito. A sinistra. La Campana del Dovere.

cipi della condotta di un buon soldato, ogni Allievo acquisisce un codice comportamentale improntato ai valori fondamentali di Patria, onore, dignità, responsabilità, senso del dovere e della disciplina. Con questo insegnamento, nel giovane Allievo viene fatta maturare l’intima e consapevole adesione spirituale ad uno stile di vita particolare, qual è appunto quello militare, che trova i suoi modelli ideali nelle gesta e nelle tradizioni di chi ci ha preceduto.

Lo strumento militare ha subito negli ultimi quindici - venti anni una profonda trasformazione per quanto riguarda il numero e la composizione del suo personale. La trasformazione è avvenuta seguendo due dimensioni: quella quantitativa e quella qualitativa. Dal


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punto di vista qualitativo, quanto ha inciso il dialogo con l’Università nella formazione del Maresciallo? La collaborazione e il dialogo con l’Università degli Studi della Tuscia di Viterbo e di Tor Vergata a Roma hanno inciso e incidono molto nella formazione del futuro Maresciallo; esse mettono a disposizione un qualificato corpo docenti che, attraverso lo svolgimento di un impegnativo programma di studi, permette all’Allievo di conseguire - al termine del terzo anno dell’iter formativo - la Laurea di 1° livello in «Scienze Organizzative e Gestionali», per il personale che sceglie la specializzazione «comando» e la Laurea di 1° livello in «Infermieristica» per gli Allievi che scelgono la specializzazione «sanità». Conseguentemente, l’osmosi con i citati Atenei consente una qualificazione culturale di tutto rispetto, che, come ho già detto, contribuisce all’assolvimento della missione assegnata, soprattutto nei contesti all’estero, ove il rispetto delle tradizioni e delle culture delle

popolazioni locali costituiscono alcuni degli elementi fondanti per il successo della missione stessa.

Signor Generale, quale primo responsabile di questo nobile Istituto, ci può dire come si riesce, in un periodo di scarsità di risorse economiche, ad armonizzare e assolvere al compito affidato? Quali sono gli «accorgimenti» che hanno consentito/consentono il raggiungimento di tutti gli obiettivi? Benché le risorse disponibili siano ultimamente divenute più limitate, la formazione rimane una priorità nell’ambito della Forza Armata. Grazie alle risorse comunque disponibili, con una oculata e approfondita gestione riusciamo ad armonizzare le stesse e ad assolvere i compiti affidatici avendo sempre chiari gli obiettivi da raggiungere. Il tutto avviene razionalizzando tempi e risorse ma anche attraverso programmi mirati che permettano di ottenere comunque il

Una conferenza sulla Pubblicistica Militare tenuta agli Allievi Marescialli dal Direttore di «Rivista Militare», Generale di Brigata Marco Ciampini.

massimo risultato possibile. La professionalità, il sacrificio, l’iniziativa e l’unicità di intenti sono «strumenti» necessari per poter raggiungere, ogni anno, gli obiettivi formativi dell’Istituto.

Il militare è da sempre portato a «prevedere e pianificare». Come immagina il futuro del Sottufficiale della nostra Forza Armata, anche in relazione a quanto stanno facendo i principali Eserciti europei? Nel futuro, il Sottufficiale formato in questo Istituto sarà perfettamente in grado di assolvere ai compiti che l’Istituzione gli affiderà; egli, infatti, attraverso la frequenza di un iter di preparazione complesso e prolungato, entra in possesso di tutti gli strumenti


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professionali per poter assolvere al meglio il delicato incarico di Comandante di Plotone, funzione essenziale nelle moderne operazioni militari. Successivamente, nel corso della loro carriera professionale i Marescialli svolgono sempre presso la Scuola Sottufficiali un’altra importante fase di formazione avanzata, che consente loro di essere reimpiegati dopo il periodo di Comando quali addetti di specifiche branche funzionali nei Comandi/Staff a vari livelli. Pertanto, questa figura, che mi piace definire quale «young leader», è sempre più importante negli attuali contesti d’impiego e ritengo che continuerà ad avere un ruolo di primo piano anche in futuro. Non a caso, tenuto anche conto dei peculiari compiti che la Forza Armata ha attribuito ai propri Marescialli, l’Esercito Italiano dedica alla formazione dei propri Sottufficiali maggiori risorse rispetto a molti degli Eserciti dei Paesi Alleati con i quali normalmente si coopera e ci si confronta negli attuali scenari operativi.

Vite rbo è se mpre stata culla di tra diz ioni militari importanti. La Scuola è parte integrante di questa realtà. Quali sono, a Suo avviso, le relazioni e il livello di integrazione dei giovani Allievi e dell’Istituto nel contesto viterbese? Ritengo che il livello di integrazione della Scuola Sottufficiali con la città di Viterbo, che la ospita dal 1965, sia ottimo. Anche in occasione di particolari momenti della vita dell’Istituto, come le cerimonie connesse con il termine del ciclo formativo, gli Allievi hanno dato vita a importanti eventi che hanno ulteriormente rafforzato il rapporto tra il tessuto cittadino e l’Istituto. Quest’ultimo, infatti, soprattutto negli ultimi anni, ha realizzato una serie di manifestazioni ed eventi che hanno dato modo agli Allievi Marescialli di farsi conoscere dai cittadini della Tuscia, trasmettendo loro il proprio spirito, i propri ideali e i propri valori. Per fornire qualche recente esempio,

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posso menzionare la cerimonia del Giuramento, alla presenza di cittadini e studenti viterbesi, la gara podistica «StraViterbo», il cui ricavato viene devoluto ad una Associazione Onlus, impegnata da molti anni nella prevenzione del tumore al seno, le iniziative relative al 150° Anniversario dell’Unità Nazionale intraprese in collaborazione

Campana del Dovere, che ricorda quotidianamente la via dell’impegno senza riserve, della dedizione e della responsabilità ai quali dedicare ogni risorsa mentale e fisica. La Campana del Dovere rappresenta, per gli Allievi degli Istituti di Formazione, il simbolo dei valori etici e dell’impegno insito nei doveri della condizione militare e segnatamente quella

con il locale Archivio di Stato, sono alcuni degli eventi attraverso i quali la Scuola Sottufficiali ha promosso sul territorio la sua immagine e quella dell’Esercito, consolidando i già ottimi rapporti con la cittadinanza e le Istituzioni locali e raggiungendo così un elevato grado di visibilità.

Un Allievo in addestramento notturno di topografia durante il campo d’arma a Tauriano.

La Campana del Dovere ha rappresentato, per noi Ufficiali che abbiamo frequentato l’Accademia di Modena, il simbolo della ripresa delle attività e il duro monito all’impegno totale in tutte le attività del nuovo anno accademico. Come vivono i giovani Allievi questo momento suggellato dai rintocchi della campana? Anche gli Allievi Marescialli, durante la cerimonia dell’Alzabandiera, seguono un rituale consolidato nel tempo nel quale, tra l’altro, sono inseriti i rintocchi della

dell’Allievo, il cui compito è quello di preparasi con rigore alle sfide di domani. Per ribadire i positivi rapporti con la cittadinanza, evidenzio che la «nostra» Campana, collocata a margine del Piazzale Medaglie d’Oro, fu donata dal Comune di Viterbo il 2 luglio 2005, in occasione del 40° Anniversario dell’insediamento della Scuola Sottufficiali nella Città della Tuscia divenendo, così, il simbolo del riconfermato patto inscindibile tra la Città e i suoi uomini e donne con le stellette.

Signor Generale, in passato Lei è stato Comandante in difficili contesti operativi alla guida della prestigiosa Brigata Corazzata «Ariete». Alla luce della Sua esperienza di comando, come vede la figura del


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Sopra. Imbarco di Allievi su un C-130 della 46a Brigata aerea per il lancio con il paracadute. A destra. La cerimonia del Giuramento.

Maresciallo Comandante di plotone calato nella realtà operativa anche in ambiti così complessi come quelli che Lei ha vissuto? I Comandanti ai minori livelli sono sempre stati indispensabili alla condotta delle attività d’impiego operativo. Per altro, nei nuovi scenari già delineati, soprattutto in ragione del diradamento dei dispositivi, l’autonomia decisionale ai livelli considerati è sempre più sentita. In siffatto contesto,

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è indispensabile che i Comandanti di Plotone «young leaders» siano in possesso di spirito d’iniziativa, senso di responsabilità, preparazione «a tutto campo» e adeguato livello culturale per garantire il conseguimento della missione assegnata e la sicurezza del personale interessato.

I giovani Marescialli hanno dimostrato di saper operare anche nei contesti più difficili; sono in possesso della capacità necessaria per affrontare con consapevole responsabilità gli impegni e gli

La consegna delle Lauree.

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Una lezione di tiro al simulatore FATS (Fire Arms Training System).

oneri connessi con il loro delicato incarico. L’iter formativo dedicato alla loro preparazione di base è costantemente «manutenzionato» presso il mio Istituto affinché i Marescialli così «licenziati» riuniscano al meglio i requisiti necessari per le esigenze dei reparti operativi. Come già accennato, l’Esercito Italiano ha fatto a suo tempo una scelta importante investendo molto - più di ogni altro Esercito dei Paesi Alleati o amici - su questa importante figura di Comandante e, stando ai risultati sinora conseguiti, siamo sicuri di essere sulla buona strada e anche orgogliosi del lavoro svolto.

Signor Generale, grazie. La «Rivista Militare» augura a Lei e ai suoi Quadri un buon lavoro e ai giovani Allievi ogni possibile soddisfazione personale e professionale. (a cura di) Marco Ciampini Generale di Brigata, Direttore di «Rivista Militare»


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UNIVERSI PARALLELI PARALLELISMI TRA FORZE ARMATE E MONDO IMPRENDITORIALE QUADRI MILITARI E MANAGEMENT D’IMPRESA A CONFRONTO In una realtà e un mercato globale sempre più interconnessi e complessi, che hanno segnato nell’ultimo biennio uno dei periodi più difficili per l’economia mondiale dal secondo dopoguerra, alcune aziende italiane si stanno attrezzando per una profonda ristrutturazione in termini di organizzazione e logica produttiva. Infatti, se la crisi economica ha colpito, e fortemente, molte realtà imprenditoriali, diversi managers si sono impegnati affinché la crisi diventasse un’opportunità di evoluzione del loro essere imprenditori e delle loro aziende. In questo modo una congiuntura prettamente passiva, la crisi, è diventata impulso per una forte dinamica attiva. La dimensione sempre più internazionale del mercato, in termini sia di domanda che di offerta, costringe a una profonda rivisitazione delle logiche aziendali incentrate verso una più attenta pianificazione, flessibilità, informazione al fine di incrementare i tassi di produttività e di competitività delle strutture. La vecchia figura del manager tuttofare cede sempre più il passo a una nuova dimensione di imprenditore, la cui abilità non risiede solo nel sapere governare i propri dipendenti, ma nel motivarli; non solo nell’esigere il massimo dal proprio staff, ma nel formarlo e legittimarlo; non solo nel prendere tutte le decisioni chiave per la vita aziendale, ma nel sapere delegare rendendo flessibile

e veloce la propria organizzazione. Lo studio dei parallelismi e delle analogie che legano il mondo imprenditoriale e quello militare non è nuovo; da Sun Tzu a Clausewitz per non parlare di numerose conferenze in cui Ufficiali delle Forze Armate con esperienza di comando sono invitati a dare testimonianza della loro esperienza riguardo l’organizzazione e gestione delle risorse uomini, mezzi e materiali. In alcuni Paesi come gli Stati Uniti il rapporto tra imprese e militari è assai stretto e sinergico, con diverse aziende che scelgono personale proveniente dalle Forze Armate per ruoli chiave all’interno dei propri organici. Tuttavia è indubbio che, dopo l’11 settembre e il conseguente mutamento della politica internazionale e degli scenari operativi in cui le Forze Armate si sono trovate ad operare, questi parallelismi e analogie si sono moltiplicati e resi sempre più profondi. Concentrandosi per un momento sul panorama nazionale, è certo che, partendo con la riorganizzazione delle Forze Armate su base volontaria fino alle esigenze operative che i nuovi teatri in cui i nostri soldati vengono inviati richiedono, si sia assistito a un mutamento radicale nell’ultimo decennio soprattutto in due aspetti: organizzazione e formazione. Concentrandosi sulle dinamiche in-

terne all’Esercito Italiano, nell’ultimo decennio si è assistito a un processo estremamente veloce di riassestamento, con due aspetti principali che si influenzano reciprocamente: se, infatti, il passaggio da un Esercito di leva a uno solamente di professionisti ha comportato una riduzione degli organici, compensata da una maggiore qualità nella formazione degli stessi (organizzazione e formazione) e da nuovi equipaggiamenti, così le missioni nei


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nuovi teatri operativi hanno fornito nuovi input che si sono concretizzati in esigenze che la Forza Armata ha soddisfatto attagliando la formazione specifica del proprio personale e adattando la struttura in termini di organizzazione per fronteggiare condizioni e logiche diverse e spesso non convenzionali. In tal modo, l’Esercito Italiano si è dovuto attrezzare per conseguire un mutamento radicale in uno scenario complesso, ad alta esposizione me-

diatica, caratterizzato da necessità di politica internazionale in un contesto di risorse temporali ed economiche sempre più ridotte. La crisi economica dell’ultimo biennio ha creato per le imprese italiane condizioni simili a quelle di un moderno campo di battaglia con competitors internazionali spesso poco conosciuti, informazioni non sempre precise e dettagliate e risorse esigue in cui il fattore tempo diventava sempre più assente.

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Una foto di gruppo di giovani managers e militari impegnati in un addestramento antirapimento.

In un tale scenario, sia nell’Esercito che nelle aziende, l’elemento determinante è risultato l’individuo: sia che operi da singolo che in team. L’imprenditore, così come l’Ufficiale, si è trovato a operare in un contesto in cui la propria abilità nel circondarsi e nel crescere uno staff pre-


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Un briefing in aula con il Tenente Colonnello Albamonte.

parato, motivato e con effettivo potere decisionale è risultato essere uno dei fattori più importanti per affrontare le sfide che lo scenario internazionale ha posto. La tecnologia, che in molte aziende così come in alcune dottrine militari (Rumsfeld) doveva rappresentare la risorsa più importante, è stata necessariamente ricondotta a un fattore di ausilio, moltiplicatore delle potenzialità della risorsa umana. Con tali premesse è nato in Italia un percorso organico di collaborazione tra mondo imprenditoriale ed Esercito Italiano, grazie alla partecipazione del Comando delle Forze Operative Terrestri, dal titolo «Oltre la crisi. La leadership creativa». A tale percorso realizzato da ICEPINT (Istituto per la Cooperazione Econo-

mica e la Politica Internazionale) in collaborazione con il Centro di Formazione Manageriale di Verona OpenUp by Cassiopea partecipano managers provenienti dal territorio veneto e lombardo; imprenditori giovani (tra i 27 ed i 40 anni) che grazie all’ausilio di Ufficiali dell’Esercito e di formatori manageriali dibattono su temi come: etica, leadership, riduzione degli sprechi, stress management, comunicazione e team building. Spesso questi giovani managers vivono, inoltre, nelle loro aziende quello che viene definito «passaggio generazionale»: passaggio di competenze dal vecchio al nuovo management. L’interesse suscitato negli imprenditori dal confronto con gli Ufficiali dell’Esercito è stato davvero notevole soprattutto quando si è dibattuto sulle doti del leader, il senso di appartenenza e la capacità di dele-

gare l’azione di comando pur mantenendo accentrata la responsabilità del comando stesso. Fernando Toppetta, formatore manageriale tra i più brillanti sul panorama nazionale e direttore del personale della Linz Electric afferma a riguardo che l’assetto organizzativo tipico delle imprese è normalmente costituito da: • line: es. gli operai; • line management: capi reparto e/o capi linea; • middle management: quadri responsabili di funzione, es. responsabile acquisti, sicurezza, area manager commerciali; • top management: dirigenti responsabili di aree strategiche aziendali, es. direttore personale, direttore produzione, direttore commerciale. Il parallelismo con l’Esercito è molto stretto perché in quel caso sulla line abbiamo il personale di truppa,


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il line management parte dai Comandanti di squadra per giungere fino alla categoria dei Marescialli, il middle management comprende la categoria dei Marescialli inglobando anche gli Ufficiali inferiori (Sottotenente, Tenente e Capitano) fino al grado di Maggiore. Dal grado di Tenente Colonnello in poi, qualora questo personale ricoprisse incarichi di comando, abbiamo il top management. Tanto più un’organizzazione è strutturata in funzione piramidale/verticistica tanto più vengono rinforzate le funzioni di controllo; tanto più il modello organizzativo tende ad appiattirsi tanto più vengono spinte le funzioni di delega verso il basso. Ne emerge, quindi, che ogni organizzazione deve trovare il proprio equilibrio organizzativo e gestire queste due variabili in funzione dello scenario nel quale si trova a operare e della conseguente flessibilità d’impiego che le è richiesta. Non è tanto importante, quindi, il numero dei livelli gerarchici che poniamo all’interno del nostro modello ma la considerazione di come questo numero possa influire sui processi di comunicazione/controllo e di quanto potere decisionale (delega) sia realmente investito in ogni livello. Negli anni, e al variare degli scenari operativi, l’Esercito ha risposto con una contrazione degli organici in favore di un maggior livello di formazione e, quindi, di capacità di gestire deleghe operative da parte del middle management, del management di line e addirittura della stessa line. Questo fenomeno è stato legato alla necessità di redistribuire risorse economiche e materiali che nel tempo non hanno subito incrementi ... anzi, ma parimenti anche al variare della minaccia di guerra su scenari diametralmente opposti a quanto preventivato nel periodo della Guerra fredda. Il mondo delle imprese, nei fatti, non ha ancora appieno compreso la valenza strategica dell’assetto orga-

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nizzativo. Si trova spesso in contraddizione con se stesso propugnando la necessità di un maggior coinvolgimento della struttura nei processi di delega ma non rinunciando a mantenere un forte presidio di direttività centrale a ogni livello di attività. Il risultato è che spesso assistiamo a grandi organizzazioni che tendono ad affrontare i nuovi scenari legati alla globalizzazione con gli stessi schemi di un Esercito di epoca prenapoleonica. Troppo spesso, infatti, il moderno top manager, dall’alto della sua collina, tende ad accentrare a sè tutte le decisioni e a cercare di mantenere il controllo di ogni evento ma, come già Clausewitz ci insegnava, su ogni campo di battaglia imperversa la

tinuamente i propri schieramenti alla ricerca costante dell’equilibrio che consenta i massimi rendimenti in termini di efficienza. E oggi, come sempre nella storia, l’unica variabile di sistema che può garantirci tutto ciò è la risorsa umana con la sua infinita capacità di moltiplicare le energie e i risultati. La capacità, quindi, dell’imprenditore-Comandante di costruire un team-staff competente e motivato che faccia da collante con i suoi dipendenti-soldati diventa nevralgica. Accanto a ciò vi deve essere un processo di delega effettiva dal Coman-

cosiddetta «fog of war» che limita la visione e impedisce al Generale di «vedere» e tenere sotto controllo tutti gli elementi che in realtà gli sarebbero utili per prendere decisioni. Il risultato di tutto questo si trasforma in ansia e stress da comando per i vertici aziendali che faticano a mantenere allineata l’organizzazione verso i suoi obiettivi al variare degli scenari di mercato. Il mondo dell’impresa e quello dell’Esercito sono invece accomunati, oggi più di ieri, dalla necessità di ridefinire con-

dante-imprenditore verso il proprio middle management. Al Comandanteimprenditore spetta definire con chiarezza la mission e la vision e i criteri generali in base ai quali i compiti assegnati devono essere svolti; il leader deve poi motivare il proprio staff, renderlo partecipe delle ragioni che guidano le proprie decisioni affinchè lo staff sappia trasferire a cascata verso i livelli più bassi obiettivi chiari e condivisi, linee d’azione e parametrici etici per assolvere al proprio dovere. Esattamente ciò che

Il Generale Carmine Masiello con, da sinistra, Tiziana Recchia, Mauro Brugnara e Fernando Toppetta.


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IMPRENDITORI PRESSO LA BRIGATA PARACADUTISTI FOLGORE Attività di simulazione di sequestro: l’intento è quello di ricreare forti condizioni di stress in cui fare emergere le doti del leader e le capacità del team. La fase di pianificazione delle attività per arrivare a obiettivi di carattere imprenditoriale è stata accurata e meticolosa. Gli imprenditori sono sempre stati monitorati durante l’attività sia per controllare le dinamiche messe in atto, sia per garantire loro sempre la massima sicurezza. L’esperienza, anche grazie a istruttori altamente qualificati del 9° reggimento d’Assalto «Col Moschin», ha coinvolto moltissimo gli imprenditori che più volte hanno ringraziato l’Esercito, la Brigata Paracadutisti «Folgore» e i loro istruttori per la possibilità concessa, l’attenzione e la professionalità dimostrata.

avviene quando il Comandante in operazioni comunica il proprio intento ai Comandanti subordinati. Secondo questa logica è stata organizzata un’esperienza altamente innovativa per gli imprenditori presso la Brigata Paracadutisti «Folgore». I giovani managers sono stati sottoposti a una simulazione di sequestro con l’intento di ricreare una forte situazione di stress paragonabile alla crisi economica; in tali condizioni gli imprenditori dovevano agire da leader mantenendo e rafforzando i legami del team tra di loro per trasformare una congiuntura passiva (sequestro) in attiva, acquisendo informazioni, anche attraverso il dialogo con i sequestratori, pianificando in maniera speditiva gli obiettivi minimi da raggiungere, ottimizzando le risorse a propria disposizione ed escogitando modalità di comunicazione che permettessero loro di essere efficaci nonostante le condizioni precarie. A cornice di tale attività gli Ufficiali della Brigata Paracadutisti hanno dato testimonianza di cosa voglia dire essere leader nell’Esercito Italiano evidenziando quanto sia importante per il Comandante avere un team coeso, capace e motivato alle spalle come condizione imprescindibile per il successo anche del singolo. Affinchè nella squadra si sviluppi il senso di appartenenza, il leader, a tutti i livelli, deve dedicare attenzione, secondo le parole del Tenente Colonnello Albamonte, Capo di Stato Maggiore della Brigata Paracadutisti «Folgore», a: • disciplina e consapevolezza/accettazione del proprio ruolo nella

struttura; • gestione del morale; • coraggio individuale; • spirito di sacrificio; • senso del dovere; • lealtà; • altruismo; • fiducia/profonda conoscenza reciproca; • mutua e piena collaborazione; • volontà di accettare sfide impegnative; • condivisione delle esperienze ma-

giovani managers si trovano a operare con capi linea o line stessa con esperienza pluriennale e convinzioni ben radicate; così come l’Esercito impiega giovani Ufficiali in team con Sottufficiali e Volontari con diverse missioni alle spalle. Il gap di esperienza tra il leader e il suo staff potrebbe causare numerosi problemi in queste circostanze. Tuttavia, trovarsi a lavorare con un team di persone più esperte può rappresentare per il leader anche un’opportunità: tenendo ben saldo il timone verso la direzione identificata e condivisa dal top management egli potrà lavorare sul morale dei suoi uomini, tralasciando atteggiamenti di tipo eccessivamente direttivo che lo metterebbero in frizione con i suoi subordinati più capaci ed esperti in favore di azioni che mirino a sostenere il commitment del proprio staff. Il leader in azienda e nell’Esercito in presenza nel suo team di uomini con

ASSEMBLEA DI CONFINDUSTRIA VERONA GRUPPO GIOVANI La Presidenza dell’Associazione ha voluto come relatore per il Cinquantesimo anno dalla fondazione del Gruppo il Tenente Colonnello Rodolfo Sganga, Capo Sezione Piani NATO dello Stato Maggiore dell’Esercito insieme ad ospiti prestigiosi come: Francesco Alberoni, sociologo e scrittore; Massimo Marchiori, matematico ed informatico inventore dell’algoritmo alla base di Google; Muhammad Yunus, economista e Premio Nobel per la Pace del 2006. Il Tenente Colonnello Sganga ha parlato del coraggio consapevole come stato non di assenza di paura, ma di gestione della stessa al fine di utilizzarla come fattore che consente, qualora gestita in modo adeguato, di ottimizzare le risorse a disposizione.

turate e dei meriti per i risultati conseguiti. Il leader pertanto, se vuole essere riconosciuto come tale, deve necessariamente dare l’esempio ai suoi uomini, condividerne le situazioni, passare tempo con loro, fidarsi del suo team e legittimare il proprio staff attraverso la delega di particolari funzioni. La congiuntura attuale sia nell’Esercito che nell’impresa impone flessibilità e rapidità nelle decisioni e ha portato a uno schiacciamento della piramide decisionale verso il basso ben rappresentato nell’Esercito dal concetto di strategic corporal (General Charles C. Krulak). Parallelamente si verificano situazioni in cui

alte competenze dovrà, quindi, esercitare dei processi di delega di comando effettiva pur mantenendo centrale la responsabilità del comando stesso. Mettendosi in gioco con i suoi uomini otterrà una squadra unita e coesa, dall’alto spirito di appartenenza e ben disposta a travasare le competenze maturate verso il leader più giovane. Con il passare del tempo e l’aumentare delle proprie competenze sarà il leader stesso a crearsi il proprio team individuando e investendo sulle risorse umane a disposizione. Lavorando sulla formazione e sul morale del suo staff l’Esercito


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come l’impresa potranno, quindi, contare su uomini preparati ad assumere con efficacia processi effettivi di delega di comando, moltiplicando le potenzialità del team stesso. Spesso le aziende obiettano come sia impossibile o difficile, in termini di tempo e risorse, investire sulla formazione delle risorse umane così come investe l’Esercito. Proprio l’Esercito Italiano, invece, ha dimostrato che assegnando priorità elevata alla formazione dei propri quadri in funzione di una profonda ristrutturazione in un contesto di complessità e ristrettezza economica, si possono raggiungere risultati notevoli sul piano nazionale e internazionale. Tiziana Recchia, titolare del Centro di Formazione OpenUp by Cassiopea afferma che «ad oggi è fondamentale che nelle aziende venga potenziato il valore dei legami umani con una crescita dello “spirito imprenditoriale civile”. Come? Ponendo attenzione e definendo i valori guida che determinano i comportamenti di tutte le persone che fanno parte dell’azienda e nei rapporti con gli stakeholders (fornitori, clienti, istituti bancari, consulenti). La coerenza da parte di tutti alla carta valori, mission e vision crea quel senso di appartenenza aziendale che alimenta azioni propositive che hanno riscontri misurabili anche in termini di efficacia, efficienza e redditività. Il ruolo strategico dei quadri intermedi è quello di essere “collante” tra i vertici e la base delle risorse umane. Per valorizzarli occorre un coinvolgimento e la condivisione degli obiettivi aziendali, delle strategie a breve, medio, lungo termine e affidare a loro ruoli attivi in progetti aziendali». Grazie al confronto tra imprenditori ed Esercito promosso con il percorso «Oltre la crisi: la leadership creativa», si sono moltiplicate le occasioni di dialogo tra mondo manageriale e militare; Confindustria Verona Gruppo Giovani per l’Assemblea annuale dell’Associazione in occasione del cinquantesimo anno dalla

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fondazione del Gruppo Giovani stesso ha voluto come relatore il Tenente Colonnello Sganga per avere una testimonianza sul «coraggio consapevole». In seguito la Lovato Spa ha organizzato una tavola rotonda intitolata «Esercito e impresa: due mondi a confronto, analogie per eccellere», con la partecipazione del Generale Carmine Masiello e del Tenente Colonnello Rodolfo Sganga. Durante l’incontro si è evidenziato come il moderno scenario in cui aziende ed Esercito operano sia caratterizzato da fattori di instabilità:

ship riconosciuta e credibile che, definendo con certezza la mission opererà con un team saldo e coeso dal forte spirito di appartenenza. La squadra, quindi, sarà capace di operare con efficacia nei diversi contesti operativi, anche qualora le esigenze dello scenario cambiassero velocemente (3 - block war). L’individuo torna a essere il fattore determinante, con la tecnologia a supporto; la risorsa umana risulta la variabile su cui investire, soprattutto in termini di formazione. I parallelismi evidenziati dimostrano come in Italia sia realmente pos-

asimmetria, informazioni confuse, complessità ed emergenza. A ciò si deve aggiungere la presenza di numerosi attori, alto grado di rischio e stress da combattimento o risultato. In un tale contesto emerge la necessità di una leadership che sappia gestire e motivare le risorse umane a disposizione, in quanto per operare con efficacia in questo scenario il team deve essere preminente sull’individuo e il leader ne diventa uno dei componenti. La leadership è sempre più from the front con il Comandante che deve essere là dove sono i suoi uomini. In tal modo si otterrà una leader-

Mauro Brugnara con il Maggiore Ciavarrella e il Capitano Amoriello.

sibile creare un Sistema Paese anche attraverso il dialogo tra mondo imprenditoriale ed Esercito, come settori di eccellenza. Dalla reciproca conoscenza e comprensione possono emergere sinergie innovative che rendano ancora più competitivo il sistema Italia nel mondo. Mauro Brugnara Analista Strategico, Presidente OpenUp International, Presidente ICEPINT


ESERCITO E PUBBLICHE CALAMITÀ

LA PIANIFICAZIONE PER L’INTERVENTO DELL’ESERCITO IN OCCASIONE DI CALAMITÀ NATURALI


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L’Esercito Italiano è stato impiegato più volte, negli ultimi anni, in attività di soccorso alle popolazioni colpite da eventi naturali. Il concorso fornito, dal sisma in Abruzzo alle emergenze maltempo in tutta Italia, dall’esondazione di corsi d’acqua in Toscana alle frane causate dal dissesto idrogeologico in Calabria e Sicilia, si è rivelato determinante sia nelle fasi iniziali sia nel successivo processo di normalizzazione e assistenza. Tale risultato è stato conseguito grazie alle risorse umane e alle capacità di intervento della Forza Armata ma anche sulla base dei piani esistenti e delle intese con la Protezione Civile e con le altre strutture operative per la gestione delle emergenze. Queste predisposizioni sono state oggetto di un naturale processo evolutivo, che si è sviluppato nel tempo sulla base delle esperienze maturate e dell’evolversi degli organismi, militari e non, interessati a questa specifica funzione. L’importanza dell’attività di pianificazione non appare in modo rilevante nel momento in cui si descrivono e sono state descritte le molteplici attività svolte, ma è proprio da questa fase preliminare, di previsione e di organizzazione, che discendono spesso i migliori risultati. In merito, appare di particolare interesse porre in luce quanto è stato recentemente definito per l’aggiornamento delle procedure intese a consentire una risposta dello strumento militare terrestre alle emergenze in questione, che sia il più possibile aderente all’attuale distribuzione delle forze disponibili sul territorio, alla loro natura e ai prevedibili altri impegni di carattere operativo di rispettiva competenza. LE CALAMITÀ NATURALI Per meglio esaminare il problema e le relative esigenze da soddisfare, appare in primo luogo opportuno chiarire, sia pure in modo sommario, le caratteristiche dei fenomeni con cui ci si deve confrontare. Tra gli eventi naturali definiti calamità sono stati indicati le tempeste di vento, gli uragani, le burrasche, le inondazioni, i tornado, i cicloni, i danni provocati dal gelo, le ondate di calore, i grandi incendi, le bufere di

neve, i tifoni, le tempeste di grandine, i sismi e le eruzioni vulcaniche (1). Una catastrofe naturale può essere, tuttavia, definita effettivamente tale se i suoi effetti si ripercuotono in maniera significativa come danno sulle persone o sui prodotti dell’attività umana. Il rischio di calamità è correlato a

vanno aggiunti gli incendi, la cui natura ha purtroppo spesso carattere doloso anziché naturale. Per quanto riguarda i terremoti, la penisola italiana è una delle aree a maggiore rischio sismico del Mediterraneo in quanto è situata nella zona di convergenza tra la zolla africana e quella eurasiatica ed è Fig. 1

A sinistra. Genieri rimuovono il materiale di una frana presso Montaguto. Sotto. Guastatori del 2° reggimento genio guastatori alpino intenti alla rimozione di materiale prodotto da un’alluvione. fattori di «pericolosità», in relazione alla probabilità e intensità dell’evento dannoso, di «vulnerabilità», cioè di capacità di sopportarne gli effetti (ad esempio, presenza o non di costruzioni antisismiche), e di «esposizione», in base al numero delle presenze umane e all’entità dei beni esposti al danno. Gli eventi calamitosi che interessano più frequentemente l’Italia sono: i terremoti, le eruzioni vulcaniche e il dissesto idrogeologico; a questi

sottoposta a forti spinte compressive, che causano l’accavallamento dei blocchi di roccia (figura 1). In 2 500 anni, l’Italia è stata interessata da più di 30 000 terremoti di media e forte intensità. Solo nel secolo scorso sono stati rilevati 7 terremoti con magnitudo uguale o superiore a 6.5 (con effetti classificabili tra il X e XI grado della scala Mercalli). La sismicità più elevata si concentra nella parte centro-meridionale della penisola, lungo la dor-


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sale appenninica (Val di Magra, Mugello, Val Tiberina, Val Nerina, Aquilano, Fucino, Valle del Liri, Beneventano, Irpinia), in Calabria, in Sicilia e in alcune aree settentrionali, tra le quali il Friuli, parte del Veneto e la Liguria occidentale. Di fatto l’unica area a basso rischio sismico è la Sardegna. I terremoti che hanno colpito la penisola hanno causato danni economici consistenti, valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro. A ciò si devono aggiungere le conseguenze sul nostro patrimonio infrastrutturale. Nel nostro Paese, il rapporto tra i danni prodotti dai terremoti e l’energia rilasciata nel corso degli eventi è molto più alto rispetto a quello che si verifica normalmente in altre aree ad elevata sismicità, quali la California o il Giappone. Ciò è dovuto principalmente all’incidenza poco favorevole dei fattori prima citati e in particolare all’elevata densità abitativa e alla notevole fragilità del nostro patrimonio infrastrutturale. Ad esempio il terremoto del 1997 in Umbria e nelle Marche, oltre a danneggiamenti a circa 600 chiese tra cui la Basilica di San Francesco d’Assisi, ha prodotto un quadro di danneggiamento (senza tetto: 32 000; danno economico: circa 10 miliardi di euro), confrontabile con quello della California del 1989 (14.5 miliardi di $ USA), malgrado fosse caratterizzato da un’energia circa 30 volte inferiore. Le eruzioni vulcaniche sono parimenti presenti in varia misura nel nostro territorio. Esse si verificano

Sopra. Guastatori del 2° reggimento genio guastatori alpino intenti alla rimozione di materiale dopo un’alluvione. A sinistra. Guastatori del 10° reggimento genio guastatori impegnati per una esondazione nei pressi di Cremona.

quando il magma (materiale solido, liquido e gassoso ad alta temperatura) proveniente dall’interno della Terra fuoriesce in superficie. Una prima classificazione generale distingue le eruzioni vulcaniche in effusive (colate di lava) o esplosive (con frammentazione del magma in brandelli di varie dimensioni chiamati piroclasti). Fra questi, i fenomeni più pericolosi sono le colate piroclastiche e le colate di fango. Meno frequenti le frane vulcaniche e gli tsunami (questi ultimi, particolarmente catastrofici, non interessano l’Italia). Le eruzioni vulcaniche possono avere durata variabile da poche ore a decine di anni. Sebbene alcuni

studiosi ritengano che non si possa mai considerare del tutto estinto un vulcano, la comunità scientifica internazionale ha adottato dei criteri per classificare i vulcani rispetto al loro stato di attività in «estinti» (la cui ultima eruzione risale ad oltre 10 000 anni fa), «quiescenti» (che hanno avuto eruzioni negli ultimi 10 000 anni, ma si trovano attualmente in una fase di riposo da tempo più o meno lungo) e «attivi» (che hanno dato luogo ad eruzioni negli ultimi anni). In Italia sono quiescenti i Colli Albani, i Campi Flegrei, Ischia, il Vesuvio, Salina, Lipari, Vulcano, l’Isola Ferdinandea, Pantelleria, mentre vulcani attivi sono l’Etna e lo Stromboli. Mediamente in Italia l’uso del territorio vicino ai vulcani, non ha tenuto conto della loro pericolosità, permettendo l’instaurarsi di situazioni di alto rischio. Altro fenomeno ricorrente e di grande impatto che si manifesta assai di frequente è il danno idrogeologico,


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molto diffuso e presente in modo differente a seconda dell’assetto geomorfologico del territorio: frane, esondazioni e dissesti morfologici di carattere torrentizio, trasporto di massa lungo le conoidi nelle zone montane e collinari, esondazioni e sprofondamenti nelle zone collinari e di pianura. Tra i fattori naturali che predispongono il nostro territorio a frane e alluvioni rientra senza dubbio la conformazione geologica, caratterizzata da un’orografia giovane e da rilievi in via di sollevamento. Ma anche l’azione dell’uomo e le continue modifiche del territorio hanno, da un lato, incrementato la possibilità di accadimento dei fenomeni e, dall’altro, aumentato la presenza di beni e di persone nelle zone dove tali eventi erano possibili e si sono poi manifestati. Il dissesto idrogeologico rappresenta per il nostro Paese un problema di notevole rilevanza, visti gli ingenti danni arrecati ai beni e, soprattutto, la perdita di moltissime vite umane. Il dramma degli incendi, che si ripete ogni estate con immensi danni di carattere economico e ambientale, è infine un’altra calamità che si manifesta nei mesi più caldi e che ha quasi sempre come causa l’intervento di irresponsabili piromani, anche se per fortuna solo in poche occasioni si sono avute perdite di vite umane.

zioni dello Stato, centrali e periferiche, delle Regioni, delle Province, dei Comuni, degli Enti pubblici nazionali e territoriali e da ogni altra istituzione e organizzazione pubblica e privata presente sul territorio nazionale. Al coordinamento del Servizio nazionale e alla promozione delle attività di protezione civile, provvede il Presidente del Consiglio dei Ministri attraverso il Dipartimento della Protezione civile. Lo stato di emergenza che determina l’avvio delle attività di protezione civile avviene per delibera del Consiglio dei Ministri. Il Dipartimento della Protezione Civile può chiedere alle strutture operative nazionali attività di supporto in favore di tutte le componenti na-

nire informazioni in merito a quanto rilevato riguardo alle conseguenze determinate dall’evento e di mettere a disposizione risorse per il primo soccorso alla popolazione, per l’evacuazione di feriti, per la rimozione delle macerie e per l’allestimento di campi base per i soccorritori nonchè di aree di ricovero per la popolazione. Le strutture operative nazionali debbono inoltre assicurare la presenza di proprio personale presso i Centri Operativi e di Coordinamento attivati sul territorio. Ai fini dell’intervento, l’attivazione delle strutture di coordinamento operativo del Servizio richiede necessariamente alcune ore a partire dal verificarsi dell’evento. L’attività di primo soccorso e di assistenza è destinata pertanto a svilupparsi ini-

LA PROTEZIONE CIVILE

Rimozione di macerie a seguito del terremoto in Abruzzo.

zialmente sempre in modo «spontaneo», d’iniziativa delle strutture di protezione civile dislocate nell’area stessa dell’evento. A meno di eventi catastrofici che ne annullino ogni capacità, la prima risposta all’emergenza, qualunque sia la natura del fenomeno, deve essere garantita dalla struttura locale, preferibilmente attraverso l’attivazione di un Centro Operativo Comunale (C.O.C.). Il primo responsabile della protezione civile in ogni Comune è, pertanto, il Sindaco, che organizza le risorse comunali, secondo piani

Per «protezione civile» si intendono tutte le strutture e le attività messe in campo dallo Stato per tutelare l’integrità della vita, i beni, gli insediamenti e l’ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi e da altri eventi calamitosi. Con la legge del 24 febbraio 1992, n. 225 l’Italia ha organizzato la protezione civile come «Servizio nazionale» per promuovere e coordinare le attività delle amministra-

zionali di protezione civile. Le strutture operative nazionali sono: i Vigili del Fuoco, le Forze Armate, le Forze di Polizia, il Corpo Forestale dello Stato, i servizi tecnici nazionali, i gruppi nazionali di ricerca scientifica, la Croce Rossa Italiana, il Servizio Sanitario Nazionale, le organizzazioni di volontariato ed il Corpo Nazionale Soccorso Alpino. Alle Forze Armate è richiesto di for-


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prestabiliti per fronteggiare i rischi specifici del suo territorio, rappresentando nel contempo al Servizio nazionale della protezione se è in grado di far fronte all’emergenza con propri mezzi. A livello provinciale si attiva il Centro di Coordinamento dei Soccorsi (C.C.S.) nel quale sono rappresentati la Prefettura, gli enti, le amministrazioni e le strutture operative funzionali alla gestione dell’emergenza

attivare a livello provinciale, coordinandoli con gli interventi dei sindaci dei comuni interessati, e adotta tutti i provvedimenti necessari ad assicurare i primi soccorsi. Qualora l’Autorità centrale ne riscontrasse la necessità, la Regione, d’intesa con il Dipartimento della Protezione Civile, individuerà ed allestirà una Direzione di Comando e Controllo (DI.COMA.C.) per il coordinamento dei centri operativi proFig. 2

con il compito di valutare le esigenze, impiegare le risorse già disponibili e richiedere ulteriori risorse regionali e nazionali necessarie. Presso il C.C.S. viene assicurata la direzione unitaria degli interventi. Tale funzione è assegnata al Prefetto (2) che predispone il piano per fronteggiare l’emergenza su tutto il territorio della provincia e ne cura l’attuazione, assume la direzione unitaria dei servizi di emergenza da

vinciali e comunali. A livello nazionale, presso il Dipartimento della Protezione Civile, si riunisce il comitato operativo della protezione civile che assicura la direzione unitaria ed il coordinamento delle attività di emergenza (3). Tale comitato è presieduto dal Capo Dipartimento della Protezione Civile ed è composto da rappresentanti di tutte le amministrazioni ed enti coinvolti.

LA FUNZIONE DELL’ESERCITO La legge 382/1978 «Norme di principio sulla disciplina militare» all’articolo 1 affida alle Forze Armate il compito di «concorrere al bene della collettività nazionale nei casi di pubbliche calamità». Questa legge ha dato un primo assetto formale ad una situazione che era già pienamente in atto e che aveva visto migliaia di soldati presenti in tutte le emergenze di calamità nazionale del passato, da Firenze a Longarone, dal Friuli all’Irpinia. Gli interventi delle Forze Armate e soprattutto dell’Esercito hanno continuato ad assicurare un contributo di altissimo valore negli anni a seguire, come più di recente in Umbria, nelle Marche e all’Aquila. Nel frattempo la normativa in materia assumeva una veste più completa e articolata per la formazione del Servizio della Protezione Civile e, con la citata legge 225, le Forze Armate sono state identificate quale una della strutture operative nazionali del servizio. In particolare la Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri sugli indirizzi operativi per la gestione delle emergenze del 3 dicembre 2008 indica che le Forze Armate devono effettuare le seguenti azioni: • con immediatezza: fornire informazioni riguardo le conseguenze determinate dall’evento e attivare le forze al momento disponibili per individuare, recuperare e soccorrere le persone in pericolo di vita; • entro 12 ore: rimuovere macerie, allestire campi base e aree di ricovero per la popolazione e assicurare la presenza di proprio personale presso i centri operativi e di coordinamento attivati sul territorio; • entro 24 ore: fornire assistenza alloggiativa d’urgenza alla popolazione. L’Esercito, per le sue capacità operative e organizzative, nonché per la dislocazione delle unità su tutto il


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territorio nazionale (figura 2), costituisce elemento indispensabile del sistema nel suo insieme, sia per i soccorsi urgenti per il salvataggio delle vite umane sia per l’immediata assistenza alle popolazioni colpite sia per gli altri interventi strutturali di emergenza. Con la costituzione del citato Servizio di Protezione Civile, lo Stato Maggiore della Difesa aveva di conseguenza emanato una serie di Direttive (4) che assegnavano ai disciolti Comandi Regione Militare il compito di soddisfare le richieste inoltrate dai Prefetti competenti per territorio con le forze a disposizione, ad eccezione delle unità costituenti una Forza «strategica» a disposizione del Capo di Stato Maggiore della Difesa. Quest’ultima, denominata Forza di Pronto Intervento (Fo.P.I.), fu costituita in un primo tempo su base Brigata «Acqui» e successivamente, dopo lo scioglimento di questa Grande Unità, su base Brigata «Granatieri di Sardegna». In tale seconda versione, la Fo.P.I. comprendeva il Comando Brigata ed il Reparto Comando e Supporti, il 1° reggimento Bersaglieri, il 2° reggimento Granatieri, il reggimento Lagunari «Serenissima», il 1° reggimento elicotteri «Antares», il 2° reggimento genio pontieri, il 21° reggimento genio pionieri ed il battaglione logistico Fig. 3

«Granatieri di Sardegna». Era, inoltre, previsto il mantenimento di sette compagnie di fanteria in elevato stato di prontezza, una per ogni Regione Militare, per far fronte ai soccorsi immediati, nonché la disponibilità di elicotteri dislocati su varie località del territorio nazionale. Tale organizzazione ha tuttavia da tempo perso di validità a seguito della ristrutturazione della Forza Armata che assegna ai due Comandi delle Forze Operative di Difesa le competenze prima attribuite ai Comandi Militari di Regione. Inoltre l’avvio delle operazioni fuori area, con l’impiego a rotazione di tutte le unità dell’Esercito, non consente più di mantenere e vincolare predeterminate unità alle esigenze di intervento per pubbliche calamità. Questa nuova situazione ha comportato l’abrogazione della «Direttiva di pianificazione per l’impiego della Forza di Pronto Intervento per le Pubbliche Calamità» (DC-3) e la necessità di disegnare una nuova organizzazione più snella ma più specialistica e aderente all’esigenza. Con la recente «Direttiva di pianificazione per l’impiego della componente terrestre» lo Stato Maggiore dell’Esercito ha pertanto emanato nuove disposizioni per gli interventi di emergenze. In particolare è stato previsto che il Comando delle Forze Operative di Difesa competente per territorio disponga l’invio immediato di un Ufficiale di collegamento presso la Prefettura - Centro di Coordinamento e Soccorso di ciascuna provincia interessata per organizzare prontamente i primi soccorsi con le forze eventualmente disponibili in loco. Lo stesso Comando è inoltre responsabile di inviare con urgenza, sulla base delle richieste ricevute, le forze al momento disponibili su scala regionale. Sono state anche emanate predisposizioni per garantire il soccorso immediato anche nelle aree con scarsa presenza di unità della Forza Armata. Fra gli aspetti di maggior interesse

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Un guastatore alpino opera nel quadro dei soccorsi alle popolazioni alluvionate.

delle nuove disposizioni è da porre in risalto l’individuazione di Unità Pubbliche Calamità (Un.Pu.Ca.) distribuite su tutto il territorio nazionale e in grado di essere schierate nel più breve tempo possibile. Tali unità sono costituite da assetti del genio con grosse potenzialità per la rimozione macerie e per l’allestimento dei campi base dei soccorritori e di aree di ricovero per la popolazione. La loro capacità di intervento è intesa a soddisfare eminentemente le esigenze di intervento immediato, ferma restando la possibilità che il dispositivo posto in atto con urgenza venga integrato con forze tratte da tutto il territorio nazionale. Le Un.Pu.Ca. (figura 3), di dimensioni ridotte, ma organizzate «ad hoc», altamente specializzate e distribuite su tutto il territorio e quindi con capacità di intervento molto più celere, sono inserite nei reggimenti del genio che già dispongono organicamente del personale, dei materiali e dei mezzi necessari. La loro collocazione è stata individuata sulla base di una valutazione riguardante le aree di maggior rischio, i tempi minimi di intervento


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e le distanze da percorrere. Dette unità, proprio per le loro caratteristiche e le minori dimensioni, possono assicurare una disponibilità permanente sul territorio restando in sede anche nel caso che il reggimento di appartenenza debba essere inviato in un teatro operativo all’estero. Sono inoltre disponibili, su tutto il territorio nazionale, gli interventi degli elicotteri dell’AVES per l’effettuazione di ricognizioni ma anche per il trasporto di feriti da evacuare, di tecnici ed esperti e di materiale d’urgenza. Al riguardo la Forza Armata dispone di aeromobili di diverso tipo la cui versatilità consente di far fronte alle varie esigenze: dal

trasporto di carichi fino a 9 tonnellate alla possibilità di impiegare il verricello esterno per recupero personale. Rimane infine invariata la possibilità di concorsi di più ampio respiro, a livello nazionale, da attuare in tempi successivi, sulla base dell’evolversi della situazione e delle relative esigenze da trarre anche dal pacchetto di Forze in elevato stato di prontezza (Joint Rapid Responce Force). CONCLUSIONI La situazione in atto ha visto la progressiva riduzione delle unità del-

l’Esercito e la connessa riarticolazione dell’organizzazione di comando, cui ha fatto riscontro l’esigenza del ricorrente impiego «fuori area» di tutte le forze disponibili per le diverse operazioni di interesse internazionale. È così venuta meno la possibilità di avere permanentemente impegnata per un pronto intervento riguardante le pubbliche calamità una Brigata da mantenere con un elevato grado di prontezza, con personale appositamente qualificato e fornita di specifiche dotazioni di materiali, ma il cui afflusso era peraltro legato a tempi non sempre immediati, per la distanza variabile fra la propria dislocazione e la località di intervento. A questa si


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Rimozione di materiale franoso. aggiungevano le sette compagnie generiche di fanteria con capacità di intervenire prontamente grazie alla loro distribuzione sul territorio, ma scarsamente qualificate, perché costituite da militari di leva e prive di dotazioni specifiche. Nel contempo l’organizzazione della Protezione Civile si è sempre più dotata di risorse proprie di personale e di mezzi, tanto da non rendere più indispensabile la predisposizione per la particolare esigenza di un’intera Grande Unità. Le sue caratteristiche a prevalenza fanteria non erano peraltro qualita-

tivamente del tutto aderenti alla specifica esigenza e la sua dislocazione nel centro Italia, ancorché baricentrica, richiedeva tempi relativamente lunghi per raggiungere le località più lontane sia al Nord che al Sud. Si è ritenuto piuttosto di predisporre per il primo intervento numerose unità di dimensioni assai ridotte ma qualitativamente qualificate e tali distribuite su tutto il territorio. In sostanza le nuove disposizioni hanno abbandonato il concetto di mantenere forze di entità rilevante in un permanente elevato stato di prontezza per le calamità naturali, ufficializzando nel contempo l’impiego immediato di risorse «disponibili al momento» sul luogo dell’evento. Ciò anche sulla base dell’esperienza; infatti, nella maggior parte dei citati eventi calamitosi, le prime forze intervenute in soccorso della popolazione sono state, non tanto gli assetti pianificati, ma soprattutto le unità collocate vicino alle aree colpite con il successivo intervento, entro poche ore, di assetti più specialistici. La soluzione adottata soddisfa comunque tre requisiti importanti per garantire il valido concorso dell’Esercito in questo settore di grande interesse nazionale: • da una parte, l’istituzione di un Ufficiale di collegamento a livello, provinciale, predesignato e da attivare con immediatezza sulla base di predisposizioni concordate con le altre strutture della Protezione Civile, assicura l’efficacia del sistema di Comando e Controllo che, specie nelle prime fasi dell’emergenza, deve poter funzionare automaticamente, senza incertezze o improvvisazioni; • dall’altra, la designazione di elicotteri e reparti del genio - opportunamente potenziati qualitativamente e opportunamente distribuiti sul territorio - consente l’assolvimento, con materiali e mezzi idonei allo scopo, del compito proprio e qualificante assegnato

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istituzionalmente alle Forze Armate, cioè la capacità di essere presenti con la massima urgenza e con piena efficacia nelle prime fasi dell’evento calamitoso, salvaguardando il pieno rispetto delle competenze degli altri Organismi preposti alla soluzione dei problemi riferiti alle successive fasi di intervento; • infine, la disponibilità nelle ore successive, ove necessario, di tutte le altre forze che potranno essere designate per il soccorso alle popolazioni colpite dalla calamità naturale. A fronte delle note difficoltà connesse con la scarsità di risorse, specie nel settore delle spese per il funzionamento, la soluzione posta in atto consente altresì la massima possibile economia e il più favorevole rapporto costo/efficacia. È tuttavia importante evidenziare che ulteriori tagli o riduzioni non vadano a incidere negativamente, in termini di entità e dislocazione delle forze, su quanto è stato previsto e conseguentemente programmato per assicurare il permanere della capacità di assolvere efficacemente questo compito fondamentale che la legge attribuisce alle Forze Armate. Marco Buscemi Tenente Colonnello, in servizio presso lo Stato Maggiore dell’Esercito NOTE (1) Agenzia europea dell’ambiente: «Europe’s Environment: The Second Assessment», 1998, Cap. 13, pag. 273. (2) Art. 14 legge 24 febbraio 1992, n. 225. (3) Legge 401 del 2001. (4) DC-1: «Direttiva per i concorsi delle Forze Armate in caso di Calamità Naturali», ed. 1996; DC-2: «La cooperazione civile-militare», ed. 1985; DC-3: «Direttiva di pianificazione per l’impiego della Forza di Pronto Intervento per le Pubbliche Calamità», ed. 1996.


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)25=( $50$7( '(/ ;;, 6(&2/2: 5($/7­ ', 9$/25( &+( &5($ ©9$/25(ª L’adozione di strumenti ed expertises privatistici, con lo sguardo rivolto sovente al mercato e all’economia, dà l’immagine di un mondo militare sempre più proiettato a essere «al passo» con i tempi e con le trasformazioni in atto. Negli ultimi anni, le Forze Armate hanno goduto di uno spazio sempre maggiore sulla scena pubblica e sono state chiamate a svolgere numerose funzioni, sia all’estero che in Italia; è del tutto evidente che questa tendenza non è destinata a invertirsi nel prossimo futuro, tutt’altro. Forti di questa consapevolezza, i vertici dell’Esercito hanno reagito con fermezza ai tagli che le ultime finanziarie hanno destinato al settore Difesa, avanzando proposte che

consentano di mantenere intatti i propri livelli di efficienza e i propri standards operativi. La proposta presentata dal Ministro La Russa che prevedeva la costituzione della Difesa Servizi S.p.A., concretizzatasi poi in quattro articoli della legge finanziaria del 2010, è sintomatica di una rivoluzione di grande impatto per le nostre Forze Armate. La possibilità di acquisire risorse finanziarie sfruttando le proprie infrastrutture, attraverso vendite o locazioni, e i propri loghi, mediante un’adeguata gestione commerciale degli stessi, può costituire un considerevole ausilio in una situazione congiunturale di profonda crisi che non investe solo il nostro Paese. In primis, la gestione commerciale dei loghi delle Forze Armate negli ultimi anni ha registrato un boom di vendite. Attualmente, la ditta concessionaria di tutti i loghi è la «Plg» che ricava dalle vendite dei prodotti una buona parte degli utili; il re-

Laboratorio fisico dell’Ufficio Tecnico Territoriale di Napoli.

stante si ripartisce tra le varie ditte produttrici, che sono circa una ventina. La tipologia dei prodotti è ampia, si va dai capi d’abbigliamento alle calzature, dagli orologi ai prodotti alimentari, dagli articoli di cancelleria per le scuole ai deodoranti, dopobarba, profumi. Tanto per elencare alcune tra le ditte che hanno scelto di fregiarsi dei loghi della «Folgore», del Battaglione «San Marco» e della Brigata «Sassari», si può citare la «Dufour» che ha in progetto di produrre tavolette di cioccolato e uova di Pasqua, l’«American Eagle» che produrrà scarpe e la società «Officina della Moda» che ha intenzione di aprire una catena di negozi con l’insegna Esercito Italiano. Attualmente, il Ministero della Difesa viene ripagato dalla «Plg» con


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Corso tecnico amministrativo merceologico svolto dagli Ufficiali Periti dell’U.T.T., a Tirana, in favore dell’Esercito Albanese nel 2008.

permute di servizi e beni; invece una volta operante la Difesa Servizi in maniera completa, il Ministero sarà remunerato economicamente o potrà gestire direttamente i propri loghi, capitalizzandone, quindi, i profitti. Oltre ai margini di guadagno destinati a crescere, la commercializzazione di questi loghi è un valido mezzo di pubblicità e un modo per rendere ancor più familiare l’immagine delle Forze Armate, soprattutto tra i giovani. Tralasciando in questo scritto le conseguenze del ruolo di vero e proprio general contractor che la Difesa Servizi rivestirà

in vari settori delle Forze Armate, i maggiori guadagni che la costituzione di questa S.p.A. può consentire vengono dall’immenso patrimonio immobiliare della Difesa. Siti di proprietà del Demanio Militare potrebbero essere di molto valorizzati. Un esempio attinente riguarda il Veneto e, in particolare, l’Isola di Sant’Andrea - ex idroscalo - ora solo parzialmente occupato da un reparto di Lagunari, che potrebbe trasformarsi in un porto per yacht, come riferito da alcuni esponenti politici. Potrebbero, inoltre, nascere convenzioni, e relative sovvenzioni tra le Regioni, e realtà come il Policlinico militare di Roma, che ricor-

Laboratorio chimico dell’Ufficio Tecnico Territoriale di Napoli.

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diamo non serve solo i militari, seppur solo il Ministero Difesa ne sopporti i costi. In questo clima di grande propensione ai tagli e al controllo della spesa pubblica, dove si stanno muovendo i primi passi verso attività profit per la Difesa, vi sono, però, già in ambito Forze Armate, delle realtà di eccellenza che operano non solo per il soddisfacimento dei compiti istituzionali per le quali erano nate, ma anche, attualmente, per offrire i propri servizi a clienti esterni alla propria amministrazione, fatturando il proprio operato. L’Ufficio Tecnico Territoriale di Napoli, sito presso la Caserma «Bichelli», braccio esecutivo della Direzione Generale di Commissariato e di Servizi Generali, costituisce un chiaro esempio di un’amministrazione che cambia, che si evolve al mutare dei tempi, che crea «valore». Costituito sin dal 1887 con la denominazione di Magazzino Centrale di Vestiario ed Equipaggiamento del Regio Esercito Italiano, nel corso degli anni è stato più volte riconfigurato. Attualmente è alle dirette dipendenze della Direzione Generale di Commissariato e di Servizi Generali di Roma e presenta una connotazione «interforze», adeguata ai mutamenti tecnologici e al-


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Fig. 1

le esigenze delle Forze Armate, sempre più proiettate a scenari «joint» (interforze) e «combined» (multinazionali). Istituzionalmente è preposto all’assolvimento dei seguenti compiti: • esecuzione dei contratti appaltati dalla Direzione Generale di Commissariato e di Servizi Generali del Ministero della Difesa, che attualmente ammontano a circa 61 milioni di Euro per la propria parte di competenza; • concorso alla Direzione Generale per le verifiche delle certificazioni

di qualità dei fornitori; • sorveglianza di qualità fino alla dichiarazione di conformità del prodotto per la presentazione al collaudo; • attività di studio, ricerca e sviluppo tecnico dei materiali di vestiario e di equipaggiamento in ambito Difesa. Nella consapevolezza delle mutate esigenze del mercato l’Ufficio Tecnico Territoriale di Napoli ha operato, sin dal 2003, un notevole sforzo orientato: • alla riorganizzazione del proprio

sistema di gestione per allinearlo ai contenuti della UNI EN ISO 9001; • alla riorganizzazione del Laboratorio Merceologico per conformarlo ai contenuti della UNI CEI EN ISO/IEC 17025, quale strumento di garanzia, efficienza e attendibilità dei risultati delle prove. Nel luglio 2004 ha conseguito dal CERMET (Ente per la Certificazione e Ricerca per la Qualità) la Certificazione di Qualità del proprio Sistema di Gestione (Certificato n. 4288-A) (figura 1). Si tratta, quindi, di un Ente militare, che gode di un’attestazione di qualità, che abbraccia sia i processi che i servizi finali offerti, regolarmente ispezionato attraverso audit interni effettuati da Ufficiali Periti all’uopo qualificati, e audit esterni condotti da ispettori del CERMET, analogamente a quanto avviene per il mercato privato e per le aziende di una certa entità. Nel dicembre 2005, inoltre, l’UTT ha acquisito dal SINAL (Sistema Nazionale per l’Accreditamento dei Laboratori di prova) l’accreditamento del Laboratorio Prove (figura 2) risultando, allo stato attuale, l’unica realtà nel Centro Sud Italia (sia in ambito pubblico che privato) dotata di un laboratorio accreditato per l’effettuazione di prove chimico-fisiche nel settore del tessile e del cuoio. L’accreditamento dei laboratori ha l’obiettivo di tutelare l’interesse degli utenti finali dei prodotti sottoposti a prova, garantendo così la competenza tecnica e la serietà professionale degli esecutori delle prove, che operano in conformità a specifiche norme o regolamenti tecnici. L’affidabilità dei risultati di prova è un’esigenza sentita per tutte le attività di controllo su materiali e prodotti che interessano direttamente l’ambiente e la salute dei consumatori. Non è un caso, infatti, che una parte sempre più consistente dei laboratori accreditati, e in corso di accreditamento, sia rappresentata da laboratori che conducono analisi chimiche e microbiologiche su pro-


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dotti alimentari. Analoghe considerazioni valgono per i laboratori di analisi cliniche, sia privati sia pubblici. L’aspetto fondamentale dell’accreditamento di un laboratorio è, senza dubbio, quindi, l’attendibilità dei propri referti; negli ultimi anni, però, sta rivestendo un ruolo sempre più rilevante anche il riconoscimento a livello internazionale dei rapporti di prova emessi. Con l’introduzione di una serie di norme europee armonizzate (serie EN 45000) e, successivamente, della norma internazionale UNI CEI EN ISO/IEC 17025 (Requisiti generali per la competenza dei laboratori di prova e taratura), l’attività di accreditamento si è avvalsa di uno strumento comune di lavoro. Questo ha consentito il raggiungimento di accordi di mutuo riconoscimento fra gli Organismi di accreditamento dei laboratori di prova. L’obiettivo precipuo è stato quello di sancire l’equivalenza dei laboratori accreditati, con conseguente accettazione reciproca dei rapporti di prova nei relativi Paesi. Si facilitano, in tal modo, l’esportazione di beni e servizi, evitando la ripetizione dello stesso tipo di prove su materiali e prodotti in entrata e in uscita dai mercati nazionali. Gli obiettivi futuri, soprattutto in ambito Unione Europea, mirano a unificare anche la Difesa dei vari Stati membri. Conseguentemente la Logistica, in generale, e la funzione di procurement, in particolare, saranno notevolmente investite da questa metamorfosi. In una logica di Forze Armate «combined», pertanto, avere un laboratorio accreditato i cui risultati di prova vengano riconosciuti a livello internazionale comporterà notevoli vantaggi nei processi di acquisizione e, soprattutto, di valutazione di tipo qualitativo e prestazionale dei prodotti acquisiti, anche in contesti multinazionali. Durante l’anno 2008 sono state effettuate presso l’U.T.T. di Napoli delle prove prestazionali su alcuni manufatti dell’Esercito albanese

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Fig. 2

(stivaletti in particolare), commissionati dalla D.I.E. (Delegazione Italiana Esperti) in Albania per conto dello Stato Maggiore del predetto Esercito. I risultati e la professionalità profusa nell’effettuazione delle suddette prove hanno determinato un forte interesse da parte dei vertici militari albanesi. Nel 2008, pertanto, a seguito di una formale richiesta, Ufficiali Periti dell’Ente hanno svolto a Tirana un

corso di connotazione tecnica incentrato sulle seguenti materie: • procedure di acquisto di beni e servizi in ambito europeo (l’etica nel mercato e nelle scelte pubbliche; pianificazione approvvigionamenti; scelta del contraente; stipula atto negoziale; obblighi e facoltà dei contraenti; codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE);


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Sopra e a destra. Camera climatica atta al condizionamento dei campioni da sottoporre a prova e all’effettuazione di prove in ambiente ad atmosfera standard.

• merceologia (caratteristiche delle fibre tessili ai fini analitici; filiera del cuoio; gestione, manipolazione e tecniche di conservazione degli alimenti); • normativa tecnica europea di riferimento per i controlli analitici (norme europee EN ISO; specifiche tecniche a base delle forniture; normazione e classificazione delle merci); • Esecuzione Contrattuale (attività di vigilanza presso le ditte fornitrici; verifiche di laboratorio; conoscenze di base per i controlli analitici; tecnologia e sue applicazioni nel settore dell’indagine conoscitiva; verifiche della competenza tecnica dei laboratori in conformità alle prescrizioni europee). L’attività condotta ha varcato, pertanto, i confini nazionali, interfacciandosi con realtà logistiche e

tecniche straniere e riscontrando un grande riconoscimento da parte dei frequentatori e dei loro vertici, ma soprattutto ha pubblicizzato le prestazioni effettuabili presso l’Ufficio. Gli Ufficiali Periti operanti presso l’Ente - titolati presso l’Università «La Sapienza» di Roma di un corso biennale in «Merceologia e Chimica Applicata» e di un Master di secondo livello su «Il controllo e la gestione dei Sistemi di Qualità, Ambiente e Sicurezza» - sono coadiuvati da qualificati Operatori di laboratorio (civili e militari) i quali possono vantare una pluriennale esperienza professionale consolidatasi in decenni di attività sul campo. Il laboratorio (chimico-merceologico) interno all’U.T.T., attrezzato con strumentazioni avanzate e specializzate, supporta la ricerca e lo sviluppo, e costituisce elemento nodale per il controllo di qualità e lo studio di una serie di materiali approvvigionati dalle Forze Armate. La cultura per la qualità totale e l’attività del laboratorio improntata

al miglioramento continuo, la vocazione all’innovazione e al servizio, hanno portato la Direzione Generale, e il dipendente U.T.T. di Napoli, a offrire le proprie competenze e tecnologie, oltre che alle Forze Armate, anche al mercato, sia privato che pubblico. Infatti, con Decretazione n. UCT/51 in data 09/10/2008, la Direzione Generale ha approvato le tabelle di onerosità dei costi riferite a 98 prove chimico-fisiche su materiali e prodotti del settore tessile, del settore cuoiami e degli imballaggi. A decorrere dal mese di giugno 2009, pertanto, le capacità tecniche e professionali del Laboratorio Merceologico sono state rese disponibili a operatori privati e ad altre Amministrazioni dello Stato. Tra la fine dell’anno 2009 e i primi mesi del 2010, sono state effettuate prove a titolo gratuito per Enti delle Forze Armate, incentrate sui tessili, sul cuoio e gli imballaggi. In particolare, per quanto attiene al settore tessile, sono stati condotti principalmente esami sui tessuti mirati al riconoscimento della materia prima, alla resistenza a trazione, alle variazioni dimensionali a seguito di lavaggi eterogenei, alla permeabili-


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Studenti in visita all’Ufficio Tecnico Territoriale.

tà all’aria, alla solidità del colore a contatto con agenti chimici e fisici. Per il cuoio le analisi precipue hanno riguardato: l’umidità, il pH, la resistenza all’acqua e a trazione, la solidità del colore e aspetti puramente qualitativi della pelle e della concia applicata. Per gli imballaggi, invece, sono stati valutati la resistenza e la grammatura. Le analisi condotte per il mondo privato sono tendenzialmente simili, ma in questo caso le prestazioni sono state regolarmente fatturate, per un ammontare di circa 8 000 euro. Nel mese di aprile 2010, inoltre, hanno fatto richiesta di analisi anche aziende site in territorio estero, come il Portogallo e la Repubblica Ceca. Altre commesse riguardano il Ministero degli Interni e le aziende produttrici di manufatti per la Marina Militare, che frutteranno ulteriori introiti. Sono in corso,

Visite di scolaresche presso l’Ufficio Tecnico Territoriale.

inoltre, delle analisi su una partita di scarpe di grossa entità proveniente da Paesi non appartenenti all’Unione Europea, sottoposta a sequestro giudiziario, che in base ai preventivi offerti, potrà consentire un incasso di circa 60 000 euro. Considerato il breve lasso temporale di attività esterna, i risultati appaiono ottimali. Il ricavato derivante da queste prestazioni, detratta l’IVA al 20%, è versato come provente riassegnabile al Ministero della Difesa. Per favorire l’incremento dei fatturati, l’Ente, di concerto con la Direzione Generale di Commissariato e di Servizi Generali, sta promuovendo anche una fitta attività di marketing che si è concretizzata attraverso: • la nascita di un sito internet; • la realizzazione e diffusione di brochure, riportanti le generalità dell’Ente e l’elencazione delle prove eseguibili, distribuite, peraltro, anche durante il forum dell’Innovazione e il forum della Pubblica Amministrazione tenutosi a Napoli;

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• contatti con organismi internazionali, come anticipato in precedenza per l’Albania; • accordi di collaborazione con la Stazione Sperimentale per l’industria delle pelli e delle materie concianti di Napoli; • la stipula di protocolli d’intesa con realtà locali quali l’Istituto Tecnico Industriale «Leonardo da Vinci» di Napoli, unica scuola dell’Italia Centro-Meridionale che conferisce ai frequentatori un diploma di maturità tecnica a indirizzo tessile. Tenuto conto che le Forze Armate favoriscono le iniziative finalizzate a cementare sempre più i rapporti con la società civile e che il Ministero della Pubblica Istruzione legge 15 marzo 1997, n. 59, art. 21 approva e valorizza il collegamento con le comunità locali per attività di aggiornamento e ricerca, oltre a esigenze puramente di marketing, l’accordo mira anche a sperimentare nuove tecnologie e materiali nel settore tessile che potranno rivelarsi utili per i nuovi approvvigionamenti della Difesa. Quanto rappresentato costituisce un esempio tangibile di come le realtà e gli scenari delle Forze Armate stiano evolvendo, adottando strumenti ed expertises privatistici, con occhi sempre più rivolti al mercato e all’economia. Settori questi precedentemente poco esplorati, conosciuti solo in funzione degli stanziamenti destinati a fronteggiare le esigenze gestionali e operative della Difesa. Quello che emerge è, pertanto, l’immagine di un mondo militare non più destinato a «segnare il passo», ma sempre più proiettato a essere «al passo» con i tempi e le trasformazioni contingenti, sorretto dall’entusiasmo e dal desiderio di crescita della propria risorsa umana, oltre ogni difficoltà e crisi. Ciro Esposito Capitano, in servizio presso l’Ufficio Tecnico Territoriale di Napoli


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4 MAGGIO 1861 LA NASCITA DELL’ESERCITO ITALIANO «In servizio si dovrà usar sempre la lingua italiana. Da questa disposizione è però eccettuata la Brigata “Savoia”» («Regolamento di disciplina di Istruzione e di Servizio Interno per la Fanteria», art. 5, R.D. 30 ottobre 1859). «Questa disposizione è tanto più opportuna, in quanto che trovansi oggi nell’Esercito uomini di ogni provincia dell’Italia, che parlano un dialetto loro particolare, e molti dei quali durano gran fatica ad intendere quello di altre province. Il Ministero raccomanda quindi la osservanza rigorosa di tale disposizione, divenuta ormai indispensabile, non solo per parte degli Uffiziali, ma per parte di qualunque graduato, in qualsivoglia occasione di servizio e specialmente poi sempre nell’istruzione; e confida nella solerzia dei signori Uffiziali Generali, Ispettori dell’Esercito, e Capi di Corpo e Stabilimento di ogni Arma, perchè ne sia promossa ed invigilata la stretta esecuzione» (D.M. 12 dicembre 1860). Il 18 febbraio 1861, in Torino, il nuovo Parlamento italiano dichiarava l’Unità d’Italia. Da quel momento si diede l’avvio a tutte quelle operazioni volte a completare l’organizzazione dello Stato, già iniziata nel biennio 1859-1860 con l’annessione delle prime Regioni Italiane, in veste unitaria. Sul tipo di Esercito sorsero subito contestazioni a seconda delle inclinazioni politiche, ma per la grande maggioranza non esistevano alternative al procedimento seguito durante e dopo la seconda Guerra d’Indipendenza, cioè all’allargamento dell’Armata Sarda, l’unica in Italia che avesse solide tradizioni, che si fosse battuta in regime costituzionale contro l’Austria, che avesse accolto nelle sue file numerosi Volontari delle altre regioni italiane e che avesse già incorporato senza grossi

problemi i contingenti lombardo, emiliano e toscano. «L’amalgamarsi del nuovo elemento con quello che chiameremo PiemonteseLombardo fu reso ancora più agevole dalla campagna dell’Umbria e delle Marche e del Mezzodì d’Italia, che s’iniziava dopo tale fusione ed era coronata di sì felice successo; non vi ha miglior mezzo ad unir le membra di un Esercito, quanto i pericoli e le fatiche insieme sopportate specialmente quando sono coronate dalla fortuna, talché quando nei primi mesi del 1861 venne la volta della fusione dell’elemento meridionale, l’Esercito nazionale ormai italiano di nome e di fatto, si trovava già solidamente costituito e cementato assieme dal ricordo di una felice campagna fatta in comune. Ebbene, anche per questo nuovo contingente che veniva a rannodarsi intorno alla bandiera nazionale, il tempo fece

Ufficiali, Sottufficiali e soldati di varie Armi e Corpi.

giustizia di molti giusti timori e di molte ingiuste prevenzioni». («L’Annuario dell’Italia Militare», 1864). Ed è così che il 4 maggio 1861 il «Giornale Militare» pubblicò la seguente nota: «Vista la legge in data 17 marzo 1861, colla quale Sua Maestà ha assunto il titolo di Re d’Italia, il sottoscritto rende noto a tutte le Autorità, Capi ed Uffici Militari che d’ora in poi il Regio Esercito dovrà prendere il nome di Esercito Italiano, rimanendo abo-


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lita l’antica denominazione di Armata Sarda. Tutte le relative iscrizioni ed intestazioni che d’ora in avanti occorra di fare e di rinnovare, saranno modificate in questo senso. II Ministro della Guerra, Manfredo Fanti». La struttura che l’Esercito Italiano, a seguito del predetto decreto, assumerà, era già stata indicata dal precedente decreto del 24 gennaio 1861, cioè: • uno Stato Maggiore Generale; • sei Corpi d’Armata, ognuno su tre Divisioni, un battaglione di deposito, due reggimenti di cavalleria, nove batterie di artiglieria, una

compagnia zappatori; • una Divisione di cavalleria di riserva, su due Brigate di cavalleria e una di artiglieria a cavallo; • una Riserva Generale d’artiglieria, con undici batterie da battaglia; • il Corpo dei Carabinieri su 13 Legioni territoriali e una Legione allievi. La Divisione era su due Brigate di fanteria, due battaglioni bersaglieri e tre batterie campali. Complessivamente, l’intero Esercito avrebbe avuto diciassette Divisioni di fanteria e una di cavalleria. La struttura siffatta rappresentava

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la soluzione finale di un processo iniziato con il riordinamento dell’Armata Sarda durante il regno di Carlo Alberto e, successivamente, con la riforma «La Marmora» del 1854. Difatti, nel 1831, Carlo Alberto approvò una nuova riforma. Esso assunse una fisionomia intermedia fra quella degli Eserciti di massa, costituiti da una larga intelaiatura da completare con i riservisti all’emergenza, e quelli professionali, completi organicamente sin dal tempo di pace. La durata della ferma di leva fu portata a 14 mesi, da effettua-


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Sopra. Un Ufficiale inferiore di cavalleria. A destra. Garibaldi guida all’assalto Volontari Garibaldini, Carabinieri genovesi e Cacciatori delle Alpi.

re tutti di seguito. Ad essi seguivano un periodo di 7 anni di pronta disponibilità e uno di 8 anni nella riserva territoriale; inoltre, venne raddoppiato (da otto a sedicimila) il numero dei Volontari a lunga ferma. Con la mobilitazione di tutte le classi, l’Armata Sarda poteva raggiungere, compresi i sedentari, circa centoquarantamila effettivi. Siffatto ordinamento accentuava il controllo regio sull’Esercito di pace (costituito da sedicimila Volontari a lunga ferma e da un contingente di otto-dieci mila giovani di leva), ma costituiva anche una risposta del Piemonte al-

la minaccia alla libertà d’azione sabauda rappresentata dall’assoluto predominio austriaco nell’Italia settentrionale.

Dopo il disastro di Novara, attribuito per la gran parte alla scarsa coesione dei reparti dovuta alla presenza di un elevato numero di riservisti, fu deciso di abbandonare l’ordinamento del 1831. Due sistemi furono dunque posti a confronto da Alfonso La Marmora, promosso in due anni da Tenente Colonnello a Tenente Generale e nominato nel 1849, a soli 45 anni, Ministro della Guerra con l’incarico di ristrutturare l’Esercito su basi considerate più solide. Il modello di Esercito «francese» denominato anche Esercito stanziale o di caserma o di qualità - con ferme di durata molto lunga e limitato ricorso al richiamo dei riservisti, che caratterizzava anche l’Esercito austriaco; e quello «prussiano» - denominato anche Esercito di numero con ferme brevi, con obbligo militare assolto dalla totalità della popolazione, con ampio affidamento sui riservisti sia per completare le unità esistenti in pace sia per costituire nuovi reparti combattenti (milizia mobile o Landwehr) sia, eventualmente, per procedere in casi estremi alla mobilitazione generale (milizia territoriale o Landsturm), cioè, in sostanza, all’armamento del popolo preconizzato dal Clausewitz. L’espressione estrema del sistema


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prussiano era rappresentata dall’Esercito di milizia di tipo svizzero, in cui, come affermava Cesare Balbo, «si fa uscire l’Esercito dalla Nazione armata, anziché, come avviene in Prussia, la Nazione armata dall’Esercito». Con l’ordinamento La Marmora, ispirato al modello francese, furono previste due categorie di leva. La prima categoria prestava servizio militare per 5 anni in fanteria e per un periodo superiore negli altri Corpi e poteva essere richiamata per i successivi 6 anni. Una seconda aliquota del gettito della leva veniva iscritta nella seconda categoria e, dopo un breve periodo di addestramento, era inviata in congedo e tenuta a disposizione per 5 anni per essere richiamata in caso di necessità. La restante aliquota del contingente disponibile, che era di entità consistente, veniva poi esentata dal prestare servizio militare. Era in essa che i benestanti, destinati alla 1a e alla 2a categoria, potevano trovare, a pagamento, dei sostituti disposti a prestare servizio militare al posto loro. Si rinunciò quasi completamente ai Volontari a lunga ferma, poiché era stato accertato il decadimento del livello qualitativo del loro reclutamento. Si aumentò però il numero dei Sottufficiali, migliorandone ulteriormente la già ottima formazione professionale. Dai Sottufficiali piemontesi fu poi tratto un gran numero di Ufficiali dell’Esercito Italiano. I battaglioni furono ridotti di dimensione, passando da 1 000 a 600 uomini; le compagnie passarono da 250 a 150 uomini; i reggimenti di cavalleria pesante di 6 squadroni ciascuno furono trasformati in 4 reggimenti pesanti e 5 leggeri su 4 squadroni; furono potenziati i battaglioni bersaglieri. Si trattò in sostanza di un complesso di riforme volte a conferire mobilità ed elevata reattività all’Esercito. Grandi riforme interessarono il Corpo degli Ufficiali, di cui fu curato il reclutamento, la selezione e la preparazione professionale e culturale. Esso fu aperto ai figli della borghe-

Documento tratto dall’«Annuario Militare» del 1864.

sia cittadina e agli esuli di altre regioni italiane. Non fu invece - e questo in un certo senso era in contraddizione con gli orientamenti generali della riforma - ripristinato l’istituto degli Ufficiali di complemento, abolito da Carlo Alberto per ragioni politiche. Sulla scelta dell’«ordinamento La Marmora» giocarono vari fattori. Oltre all’obiettivo di ottenere uno stretto controllo sull’Esercito, per garantirne la saldezza e l’obbedienza in quel periodo di profondi rivol-

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gimenti istituzionali, l’intento fu quello di realizzare un’elevata prontezza operativa e un’organizzazione simile a quella della Francia, naturalmente in caso di attacco austriaco. Però quantitativamente l’Esercito era enormemente diminuito di numero, e ciò dimostra l’aderenza al programma moderato di rinunciare a un’azione autonoma e di concepire la propria pianificazione ordinativa su una strategia operativa che si basava sull’apporto francese. Nel 1859, alla vigilia della seconda Guerra d’Indipendenza, l’Armata Sarda risultava così composta: • fanteria di linea: 10 Brigate, ciascuna su 2 reggimenti su 4 battaglioni


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• • • •

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e un deposito di 2 compagnie: il battaglione era ordinato su 4 compagnie di 150 uomini ciascuna; fanteria leggera: 10 battaglioni bersaglieri su 4 compagnie e un deposito; cavalleria di linea: 4 reggimenti su 4 squadroni e un deposito: lo squadrone di 140 uomini; cavalleria leggera: 5 reggimenti Cavalleggeri ordinati come quelli di linea; artiglieria: 3 reggimenti, di cui: uno da piazza con 12 compagnie;

Il Generale Manfredo Fanti.

uno da battaglia con 15 batterie da campo, 2 a cavallo e 5 da posizione, tutte su 6 pezzi; uno di operai e pontieri di 6 compagnie; • genio: un reggimento zappatori su 2 battaglioni su 5 compagnie. Nell’imminenza del conflitto, la mobilitazione dell’Esercito venne eseguita con regolarità e prontezza, quantunque non poche difficoltà s’incontrassero nell’acquisto dei cavalli all’Estero, avendo la Svizzera imposto una forte tassa di esportazione, e dovendo la Francia e l’Austria provvedere ai propri bisogni. La catena di comando fu così articolata: Vittorio Emanuele II, Comandante supremo; Generale Della Rocca, Capo di Stato Maggiore; Genera-

le Pastore, Comandante l’artiglieria; Generale Menabrea, Comandante del genio; il Generale La Marmora seguiva il Quartiere Generale principale. I Volontari non incorporati nelle file dell’Esercito regolare furono riuniti in una Brigata di circa 3 000 uomini, cui si dette il nome di «Cacciatori delle Alpi», posta sotto il comando del Generale Garibaldi. Al prematuro termine delle ostilità, dopo il Trattato di Villafranca, seguito dalla pace di Zurigo che riuniva al Piemonte la Lombardia, e in conseguenza del suffragio popolare, l’annessione del Granducato di Toscana e dei Ducati di Modena, Reggio e Parma, nonché quella dell’Emilia e della Romagna, gli Eserciti pre-unitari di questi Stati confluirono nelle file dell’Armata Sarda portando con sé non solo uomini e armamento, ma anche pregi e difetti. Fu così che tra l’agosto e il settembre 1859 fu costituito con tutte le forze regolari dei suddetti Stati e con numerosi Volontari di svariata provenienza, l’«Esercito della Lega», il cui comando fu affidato il 14 settembre al Generale Fanti con il compito di difendere il Paese da ogni aggressione e mantenere l’ordine pubblico, compito che ben presto diede inizio al perenne contrasto tra Fanti e Garibaldi, Comandante in seconda, che male sopportava i vincoli gerarchici e che nutriva idee diverse. Difatti questi non esitò a manifestare l’intenzione di sconfinare e accendere la rivolta nello Stato pontificio. Fanti, naturalmente, si impose con energia per evitare pericolose iniziative. Ma il vero motivo di attrito era che Fanti mirava a costituire un organismo militare quanto più regolare possibile sì da poterlo inglobare nell’Armata Sarda senza provocare eccessivi sconcerti. Ciò comportava per i Volontari anche un servizio alle armi regolato da precise norme: in altre parole, una ferma di definita entità che impedisse, tra l’altro, improvvisi autocongedamenti intesi a riprendere la

libertà d’azione. Garibaldi, non concordando, il 17 novembre successivo si dimise. In Lombardia le operazioni furono semplici. Il reclutamento dei contingenti di leva delle classi alle armi nell’Armata Sarda, compresi i militari in servizio nell’Esercito austriaco e rilasciati dopo Villafranca, consentì l’agevole costituzione di sei Brigate di fanteria, tre reggimenti di cavalleria e sei battaglioni bersaglieri, che dettero vita a tre nuove Divisioni attive, completate entro dicembre 1859. Naturalmente le vecchie Brigate piemontesi cedettero reparti organici e compagnie deposito per l’approntamento delle nuove unità. Qualche difficoltà si ebbe con l’assorbimento delle truppe toscane ed emiliane che presentavano sensibili differenze di efficienza. Le prime quattro Brigate di fanteria e due reggimenti di fanteria si basavano sul piccolo Esercito granducale, ampliato lentamente e con qualche difficoltà, ma giunto a una condizione accettabile sotto il Ministro della Guerra Raffaele Cadorna, con Quadri forniti dall’arrivo di Ufficiali piemontesi (pochissimi), dal richiamo di elementi che avevano comIl Generale Alfonso La Marmora.


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Sopra. Documenti tratti dall’«Annuario Militare» del 1864. A destra. Una caricatura piemontese del tempo: «La visita medica delle reclute ovverosia quelli che non giungono alla misura tornano alla balia». Il medico che misura è il Ministro della Guerra Generale Alfonso La Marmora.

battuto nel 1848-49, dalla promozione di Sottufficiali e dai Sottotenenti usciti dagli ultimi corsi del Liceo Militare di Firenze. In Emilia, Parini aveva fatto ricorso agli elementi superstiti delle forze regolari più le leve sui nati del 1839, nonché ai Volontari della Romagna e delle Province pontificie, dando vita a sei Brigate: «Ravenna»: con Volontari delle Marche, Umbria, Romagna e con quadri eterogenei; «Forlì»: come la «Ravenna»; «Bologna»: con Volontari emiliani e Quadri piemontesi; Brigata «Ferrara»: con Volontari delle colonne Roselli e Masi e Garibaldini; Brigata «Modena»: già «Cacciatori della Magra»; Brigata «Parma»: truppe di Parma, più due compagnie del reggimento «Real Navi» piemontese. Le disparità d’origine furono sensi-

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Sopra. Documenti tratti dall’«Annuario Militare» del 1864. A destra. Una caricatura di Alfonso La Marmora, Ministro della Guerra, per alcune sue disposizioni sulle mense in comune degli Ufficiali (da «Il Fischietto», 1859).

bili, ma il problema più avvertito riguardò sempre gli Ufficiali. Fanti ebbe, infatti, a disposizione Ufficiali che nella quasi totalità avevano già prestato servizio nell’Armata Sarda, o negli Eserciti austriaco, dei Ducati, francese o spagnolo o, comunque, avevano combattuto a Roma o Venezia nel 1848 e 1849. Tuttavia, erano insufficienti e quelli inviati dal Piemonte non poterono certo risultare di «prima scelta», stante le esigenze proprie dell’Armata Sarda. Inoltre, ai fini dell’amalgama «le Divisioni vennero stanziate in Province diverse da quelle della loro origine», e per il livellamento degli organici delle Brigate furono effettuati movimenti perequativi. Infatti, i reggimenti di antica formazione o creati nel 1860 furono su quattro battaglioni, mentre quelli toscani ed emiliani avevano tre o anche solo due battaglioni, di soldati di leva e di


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Volontari o addirittura di soli Volontari con la ferma a breve scadenza. Per rimediare a tale stato organico e per superare la carenza di quadri senza indebolire troppo i reggimenti, Fanti dispose che essi si formassero tutti su tre battaglioni, su cinque o sei compagnie, anziché su quattro, e che i reggimenti sotto organico venissero completati con movimenti perequativi. Il Regio Decreto del 25 marzo 1860 inserì nell’Armata Sarda le truppe della Lega ammontanti a 52 000 uomini: venti reggimenti di fanteria, dieci battaglioni bersaglieri, quattro reggimenti di cavalleria, due squadroni Guide, quindici batterie da campagna e dieci compagnie da piazza, dodici compagnie del genio, tutti impostati sotto il profilo organico, amministrativo e addestrativo secondo il modulo piemontese. Iniziò così il riordinamento dell’Esercito, ad opera del Generale Fanti. Abolita la circoscrizione sulla base delle Divisioni territoriali, vennero istituiti cinque Gran Comandi, ognuno con giurisdizione su un Dipartimento militare, destinati a trasformarsi in Comandi di Corpo d’Armata all’atto della mobilitazione. Alle dipendenze dei Grandi Comandi vi erano tredici Divisioni attive, ognuna su due Brigate di fanteria, due battaglioni bersaglieri, un reggimento di cavalleria, una brigata d’artiglieria, unità minori e servizi con un organico di guerra di circa 14 000 uomini. Esistevano, inoltre, due Brigate autonome («Savoia», poi «Re», e «Cacciatori delle Alpi») e una Divisione di cavalleria. Il complesso di provvedimenti trovò completa attuazione nel 1861, comunque a metà ottobre 1860 tutti i reggimenti di fanteria erano su tre battaglioni. In campo addestrativo si registrò un sensibile miglioramento grazie all’esperienza bellica del 1859 e all’amalgama con i Volontari, che si traduceva nella minore rigidità nel combattimento della fanteria.

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La cavalleria fu distinta in quattro reggimenti di linea, sei di lancieri e sei di cavalleggeri, tutti su quattro squadroni. Il nuovo reggimento «Guide» ebbe cinque squadroni. La dottrina d’impiego rimase invariata, però sul piano pratico la cavalleria acquistò maggiore scioltezza. Le modifiche più rilevanti furono quelle adottate dall’Arma di artiglieria. Abolita la vecchia denominazione (Corpo Reale di artiglieria) e soppresse le antiche cariche di vertice, vennero creati cinque Co-

quattro compagnie. In particolare, la compagnia divenne unità d’impiego in ogni Divisione e Corpo d’Armata. Infine, in campo logistico si volle alleggerire le Divisioni accentrando quanto possibile dei servizi al livello Corpo d’Armata. In sostanza, il Corpo d’Armata cominciò ad acquisire una forma operativa definita: tre divisioni in linea di massima, 40 000 uomini circa, funzione logistica completa. Tenuto conto dell’evoluzione degli

Alfiere e Lancieri dei reggimenti «Aosta», «Milano» e «Montebello».

avvenimenti nella penisola e della situazione internazionale, si rese anche opportuno procedere al potenziamento dell’Esercito, sia pure per gradi, dovendosi fra l’altro armonizzare le operazioni di leva con i sistemi di reclutamento già esistenti nelle varie regioni. Così l’Armata Sarda, che nel gennaio 1860 contava 94 000 uomini, passò a 180 000 con 7 346 Ufficiali, di cui 6 000 circa d’Arma, alla fine di marzo. Nel mese di maggio, poi, la spedizione dei Mille consigliò di chiamare alle armi il resto delle classi lombarde del 1830-33 e, in tal modo, a settembre l’Esercito raggiunse com-

mandi territoriali incaricati di provvedere al personale e al materiale nella giurisdizione di competenza. Per l’impiego l’Arma fu articolata su nove reggimenti: uno di operai e pontieri, quattro da piazza e quattro da campagna. L’Arma del genio ricevette anch’essa un adeguato potenziamento sia nel servizio tecnico e amministrativo, sia per l’impiego in campagna. Il primo fu assolto da nove direzioni; il secondo da due reggimenti genio zappatori su tre battaglioni di


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Governo Provvisorio di Bologna: Guardie Nazionali, Guardie d’Onore (in uniforme scura con pennacchio rosso) e pompieri (con elmo).

plessivamente i 192 000 uomini. In caso di mobilitazione generale la cifra sarebbe salita a 215 000 uomini nelle unità d’impiego, cioè non calcolando i parchi di artiglieria e del genio, il treno, gli organi dei servizi e la giustizia militare. La mobilitazione era stata studiata da un’apposita commissione presieduta dal Generale Cialdini con l’intento di conferire all’Esercito di campagna una struttura più agile (Corpo d’Armata pedina della battaglia) e alla Divisione una maggiore leggerezza (accentramento dei servizi al livello superiore). L’Armata, così rafforzata, si trovò immediatamente sul campo di battaglia in Italia Centrale e in Italia Meridionale, affrontando però due compagini non idonee per testare la nuova realtà: la prima (pontificia)

priva di qualsiasi volontà combattiva, la seconda (borbonica), sebbene in fase di riacquisizione del senso del dovere e di attaccamento alla propria bandiera, era provata da una ritirata umiliante dalla Sicilia e da una sconfitta scottante sul Volturno ad opera di Garibaldi. Pertanto, anche se l’esito finale fu favorevole, si rese necessario procedere con rapidità alla nuova ristrutturazione anche per valutare l’impiego dell’elevato numero di uomini affluenti dall’Esercito meridionale e dai Corpi Volontari Garibaldini, che, a differenza delle precedenti unità, inquadravano personale male inquadrato, a volte indisciplinato, e in alcuni casi scarsamente addestrato. In merito alle truppe garibaldine, che assommavano a 7 000 Ufficiali e circa 50 000 uomini di truppa, esse erano composte da personale molto eterogeneo. Inoltre, nonostante le ottime prove fornite in battaglia come soldati, la loro organizzazione militarmente risentiva di un certo grado

d’improvvisazione, comprensibile d’altronde in un Corpo Volontario. Il loro inglobamento, specie l’equiparazione dei gradi degli Ufficiali garibaldini a quelli dell’Armata Sarda, incrementò i contrasti tra Fanti e Garibaldi influendo pesantemente sulla difficile operazione. Coerentemente con le tendenze di fondo dell’ordinamento Fanti, fu sciolto l’Esercito meridionale e vennero respinte le proposte di Garibaldi - che indignato si ritirò a Caprera - di prevedere nel nuovo Esercito cinque Divisioni di Volontari, ovvero la costituzione di una consistente Guardia Nazionale, composta da tutti i cittadini dai 18 ai 35 anni. Inoltre, l’Esercito napoletano negli ultimi tempi inquadrava molta fanteria leggera: un battaglione di tiragliatori, un reggimento (due battaglioni) di cacciatori della Guardia e 13 battaglioni di cacciatori di linea, oltre un battaglione di cacciatori stranieri. Il battaglione era su 6 compagnie attive e una di deposito, con una forza di


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circa 1 000 uomini. Si presume che nel 1860 l’organico poteva contare su circa 12 000 uomini che erano le migliori milizie «pedestri» dell’Esercito napoletano, sia per la scelta degli Ufficiali e dei Sottufficiali, sia per la qualità degli uomini, delle armi, della disciplina, dell’addestramento e per lo spirito militare: e tra questi primeggiavano i tiragliatori. «Nel 1860 i tiragliatori, come si vedrà successivamente, furono travolti nello scompiglio generale dell’Esercito napoletano; sciolti, poi richiamati alle armi nell’Esercito Italiano, gran parte di quelli che obbedirono, alla chiamata (Sottufficiali e soldati) furono ammessi nei Bersaglieri. Per gli Ufficiali si dovette fare una scelta come per le altre Milizie Speciali». Relativamente all’Esercito napoletano, si decise soltanto di mantenere in servizio le ultime quattro levate, cioè i giovani ritenuti più facilmente inseribili; gli anziani, invece, di cui si temeva il risentimento e si nutriva scarsa stima, furono congedati, con il risultato che questa gente sbandata finì per ingrossare le file del brigantaggio. Mentre per i Garibaldini, gli Ufficiali furono sottoposti a un esame; soltanto 1 500 superarono lo stesso e furono immessi nei ranghi - così come assicurato a Garibaldi - con lo stesso grado e alla truppa fu proposto il congedo con un premio in danaro pari a sei mesi di «paga» oppure di transitare tra le file dell’Esercito Italiano, inquadrati in un costituendo Corpo di Volontari. La maggior parte scelse la prima soluzione, i restanti furono inquadrati nelle Unità già esistenti giacché non fu costituito il promesso Corpo di Volontari. Secondo alcuni quella fu una grande occasione mancata, che limitò grandemente la possibilità di un vero rinnovamento sia della Nazione che dell’Esercito. Influirono al riguardo lo spirito «corporativo» dell’Esercito regolare, ma, soprattutto, preoccupazioni di carattere politico. Non esistevano in Italia le condizioni per adottare un’organizzazione tipo «Nazione armata». Essa avrebbe dovuto tro-

vare le sue premesse in una riorganizzazione della società, che la classe dirigente del nuovo Regno riteneva inaccettabile o quantomeno impossibile da attuare in tempi brevi, non solo per una rigida difesa dei propri interessi e del proprio potere, ma anche per l’incombere di minacce interne ed esterne, che mettevano in forse l’unificazione raggiunta. Nessun Governo avrebbe potuto o potrebbe accettare l’esistenza di organismi militari, quali l’Esercito meridionale, non sottoposti a un suo completo controllo e informati a principi e a obiettivi propri dell’opposizione.

Un Sergente Maggiore del 1° reggimento «Granatieri di Sardegna» del 1864.

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Purtroppo lo scioglimento dell’Esercito meridionale, pur necessario per evitare un «dualismo» militare, fu condotto dai militari piemontesi con durezza, in maniera ben diversa dal gradualismo che avrebbe voluto il Conte di Cavour. La smobilitazione così affrettata fu anche dovuta a una profonda sottovalutazione del pericolo rappresentato dalla rivolta contadina nelle regioni meridionali. Benché i moderati fossero in disperata carenza di effettivi, perché il grosso dell’Esercito doveva rimanere sul Po e sul Mincio a fronteggiare l’Austria, con lo scioglimento dell’Esercito meridionale, che dopo Teano non costituiva politicamente più un pericolo, si privarono di una robusta forza militare utile per domare subito il «brigantaggio» prima che si diffondesse. Tra l’altro, taluni ex Garibaldini meridionali, in odio ai piemontesi, si unirono alle bande antiunitarie. Un’assimilazione più progressiva e indolore dell’Esercito meridionale in quello regolare avrebbe invece consentito ai moderati di raggiungere i loro obiettivi senza tali inconvenienti. In sintesi, i nuovi elementi immessi dal 1860 in poi furono i seguenti: • Ufficiali, Sottufficiali e soldati degli antichi tiragliatori e cacciatori napoletani; • Ufficiali provenienti dall’Esercito meridionale (Garibaldini del 1860); • Volontari d’ogni parte d’Italia, ma più particolarmente veneti, tirolesi e romani; • coscritti delle ultime leve di tutte le Province del Regno. L’immissione nell’Esercito Piemontese di questi ultimi contingenti di militari portò a un ulteriore aumento degli organici. I reparti furono nuovamente manipolati e il quadro di formazione dell’Esercito fu conseguentemente modificato. L’inquadramento di queste unità consentì di costituire tre nuove Divisioni con cui fu formato il VI Corpo d’Armata che


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RIASSUNTO DELLA SITUAZIONE NUMERICA DEI MILITARI DELL’ESERCITO DISTINTI PER PROVINCE AL 1° LUGLIO 1862

venne stanziato nelle Province meridionali. Il processo di fusione di tutte le forze militari, di cui l’Italia disponeva in quel momento, fu laborioso. Le difficoltà maggiori scaturirono dalla diversità che caratterizzava quegli elementi da amalgamare. Si trattò di comporre un solo omogeneo organismo costituito da formazioni militari, talvolta in antitesi tra loro e ciascuna espressione di una tradizione militare, sociale e storica completamente estranea all’altra. Sotto il profilo tecnico, poi, l’eterogeneità del personale reclutabile si presentò in forme altrettanto accentuate, si andò facilmente da un estremo all’altro; talvolta, i soldati da inserire nelle unità di nuova costituzione provenivano da solide istituzioni militari e avevano al loro attivo una valida esperienza di guerra, altri, invece, mancavano di Particolare (reggimento «Guide») di una tavola uniformologica del Regno d’Italia di Quinto Cenni.


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esperienza e tradizioni, quando addirittura non avevano combattuto contro. L’esperienza di secoli di vita vissuti divisi gli uni dagli altri, aveva disabituato gli italiani a vivere in comunità di intenti. L’operazione d’amalgama fu difficile, e costituì una valida ragione per togliere all’Esercito ogni tendenza che potesse avere carattere regionalistico. Dar spazio a un’impostazione di questo tipo era molto pericoloso, specie in un momento in cui l’unità del Paese doveva ancora consolidarsi. L’aumento considerevole degli organici di truppa, avvenuto in così breve tempo, determinò l’esigenza di assegnare ai reparti, in proporzione, anche un’adeguata aliquota di Ufficiali. A causa dei rapidi tempi di attuazione di questo ampliamento non fu possibile disporre tempestivamente di Quadri sufficientemente qualificati per completare i reparti. Fu necessario servirsi di tutto il personale che si riuscì a raccogliere, con grande discapito del livello professionale e della omogeneità dei medesimi. «E così avvenne fra noi, nelle varie fusioni per cui si formò l’Esercito nazionale, da principio una quantità di suscettibilità ed anche qualche interesse ferito si rivoltarono e si sfogarono con qualche lamento, ma a poco a poco si affievolì questa prima impressione; il “camaradage” (cameratismo) fece passar sopra a tutto, e, ove questo non fosse bastato, si aggiunse il patriottismo, a cui nulla resiste; oh! quanti di quei tanti che hanno fatta l’Italia potrebbero apprendere ciò che sia virtù cittadina e vero civismo nelle file dell’Esercito, il quale non è forse la quintessenza di quella civiltà, che è cosa troppo civile per essere militare, ma è in compenso lo specchio di quella probità franca e forse un po’ rozza, che è probabilmente cosa troppo rozza per essere civile. Tale è il modo con cui si costituì quell’Esercito nazionale che forma oggidì l’orgoglio e la speranza del Paese, e che in tutti quei campi sui quali combattè, a cominciare dalle barricate

Documento tratto dal testo: «Elementi di Geografia» di Andrea Covino, edizione 1862.

lombarde del 1848 sino a quella lotta penosa ed ingrata che sostiene oggidì contro il brigantaggio, si mostrò sempre eguale a se stesso, anche quando la fortuna non coronò i suoi sforzi; Goito, Curtatone, Venezia, Novara, Roma, Cernaia, Palestro, Varese, San Martino, Calatafimi, Milazzo, Volturno, Castelfidardo, Ancona, Gaeta e tante altre, sono pagine, storielle che potrebbero onorare qualunque Esercito, e quando i quadri che lo compongono passarono, in maggior parte, per una scuola di tal natura, si ha ben torto di dire che un Esercito siffatto è

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troppo giovane; sarebbe forse più razionale il dire che esso riunisce alle qualità giovanili il frutto d’una buona esperienza, e nel mestiere delle armi alla lunga preferiamo la buona. A coloro che in buona fede fanno al nostro Esercito l’appunto di esser troppo giovane, e invocano perciò continuamente il benefizio del tempo, oltre all’osservazione ora fatta che può sino ad un certo punto esser soltanto applicabile ai quadri, ne sottoponiamo un’altra che riflette la bassa forza specialmente e del cui merito vogliamo lasciarli giudici essi stessi», («L’Annuario dell’Italia Militare», 1864). Ernesto Bonelli Generale di Brigata (aus.)


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TRIESTE ALL’ITALIA 3 NOVEMBRE 1918 - 26 OTTOBRE 1954 Non vi è città d’Italia, più di Trieste, che solo a pronunciarne il nome non ridesti un fremito d’Amor Patrio. Le parole Trieste, Italia, Patria, si sono fuse in un unico indiscutibile assioma. L’anelito di permettere al Tricolore di sventolare sul campanile di San Giusto ha sublimato le sofferenze della trincea e gli eroismi dei nostri Soldati nella Grande Guerra. Quel memorabile 3 novembre del 1918 vide la Città impazzire di gioia e tutta la nazione in festa con essa. Si compiva il sogno dei Padri, iniziato con il Risorgimento, di portare l’Italia ai suoi confini naturali. Il destino di Trieste, però, veniva messo in discussione dal 1943 al 1954; infatti nel corso di tale periodo la città subendo prima l’occupazione nazista, poi la cruenta occupazione comunista titina, infine quella angloamericana versava altro sangue per il suo diritto d’appartenere all’Italia. Il 3 novembre 1918 a Padova presso Villa Giusti, il Generale Weber von Webenau, Comandante del VI Corpo d’Armata austro-ungarico, sottoscriveva le clausole dell’armistizio impostegli dal Generale d’Armata Pietro Badoglio. La Grande Guerra era finita: quello stesso 3 novembre le truppe italiane entravano in Trento e i Bersaglieri sbarcavano a Trieste dalle unità della Squadra navale della Regia Marina, partite da Venezia in precedenza.

Più precisamente alle ore 16.00 del 3 novembre 1918 al molo San Carlo «approdò la Nave «Audace» prima col vessillo d’Italia», così come recita l’iscrizione che si legge sulla rosa dei venti posta all’estremità del molo stesso, in seguito ribattezzato «molo Audace», a ricordo dello storico avvenimento. Il Presidente del Comitato di Salute Pubblica Alfonso Valerio, futuro Sindaco della città redenta, consegnava Trieste nelle mani del Generale

Carlo Petitti di Roreto, che ne prendeva possesso in nome del Regno d’Italia e di Re Vittorio Emanuele III. Il Litorale austriaco, l’Österreichisches Küstenland, non esisteva più, così come non esisteva più la città imperiale di Trieste, che diventava italiana. Significativo e toccante è l’articolo del giornalista e scrittore Arnoldo Fraccaroli, collaboratore del giornale di trincea «La tradotta», che fotografa «L’entrata delle truppe italiane a Trieste»: «Ora siamo vicinissimi: Trieste appare tutta. Ci prende una frenesia di avvicinarci, di arrivarci, di scendere, di sfogare in grida altissime questa irrequietezza intensa come uno spasimo. Una barca ci viene incontro: ha una grande bandiera tricolore a poppa. Gli uomini che porta a bordo ci fanno grandi saluti. Ecco Trieste: il

Regia Nave «Audace» a Trieste.


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porto franco, i magazzini. Un razzo verde si leva dalle colline. L’“Audace” punta verso il molo. Trieste appare tutta uno sventolio di bandiere. È una vertigine di tricolori. E appena ci avviciniamo in modo da poter distinguere bene, vediamo sulla riva, sulle banchine, sulla Piazza Grande uno spettacolo maestoso, impressionante. Riva, banchine, piazza, strade, finestre, tutte gremite di gente: una fascia scura che bordeggia l’acqua: immensa, enorme. Trieste ha adesso centoventimila abitanti. L’impressione è che tutti siano scesi verso il porto. E sopra la moltitudine fluttuano bandiere tricolori, senza fine. E folate di acclamazioni si levano. È l’anima di tutta Trieste che ci viene ad offrire il suo amore. E noi le arriviamo proprio nel giorno di San Giusto: il giorno della sua festa. Una commozione infantile ci prende tutti. Si risponde ai saluti urlando, e si piange. I marinai, storditi, si arrestano nelle manovre. Ondate di commozione squassano la folla e arriva-

Sopra. Artiglierie italiane sfilano su Piazza dell’Unità a Trieste.

Sotto. L’arrivo sul Cacciatorpediniere «Audace» del Re d’Italia Vittorio Emanuele III e del Generale Armando Diaz.

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no a noi con impeto di raffiche. Il Generale Petitti, questo soldato che non ha mai tremato dinanzi al nemico, è sbiancato dall’emozione: i suoi occhi sono lucidi di lacrime. Si volta all’avvocato Ara, triestino, che è a bordo con noi, pare che voglia dirgli qualche cosa: ma subito, vinto dalla commozione, si piega su di lui e lo bacia. Quando attracchiamo al molo San Carlo sono le 16,20. Un solo urlo si leva dalla moltitudine: Viva l’Italia! E la massa enorme si spinge verso il molo, ha fremiti giganteschi. Nella fiumana di popolo le bandiere infinite sono agitate come da una bufera. È un delirio; è una frenesia. “Da oggi i nostri morti non sono morti!” grida da prua con la sua voce tonante il Generale. E la massiccia figura troneggia dall’alto sulla folla. “Viva l’Italia! Benvenuti! Finalmente!” grida in tumulto Trieste. E su tutto sovrasta la parola dolcissima “Fratelli! Fratelli!”.... Dalla torre di San Giusto sventola la bandiera donata dalle donne di Trieste. E il campanone storico diffonde sulla città i suoi rintocchi gravi». Con la firma del Trattato di Rapallo del novembre 1920, Trieste passò definitivamente all’Italia, inglobando, nel proprio territorio provinciale, zone dell’ex Principesca Contea di Gorizia e Gradisca, dell’Istria e della Carniola. L’arco temporale tra la fine del Primo conflitto mondiale e l’inizio del Secondo, fu segnato da numerose difficoltà per la città di Trieste:


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nizzazione antifascista e irredentista sloveno-croata TIGR, con alcuni attentati dinamitardi anche nel centro cittadino. Nel periodo che va dall’armistizio dell’8 settembre 1943 all’immediato dopoguerra, Trieste fu al centro di una serie di vicende che hanno segnato profondamente la storia del capoluogo giuliano e della regione circostante. Con la nascita il 23 settembre 1943 della Repubblica Sociale Italiana le

A sinistra. La folla festante a Trieste. Sotto. Triestini in attesa del Re d’Italia.

il regime fascista e la crisi economica del ’29 contraddistinsero tale periodo. L’economia della città fu colpita, infatti, dalla perdita del suo secolare entroterra economico; ne soffrì soprattutto l’attività portuale e commerciale, ma anche il settore finanziario. Trieste perse la sua tradizionale autonomia comunale e cambiò anche la propria con-

figurazione linguistica e culturale; quasi la totalità della comunità germanofona lasciò, infatti, la città dopo l’annessione all’Italia; con l’avvento del fascismo l’uso pubblico delle lingue slovena e tedesca fu proibito e vennero chiuse le scuole, i circoli culturali e la stampa della comunità slovena. Moltissimi sloveni così emigrarono nel vicino Regno di Iugoslavia. Dalla fine degli anni venti, cominciò l’attività sovversiva dell’orgaFanciulle con omaggi floreali attendono l’arrivo di Re Vittorio Emanuele III su una bitta del molo di Trieste.

sorti di Trieste vengono assoggettate alla volontà della Germania nazista che la occupò senza alcuna resistenza e la rese, insieme a tutta la Venezia Giulia, una zona di operazioni di guerra, Operationszone Adriatisches Küstenland (OZAK), alle dirette dipendenze del Gauleiter di Carinzia Friedrich Rainer. Durante l’occupazione nazista di Trieste, la Risiera di San Sabba, stabilimento per la pulitura del riso edificato nel 1913, venne impiegata come campo di prigionia e di smistamento per i deportati in Germania e Polonia e come campo di detenzione ed eliminazione di


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Truppe italiane sfilano su Piazza dell’Unità a Trieste.

partigiani, detenuti politici ed ebrei. Si tratta dell’unico campo di concentramento nazista presente in territorio italiano. In seguito, nei primi anni Cinquanta la Risiera fu usata come campo profughi per gli esuli istriani, fiumani e dalmati in fuga dai territori passati alla sovranità Iugoslava. Alla fine del Secondo conflitto mondiale Trieste era pronta a festeggiare la pace come in ogni altra parte d’Italia. I Volontari della Libertà e gli uomini del Comitato di Liberazione Nazionale guidati da don Marzari avevano preso il controllo della città, sottraendolo alle truppe tedesche, e con la mediazione del Vescovo Monsignor Santin erano riusciti anche a salvare il porto e le altre strutture della città. Ma la realtà che i Triestini scoprirono la mattina del 1° maggio 1945 fu dura e crudele. I nuovi arrivati, le truppe comuniste iugoslave del Maresciallo Tito, non erano portatrici di pace, erano invece oppressori quanto e più delle truppe naziste

Truppe statunitensi a Trieste.

che erano appena andate via e che per due lunghissimi anni avevano governato la città. Le truppe titine iniziarono a dare la caccia a migliaia di Triestini, agli uomini del C.L.N., agli ex fascisti, agli esponenti dei movimenti politici, con un meccanismo perverso di pura casualità. Per un lunghissimo mese Trieste visse questa sorta di mattanza. Migliaia di suoi figli per mano della cosiddetta Milizia Popolare sparirono e non fecero mai più ritorno. Buona parte di costoro finì in quelle nere cavità carsiche che portano il nome di «foibe». Il macabro rituale era ben definito:

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le vittime venivano legate a due a due, portate sull’orlo della voragine e poi a uno dei due veniva sparato un colpo alla nuca affinché, cadendo, si trascinasse anche l’altro sventurato compagno nella voragine. Con tale tragico e barbarico rituale, che si concludeva peraltro con il lancio finale nella foiba di un cane nero sgozzato, sono state trucidate migliaia di italiani: il tutto a guerra finita. Nella Foiba di Basovizza - il Pozzo della Miniera che costituisce un po’ il simbolo di tutte le foibe - gli infoibati si è dovuto quantificarli con il più arido e crudele dei sistemi: cinquecento metri cubi di poveri resti umani. Le forze anglo-americane posero fine a tale scempio. Il Generale Harold Alexander su indicazione di Winston Churchill, dopo la firma dell’accordo di Belgrado del 9 giugno 1945 che stabiliva la linea Morgan ovvero i nuovi confini, riuscì a ottenere il 12 giugno la smobilitazione dell’Armata Popolare di Liberazione della Iugoslavia e il passaggio della città a un «Governo Militare Alleato». Il 2 giugno 1946 gli italiani votavano il referendum e sceglievano la Repubblica ma i cittadini Triestini non parteciparono alla consultazione referendaria a causa delle forti pressioni iugoslave su i Governi Alleati. Per calmare gli animi l’Allied Military Government of Occupied territories


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Territorio libero di Trieste il 10/2/1947.

Carta raffigurante la suddivisione in Zona «A» e «B» del territorio triestino.

(Governo militare alleato dei territori occupati) concesse il passaggio su Trieste del Giro d’Italia, ventinovesima edizione della «Corsa Rosa», la prima dopo la pausa bellica. Il 30 giugno, durante la tappa «RovigoTrieste», attivisti favorevoli all’annessione di Trieste alla Iugoslavia bloccarono la carovana del Giro a circa due chilometri a est di Pieris, ostruendo la strada con blocchi di cemento e bersagliando i corridori con lanci di chiodi e pietre. La Polizia della Venezia Giulia al seguito del Giro, composta da militari americani, intervenne per sgombrare la strada dai manifestanti, dai quali partì un colpo di pistola che ferì un agente. Ne scaturì uno scontro a fuoco con altri manifestanti, fino a quando la Polizia riuscì a disperdere la folla. L’organizzazione del Giro aveva già

Zona A

Territorio assegnato all’Italia il 5/10/1954.

Zona B

Territorio assegnato alla Iugoslavia il 5/10/1954.

deciso di dichiarare conclusa a Pieris la tappa, con tempi uguali per tutti i corridori, ma alcuni atleti, capeggiati dal triestino Giordano Cottur, insistettero per raggiungere comunque il traguardo approntato nell’ippodromo di Montebello, dove furono acclamati e portati in trionfo dai Triestini. Altra data significativa della questione triestina fu il 3 luglio 1946, quando Alcide De Gasperi, in qualità di Primo Ministro, dovette firmare a Parigi un trattato di pace con cui accettava, tra l’altro, la creazione del Territorio libero di Trieste comprendente la città, il litorale fino a Duino e parte dell’Istria fino al fiume Quieto. Tale territorio venne diviso in due zone: la Zona «A» (Trieste, Sgonico, Monrupino, San Dorligo della Valle, Duino-Aurisina e Muggia) amministrata dagli alleati e la Zona «B» (a sud di Muggia Una giovanissima esule giuliana.

fino al Quieto) amministrata dagli iugoslavi. Nel febbraio 1947 la ratifica del Trattato di Parigi rese Trieste territorio libero confermando l’amministrazione della Zona «A» all’Allied Military Government Free Territory of Trieste - British U.S. Zone e la Zona «B» alla Iugoslavia. Nella regione la situazione era sempre più incandescente, numerosi furono i disordini e le proteste degli italiani che culminarono con l’uccisione del Generale inglese Robin De Winton, Comandante delle truppe britanniche, da parte della professoressa Maria Pasquinelli. Il 15 settembre 1947, peraltro, le truppe iugoslave di stanza nella zona «B» tentarono di occupare Trieste, ma furono respinte dalle Forze Alleate. Negli anni successivi la diplomazia italiana cercò di ridiscutere gli accordi di Parigi al fine di ridefinire le sorti di Trieste, ma non ottenne alcun risultato. Nel frattempo continuavano scontri e disordini per le vie della città. L’8 marzo 1952 una bomba uccise alcuni manifestanti di un corteo di italiani. Nell’agosto-settembre 1953 il Governo italiano inviò truppe lungo il confine con la Iugoslavia e nel novembre successivo in occasione di altri scontri con le truppe


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altro e aveva atteso con ansia e trepidazione le decisioni generate dalla diplomazia. Persi i territori dell’Istria, del Quarnero e della Dalmazia, si sperava che il Territorio Libero di Trieste, creato con il Trattato di Pace del 10 febbraio 1947, potesse essere restituito integralmente all’Italia, in ragione della scelta occidentale e atlantica di De Gasperi. Ma la Guerra Fredda fra est ed ovest, la rottura fra Tito e Stalin, le difficoltà politiche internazionali contribuirono a rallentare l’auspicato processo di riconA sinistra. Bronzo commemorativo dell’ingresso dell’«Audace» a Trieste, il 3 novembre 1918. Sotto. Un Cacciatorpediniere della Marina Militare ormeggiato nel porto di Trieste il 26 ottobre 1954.

anglo-americane si registrarono ulteriori vittime. Pierino Addobbati, Erminio Bassa, Leonardo Manzi, Saverio Montano, Francesco Paglia e Antonio Zavad caddero per Trieste italiana nelle giornate del 5 e 6 novembre 1953 e nel 2003 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi li ha insigniti della Medaglia d’Oro al Valor Civile con la seguente motivazione: «...Animati

da profonda passione e spirito patriottico partecipavano ad una manifestazione per il ricongiungimento di Trieste al Territorio nazionale, perdendo la vita in violenti scontri di piazza. Nobile esempio di elette virtù civiche e amor patrio, spinti sino all’estremo sacrificio...». Negli anni del dopoguerra il popolo di Trieste aveva sofferto più di ogni

Una giovane triestina sventola il tricolore.

giungimento. Con il Memorandum di Londra del 5 ottobre 1954 la decisione franco-anglo-statunitense di trasferire l’amministrazione della Zona «A» (da Duino a Muggia) del Territorio Libero di Trieste alla Repubblica Italiana, divenne realtà. La Zona «B» (da Ancarano al fiume Quieto) sarebbe rimasta alla Iugoslavia. Alcuni piansero, altri ringraziarono Iddio. Il 26 ottobre 1954, dopo tre settimane dal Memorandum di Londra,


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Bersaglieri appena entrati a Trieste per la seconda volta italiana.

vi fu l’entrata trionfale dei Bersaglieri a Trieste e successivamente delle autorità politiche italiane che ne assunsero l’amministrazione. Il Tricolore d’Italia tornò a sventolare sul Palazzo del municipio in Piazza dell’Unità. Una folla immensa di cittadini, piena di entusiasmo e di commozione, scese quasi di corsa per le vie del centro convergendo così sulle rive e sulla piazza, per salutare il ritorno della madrepatria nella più italiana delle città italiane, dopo undici anni di incertezze e di presenze straniere. Tedeschi, iugoslavi, americani, inglesi si erano avvicendati a Trieste, gestendo nel bene e nel male l’amministrazione della città, lasciando alle spalle anche tragedie, incomprensioni, vendette, rimpianti, lutti. Per la gente comune si trattò della fine di un

incubo, la gioia di poter legittimamente annodare al collo la Bandiera italiana e di cantare «Le Campane di San Giusto». Paolo Emilio Taviani, allora Ministro della Difesa, annotò nel suo diario ricordando quel 26 ottobre: «Bersaglieri e Marinai italiani sono entrati in Trieste. L’abbraccio della folla - poichè di vero e proprio abbraccio si è trattato - è stato così appassionato e strabocchevole, da rendere impossibile la prevista cerimonia ufficiale del passaggio dei poteri. Travolti tutti i cordoni. Scene di delirio. Le ragazze triestine impazzite. L’entusiasmo dei giovani e degli anziani ha accomunato - di là dalle differenze di generazione, di ideologia e di partito - tutta Trieste in un’unica famiglia, nel suo ricongiungimento con la grande famiglia: l’Italia». Il Vescovo di Trieste Monsignor Antonio Santin si espresse nell’omelia pronunciata il 4 novembre del 1954 alla presenza del Presidente

Einaudi con queste parole: «...oggi è giorno di gioia. Essa è schietta e grande, perché nasce dall’amore. Trieste ama l’Italia. Quante volte abbiamo sentito ripetere: ritorni qui la Patria, il resto non c’importa. Questa è la grande verità che commuove ed esalta tutti: è ritornata la Madre. Quando ritorna la madre la casa è piena di luce, tutto sembra più bello, tutti diventano più buoni e si sentono sicuri; è il miracolo della madre, il miracolo che Trieste vive in questi giorni...». Oggi, con la Legge 30 marzo 2004, n. 92 «La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel Secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale...». Giuseppe Fernando Musillo Tenente Colonnello, Caporedattore di «Rivista Militare»



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I CONTRIBUTI DELLA PSICOLOGIA IN AMBITO MILITARE Attualmente gli interventi delle nostre Forze Armate sono sempre più complessi e variegati, le azioni comprendono operazioni sia in ambito nazionale sia internazionale. Sul territorio nazionale, alla salvaguardia dei confini nazionali, si aggiungono interventi come quelli attuati in caso di calamità naturali (ad esempio l’operazione «Gran Sasso» in occasione del terremoto in Abruzzo), l’operazione «Strade Sicure» che ha visto operare i militari a fianco delle Forze dell’ordine per la sicurezza pubblica nelle aree metropolitane e/o aree densamente popolate, l’operazione «Strade Pulite» (intervento dell’Esercito per arginare il problema dei rifiuti nella regione Campania); in ambito internazionale, abbiamo missioni umanitarie e di soccorso, attività di mantenimento della pace e missioni di gestione delle crisi, comprese quelle tese al ristabilimento della pace (peace-keeping, peace-building, peace-enforcement). Scenari sempre più articolati e compiti delicati richiedono competenze complete e specialistiche. Per questo i legami fra ricerca psicologica e mondo militare sono oggi molto stretti. Da tempo ormai risulta chiaro che le Forze Armate non possono limitarsi a basare le proprie capacità operative esclusivamente sull’equipaggiamento o sulla preparazione tecnica e fisica dei propri uomini, ma devono puntare anche sull’addestramento psicologico affinché siano chiari i meccanismi che regolano i propri e gli altrui comportamenti così da poterli meglio monitorare e controllare.

Il primo aiuto in tale ottica che giunge dalla psicologia riguarda la selezione del personale da impiegare in tali contesti al fine di evidenziare eventuali profili psicopatologici a rischio. L’uso su larga scala dei test psico-attitudinali nei centri di reclutamento e addestramento consente di poter selezionare in modo veloce, e il più possibile obiettivo, le reclute da destinare ai vari reparti. Nella formazione di un Esercito di professionisti gli interventi di natura psicologica consentono di poter superare con efficienza stress estremi, di monitorare il «morale» dei militari, di favorire la coesione fra i commilitoni, di potenziare le abilità di leadership dei comandanti. Attualmente molte tecniche psicologiche sono largamente utilizzate in ambito militare, così come in molti

altri ambienti (sportivi, manageriali) per ridurre l’ansia, aumentare la capacità di concentrazione e migliorare la precisione (ad esempio nel tiro), incrementare la motivazione e la coesione fra i membri di un team e talvolta anche influenzare i comportamenti altrui attraverso una migliore comunicazione. Considerando che lo stress di per se stesso non è una condizione necessariamente patologica e negativa, ma una reazione in primo luogo adattativa, in quanto finalizzata a ristabilire o a mantenere l’equilibrio omeostatico, la portata stressogena di un evento è invece determinata da altri fattori tra cui la valutazione cognitiva e la percezione emotiva dello stimolo (valutazione primaria) e dalla valutazione secondaria che un individuo compie


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in relazione alle proprie risorse e capacità di far fronte allo stimolo stressante (strategie di Coping). In altre parole, un evento sarà tanto più stressante quanto più l’individuo si percepirà inadeguato e incapace di fronteggiarlo (Lazarus, 1993; Lazarus e Folkman, 1984). Qualsiasi evento risulterà, invece, potenzialmente meno stressogeno quanto più l’individuo si sentirà preparato per affrontarlo. In questo senso, la psicologia attualmente può fornire un valido aiuto nell’incrementare le abilità di coping del personale impegnato nei ruoli potenzialmente a rischio, quali dimensioni psicologiche principalmente coinvolte nel processo di adattamento a situazioni stressanti (Holahan e Moos, 1994; Klapow et. al., 1995). Quando si parla di coping ci si riferisce all’insieme degli sforzi cognitivi e comportamentali attuati per controllare specifiche richieste interne e/o esterne che vengono valutate come eccedenti le risorse della persona (Lazarus, 1991). In questo senso il coping è un processo di intervento attivo, sia in termini di attività cognitive che comportamentali, che l’individuo compie sull’ambiente, atte a modificare l’impatto negativo dell’evento stressante. Il coping, secondo alcuni studi di Lazarus, 1991, e Lazarus e Folkman, 1984, può essere suddiviso in Emotion-focused coping, (che consiste nella regolazione delle reazioni emotive negative conseguenti alla situazione stressante) e Problem-focused coping, (che consiste nel tentativo di modificare o risolvere la situazione che sta minacciando o danneggiando l’individuo). In tal senso, le strategie di problem solving rappresentano un valido contributo nella gestione delle situazioni problematiche. Tuttavia, se pur contenuto dalla costante attenzione e preparazione, anche psicologica, delle Forze Armate, il rischio per la comparsa di reazioni psicologiche, che vanno da un disagio temporaneo alla psicopa-

tologia conclamata, per il personale impiegato nelle operazioni di intervento sia nazionali sia internazionali che presentano situazioni ad alta risonanza emotiva, rende comunque necessario un accurato e costante monitoraggio psicologico al fine di poter intervenire tempestivamente qualora si manifestasse un disagio psichico di qualsiasi natura. Monitoraggio che, in primo luogo deve tenere conto delle normali reazioni fisiologiche ed emotive al-

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lo stress differenziandole da quelle di natura patologica psichiatrica post-traumatica, ma che deve anche proseguire nel tempo: il disturbo può, infatti, esordire o rendersi evidente anche dopo anni dall’evento traumatico, anche a seguito di un lungo periodo di apparente benessere. In caso di insorgenza di condizioni degne di attenzione clinica (disturbo post-traumatico da stress), la psicoterapia cognitivocomportamentale oggi è in grado di fornire valide risposte. Un ultimo accenno, ma non certo in termini di importanza, per sottolineare l’importante legame che intercorre oggi fra psicologia e Forze Armate, riguarda la psicologia dell’emergenza, in particolare l’attenzione fornita nella comunicazione delle bad news ai familiari e ai commilitoni del personale coinvolto in eventi tragici e il conseguente lavoro di sostegno psicologico alle persone che ne dovessero necessitare ad opera del personale medico-sanitario presente all’interno delle Forze Armate stesse. Laura Oddolo Dottoressa, Psicologa e Psicoterapeuta


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I GIOVANI MILITARI IMPIEGATI NELLE MISSIONI ALL’ESTERO Negli ultimi 4 mesi, un po’ per curiosità personale, ancor prima che per motivi legati ai miei incarichi istituzionali all’interno del mondo universitario e giovanile in genere, ho voluto incontrare diversi ragazzi in partenza o di rientro da quelle che vengono chiamate «missioni fuori area», così come ho avuto modo di scambiare due parole con altri militari tornati in Patria solo temporaneamente, per un breve periodo di riposo nel corso della missione. Ciò che mi spingeva a svolgere questa indagine era soprattutto il desiderio di scoprire cosa potesse indurre un mio coetaneo, sicuramente legato a mille affetti e interessi personali nella propria terra, a lasciare tutto per diversi mesi e raggiungere teatri di operazione più o meno delicati e rischiosi, con il compito di dover riportare o di far mantenere la pace dove un tempo non troppo lontano si sono combattute guerre che, indubbiamente con una certa superficialità, di fronte ad un reportage o al telegiornale che ne parlava, abbiamo sentito più volte «non nostre» e comunque lontane da noi. Non ho mai sopportato quelli che liquidano la faccenda con tre parole: «questione di soldi»; ora le mie convinzioni sono diventate ancora più forti. Ho avuto modo di parlare con tanti giovani militari in partenza per l’Afghanistan, per il Libano, per l’Iraq e diverse altre destinazioni, i quali in alcuni casi - bisogna dirlo - sono stati anche loro stessi, di primo acchito e magari con un sorriso, a dire che stavano andando

a rischiare la vita per «fare un po’ di soldi»; ma continuando a parlare con loro non si può non capire che dietro c’è molto di più, l’indennità di missione non può essere sufficiente a compensare il rischio che si va a correre o il dispiacere ed il disagio per il distacco e la successiva lontananza dai propri cari, per non parlare del fatto che non si tratta di cifre in grado di cambiarti la vita. Sì, c’è di più: c’è il desiderio di poter contribuire concretamente affinché nel mondo qualcosa possa cambiare in meglio. In questo periodo si susseguono e si rincorrono tra loro numerosi sondaggi volti a capire se e quanto la popolazione nazionale, ed in particolare le

nuove generazioni, siano interessate al solenne anniversario dell’unità d’Italia, che ci accingiamo a festeggiare nel 2011 con grandi eventi ed iniziative già in corso d’opera da alcuni mesi in diverse città e paesi; ma cosa significa unità e coesione, cosa significa essere italiani, ce lo mostrano eloquentemente proprio questi ragazzi impegnati fuori dai confini nazionali. Antonio, un 23enne Caporale dell’Esercito in ferma breve, dopo un discorso di circa mezz’ora con cui ha tentato di spiegarmi come la sua imminente missione all’estero gli permetterà di avere molte più chance nel selettivo «salto al servizio permanente», comincia a raccontarmi della sua prima volta all’estero:


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una missione di 4 mesi nel martoriato Kosovo, due anni fa. Il tono della sua voce diventa ancora più orgoglioso, mentre mi spiega quali erano i suoi compiti e le sue responsabilità in teatro, poi i suoi occhi sembrano addirittura quasi brillare quando mi parla di quella volta in cui è andato in un piccolo villaggio a sud di Pec, assieme alla Cellula di Cooperazione CivileMilitare (CIMIC): i volti grati e sorridenti di quei bambini ai quali avevano portato cose semplici, come una penna a biro, qualche quaderno ed alcuni giocattoli, sono rimasti impressi nella sua mente e, aggiungo io, sicuramente ancora di più nel suo cuore. Vicino a lui c’è Maria Concetta, una ragazza «tutto pepe» di 22 anni che viene da Cropalati, un paesino dell’entroterra cosentino; sorride, poi fa una battuta banale e definisce il suo commilitone «sentimentale e sdolcinato». Lei invece dice di pensare solo all’azione, si è arruolata per dare una svolta alla sua vita: dopo essersi diplomata con il massimo dei voti, si era iscritta alla facoltà di Biologia all’Università della Calabria, dove addirittura aveva anche sostenuto tutti gli esami del primo anno, ma non era ciò che voleva veramente. Il Campus di Arcavacata, la bella sede dell’ateneo calabrese, che sorge nel Comune di Rende (CS), non regge il confronto con il Butmir Camp di Sarajevo in Bosnia (anche se là, mi dice Maria Concetta: «Ormai stiamo smontando tutto!») o con l’americanissimo Camp Bondsteel di Urosevac in Kosovo, «Perché quando sei in una base multinazionale – prosegue Maria Concetta – a chilometri e chilometri di distanza dalla Patria e da casa tua, hai modo di confrontarti con i colleghi di altre Nazioni e magari scoprire che, come si dice, tutto il mondo è paese: anche loro hanno le nostre stesse ansie e le medesime preoccupazioni per l’incertezza del futuro, così come, oggigiorno più che mai, i giovani di tutto il mondo hanno i nostri stessi problemi». Più parliamo e più rimango affascinato da questo giovanissimo caporale: ha

poco più di vent’anni, ma senza dubbio è già una donna, un essere umano maturo e completo, forse proprio grazie a quelle esperienze militari fatte all’estero; può darsi che fosse quello il tassello che mancava nella sua esistenza, la tessera mancante di uno stupendo mosaico che è l’insieme delle gioie e delle prove che la vita ci pone lungo il cammino della nostra crescita morale e spirituale. Senza dubbio molte cose accomunano questi ragazzi, come la passione che riescono a mettere in quello che fanno, la volontà di aiutare a rialzarsi intere popolazioni messe letteralmente al tappeto dalla guerra ed il profondissimo legame ai valori della nostra comune ed amata Patria, ma ognuno ha qualcosa in più da raccontare, ciascuno di loro è un piccolo mondo da scoprire e forse vuole che io lo faccia, quasi mi invita a scrutare nella sua mente e nel suo cuore per capire insieme a lui o a lei cosa veramente spinge un giovane volontario a mettersi in gioco così impetuosamente, potrebbe essere – e probabilmente nella maggior parte dei casi lo è – qualcosa che loro stessi non sono ancora riusciti a comprendere sino in fondo ed in maniera pienamente cosciente. Chi va in missione per la seconda o terza volta ha indubbiamente un taglio più pragmatico nel parlarmi, all’incirca sa già cosa lo aspetta, anche se il teatro di operazioni in cui andrà ad operare sarà diverso dal precedente, di solito mi racconta dei PX (spacci militari) delle varie Nazioni, di tutte le cose che puoi trovare e delle persone che si possono incontrare nelle varie basi internazionali. Quei ragazzi che invece si accingono a partire per la prima volta, per forza di cose, sono più eccitati e carichi di curiosità verso quello che li aspetta, la loro imminente partenza li elettrizza letteralmente. Un esempio è Francesco, che dall’aspetto sembrerebbe un veterano, ma che invece si trova alla prima esperienza all’estero. Casertano, anzi ci tiene a precisa-

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re: «Per l’esattezza sono della storica e bellissima città di Capua», si è arruolato tardi rispetto ai suoi colleghi e compagni di viaggio, come di consueto in questi casi non mancano quelli che si rivolgono a lui con nomignoli come «Nonno Franco» o cose del genere, sempre però con un sorriso e senza malizia perché comunque «Siamo un gruppo molto affiatato e nessuna battuta va mai oltre lo scherzo del momento o quella che si può definire della sana goliardia». In effetti non nasconde i suoi 28 anni, gli ultimi trascorsi facendo una decina di concorsi nelle Forze Armate, accettando nel frattempo lo stato di ferme brevi e «rafferme»; questo «pur di starci dentro», Francesco infatti non vuole abbandonare il suo sogno di passare al servizio permanente, perché crede sul serio in quello che fa, la sua è davvero una scelta, forse quella che alcuni chiamerebbero più propriamente una «missione»: dopo un anno e mezzo a ricoprire un incarico che molti invidierebbero, in ufficio presso il Comando, come referente informatico, grazie al suo diploma conseguito all’Istituto Tecnico e ad un po’ di esperienza fatta nel negozio di computer di suo fratello Michele, ora vuole sentirsi «in azione», vuole «fare il soldato» e sentirsi tale fino in fondo, senza cedere a compromessi o crogiolarsi in qualche cantuccio comodo. Matteo è un simpaticone: 24 anni, toscano, dice di aver scelto i paracadutisti perché sperava di rimanere vicino casa, a Pisa o al massimo a Livorno. In realtà, come tutti i suoi commilitoni che stanno per partire assieme a lui su due voli militari, Matteo ama essere un parà, il suo è un misto di passione e tangibile professionalità. Devo essere sincero: mentre percorrevo la «Firenze – Mare» per raggiungere l’aeroporto militare di Pisa dove avrei incontrato questi ragazzi, pensavo che mi sarei imbattuto in un team, di quelli – come diceva un famoso film – da tenere chiusi in una bacheca con scritto


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«Rompere il vetro solo in caso di guerra» («Heartbreak Ridge», in Italia tradotto con il titolo «Gunny», regia di Clint Eastwood, anno 1986); invece no, mi sbagliavo di grosso: la prima cosa che ho notato è stata invece che mi trovavo davanti a dei seri professionisti, che fondano le loro capacità, ampiamente apprezzate anche tra gli Eserciti ed i reparti speciali degli altri Paesi alleati, su di un addestramento tecnico-culturale, fisico e mentale davvero impegnativo e ben strutturato. Matteo mi fa presente che questa volta partirà con tutto il suo plotone al completo, lo ritiene un fatto più che positivo in considerazione dei delicati compiti che saranno chiamati a svolgere in un contesto difficile come quello afghano: muoversi tutti insieme, con un organico già ben amalgamato e guidati dal proprio Maresciallo non è poca cosa: «Spesso tra di noi non c’è bisogno neanche di parlare, basta un gesto o uno sguardo che subito il collega ha capito cosa fare e come aiutarti, questo può avvenire solo quando ci si muove per reparti organici, quando siamo noi ed il nostro Comandante». Poi Matteo mi fa vedere una brutta cicatrice che gli è rimasta sul braccio sinistro: l’anno scorso, mentre scendeva da un mezzo blindato «Lince», lui ed i suoi compagni di allora sono stati attaccati con delle raffiche di fucile mitragliatore; in quella circostanza una piccola scheggia gli si era conficcata nell’avambraccio e qualcun altro ha rischiato anche qualcosa di più, per fortuna l’attacco è stato neutralizzato in poco tempo ed uno dei guerriglieri talebani è stato preso, ma secondo il nostro Caporale se quella volta ci fosse stata la sua unità al completo, forse sarebbero stati addirittura in grado di accorgersi per tempo della presenza di quei guerriglieri ed anticipare così le loro mosse, senza che nessuno si esponesse al rischio, scendendo dal mezzo. Sono esperienze che mi lasciano per un po’ senza parole ed anche loro stessi non augurano a nessuno di vivere momenti come quelli, ma eccoli là:

sono pronti e si accingono a partire per un’altra missione che li esporrà nuovamente al rischio estremo, ma questo non li ferma, si tratta del loro lavoro, della piena realizzazione del loro essere soldati dell’Esercito Italiano. Vorrei brevemente dedicarmi, infine, ad un fenomeno che mi aveva già particolarmente colpito ed affascinato quando me ne aveva parlato qualche tempo fa un Ufficiale della Commissione Medica Ospedaliera a Bari e su cui mi ero premunito di documentarmi ancor prima di iniziare la mia indagine, ovvero quello che viene a volte definito come il problema del «ri-adattamento». Indubbiamente un sostegno psicologico è necessario per coloro che rientrano da una missione, dove vi siano stati eventi eccezionali, come violenti scontri e conflitti a fuoco, o per altri gravi motivi specifici; in generale però non va parimenti trascurata quella forma di frustrazione vissuta in maniera più o meno intensa da parte del militare che rientra in Patria dopo una qualunque missione all’estero, sia essa di breve, media o lunga durata. La causa di questo particolare fenomeno è da ricercare nel fatto che l’incarico svolto «fuori area», anche dal singolo militare, molto spesso è fortemente specializzato e corrisponde di norma al conferimento di responsabilità abbastanza elevate all’interno del determinato contesto in cui si è stati chiamati ad operare, cosa che nella maggior parte dei casi non trova poi corrispondenza nella routine giornaliera a cui il militare torna una volta terminata la missione. Talvolta ci si è trovati in presenza di veri e propri rifiuti verso quelle che erano le precedenti mansioni svolte dal militare, situazioni che il più delle volte hanno reso necessario il ricorso a specialisti, verso i quali sono stati indirizzati i soggetti che hanno evidenziato comportamenti più a rischio, allo scopo di recuperare l’equilibrio e la serenità che hanno

poi permesso agli stessi di ritornare al proprio lavoro quotidiano. Nel quadro degli accertamenti sanitari effettuati sui militari di tutte le Forze Armate in occasione del rientro dall’estero, per fortuna da tempo viene comunque svolto un colloquio psicodiagnostico, a seguito di cui possono essere disposti ulteriori accertamenti o terapie. Il problema del «ri-adattamento» colpisce ovviamente anche i giovani e nel corso dell’indagine che ho svolto c’è stato modo di riscontare ed analizzare, almeno in parte, anche questo aspetto. Secondo la mia modesta osservazione, quindi, ciò avviene perché, nonostante un ragazzo non sia ancora assuefatto dalla ripetitività delle proprie mansioni quotidiane (come può avvenire nel caso di un militare più anziano, il quale con molta probabilità vive il momento del suo «ri-adattamento» anche come una occasione per liberarsene), l’eccesso di responsabilità lo disorienta: il giovane, nella condizione sociale in cui vive oggi, è poco abituato ad assumersi responsabilità che riguardino sé stesso o gli altri; il suo essere militare senza dubbio lo sta aiutando a superare questo limite, ma è ancora in cammino su questa strada e potrebbe vacillare. Ai medici ed agli psicologi militari, ma anche ai Comandanti, ai commilitoni ed alle famiglie resta il compito di dare uno spontaneo e concreto sostegno ai giovani militari per affrontare la situazione contingente in maniera positiva. Così si conclude la mia esposizione, umile e senza pretese scientifiche, ma nel contempo affascinata e grata nei confronti dei tanti nostri giovani militari impiegati in missioni di pace all’estero, ragazzi che con le loro gesta rinnovano quotidianamente nel mondo la gloria del Tricolore e della nostra amata Patria. Viva l’Italia dei giovani! Viva i giovani delle Forze Armate italiane! Michele Karaboue Esperto di politiche giovanili


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IL REGGIMENTO ARTIGLIERIA A CAVALLO Il Reggimento Artiglieria a cavallo fu formalmente costituito il 1° novembre 1887 in Milano, raggruppando le gloriose «batterie a cavallo», nate in Piemonte, a Venaria Reale l’8 aprile del 1831 per volontà di Alfonso Ferrero della Marmora, con lo scopo «di far campagna come artiglieria leggera» in appoggio celere ed aderente alle unità di cavalleria. Battezzate come «Voloire» («volanti») dai piemontesi per l’andatura rapida sul terreno vario e per la capacità di appoggiare, con prese di posizione al galoppo, le cariche della Cavalleria, si differenziavano dall’artiglieria da campagna (già ippotrainata) per la posizione assegnata ai serventi durante il movimento, cioè tutti a cavallo, anziché seduti «a postiglioni» sugli avantreni o sugli assali dei pezzi. Il loro antico motto è «in hostem celerrime volant». Le Batterie a cavallo presenti e determinanti in tutte le Guerre d’Indipendenza, hanno meritato i massimi riconoscimenti tra cui spiccano le prime due Medaglie d’Oro al Valor Militare individuali dell’Arma di Artiglieria concesse al Luogotenente Gioacchino Bellezza (1 a batteria) e al Capitano Roberto Perrone di S. Martino (2a batteria). Nel 1848, durante la Prima Guerra d’Indipendenza, costrinsero alla fuga una colonna di austriaci a suon di frustate e per tale motivo agli Artiglieri delle Voloire venne in seguito loro assegnata la sciabola, unico esempio nei reparti dell’Artiglieria italiana di ora e di allora. Le sciabole, ancora oggi, adornano il loro fregio e li armano. I gruppi del Reggimento si distinsero in numerose battaglie della Grande Guerra, in particolare appoggiarono valorosamente a Vittorio Veneto l’azione delle Divisioni di cavalleria meritando, per il loro eroico comportamento, una speciale citazione sul bollettino di guerra del 5 novembre 1918. Durante il secondo conflitto mondiale le

Batterie, che già dal 1934 avevano dato vita ai tre reggimenti Celeri (1°, 2° e 3°), furono destinate in Africa Settentrionale e poi sul fronte russo. Per i fatti di El Alamein fu concessa la Medaglia d’Oro al Valor Militare allo Stendardo del 1° Celere. Nel 1981 - 150° anniversario della fondazione delle batterie a cavallo - al Reggimento fu conferita la cittadinanza onoraria di Milano, a sottolineare il forte e antico legame con la città. Così come la Medaglia d’Oro al merito della Sanità Pubblica per l’opera svolta a favore dei bambini disabili (ippoterapia). Il Reggimento, che dal 1931 ha sede nella caserma «Santa Barbara», nel cuore di Milano, è oggi inquadrato nella Brigata di Cavalleria «Pozzuolo del Friuli». Gli Artiglieri a cavallo servendo la Patria in guerra hanno guadagnato sul campo un impressionante numero di decorazioni al Valor Militare (ben 9 Medaglie d’Oro, 57 d’Argento, 22 di Bronzo). In tempo di pace, fedeli sentinelle dei principi costituzionali - da quasi trent’anni sono murati nel cortile d’Onore della caserma «Santa Barbara» gli articoli 2 e 3 della nostra Costituzione, i diritti e i doveri dei cittadini - rappresentano una garanzia di efficienza, prontezza e fedeltà che li vede oggi protagonisti nel garantire sicurezza e protezione alla cittadinanza di Milano, ma anche nell’assicurare pace e stabilità alle popolazioni libanesi con una batteria mortai. Le batterie delle Voloire offrono, da ben 30 anni, ai giovani diversamente abili una casa, e non una caserma, per le attività di ippoterapia. Dal 2008 il Reggimento è inserito nella Capacità Nazionale di Proiezione dal Mare, all’interno del Comando Forze da Sbarco. Per la prima volta nella storia, nell’ambito delle esercitazioni aeronavali e anfibie denominate «Mare Aperto» e «AMPHEX 2010», una componente del-

Lo Stendardo del Reggimento.

l’Artiglieria italiana, sbarcata da Nave «San Giusto», ha partecipato a un intervento congiunto di tiro terrestre, navale ed aereo, ponendo così una pietra miliare nella storia dell’Esercito Italiano. Lo Stendardo delle Batterie a Cavallo è il più decorato della storia dell’artiglieria italiana: • 1 Medaglia d’Oro al V.M. (Fronte dell’Africa Settentrionale, 1942); • 5 Medaglie d’Argento al V.M. (1 Fronte dell’Africa Settentrionale, 1941; 2 Fronte Russo, 1942; 2 Fronte Russo, 1943); • 1 Medaglia di Bronzo al V.M. (Fronte dell’Africa Settentrionale, 1941); • 1 Medaglia d’Oro al Merito della Sanità Pubblica (conferita dalla Presidenza della Repubblica nel 1981 per l’attività svolta dagli artiglieri a cavallo nel recupero di persone diversamente abili attraverso l’ippoterapia). Le Voloire sono il reparto militare che vanta il più alto numero di cittadinanze onorarie quali, oltre a quella fondamentale di Milano, quelle di Biella, Venaria Reale, Goito, Piedicavallo e Verona. Attilio Neri Tenente del Reggimento Artiglieria a Cavallo


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ANCHE NOI DELLA «FOLGORE»!? LA COMUNICAZIONE IN UN REPARTO OPERATIVO Quando si parla di comunicazione in un contesto lavorativo ci si riferisce, in generale, a un’interazione tra lavoratori che condividono lo stesso status, le stesse direttive ma anche le stesse opportunità di carriera. Un discorso diverso va fatto per il Ministero della Difesa dove, all’interno delle Forze Armate, convivono due realtà lavorative diverse, i dipendenti civili e il personale militare, entrambe sottoposte, però, allo stesso dirigente o, nel caso di un reparto operativo, a uno stesso Comandante. La reciprocità, la condivisione e la giusta comunicazione diventano azioni imprescindibili dallo stato giuridico e condizionano l’andamento, positivo o negativo, del contesto lavorativo. Non è, quindi, possibile ignorare che la comunicazione è un’azione sociale con la quale tentiamo di condividere un’esperienza, di cui il messaggio è la parte finale che congiunge, sia tramite la parola sia tramite gesti, gli interagenti con le loro personalità, le loro caratteristiche e le loro consapevolezze. È pur vero che le modalità con le quali, nella quotidianità, ci rapportiamo agli altri derivano dalla nostra cultura, dal modo in cui affrontiamo e osserviamo ciò che ci circonda ma anche e soprattutto dalla situazione stessa e da come la decodifichiamo. Quindi, si ha una buona comunicazione se colui che ci ascolta interpreta correttamente il messaggio che abbiamo inviato, in modo da generare una relazione che non sia conflittuale ma spontanea e armoniosa. La premessa di cui sopra se rapportata all’interno di un modello istituzionale, fortemente gerarchico, come un reparto operativo delle Forze Armate, diventa fondamentale. La comunicazione verbale e non verbale nell’ambito militare, infatti, più che in ogni altra organizzazione, è indispensabile perché vi sono rituali, gesti, gerghi e simboli inventati dagli uomini per svolgere al meglio azioni e compiti affidati. Tutto ciò tende a mantenere un equilibrio: vi sono regole costruite che, per essere apprese in modo tale da avere un comportamento corretto,

necessitano della conoscenza dei vari meccanismi sottostanti, come la marcia e l’addestramento, necessari per un’educazione alla coesione. È proprio questo che genera il desiderio di affrontare le difficoltà o le battaglie appoggiando il gruppo, dandosi forza l’uno con l’altro; nasce così lo spirito di corpo, quel desiderio di condividere comportamenti, passioni, atteggiamenti e senso di orgogliosa appartenenza a un reparto con una storia gloriosa, quali eredi di grandi tradizioni. Non codificare o non decodificare bene questi simboli o questi messaggi può incidere sul morale e, quindi, sullo stato d’animo nell’impegno comune verso un’attività di gruppo e, soprattutto, può determinare relazioni problematiche, conflittuali e pretesti di discussione. Se a tutto questo aggiungiamo l’immissione di un elemento esterno nella maggioranza, le cose si complicano; infatti, quando un componente diverso, o una minoranza estranea, entra a far parte del gruppo diventa indispensabile il giusto approccio nell’interazione e nella comunicazione. Il personale civile all’interno di un reparto operativo e, nello specifico, un reggimento di paracadutisti della «Folgore», può vivere la sua minoranza, dentro la compagine, in maniera positiva o negativa proprio in virtù della consapevolezza o meno della propria diversità e di una riflessione sulla propria identità. Ma la qualità della sua permanenza nel gruppo e, quindi, il grado di accettazione da parte di questo, dipendono, in buona parte, anche dal Comandante del Reparto, da quanto il suo carisma influenzi l’ambiente e l’interazione sociale e, soprattutto, dalla visione stereotipata che il leader ha verso la nuova minoranza che, come ripeto, ha uno stato giuridico e ruoli diversi dai militari. L’INGRESSO DELLA MINORANZA Lo psicologo Henry Tajfel, studiando i gruppi umani e le categorie sociali e, specificamente, considerando la psicologia sociale delle minoranze, aveva constatato che vi sono delle minoranze coscienti delle proprie differenze ma talmente motivate da eli-

minare alcune diversità e riuscire, infine, a fondersi all’interno del gruppo maggioritario pur conservando caratteristiche proprie. Questo è, più o meno, quello che, personalmente, posso considerare sia avvenuto all’interno dell’Ente nel quale lavoro, nel momento in cui il personale civile è entrato a far parte di questa nuova realtà; posso permettermi questa considerazione perché l’ho esperita in prima persona e l’ingresso è stato percepito dai due gruppi come una novità portatrice di possibili variazioni dentro un sistema di relazioni ed equilibri consolidati. Assimilarsi completamente al nuovo gruppo, dimostrando piena volontà di appartenenza alla categoria maggioritaria, ha fatto sì che l’inserimento del personale civile non venisse ostacolato, proprio perché non percepito come minaccia alla coesione. Il fatto di avere stati giuridici diversi non ha violato la necessità di lavorare con delle regole comuni per un fine comune: quello istituzionale. È stato il lavoro che ha permesso ai due gruppi di unirsi, di avere fiducia l’uno nell’altro, pur nelle differenze di norme e di codici. Anche il Comandante del momento ha avuto un ruolo fondamentale nel cercare di comprendere e affrontare la nuova situazione che si andava creando, cercando di influenzare positivamente il comportamento dei due gruppi e trovare un compromesso che permettesse di superare la linea di demarcazione, che ineludibilmente si era realizzata, promuovendo qualunque tipo di comunicazione. Va da sé che chiunque sia arrivato dopo, sia dipendente civile sia militare, abbia trovato una realtà comunicativa già operativa e difficilmente mutabile; il personale civile si sente, ed è, parte integrante del reggimento e, come tale, si comporta di conseguenza percependosi rappresentato e, a sua volta, rappresentando, fuori dal contesto lavorativo, il reggimento stesso. Chi non condivide questa specie di percezione non riesce a integrarsi del tutto al gruppo e, inevitabilmente, ne esce perdente. È pur vero che non sempre la comunicazione è chiara. Spesso viene indossata una maschera per attutire conflitti o per superare barriere invisibili agli occhi ma, inequivocabilmente, riconoscibili. D’altra parte, il processo di socializzazione permette all’individuo di apprendere certe parti espressive necessarie per interpretare qualsiasi ruolo e, fin da piccoli, impariamo a recitarne varie nella vita reale: poi, diventiamo


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capaci di impersonarne una, grazie a questa socializzazione anticipata. Il sociologo E. Goffman affermava, infatti, che «tutti recitiamo meglio di quanto pensiamo». Ma proprio perché ci può essere dissonanza tra l’aspetto soggettivo, dell’individuo facente parte del gruppo, e l’aspetto oggettivo, che rappresenta il comportamento ideale approvato all’interno di una determinata istituzione, a volte un atteggiamento o un gesto diverso da quello ufficialmente condiviso può creare delle difficoltà di comunicazione e di interazione. È bene ricordare, infatti, che è proprio la comunicazione verbale e non verbale ufficialmente condivisa che crea l’instaurarsi del consenso operativo, di quella specie di cospirazione che permette ai membri del gruppo di imparare e utilizzare un vocabolario verbale e gestuale necessario a comunicare tra di loro; così come le norme, quali imposizioni inevitabili a garantire determinati comportamenti e che vengono trasmesse e controllate gerarchicamente: norme talmente e progressivamente interiorizzate che verranno rese operative senza necessità di ulteriori prescrizioni. LA MASCHERA INDOSSATA QUALE COMPROMESSO PER UNA COESIONE All’interno di un reparto operativo, i dipendenti ricevono, continuamente, nuove informazioni, siano esse personali, istituzionali o relative al gruppo stesso, che tendono a promuovere, formare o modificare, a loro volta, nuovi atteggiamenti. Secondo la teoria della dissonanza cognitiva dello psicologo L. Festinger, l’interazione sociale prevede anche un determinato grado di coerenza non solo in quello che diciamo ma anche, e soprattutto, tra la nostra comunicazione e il nostro comportamento esplicito, specialmente se vogliamo essere credibili agli occhi degli altri e se vogliamo essere considerati meritevoli della stima e della fiducia altrui. Quindi, tendiamo a essere coerenti con noi stessi cercando di mantenere stabili determinati elementi cognitivi: conoscenze, credenze, valori e tutti gli atteggiamenti collegati. Quando alcuni di questi elementi sono in contrasto tra loro provocano un coinvolgimento emozionale e una dissonanza così forte che saranno necessari, per ridurla, cambiamenti di comportamento e di atteggiamento. La dissonanza può essere diminuita in vari modi: tramite un cambiamento nell’ambiente, variando il proprio comportamento oppure

mutando opinioni, giudizi o atteggiamenti con qualsiasi mezzo. SPESSO USIAMO UNA MASCHERA La maschera, quale metafora utilizzata da sempre nella tematica della rappresentazione sociale, ci permette di interagire nella giusta dimensione, misurando, di volta in volta, il grado di iniziative da intraprendere e la giusta comunicazione da tenere; a volte ci aiuta a nascondere le divergenze dietro un’apparenza di consenso operativo. Ci aiuta, altresì, a passare sopra alle ingiustizie e alle disuguaglianze dovute al diverso stato giuridico, a superare scelte politiche che possono condizionare o provocare incomprensioni tra i due gruppi, ma è anche proprio grazie ad essa che superiamo il momento di sconforto ritrovando il giusto equilibrio senza incolpare chi indossa o meno una divisa. La maschera ci aiuta ad affrontare i compromessi che incontriamo quotidianamente sia con noi stessi sia con il resto del gruppo, serve anche a farci sentire parte integrante della comunità: ognuno di noi rappresenta se stesso di fronte agli altri, anche a chi considera il personale civile una «categoria». Ma, a ben guardare, l’appartenenza al gruppo da ormai tre lustri, la condivisione di valori comuni, il riconoscere nell’altro, diverso seppure uguale, la propria capacità ha, pian piano, assottigliato, anche se non del tutto eliminato, la maschera necessaria all’integrazione e ognuno è semplicemente quello che è con i propri pregi e i propri difetti. LE DIVERSITÀ CHE AIUTANO L’INTEGRAZIONE Essere giuridicamente diversi può mettere in luce anche aspetti positivi. Non ubbidire allo stesso codice permette, al personale civile, di alleggerire la tensione burocratica superando norme rigide e circoscritte. Una buona inventiva, sentirsi indipendenti nella comunicazione con meno regole da rispettare, ha permesso di mettere in mostra capacità contenute o offuscate e ricoprire ruoli che, in altre situazioni o ambienti, sarebbero stati soggetti a lunghe contrattazioni. Comunicare vuol dire anche condividere e, riconoscere i ruoli che ognuno di noi ricopre o può ricoprire, implica già aver stabilito la giusta comunicazione. Non solo la piena volontà del personale civile ma anche quella dei vari Comandanti che si sono

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susseguiti nel tempo - chi più palesemente chi meno, chi credendoci davvero e chi per dovere - hanno dato le giuste opportunità al personale civile permettendogli di dimostrare le proprie capacità. È stato il successo della volontà di una buona comunicazione che ha consentito ai dipendenti «senza stellette» di uscire fuori area con il personale militare in contesti internazionali come la Bosnia, il Kosovo e l’Albania, permettendo, altresì, ai Comandanti del momento, assumendosi la responsabilità del personale da portare fuori area, di dimostrare piena fiducia negli individui, donne e uomini, nonostante la diversità dei ruoli. CONCLUSIONI Un grande filosofo contemporaneo L. Wittgestein affermava che il linguaggio è come un gioco e, in quanto tale, è necessario conoscere le regole, che sottostanno al suo funzionamento; spesso, infatti, capita di rimanere intrappolati proprio nelle nostre regole tant’è vero che può succedere di affermare «non è quello che volevo dire». Questo avviene perché non esiste un unico significato per una parola ma è necessario riconoscerla all’interno di un certo contesto, situazione, luogo o istituzione. La realtà in cui personalmente opero ha caratteristiche singolari, forse diverse da altri reparti operativi e sicuramente differenti da molti contesti amministrativi della Difesa, ma oramai, sono caratteristiche connaturate nei nostri atteggiamenti, pensieri e criteri lavorativi a tal punto da non considerarmi, dato che parlo in prima persona, o da non sentirmi «diversa» nel reggimento. È ovvio che tutto ciò esula dalle simpatie o dalle antipatie, dalle relazioni asimmetriche e competitive che ogni ambito lavorativo porta con sé, dai Capi Ufficio più o meno predisposti a una completa condivisione. La particolarità che permette di mantenere salda l’interazione e la giusta comunicazione è il rispetto reciproco, la piena considerazione, anche da parte dei Comandanti, per il lavoro che quotidianamente viene svolto, per la responsabilità e il senso del dovere che ognuno di noi vi applica e che spesso viene elogiato oralmente o per iscritto. È ovvio che, nonostante la stima corrisposta, non saremo mai per i nostri «colleghi» militari davvero parà. Cosetta Movilli Dottoressa Assistente di Amministrazione, in servizio presso il 186° reggimento paracadutisti


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ecensioni

te che Ricciardi scrive per sé stesso senza risparmiare sia critiche, sia apprezzamenti, nei confronti dei superiori e dei colleghi. Questa pubblicazione grazie anche alle esaustive notazioni individua un criterio interessante per conoscere e approfondire la nostra Storia Moderna. Marcello Ciriminna Giovanni Cecini, «Il Corpo di Spedizione Italiano in Anatolia (1919-1922)», Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, Roma, 2010, pp. 471, euro 25,00. Elisabetta Ricciardi: «Vita sotto le armi, vita clandestina. Cronaca e silenzio nei diari di un Ufficiale (19401943)», Firenze University Press, Firenze, 2010, pp. 215, euro 17,90. Il diario si compone di 22 piccoli quaderni e alcuni fogli separati, conservato perfettamente e trascritto solo di recente, a quarant’anni di distanza dalla morte dell’autore. Inizia, in maniera molto significativa, il 10 giugno 1940 e si conclude nel marzo 1943, dopo il rientro dalla Russia. Le annotazioni, registrate con molta regolarità, si interrompono in due occasioni per svariati mesi, ma per una precisa scelta dell’autore. In queste pagine, scritte con parole semplici, a volte di fretta, senza abbandonarsi ad ampie descrizioni, si trova tutta l’altalena di emozioni che si evolvono dall’entusiasmo iniziale, non certo nei confronti del conflitto in sé ma del desiderio di compiere il proprio dovere per la patria, a una sempre maggiore delusione verso i Comandi, per come venivano gestite le operazioni, e un sempre più forte disprezzo nei confronti dell’alleato tedesco, che raggiungerà il culmine nei drammatici momenti della ritirata. Anche per questo motivo vi sono molte similitudini con i diari di altri scrittori suoi contemporanei: è eviden-

Dalle carte dell’Archivio dell’Ufficio Storico dello SME la narrazione di una delicata missione all’estero, di quasi cento anni fa. Dal complesso quadro geostrategico creatosi al termine della Grande Guerra e dalla «vittoria mutilata» nasce la necessità per l’Italia di bilanciare lo strapotere anglo-francese nel Mediterraneo orientale. A partire dalla primavera del 1919, Roma decise di inviare un Corpo di Spedizione finalizzato a realizzare una pronta occupazione militare delle principali località costiere dell’Anatolia. L’intera operazione si rivelò delicata e complessa. I contrasti al tavolo della pace tra i Governi dell’Intesa erano amplificati in modo esponenziale nelle località anatoliche, oggetto dell’occupazione italiana, dove molto spesso i reparti della Brigata «Livorno» furono bersaglio di imboscate e attacchi a tradimento da parte delle milizie elleniche. Il comportamento e la professionalità dei nostri militari fu però sempre al massimo livello, se anche le popolazioni turche, che li avevano come occupanti, in molte occasioni ebbero occasione di testimoniare il rispetto e persino la gratitudine per la Nazione italiana, visto che nella zona assegnata a Roma erano praticamente inesistenti i

casi di feroci scontri armati, che invece erano all’ordine del giorno nel territorio occupato dai greci. Tale doppio clima, al di qua e al di là del confine italo-ellenico, dimostrò a posteriori la lungimiranza dei Comandi italiani, che ebbero sin da subito la percezione di trovarsi in un contesto molto effervescente, visto anche il ribellismo turco che in quei mesi produsse la rivoluzione capeggiata da Mustafa Kemal. Queste dinamiche, incontrollabili per il grande dispiegamento di forze offerto dai greci, lo erano ancora meno per l’esigua Divisione italiana, che con i mesi ebbe a diminuire i suoi effettivi, sino a ridurli a un solo reggimento, prima del completo

abbandono dell’entroterra turco, per ripiegare nel Dodecaneso. Dopo diverse ricerche limitate e generali, esce oggi su questo argomento un interessante resoconto preciso e dettagliato della missione e dei suoi reparti, edito dall’Ufficio Storico dello SME. Il volume dello storico Giovanni Cecini raccoglie e illustra questa importante esperienza del nostro Esercito, che anche in contesti difficili - ieri come oggi - riesce a dimostrare particolari capacità ed esempi di valore. Franco Di Santo


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