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La testimonianza di alcuni ex-IMI della Provincia di Bolzano

Capitolo Terzo La testimonianza di alcuni ex-IMI della Provincia di Bolzano

3,1 La memoria di Orazio Leonardi

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Questo internato di Bolzano ha raccolto in tempi recenti le sue memorie in uno scritto di grande interesse e ricco di dettagli, che ho chiesto di poter pubblicare in questo volume. In appendice a questo racconto Orazio riferisce anche del suo recente ritorno in Germania, ad Amburgo, per rivedere i luoghi di prigionia46 .

“… Sono nato il 21 dicembre 1924 a Padova, ma nel 1933 la mia famiglia si trasferì a Bolzano. Il 21 agosto del 1943 fui chiamato sotto le armi: avevo 18 anni e 7 mesi, fino ad allora avevo vissuto senza problemi, aiutavo mio padre nel negozio di abbigliamento e sartoria che si trovava in via IX maggio, oggi corso Libertà. Fui assegnato al 232° fanteria di Bolzano, alle Caserme Vittorio Veneto; lì constatai che le condizioni di vita erano disastrose: ricevetti una divisa usata, la mia giacca aveva un rattoppo all’altezza della schiena e i calzoni erano più larghi di due misure. E pensare che da civile, ero vestito sempre in modo impeccabile! Ci rasarono, anche se avevamo già i capelli cortissimi; mangiavamo il rancio seduti per terra come i barboni e pulivamo le gavette con la terra del cortile. Ero realmente demoralizzato e stanchissimo per le continue, quanto inutili, esercitazioni. Quando suonava l’allarme, e avveniva oramai quasi ogni notte, ci trovavamo già pronti, perché non ci si spogliava più: dovevamo correre affardellati fino al poligono di San Maurizio, dove attendevamo il fine-allarme. Data la mia corporatura esile, i pochi giorni trascorsi in caserma mi resero piuttosto debole, anche perché non ero abituato ai gravami della vita militare; tutto ciò influì non poco sul destino che mi attendeva. L’8 settembre 1943 sono in libera uscita serale e in piazza Vittorio Emanuele III, ora piazza Walther. Incontro Pasquali e altri amici non ancora arruolati, perché studenti. Mi informano che la radio aveva appena trasmesso l’an-

46 Rispetto al testo originale ho provveduto a effettuare alcuni piccoli interventi di correzione ortografica. Non sono stati effettuati interventi di carattere morfo-sintattico.

nuncio di Badoglio: l’Italia aveva chiesto l’armistizio; la mia famiglia, dopo il primo bombardamento sulla città, si era trasferita sul Renon e fu così che mi trovai solo, senza nessuno che mi potesse consigliare sul da farsi. Tornato in caserma, l’ufficiale in servizio ci fece scendere in cortile, inquadrati con armi e bagagli, in attesa di ordini. L’euforia che ci prende, viene smorzata dal pensiero dell’immediato futuro, sulle possibili reazioni della Germania a questa svolta dell’Italia. Domande che purtroppo ebbero una risposta dopo poche ore. Ore 23. Torniamo nelle camerate e ci addormentiamo completamente vestiti. Saranno state le quattro o le cinque del mattino, un boato accompagnato da raffiche di armi automatiche ci riporta alla realtà del momento: un colpo di mortaio era caduto sul tetto del nostro padiglione e i soldati alloggiati sul piano colpito, scendevano a precipizio lungo le scale. La confusione, la sorpresa e il panico erano accompagnati da urla e spari, che provenivano dalla strada e dal cortile. Nel silenzio che seguì la sparatoria, urla in tedesco tradotte poi in italiano, ci comandano di scendere in cortile, con le braccia alzate, senza zaini o altro, dove, erano schierati una ventina di soldati tedeschi, armati di parabellum, che ci tenevano sotto tiro; un carro armato aveva sfondato un cancello ed era posizionato in modo strategico. Siamo prigionieri dell’esercito tedesco. Cosa succederà ? La domanda, angosciosa, si ripercuote nel nostro intimo senza nessuna alternativa: da come ci trattano c’è poco da sperare, tanto più che con raccapriccio vedemmo avvolto nella bandiera insanguinata il corpo della sentinella che montava la guardia questa notte. Infatti ci fecero sedere per terra, e dopo diverse ore, ci inquadrarono e scortarono nel greto della Talvera. Non avevamo nulla all’infuori degli indumenti che indossavamo. Centinaia, forse migliaia di soldati di tutte le armi erano sparpagliati nella parte asciutta del torrente, mentre i Tedeschi armati ci controllavano dai bastioni e di tanto in tanto sparavano colpi di mitra nell’aria. Speravo che i miei genitori venissero a cercarmi. Sugli argini della Talvera si accalcavano persone in cerca di amici o familiari, ma erano tenuti a distanza dalle sentinelle tedesche. Finalmente intravidi i miei genitori, che gesticolavano con una sentinella tedesca. Corsi verso di loro e ci abbracciammo: è impossibile descrivere l’intimo nostro. Le raccomandazioni di mio padre erano tese alla rassegnazione e mi esortava alla calma e all’ubbidienza. Chiesi loro se potevano portarmi degli indumenti, dato che tutto ciò che possedevo era la divisa e il cappotto militare e mi promisero che sarebbero tornati al più presto. Nella confusione che regnava sulle passeggiate non riuscii più a vedere i miei genitori che, non vedendomi riuscirono a contattare un maresciallo e a lui consegnarono una piccola valigetta: che conteneva un cambio di biancheria, un pullover, una sciarpa e un pezzo di pane con del formaggio. Eravamo a digiuno dall’ultimo rancio del giorno 8.

Tutto questo successe il giorno 9 settembre. La notte trascorse tra spari e grida e una leggera pioggia impregnò i nostri cappotti. Dai riflettori lame di luce illuminavano la scena, per noi apocalittica.

L’alba del 10 settembre ci trovò più demoralizzati che mai, non avevamo idea di ciò che ci sarebbe successo. Dalle prime luci del giorno i tedeschi con la forza,e urla per noi incomprensibili, cominciarono a radunare soldati e formare delle colonne che venivano avviate per dove non si sapeva. Tornare in caserma era pia illusione perché vedevamo i cortei dei soldati che attraversavano il ponte Talvera diretti verso la città. Erano circa le ore undici. I tedeschi scesero nel greto ci radunarono come fossimo pecore; ai pochi che non volevano ubbidire erano riservati pugni e calci. Attraversammo le vie della città scortati da soldati, che continuavano a urlare ordini in tedesco, tra gente che piangeva o che ci derideva… … Arrivati in stazione ci fecero salire su carri merci: trenta soldati per vagone. Nell’attesa della partenza, gente comune venne a manifestarci solidarietà, buttandoci tutto ciò che poteva: cibo e perfino indumenti, nella speranza di poterci rivestire in borghese e poter fuggire. Ore 15 la tradotta parte, comincia a piovere, per fortuna il portellone del vagone rimane aperto e, sotto i nostri occhi, vediamo passare tutti i paesi e i monti conosciuti. Alle 17 siamo fermi al Brennero, al di là dei binari ci sono altre persone che ci rincuorano e ci invitano a lanciare dei biglietti con gli indirizzi dei parenti. Ci avrebbero pensato loro a mandare alle famiglie la notizia del passaggio del loro caro. Quando la tradotta si mosse con il suo caratteristico sferragliare, il nostro morale toccò il fondo. Fu così che quando entrammo in terra tedesca, nel vagone calò un silenzio assoluto, ognuno di noi era concentrato nel pensiero dei propri cari e nell’angoscia del futuro che ci attendeva. Qualche singhiozzo represso diede il via a un generale abbattimento.

Quando venne la notte, cercammo di stenderci sul pavimento del vagone: non era facile trovare spazio disponibile per trenta persone, ma con qualche improperio e zittio riuscimmo – se non dormire – almeno a riposare. 11 settembre. La tradotta attraversa paesi e campagne coltivate e assolate; vista la nostra situazione, ci sembrava impossibile che esistesse ancora tanta pace. La fame e la sete cominciava a farsi sentire: da quasi tre giorni non mangiavamo e non avevamo da bere. Si cominciava ad essere irascibili con i propri compagni, bastava un nonnulla per generare discussioni e incomprensioni. Il viaggio procedeva con lunghe soste in aperta campagna, così che potevamo scendere per sgranchirci; siamo sorvegliati dai tetti dei vagoni da soldati armati, che non ci lasciano nessun spazio per i nostri intimi bisogni. Finalmente nel pomeriggio, durante una sosta, il treno viene affiancato da un camion militare e ad ogni vagone viene distribuito del cibo: una pagnotta di pane acido, una salciccia di sanguinaccio lunga appena dieci centimetri, da dividere con quattro soldati. Il camion seguente era una cisterna, dalla quale venivano travasati e distribuiti secchi d’acqua. Un’organizzazione veramente teutonica. Non sazi, ma rifocillati, continuiamo il viaggio verso dove non si sa. I pensieri sono angosciosi e il futuro è inimmaginabile. 12 settembre. Sono circa le dieci, la tradotta si ferma in una piccola stazione, linda e fiorita con tanti vasi di gerani e petunie. Tale vista mi rincuora ma nello stesso tempo mi angoscia pensando a ciò che il destino mi sta riservando. Il benvenuto ci viene dato da un gruppo di civili che, mostrandoci i pugni, ci gridano: «Badoglio, Badoglio». Bambini biondi e puliti ci scherniscono. Questo avvenne nella stazione di Bremervörde, paesino situato a circa 60-70 km da Brema e da Amburgo. Incolonnati e scortati formavamo un lungo serpentone, che si mise in marcia. Non eravamo per niente marziali. Il sole era alto e il caldo ci faceva sudare, attraversammo il paese tra la curiosità e il malanimo della gente, finché giungemmo in piena campagna. La stanchezza era enorme, eravamo sporchi, sudati e trasandati, quel tragitto di 12 km fu interminabile. Non avendo lo zaino, portavo la valigia con fatica e non avendo più forze ero intenzionato di gettarla quando un vicino di colonna vista la mia difficoltà mi venne in aiuto caricandosela sulle spalle, la solidarietà che conobbi in questa triste situazione mi sollevò lo spirito. Finalmente apparve la nostra destinazione. Il campo si presentava come una distesa impressionante di baracche, circondate da alti reticolati e da torrette con guardie, fari e mitragliatrici. Fuori dal campo c’era una colonna di nostri soldati, arrivati prima di noi che attendevano il controllo prima di entrare nel campo. Nell’attesa, ci sedemmo a terra e, dato che eravamo su un terreno arido e sabbioso, a ogni alito di vento la polvere si mescolava al sudore. Quando arrivò il nostro turno d’entrata passammo il controllo, che consisteva nell’aprire e rovesciare per terra il contenuto di zaini e valigie e pure delle nostre tasche. Soldati tedeschi, con dei bastoni, frugavano nei mucchietti di indumenti per vedere se avevamo delle armi. Non contenti ci perquisirono,

poi ci fecero oltrepassare un grande cancello di filo spinato ed entrammo nel campo, attraversando diversi settori di baracche, sempre suddivisi con doppi reticolati. Dalle finestre delle baracche, visi smunti ed emaciati ci stavano ad osservare: dal loro copricapo capimmo che erano russi. In un altro settore vi erano prigionieri francesi e poi venimmo a sapere che c’erano anche belgi, ben vestiti e paffuti, che al nostro passaggio, deridendoci, ci avvisarono che i tedeschi ci avrebbero conciati per le feste. Entrammo in un settore adiacente a quello francese. Ogni settore era composto da otto o dieci baracche, una baracca era adibita a lavatoio e una a latrina; erano messe intorno a una vasta depressione del terreno di circa un metro di profondità, con le pareti sbieche. Con raccapriccio, a guerra finita, venimmo a sapere quale era stata la loro funzione. Alti reticolati dividevano un settore dall’altro, in più vi era un basso filo spinato - distante da quello alto di circa mezzo metro. La baracca era suddivisa in 6/8 stanze, con letti a castello, un tavolo e due panche, due piccole finestre lasciavano entrare un filo di luce. Affamati e stanchi andammo a dissetarci, il lavatoio consisteva da un tubo metallico con dei fori da cui fuoriusciva un’acqua giallastra e dal gusto sgradevole, imbevibile. Ci sdraiammo sui letti a castello a noi assegnati, che non avevano nulla di letti ma erano scaffali a tre piani, con un tavolaccio al posto del materasso, trovammo dei recipienti in lamiera e dei cucchiai arrugginiti, non c’era ombra di coperte o altro. Con il calare della sera, il buio riempì la baracca. Non c’era la luce e la disperazione si impadronì di noi. Lunghi singhiozzi accompagnarono il sonno, che venne a sopire i nostri tristi pensieri. Fummo svegliati di soprassalto da urla e colpi di bastone sulle pareti della baracca ci fecero uscire all’aperto. Erano le sei, non era ancora giorno e riflettori illuminavano la scena che sarebbe diventata usuale; la stessa cosa avveniva davanti alle altre baracche. Ci inquadrarono e cominciarono a contarci non una volta ma due, tre volte. Dovevamo stare sull’attenti, dovevamo avere la divisa in ordine e guai a parlare: erano bastonate con il calcio del fucile. Questo era l’appello del mattino, che durava circa un’ora; la stessa cosa avveniva alla sera, con la stessa procedura e lo stesso accanimento nel maltrattarci, in questo primo appello venimmo a conoscere le regole del campo, regole severe, che, se non venivano rispettate, eravamo passibili di fucilazione senza preavviso: per chi superava quel basso filo spinato che divideva i vari settori, per chi opponeva resistenza agli ordini dei soldati tedeschi, e infine per chi tentava la fuga. Ci dettero tutte le informazioni interne al lager: nelle ore diurne era proibito stare sdraiati nei castelli, la pulizia della baracca doveva essere scrupolosa, le ispezioni potevano avvenire in qualsiasi ora del giorno, di notte, era proibito uscire dalle baracche, dovevamo organizzare i turni di servizio, ecc. Dopo questo primo appello distribuirono un intruglio chiamato thè, era amaro e di gusto nauseante, ma era caldo e suppliva all’acqua da bere. Il pasto che ci diedero verso mezzogiorno consisteva in una brodaglia dove galleggiava qualche foglia di verdura e tre o quattro patate lessate, alla

sera ci diedero una fettina minuscola di pane nero un dito di margarina e il solito thé. Per tutta la settimana continuò l’arrivo di colonne di soldati e ufficiali, provenivano non solo dall’Italia ma dalla Grecia dalla Jugoslavia, molti di questi erano ammalati di malaria; rispetto all’ insufficienza del cibo che ci distribuivano, ognuno cercava di arrangiarsi, dato che il nostro settore confinava con quello dei francesi, i quali, oltre al cibo del campo, ricevevano mensilmente uno o due pacchi della Croce Rossa. Scambiavamo, sfidando il pericolo delle sentinelle, tutto ciò che potevamo. Fu così che l’orologio che avevo al polso venne scambiato con un filone di pane nero. I lanci attraverso il filo spinato avvenivano verso l’imbrunire, per non allarmare le sentinelle, rimanevamo nascosti dalle baracche, tuttalpiù, vedevano volare alto oggetti vari. Purtroppo, in un caso, la merce di scambio cadde tra i due reticolati e l’interessato che corse a prenderlo, venne colpito al ventre da una fucilata. Venne soccorso e portato nella baracca ufficiali, dove un ufficiale medico gli prestò i primi soccorsi, ma poi arrivarono i soldati tedeschi che lo portarono via e di lui non sapemmo più nulla. La vita al Lager è disastrosa: le ore non passano mai, siamo sempre nell’attesa spasmodica di quel poco cibo che ci danno, la fame ci torce l’intestino, di notte le cimici non ci danno tregua, l’acqua è imbevibile, i gabinetti sono immondi. Gli appelli diventano sempre più stressanti, la pioggia e il freddo ci aggiungono altre sofferenze, senza contare che a turno siamo costretti al servizio concimazione: da ogni baracca vengono scelti due soldati, che devono a turno trascinare una grossa botte, riempita con gli escrementi della latrina da spargere nella campagna circostante. Un lavoro degradante, pesante e umiliante, dal quale si torna infangati e spossati. Un piccolo incidente mi ha creato un problema di non poco conto, per un graffio all’alluce, vuoi per la scarsa pulizia vuoi per la debolezza che mina le nostre difese mi si è formata un’infezione che non mi permette di mettere la scarpa per il gonfiore e per il dolore che mi procura, per poter camminare, presi un cartone e lo legai al piede con lo spago, ma purtroppo rimanendo in piedi per ore all’appello – in mezzo al fango e alle pozzanghere – il cartone si bagnava e il piede si gelava tanto da non sentirlo più, tra l’altro non avevo calzetti ma le famose pezze dell’esercito. Un mattino di metà settembre ci radunarono - soldati e ufficiali - in un grande piazzale saremo stati in tremila. Venne l’ambasciatore italiano Anfuso, accompagnato da ufficiali tedeschi, che ci propose di arruolarci nelle SS tedesche. Nessuno aderì, anzi, ci furono fischi. Le ultime parole che disse il console furono: «Ve ne accorgerete cosa vuol dire essere prigionieri dei tedeschi!». Dopo un paio di settimane tornarono un’altra volta e ci proposero di aderire alla formazione dell’esercito della Repubblica Sociale Italiana: in questa occasione aderirono cento o forse duecento soldati, che furono subito spostati in un settore diverso.

Noi passammo dallo stato di prigionieri di guerra a Internati Militari Italiani, “IMI’’, ma ne venimmo a conoscenza solo dopo un paio di mesi. Comincia a fare freddo, dormiamo coperti dai soli capotti, il legno del castello diventa sempre più duro, la fame è costante. Molte notti sentiamo il rombo dei bombardieri che passano sulle nostre teste; attraverso le fessure della baracca vediamo in lontananza il cielo in fiamme. Ai primi di ottobre, poiché servivano scrivani per l’ufficio matricola, mi presentai alla chiamata; lo feci per rompere la malinconia e la noia delle giornate e sfuggire al pericolo di dover fare ancora il servizio di concimazione. Dopo l’appello andavamo in una baracca dove, oltre ai dati anagrafici, il grado, il reggimento e il luogo della cattura, dovevamo far dichiarare ai prigionieri quale era la loro religione, facevamo firmare una cartolina da inviare a casa sulla quale veniva indicato lo stato di prigioniero di guerra, consegnavamo una piastrina metallico con il numero di matricola, in un altro tavolo presieduto dai tedeschi confiscavano la valuta posseduta. La registrazione dei nostri compagni di sventura terminò verso la fine di ottobre. Fu così che anch’io divenni il numero di matricola 154012 X B. Per questo lavoro abbiamo goduto di una seconda razione di brodaglia giornaliera e di marchi-Lager [l’unica valuta ammessa per gli IMI], con cui comperai alla spaccio una saponetta, un rasoio Gillette e due lamette da barba. A mano a mano che i soldati dei vari settori venivano schedati, venivano avviati al lavoro coatto: partivano sempre all’alba, non conoscendo quale era la loro destinazione finale, che per molti fu fatale. Le partenze si susseguivano, finché nel campo di Italiani rimanemmo solo noi scrivani. 1 novembre. Da tre giorni ci hanno spostato in una baracca diversa, siamo un centinaio; questo cambiamento ci fa capire che siamo in partenza: siamo angosciati e in apprensione per il destino che ci aspetta. Dopo averci ordinato di denudarci, ci hanno portati, nudi come eravamo, in una vicina baracca che, con sorpresa, si era rivelata una doccia. Finalmente, dopo mesi, una vera doccia con acqua calda, Tornati dalla doccia, fecero un’ispezione tra i nostri poveri indumenti; poiché dovevamo avere solo un cambio di biancheria, tutto il resto veniva sequestrato, non si potevano avere indumenti diversi dall’uniforme; per fortuna il pullover che mi diede mio padre era verde così che passò all’ispezione in quella occasione ricevetti un telo come asciugamano due calzerotti e uno zaino. Ci avvisarono che all’indomani saremmo partiti per raggiungere il nostro posto di lavoro; ci lessero le leggi cui noi prigionieri dovevamo sottostare, un’infinità di verboten47 dalle conseguenze molto severe per chi le trasgrediva. Quel che avvenne poi fu decisivo per il mio destino: eravamo un centinaio e ci divisero. Speravo di rimanere con il gruppo con il quale più mi ero legato: c’erano due della Val di Non, un sergente di Riva del Garda, che conoscendo il

47 Divieti.

tedesco divenne il nostro interprete, un gruppo di allievi ufficiali di cavalleria catturati a Pinerolo. Io e un certo Fini di Brescia eravamo i più giovani. 2 novembre. All’alba ci inquadrano, fa piuttosto freddo e, dopo avere ripercorso in senso inverso il tragitto arriviamo alla stazione. Ci caricano su vagoni merci, che vengono chiusi e spostati su binari morti. Rimaniamo per ore al chiuso e al freddo. Finalmente il treno si avvia, ma poi fa diverse soste. È buio profondo, quando aprono i portelloni: ci troviamo in uno scalo ferroviario illuminato, dove ci attendono due camion. Il nostro era dipinto di giallo con scritte rosse, che non ci fu possibile identificare. Il viaggio continua nella notte su questo camion scoperto, sorvegliato da due guardie armate. Attraversiamo quartieri abitati, stradoni con grandi edifici e cisterne, transitiamo su ponti grandi e piccoli. Finalmente il camion si ferma davanti ad una costruzione in mattoni, con strani palchi metallici e diverse tubature da cui fuoriescono nuvole di vapore. Varcato un cancello di filo spinato ci troviamo in un piazzale ingombro di fusti metallici e una baracca illuminata, tutta nuova, con il suo caratteristico odore di legno fresco, il locale è suddiviso in tre sezioni, entrando troviamo tavoli e panche e, allineate su una mensola, scodelle bianche, bicchieri e posate. Ai lati vi sono due settori con letti a castello, forniti di pagliericci e coperte; poi vi sono due sgabuzzini, all’interno dei quali vi sono dei bidoni con manici per i bisogni fisiologici. Eravamo esterrefatti dopo tanto squallore. Comparve persino qualche sorriso, poi ci mettemmo a saltare e ci abbracciammo dalla gioia, credendo di essere ritornati alla civiltà. E le sorprese non erano ancora finite. Entrarono due civili con un gran pentolone fumante: assaporammo una zuppa di patate e carote e pasta, leccornie che avevamo dimenticate da mesi e che finalmente riempirono lo stomaco. Vennero altri civili e dissero che era opportuno attendere un paio di giorni prima di avviarci al lavoro, date le condizioni piuttosto debilitate del nostro fisico. Venimmo a sapere che ci trovavamo ad Amburgo nella raffineria della Shell e che il loro compito era quello di selezionarci per il lavoro, in base alle nostre capacità. Dopo mesi di tavolaccio, stendersi sulla paglia era il massimo! La baracca era riscaldata da tubi in cui passava il vapore, che si scaricava in tre bidoni posti all’esterno della baracca: avevamo l’acqua calda a volontà. Era circa l’una di notte quando il silenzio riempì lo spazio vuoto, illuminato solo da piccole lampade blu. Il mattino successivo svegliandoci, ci accorgemmo di essere praticamente prigionieri nella baracca: le finestre fornite di inferriate, erano chiuse dall’esterno con pannelli in legno così pure la porta d’ingresso. All’arrivo delle sentinelle, un maresciallo molto arrogante con il volto tutto tagliuzzato e un soldato a cui mancava un braccio, ci fecero uscire per l’immancabile appello. Scelsero a caso quattro soldati per il trasporto e lo svuotamento dei nostri WC, che avveniva in un tombino della fognatura posto sulla strada, poi ci fecero togliere i pannelli rinforzati da spranghe di ferro, che bloccavano le finestre e due altri soldati tornarono dalla cucina con due grandi caraffe metal-

liche piene di una bevanda calda ma dal sapore amaro che chiamavano caffé. All’esterno vi era una specie di lavatoio in lamiera con diversi rubinetti. Avendo un paio di giornate libere ci dividemmo i compiti per riuscire a convivere: per prima cosa, eleggemmo un capo-baracca nella persona del sergente di Arco, un certo Cagol che masticava un po’ di tedesco, il quale, per prima cosa formò i turni giornalieri per le incombenze della giornata: aprire gli scuri, svuotare i WC e lavarli con una pompa d’acqua, andare nella cucina che si trova all’interno della raffineria per prendere il caffé o quanto altro. I turni cambiavano ogni dieci giorni: eravamo in cinquanta e rappresentavamo tutte le armi; vi erano anche dei richiamati trentenni e oltre. Eravamo liberi di circolare all’esterno della baracca, in quel settore della fabbrica adibito a deposito di fusti, siamo circondati da canali derivanti dall’Elba, che servono per il passaggio delle chiatte che devono caricare o scaricare. Dall’altra parte del canale c’erano capannoni semidistrutti e incendiati; sulle banchine, gru accartocciate erano un groviglio di ferri arrugginiti. La vista si estende sulla città di Amburgo, con i suoi campanili e i palazzi; il canale principale è solcato da navi mercantili e da chiatte trainate dai rimorchiatori. L’altro lato del canale confina con un grosso cantiere navale, con quei caratteristici ponti di gru e grosse navi alla fonda in cantiere. Sulle divise ci vengono stampigliate a grandi lettere bianche la sigla “IMI” sulla giacca e sui pantaloni per davanti e didietro, inoltre ci misero un numero progressivo,da oggi sono il numero 12, dopo la buona sorpresa dell’arrivo, cominciamo a chiederci come sarà il seguito di questa prigionia. Il terzo giorno, cioè il 5 di Novembre inizia il nostro lavoro coatto a beneficio del ‘grande Reich’. Alle sei del mattino sveglia, dopo l’appello e tutte le incombenze che ci competevano vennero diversi civili con la svastica al braccio e ognuno sceglieva la sua squadra di lavoro: sembravamo pecore al mercato: chi cercava fabbri, chi elettricisti, chi muratori… Fatta la scelta, quelli che rimanevano venivano inquadrati nelle squadre di facchinaggio della raffineria. Oltrepassato il reticolato, ci troviamo nella strada che conduce al grande arsenale e all’imbarcadero del battello, che collega il centro città; sulla destra si erge lo stabile che tanto ci impressionò quando scendemmo dal camion,alla sinistra, un piazzale con l’odiata bandiera svettante da un alto pennone, davanti al nostro sguardo si parò l’ingresso principale della raffineria: alte ciminiere fumanti, grandi cisterne nere, costruzioni in mattoni anneriti con grandi finestre, un intreccio di tubi che si sviluppava su ponti aerei, che andavano in tutte le direzioni, bocchettoni che emanavano nuvole di vapore bianco, intreccio di binari, con vagoni di carbone e cisterne che entravano o uscivano da grandi cancelli, visti danni dei bombardamenti che vedevamo dalla nostra baracca pensavamo di trovare anche qui grandi distruzioni, vi era solamente una costruzione piuttosto grande completamente distrutta cosi pure diverse grandi cisterne sventrate. Il tutto era sormontato da una grande scritta: RHENANIA OSSAG WERK GRASBROOK. Sarà il nostro datore di lavoro fino alla liberazione.

La prima impressione fu di sgomento, lo spettacolo era impressionante e angoscioso. Entrati in un grande antro, ci fecero spostare centinaia di bidoni da un capannone a un altro, poi ci fecero accatastare su tre piani altri fusti che per fortuna erano più leggeri dei primi, lavoro massacrante che durò tutta la giornata, tornati in baracca non avevamo più forze; cominciamo bene, se continua così non so come potremo farcela. Un mattino dopo l’appello, un brigadiere della finanza contestò al maresciallo tedesco obbligatorietà del lavoro per i sottoufficiali, per tutta risposta si prese un pugno che lo fece cadere per terra, al nostro istintivo movimento di aiuto, l’altro soldato urlando, ci spianò il fucile temendo una nostra reazione, questo fatto, ci diede la conferma della precarietà della nostra situazione. Con noi lavorano prigionieri russi, anche loro vittime della guerra. Solo con lo sguardo ci si salutava; era severamente proibito avvicinarsi o parlarsi sia pure a gesti. Una volta alla settimana ci portavano alle docce all’interno della fabbrica, ma purtroppo non sempre potevamo cambiarci e indossavamo nuovamente indumenti sporchi. Le giornate si susseguono con lavori ora pesanti ora leggeri, ma la fame, il freddo, la pioggia gelata e la fatica minano le nostre difese. Mi accorgevo che dimagrivo a vista d’occhio e sentivo, giorno dopo giorno, che le forze mi venivano meno, il vitto, dopo i primi giorni cambiò completamente, la zuppa che distribuivano a mezzogiorno era senza grassi e con pochissime verdure, due o tre patate completavano il pasto, alla sera ci distribuivano una fetta di pane con un bastoncino di margarina e sanguinaccio o un cucchiaio di marmellata e il solito caffè. Anche le divise che indossavamo divennero sporche e si inzuppavano facilmente sotto la pioggia e la neve. Ci diedero delle manopole di tela, che si ruppero quasi subito e allora, ci avvolgevamo le mani con degli stracci, perché il lavoro consisteva nello spostare bidoni da un posto all’altro. Quando le chiatte dovevano essere caricate, i bidoni erano pieni di oli o di grassi e diventavano pesantissimi e il ritmo di lavoro era febbrile e non ci si poteva fermare un minuto, per non creare l’intasamento del pontile. La fatica alla schiena, alle mani, alle gambe era durissima. Quando la sorveglianza si allentava, con la scusa della toilette, andavamo dove sapevamo di trovare scarti della cucina o i resti di cibo dei tedeschi. Eravamo come cani che arraffavano tutto ciò che era possibile ingoiare e mettere in pancia. Guai se ci scoprivano: erano pedate e sberle; vivevamo in un degrado, che sempre più ci abbruttiva. Un giorno, accompagnato da un interprete, venne un civile della Direzione, il quale – lamentando lo scarso risultato del nostro lavoro – ci comunicò che se non ci mettevamo più impegno, ci avrebbero diminuito ulteriormente le razioni di cibo. Un ricatto abbietto: noi non producevamo perché eravamo stanchi e affamati e il lavoro gravoso ci levava ogni forza residua. Un mattino ci portarono in un edificio, che si trovava all’esterno della raffineria, nel cortile di una casa d’abitazione; dovevamo caricare in una chiatta dei barattoli in lamiera, danneggiati e, quelli restanti, dovevano essere

accatastati in un ambiente sano. Ricordo che pioveva a dirotto e ogni tanto ci si riparava nell’androne della casa. Con sorpresa, in un piattino, trovai una testa di pesce affumicato che era senz’altro destinato a qualche gatto. Dopo attenta riflessione pensai che il gatto aveva meno fame di me, così che me la mangiai. Non avrei mai supposto di arrivare a tanto. Scavando tra le macerie trovammo diversi scatoloni semidistrutti, contenenti bottigliette di sciroppo per la tosse. Senza pensarci troppo bevemmo il liquido caramelloso e dolce pensando che ci avrebbe difeso dalle malattie da raffredamento. Gli operai tedeschi, quasi tutti anziani, dopo i primi giorni di diffidenza, con grande cautela per la proibizione di avere contatti con i prigionieri, ci raccontarono che molti di loro erano reduci della I^ guerra mondiale e reduci della prigionia: chi in Italia e chi in Francia. Più volte accadde che all’alba ci trasferivano – a piedi, sotto la pioggia o la neve – in altri depositi della raffineria, a chilometri di distanza e anche lì c’erano bidoni da caricare su chiatte, o spalare macerie. Constatammo così che la zona industriale era per lo più distrutta e incontrammo altri nostri compagni, anche loro affaticati e demoralizzati: solo la speranza ci faceva vivere. Il freddo ci tagliava il viso e le mani e la fame era costante; al ritorno, dopo dieci ore di lavoro, eravamo così stremati, che non eravamo in grado di fare nulla, solo stare sdraiati a riposare. Uno dei tanti lavori che fui costretto a fare era il lavaggio dei bidoni: lavoro sfibrante, che non lasciava tregua, pericoloso per i vapori degli gli acidi che respiravamo, perché tutto si svolgeva in un capannone, illuminato da forti fari. I bidoni venivano privati del tappo, vi venivano infilate delle catene, si versava l’acido e poi dovevamo farli dondolare avanti e indietro, lasciandoli appoggiati a terra su un solo punto. Questo movimento e lo sfregamento delle catene, serviva a raschiare l’unto esistente. Dopo averli capovolti, per pulire l’altro lato, con un sistema di pulegge venivano immersi in un pozzetto pieno di acido: i bidoni, rotolando su se stessi, si autopulivano per mezzo delle catene finchè, ad un segnale luminoso, dovevamo estrarli, levare le catene e lavarli con un getto d’acqua bollente. Venivano poi inseriti in ugelli fissati nel pavimento, da cui fuoriusciva getti di aria calda, il tutto doveva avvenire in perfetta sincronia con i tempi di lavoro e ad una temperatura molto calda e umida. Tornavamo in baracca bagnati fradici, con indumenti e mani bruciati dall’acido e, per mia fortuna, dopo due settimane, cambiarono i turni. Ma la fame era sempre presente, non ci dava tregua: la visita all’immondezzaio della cucina era diventato un pensiero assillante. Un giorno trovai teste e lische di pesci bolliti, resti della mensa degli operai tedeschi, misi tutto quel ben di Dio in un pezzo di carta e appartatomi nella toilette, un capanno con una buca, mi misi a succhiare e mangiare tutto quello che potevo strappare a quei resti di cibo. Sentivo che le forze mi stavano abbandonando e non sapevo cosa poteva succedermi.

Cominciarono anche gli allarmi, di giorno ci rinchiudevano in uno scantinato della centrale del vapore. Eravamo terrorizzati, perché se venivamo colpiti, non avremmo avuto scampo. Di notte invece ci portavano in uno scantinato della zona uffici. Gli allarmi notturni duravano anche per ore e ci toglievano il sonno e il riposo. Per nostra fortuna, i bombardamenti avvenivano soprattutto sulla città: ci dissero che in giugno, in tre giorni, le bombe al fosforo fecero ventimila morti e interi quartieri vennero completamente distrutti. Con tristezza venne Natale. Il morale, durante queste festività divenne ancor più fragile e i pensieri correvano alle nostre case: non avevamo notizie, le lettere scritte in novembre e dicembre erano ancora senza risposta. In una di quelle sere che seguirono il Natale, in orario insolito, venne il maresciallo tedesco che interpellando Zadra e Bellotti, due allievi ufficiali, li invitò ad uscire all’aperto, dove c’erano dei visitatori in attesa. Quando, poco dopo tornarono, visibilmente agitati, ci dissero che elementi del consolato li avevano contattati per informarli che dovevano partire per l’Italia. Mentre preparavano i bagagli demmo loro gli indirizzi delle nostre famiglie, affinché portassero nostre notizie, ma la loro partenza ci procurò molta invidia e malinconia: per loro l’inferno era finito e, dimentichi di tutto, avrebbero trascorso in famiglia le prossime festività. Il trentun di dicembre, a mezzanotte tutte le sirene dei natanti, si misero a suonare. Con grande sconforto, piangendo, ricordavo gli affetti e la libertà che avevo perduta e presagivo per me un brutto destino. Ero senza forze, la fatica del lavoro, la fame, il freddo, non mi davano nessuna speranza di farcela. Anche Fini, l’altra recluta, i primi di dicembre si era ammalato e il medico della raffineria aveva pronosticato una polmonite. Seppi poi, con dolore, la fine che fece. I primi di gennaio del ’44, assieme ad altri quattro compagni e accompagnati dalla sentinella e da un capo, prendemmo un battello che ci portò dall’altra parte dell’Elba dove, dopo un lungo cammino, arrivammo nei pressi di grandi magazzini e costruzioni semidistrutte. Qui trovammo un vagone ferroviario, che doveva essere scaricato: era pieno di patate gettate alla rinfusa, dovevamo riempire dei sacchi e portarli a spalla in uno scantinato. Non si può raccontare la mia fatica: basti solo pensare che dopo otto ore, senza pausa e senza cibo, ci fecero percorrere la strada del ritorno, gravati da duetre chili di patate che, bontà loro, ci regalarono. Ma la stanchezza era infinita, non ci reggevamo più in piedi e mettemmo le patate tra la camicia e la pelle, perché le mani non riuscivano a trattenerne il peso. Quest’ultimo lavoro mi diede il colpo di grazia. Anch’io mi ammalai, con febbre e dissenteria. Dopo tre giorni, una sentinella mi accompagnò – ancora febbricitante – dal medico, in centro città, potei così vedere con i miei occhi le distruzioni causate dai bombardamenti. Trovai squadre di nostri soldati che demolivano resti di mura pericolanti e che scavavano tra le macerie. Raggiungemmo un quartiere integro, senza distruzioni: qui la vita sembrava normale, c’erano negozi aperti, bar, cinema con cartelloni che reclamizzavano film, donne con carrozzine e

con la spesa. Noi dovevamo camminare sul selciato della strada, perché era proibito, a noi prigionieri, calpestare il marciapiede. Arrivammo finalmente in una strada, su cui si affacciavano alte case, immerse in giardini e dove un edificio era stato adattato a ospedale per noi italiani. Un ufficiale medico italiano e uno tedesco facevano la prima visita e decidevano sul caso. Mi ricoverano per la febbre e la per debolezza, pesavo 52 chili. L’edificio era un ex-albergo e la cameretta dove mi avevano ricoverato era zeppa di letti a castello. Eravamo in dieci, alcuni erano feriti sul lavoro, altri bisognosi di interventi chirurgici altri, come me, debilitati. La febbre sparì con qualche compressa e, dopo quattro giorni, l’ufficiale tedesco mi rispedì al lavoro. Mi ridiedero il solito incarico, ma non ero più in grado di reggermi in piedi. Rimasi nella baracca ancora una settimana ma continuavo a peggiorare, riprese la diarrea e la febbre. Il medico della fabbrica disse all’interprete che mi avrebbero ricoverato in un lazzaretto: mi sentii finito. Ormai non avevo più speranza di tornare a casa, piansi lacrime di sconforto e paura. I compagni di sventura fecero di tutto per confortarmi, ma la mia disperazione era indicibile. 25 gennaio. Parto accompagnato da un soldato armato; dopo il battello prendemmo un tram che ci condusse alla stazione centrale, qui salimmo su di un treno; eravamo in uno scompartimento da soli, io e la guardia. La guardia chiuse lo scompartimento a chiave, non scambiò neanche una parola e si mise tranquillamente a mangiare fettine di pane. La vista del cibo diventava una vera tortura, non solo fisica. Speravo che si commuovesse e me ne desse qualche fettina, ma il soldato, indifferente al mio sguardo supplicante, continuò il suo pasto solitario. Stavo perdendo ogni dignità. Il treno, dopo aver attraversato quartieri completamente distrutti si mise a viaggiare tra la campagna e piccole foreste di pini. Dopo due ore siamo scesi a Heidikaten piccola stazione senza paese, nei pressi di Kiel. Camminammo per un’ora, tra la campagna arata; faceva un freddo cane, la fame e la stanchezza mi attanagliano le viscere, dato che il mio incedere era lento, la guardia che mi seguiva, continuava a urlare e a strattonarmi perchè camminassi più svelto, le lacrime che mi salivano agli occhi si cristallizzavano nelle ciglia per il freddo intenso, vivevo con angoscia e paura il pensiero ciò che il domani mi avrebbe riservato… Arriviamo finalmente al lazzaretto, che non è altro che un campo di concentramento, una trentina di baracche dai colori mimetici, con alte pareti di filo spinato. Qui trovai altri sventurati, che attendevano di essere internati. Ci fecero spogliare del tutto, facemmo un sacco di tutti gli indumenti, mettendoli dentro il capotto e legandolo con la cintura, gli scarponi li legammo con le stringhe. Ci fecero fare una doccia calda, ci rasarono completamente e ci spalmarono un disinfettante contro pidocchi e altri parassiti, ci diedero una casacca e dei calzoni di tela sdruciti: dovevano essere divise estive, di non so quale esercito e tempo, e degli zoccoli di legno. Attesi assieme ad altri compagni di essere portato in infermeria, dove c’erano un ufficiale medico italiano e due nostri soldati con la fascia della Croce Rossa. Arrivò il mio turno: pesavo

50 chili vestito. La visita si concluse con la diagnosi di deperimento organico, che, a parere del medico, era di non facile soluzione. Il riposo, ma soprattutto il morale, avrebbero dovuto sopperire alla mancanza di nutrimento. Con fare paterno, vista la mia giovane età, il medico mi esortò a combattere questa battaglia per la vita con fortezza d’animo. Commosso e impaurito fui portato in un magazzino, dove un maresciallo tedesco mi consegnò dieci strette tavolette di legno, che dovevano servire per creare il ripiano del giaciglio… Oltrepassando i soliti cancelli di filo spinato, fui condotto in una delle numerose baracche, occupate da letti a castello a due piani, dove giacevano poveri esseri scheletrici, con teste rasate, ciondolanti, vestiti anch’essi con divise smesse. Dopo che mi fu assegnato il posto, constatai che le tavolette atte a formare il letto erano insufficienti a creare il ripiano. Mi spiegarono, che per il freddo ritagliavano i bordi delle tavole, così queste diventavano strette a tal punto che si doveva cercare di posizionarle con ampi spazi vuoti tra loro, in modo da poter giacere al meglio possibile. I ricoverati erano affetti da varie patologie, anche più serie delle mie. Alcuni erano gonfi e trasudavano acqua da ogni poro: la chiamavano ‘malattia della fame’ e purtroppo, non essendoci una cura specifica, il loro destino era segnato. Come sempre in questi frangenti, fu subito una continua richiesta di notizie sulle esperienze fatte e la situazione del campo. Venni a sapere che Fini, i primi di dicembre era stato ricoverato proprio in quel lazzaretto, dove purtroppo morì, pochi giorni dopo il suo arrivo, non per la polmonite ma a causa della tubercolosi fulminante. L’infermiere me lo disse controllando i miei documenti, poiché provenivo dallo stesso campo di lavoro. Questa notizia contribuì non poco ad aumentare la disperazione e lo sconforto che mi pervadeva. Una stufa, piazzata al centro della baracca è alimentata a legna; per bere, sul tavolo vi era un secchio d’acqua e un barattolo di latta con manico. Nel campo-lazzaretto vi erano anche prigionieri russi e questa è una costante. Là dove ci sono russi vi sono anche gli italiani, perché il trattamento deve essere dei più duri. I primi, perché sono ritenuti di una razza inferiore e noi perché siamo dei traditori. Ci hanno consegnato delle cartoline propagandistiche; ne possiamo scrivere più di una, oltre le solite due lettere concesse. Il campo si trova in una radura, nei pressi di un vivaio di pini, tutti alti uguali, così da formare una siepe verde. Prima di diventare un lazzaretto, era adibito a magazzino della marina da guerra: siamo perciò a poca distanza dalle basi navali. La bellezza della natura, tutto quel verde, il candore di una nevicata che tutto ricopre, rendeva ancora più stridente il degrado che eravamo costretti a subire. I nostri occhi si soffermavano spesso su queste visioni, che illuminavano la nostra mente, ma la cruda realtà era sempre la fame e il freddo. La giornata era scandita dall’attesa del cibo: anche qui una zuppa acquosa e la solita fetta di pane e margarina, ma tutto era ancora più scarso. Pativamo il freddo così come eravamo vestiti e con le coperte di carta; ricevevamo una razione giornaliera di legna, ma così scarsa che ci bastava solo per sei ore, la razionavamo accendendo la stufa solo due volte al giorno.

Altro problema era la toilette: di giorno dovevamo uscire al freddo, per andare nella apposita baracca… Di notte dovevamo usare un bidone all’interno della stanza, che al mattino veniva portato via. I disagi che dovevamo subire sembravano fatti apposta per fiaccare non solo il nostro corpo, ma anche lo spirito. Nel nostro settore oltre le baracche di “medicina” vi era la baracca di chirurgia e una per i tubercolotici. Quasi odierno era il passaggio davanti alle nostre finestre di un mesto corteo: il maresciallo tedesco, il nostro medico e i due soldati infermieri, che trasportavano un corpo avvolto nell’imbottita di carta. Un mattino arrivarono alcuni ufficiali delle SS e un fotografo. Davanti all’infermeria, fecero allineare e denudare una diecina di prigionieri, che vennero filmati dall’operatore con una lavagna davanti al petto, sulla quale era scritto il numero di matricola. Anche nella nostra baracca avvennero diversi decessi, poveri derelitti che nell’agonia chiamavano la mamma o il nome dei propri cari. Vigliaccamente mi rifugiavo nel mio giaciglio, per non vedere e mi tappavo le orecchie per non sentire. Era la prima volta che ero a tu per tu con la morte, e la conobbi nel modo più inumano e sconvolgente. Mi rifugiai nella fede, àncora di salvezza dello spirito, perchè solo questa poteva darci il coraggio e la speranza, quando intorno a noi vi era solo malattia e morte. Nei mesi seguenti, le morti alle quali fui testimone furono così frequenti che, il mio intimo reagiva oramai con apatia e indifferenza, quasi che fosse ormai questo il mio destino. Un mattino, assieme al nostro ufficiale medico, entrarono due ufficiali tedeschi che visitarono tre nostri compagni: erano i più gravi e ad essi venne detto che sarebbero stati rimpatriati in Italia. Un misto d’invidia e di rimpianto ci pervase nel vedere i preparativi della partenza,forse in Italia sarebbero guariti, eravamo lieti per loro ma anche invidiosi. Tra pochi giorni loro avrebbero abbracciato i propri cari. Lasciammo gli indirizzi delle nostre famiglie, perché portassero nostre notizie, dato che anche noi non sapevamo nulla delle sorti dei nostri familiari. Purtroppo, dopo tre giorni, li vedemmo rientrare in baracca. Ci raccontarono la loro odissea: partiti dal Lager in un camion militare, adagiati sulla paglia, arrivarono in una stazione ferroviaria, dove trovarono altri infelici in attesa di essere rimpatriati. Erano stivati in carri merci, su castelli forniti di paglia e coperte, una stufa a carbone riscaldava il carro, il freddo di febbraio era inimmaginabile. Avevano detto loro che la sistemazione era provvisoria, che sarebbero stati trasferiti in un vero treno ospedale ma il loro viaggio si interruppe quando – all’improvviso – un bombardamento aveva distrutto le linee ferroviarie, così il treno dovette tornare indietro. Nell’attesa di formare un nuovo convoglio, riportarono i malati da dove erano stati prelevati; la delusione atroce di questi sventurati, che erano a un passo dalla felicità, si concluse dopo pochi giorni con la morte di due di essi e il trasferimento in un’altra baracca del terzo. Forse l’Italia, non l’avrebbero mai vista ugualmente, la morte sarebbe arrivata comunque a spezzare la vita di quei poveri infelici, ma sarebbero morti senza la disperazione e la

solitudine di questo triste luogo; il destino si è rivelato matrigno verso questi nostri compagni di prigionia e sventura. A metà febbraio avvenne il fatto che forse mi salvò dalla depressione mentale e fisica: cercavano un sarto e, dato che mio padre faceva tale mestiere, da lui avevo imparato i primi rudimenti di questo lavoro così mi presentai al maresciallo tedesco, che mi condusse in una baracca fuori dal settore ospedale. La prima cosa che mi colpì, fu vedere il soffitto della baracca pieno di fagotti: capotti militari etichettati e scarponi a penzoloni; erano gli indumenti che noi stessi avevamo preparato all’ingresso del lazzaretto, questi però erano gli indumenti di chi purtroppo non sarebbe più tornato in Italia. Trovai un altro prigioniero che lavorava da calzolaio e riparava gli scarponi sdruciti dei ricoverati. Mi misi al lavoro. Dovevo fare dei sospensori per chi era stato operato di ernia e mi arrangiai alla meglio; poi dovevo rattoppare le divise dei prigionieri che lasciavano il lazzaretto: un paio di giorni prima di tornare al lavoro venivano spostati in una baracca, dove ricevevano i loro indumenti, così potevano venire nella nostra con gli scarponi o la divisa da riparare. Ciò mi permise di avere una doppia zuppa che, anche se acquosa, era sempre gradita. Un mattino arrivò nel Lager un camion scoperto, chiamarono per nome una ventina di nomi – tra cui il mio – ci caricarono così come eravamo, vestiti del solo “pigiama” e, incuranti del vento gelido che spazzava il camion, ci portarono in un ospedale militare tedesco. Per fortuna il tragitto non fu lungo, ma arrivammo ugualmente intirizziti; un medico ci visitò, ci fecero le lastre ai polmoni, l’angoscia del responso era suffragata dal fatto che ci divisero in due gruppi: chi a destra, chi a sinistra. Il responso lo si seppe al nostro ritorno al lazzaretto. Per fortuna ero nel gruppo dei sani purché, nel frattempo, il freddo preso durante il trasferimento non avesse minato nuovamente il mio fisico. Sembrava quasi che cercassero tutti i mezzi per eliminarci nel modo più naturale. L’allarme aereo veniva comunicato con la sirena e, finché non cessava, non potevamo uscire dalle baracche. La città più vicina era Kiel, ed era questa la meta dei bombardieri alleati. Le loro incursioni, se avvenivano di notte rischiaravano l’orizzonte di rosso fuoco. Arrivò finalmente il mese di marzo: le giornate si erano allungate e il freddo era attenuato. Piansi di gioia all’arrivo del primo scritto da casa. Eravamo rimasti quasi sei mesi senza notizie e, il saperli in salvo e trasferiti nel Trentino, mi diede una carica di fiducia, anche se la fame continuava ad essere una costante in ogni ora del giorno e della notte. Il magazzino-laboratorio dove lavoravo si trovava in un settore comunicante direttamente con l’infermeria, l’ufficio del maresciallo e le cucine. Un mattino dovetti portare nella baracca del maresciallo un paio di calzoni, che avevo stirato; guardandomi intorno vidi nel retro della baracca una gabbia con dei conigli. Con sorpresa scorsi un bel pezzo di pane nero, già mangiucchiato. Non ci misi che un attimo, il pane finì nel mio stomaco. Un’altra volta feci una corsa verso la baracca-cucina e vidi attraverso le finestre che era la cucina dei russi.

Scorgendomi a gesti mendicare cibo, mi fecero capire che mi dovevo procurare un recipiente. Nella spazzatura, trovai un barattolo e con questo rimediai una zuppa. Un’altra volta, era il tramonto, entrò un carro trainato da cavalli che trasportava una grossa botte per i rifiuti della cucina. Un prigioniero sbucò dal nulla, non seppi mai da dove era sbucato, si arrampicò velocissimo sul carro e vidi che mangiava il contenuto della botte. Per istinto salii anch’io e mi ritrovai a mangiare con le mani un intruglio di cavoli, patate, sughi vari, pezzi di pane La festa durò poco perché venimmo presi per la collottola e redarguiti. Stavamo mangiando gli scarti destinati ai maiali. Non so per quale miracolo il nostro organismo abbia potuto sopravvivere, senza patire altre malattie. Arrivò aprile. Cominciavo a non poterne più di vedere tutta la miseria e la morte che giornalmente traspariva dal nostro stato e chiesi al nostro medico, dato che mi sentivo un po’ più in forze, di mettermi in uscita. Era un uomo molto umano. Nei periodi in cui non c’era il controllo dei medici tedeschi, non mandava via nessuno, sapendo che le fatiche cui si andava incontro erano la nostra fine. Era il 16 aprile quando ripresi il cammino verso la stazione, che mi avrebbe portato ad Amburgo. Eravamo tre soldati prigionieri e la solita sentinella; prima di partire chiesi al maresciallo se potevo sostituire la mia divisa, ridotta a uno straccio e imbevuta di oli e grassi, con quella di un soldato deceduto. Tirai giù dal soffitto diversi fagotti e rovistai finché trovai quel che mi serviva per taglia e conservazione: una strana sensazione mi prese indossando panni che non erano i miei. Quel povero soldato doveva essere deceduto prima di andare a lavorare, perché la sua divisa era ancora nuova e pulita. Cambiai le mostrine e ritagliai la scritta delle sue generalità, impresse nella fodera della giacca perché, se mi fosse successa qualche disgrazia, almeno c’era il mio nome. Il viaggio si svolse come all’andata, scendemmo però a una ventina di chilometri dalla nostra destinazione. In attesa che venissero le sentinelle a prelevarci, ci portarono in un Lager, che si trovava in mezzo a palazzi e abitazioni. Tornato nella mia baracca, ritrovai la sincera accoglienza dei compagni, che mi informarono su ciò che era successo mentre ero nel lazzaretto: per la fuga di un aviere, la Gestapo fece brutali interrogatori sperando di trovare i complici, anche Cagol – il capobaracca – era stato rimpatriato e sostituito dal sergente Magni, trovai quattro nuovi soldati che provenivano da altri Lager. Avevano cominciato a distribuire una zuppa anche alla sera, ci davano due pacchetti di sigarette al mese: era un tabacco formato da bastoncini frantumati, sigarette che scambiavo con qualche pezzetto di pane o qualche patata. Due sigarette valevano un taglio di capelli ma non ne ebbi bisogno perché al lazzaretto mi avevano completamente rasato… … I turni per la cucina erano allettanti; la cuoca di turno alla sera con la scusa di farci pulire i pavimenti ci lasciava mangiare tutto quello che era rimasto nei grandi pentoloni e quelle non erano zuppe acquose, ma minestre di riso, orzo e patate. Finalmente il cuore delle persone si era allentato ma rischiavano grosso, perché era severamente proibito fraternizzare e aiutare

i prigionieri. Ci distribuirono anche delle tute da lavoro e delle scarpe con le suole di legno, sempre trattenendoceli dallo stipendio, dato che le divise e gli scarponi che indossavamo, dopo sei mesi di lavoro sotto le intemperie, si erano trasformati in stracci. Tornato al mio lavoro, sentii il responsabile civile che parlottando con i capi nominava il povero Fini e, vista la mia magrezza, forse ebbe pietà di me, e mi assegnò un incarico più leggero. Con raschietti e spazzole di ferro, dovevo pulire le scalette che salivano lungo le cisterne e le passatoie che collegavano uno stabile all’altro. Era un lavoro che mi lasciava anche tempo per riposare qualche minuto, ed ero più libero di spostarmi senza essere osservato. Il clima che si respirava incominciava ad essere diverso: forse la primavera con i suoi tepori aveva portato una ventata di speranza e i primi giorni di maggio cominciarono ad arrivare pacchi da casa e corrispondenza, ciò contribuì ad alleggerire la nostra condizione di prigionieri. Le giornate si fanno più lunghe e il tempo è mutevole, piove, viene il sole, poi nevica, l’ora legale viene prolungata e smettiamo di lavorare con il sole ancora alto. Un mattino ci portarono con il camion in una struttura medica a Wilhelmsburg, località a pochi chilometri dalla nostra postazione, dove ci fecero una puntura all’altezza del petto, avvisandoci che poteva procurarci la febbre. Era una vaccinazione. E poi vennero i bombardamenti. Massicci. Un altro pericolo da affrontare. Avevano scavato dietro la baracca una trincea antischegge, che divenne il nostro rifugio durante gli allarmi, sempre più numerosi e lunghi. Una delle tante contraeree era piazzata vicina al cantiere navale, a poche centinaia di metri dalla nostra baracca. Il rumore degli spari, i boati delle bombe ci frastornavano e la paura cominciò ad essere visibile. Il bombardamento che distrusse mezza fabbrica avvenne il 16 giugno 1944: erano le dieci del mattino, suonò l’allarme, ci condussero nella nostra trincea e subito dopo il caratteristico rombo dei bombardieri, cominciarono a cadere le bombe. Questa volta vicinissime, sentivamo i sibili delle bombe che cadevano e lo spostamento d’aria che seguiva lo scoppio, l’odore di bruciato e di fumo che ammorbava l’aria. Quella volta l’abbiamo scampata per un soffio, perché le bombe caddero tutte dentro la fabbrica a un centinaio di metri da noi. Lo spettacolo che si presentò ai nostri occhi, lacrimanti per il fumo e la paura, era impressionante: denso fumo nero e lunghe lingue di fuoco fuoriuscivano dalle cisterne, sventrate, coricate, accartocciate. Uno dei due altiforni era distrutto; binari, vagoni e cisterne erano un ammasso di ferri, accortacciati. Era il finimondo. Arrivarono i pompieri e una compagnia di riservisti, che avevano la caserma a circa cinquecento metri dalla raffineria. Gli operai civili tedeschi si salvarono nei rifugi della direzione. Ci informarono che nella fabbrica dove lavoravano il rame, confinante con un canale della raffineria, le bombe avevano colpito il rifugio dei soldati italiani. La scena fu sconvolgente, qui non ci fu incendio, ma un ammasso di travi, tubi, macchinari, pareti crollate. Ci fecero scavare tra le macerie, per recuperare le salme e i feriti che sentivamo gridare e gemere sotto quella

montagna di detriti. Estraemmo diversi morti e molti feriti, uno di questi morì subito dopo. Il loro rifugio era una cantina rinforzata alla meglio con assi e travi e purtroppo il destino infierì su essi. Sistemammo le salme dentro un garage, caso strano, qui la morte – diversamente dal lazzaretto – ebbe un diverso impatto in me: nel mio intimo c’era sì il dolore per i giovani strappati alla vita, ma era un destino ineluttabile, che tutti noi correvamo, in attesa della liberazione e uno dei mezzi erano i bombardamenti. Nel frattempo giunsero i camion dell’organizzazione TOD con infermiere, medici e la cucina da campo, che distribuì a tutti – civili e non – pane e alimenti vari, scodellando minestre molto sostanziose. Dopo l’affanno e il triste lavoro che avevamo effettuato, ci riempimmo la pancia di tanta abbondanza e nascondemmo nella confusione diversi filoni di pane e altri viveri e per quel giorno non lavorammo più. I giorni che seguirono ci videro impiegati nel rimuovere macerie per mettere in grado la raffineria di riprendere la produzione. Per accelerare i lavori un mattino vedemmo arrivare due camion di deportati, vestivano casacche a righe, sembravano usciti dalle caverne tanto erano male in arnese, barbe lunghe e visi cadaverici, i sorveglianti avevano sulla casacca un triangolo nero, li frustavano con uno strano arnese di cuoio. Questo spettacolo ci fece inorridire, venimmo a sapere che erano ebrei e delinquenti comuni, vennero essi pure impegnati alla rimozione delle rovine. Noi eravamo dei privilegiati al confronto di questi poveri infelici. Guai a loro se solo alzavano gli occhi. Lavoravano con pale e picconi sempre con la testa bassa e, se per qualsiasi motivo si fermavano, venivano presi a calci e pugni o frustati. Nel tempo che seguì, vennero anche donne, giovani e anziane, con lunghi camicioni a righe, e scaricavano camion di mattoni, travi o tavole. Erano – al pari degli uomini – emaciate e abbrutite, venivano anch’esse maltrattate e costrette al lavoro forzato. La pietà per esse e la rabbia per gli aguzzini ci rivoltava lo stomaco, ma nulla potevamo fare, se non pregare, che l’inferno in cui eravamo precipitati finisse al più presto. Durante la mia giovinezza, ma nemmeno nella mia famiglia, avevo sentito parlare del problema ebraico. Non ne sapevamo nulla ed ora mi trovavo davanti a una realtà che mi riempiva di orrore. Hanno trasferito il nostro Lager in una costruzione di mattoni, a circa quattrocento metri dal posto di lavoro, a venti metri vi è una costruzione gemella, occupata da lavoratori civili. Siamo vicini a un piccolo bunker in muratura che, oltre a noi, viene occupato da civili durante gli allarmi notturni. Non siamo tranquilli, perché lo spessore del cemento è esiguo. Di giorno quando suona l’allarme, dopo le distruzioni subite, assieme ai lavoratori tedeschi e alle sentinelle, con i camion ci portano sotto i cavalcavia della autostrada dove almeno non ci sentiamo in trappola e assistiamo in lontananza ai bombardamenti, che diventano sempre più distruttivi. La raffineria, in poco tempo, riprese a produrre nuovamente a pieno ritmo e treni cisterna supplivano alle avvenute distruzioni; il via vai di vagoni e di chiatte era frenetico, i bidoni erano destinati tutti all’aviazione e alla Wehrmacht: lo sapevamo dalle scritte, che erano stampigliate sui coperchi.

Vennero squadre di prigionieri italiani che costruirono due giganteschi rifugi in cemento armato all’interno della raffineria, con pareti e solai spessi due metri, porte in acciaio da dieci centimetri: saremmo stati più tranquilli durante i bombardamenti futuri! La casetta gemella, occupata da civili, venne rioccupata da altri prigionieri italiani e anch’essa venne contornata da reti e filo spinato, ma loro erano una realtà distinta dalla nostra, avevano altre guardie e lavoravano in un altro stabilimento. Vennero altre malattie a decimarci: Rossi, un modenese, continuava a soffrire di grossi foruncoli ad una gamba e, dopo vari ricoveri, venimmo a sapere che gli amputarono l’arto; ad un altro gli si gonfiò il collo a tal punto che non riusciva più a respirare e di lui non sapemmo più nulla. Un mattino dei primi giorni di agosto, ci portarono con il camion della raffineria in un grande piazzale, dove erano già radunati qualche migliaia di altri italiani. Da un palco, con il megafono, ci invitarono di aderire alla Repubblica Sociale Italiana (RSI) e diventare liberi lavoratori. L’offerta di libertà ci divise in due gruppi, vi furono aspre discussioni sulla opportunità di aderire o meno a questa ‘repubblica’: dopo il trattamento subito, dovevamo dire grazie a chi ci aveva trattato come bestie? Come prima conseguenza venimmo separati dai dodici ex-IMI che avevano scelto la libertà. La baracca era suddivisa in sei ambienti comunicanti (oltre alla stanza e all’ufficio della guardia), quattro locali erano adibiti a dormitorio e altri due servivano per i servizi igienici; murarono quindi la prima stanza e aprirono in essa una porta che dava sulla strada, libera da reticolati e inferiate e suddivisero anche i servizi. Con malcelata invidia vedevamo questi nostri compagni dopo il lavoro uscire e prendere il battello che conduceva in città e al ritorno ci raccontavano meraviglie di ogni sorta. I loro pasti erano gli stessi nostri, ma li consumavano nella loro stanza priva di sbarre e reticolati. Siamo stati comunque tra i fortunati, perché non subimmo le angherie di cui furono oggetto molti nostri altri compagni, che erano prigionieri in Lager molto affollati, dove il rifiuto di aderire alla nuova repubblica scatenò il malanimo delle guardie e per questo furono bastonati per ogni nonnulla, nella speranza di fiaccarne lo spirito e la determinazione di non aderire alla RSI. 20 Settembre. Questo giorno segna un importante data della nostra prigionia, vista la scarsa adesione alla Repubblica Sociale, venimmo di fatto trasformati in lavoratori civili. Vennero dei civili che parlavano italiano, ci dissero che dovevamo ringraziare le autorità naziste e fasciste per questo cambiamento di stato e che saremmo restati alle dipendenze della raffineria, mantenendo le condizioni si lavoro assegnatoci, saremmo stati stipendiati con paga sindacale, la direzione ci avrebbe trattenuto dallo stipendio i contributi previdenziali e le tasse, tolto l’importo dovuto per i pasti e l’alloggio, ciò che restava ci veniva dato in contanti. Tolti i reticolati che circondavano le costruzioni e allontanati i militari

di guardia, venne un responsabile della fabbrica, un certo Rasmusser, che si insediò negli ambienti occupati dai militari e divenne il responsabile dell’ordine e il tramite tra noi e la direzione. In attesa del passaporto ci diedero diversi documenti cartacei, nei quali veniva specificato chi eravamo e dove lavoravamo, avevamo il cartellino d’ingresso alla fabbrica, eccetera. Cambiati i pochi Marchi-Lager in veri marchi, tramite il battello di linea che congiungeva la nostra zona con i quartieri della città (eravamo nella zona del porto), anche noi abbiamo finalmente potuto raggiungere il centro. Questa libertà fu un dono impagabile: camminavamo per le strade, liberi, senza timore di essere maltrattati; ci si guardava in giro, quasi timorosi che fosse tutto un sogno. Le strade erano illuminate, le birrerie erano piene di gente, era una babele; ci trovavamo a San Pauli, uno dei più rinomati quartieri del porto. Ci facemmo anche delle fotografie da spedire a casa, ma poi nessuno ebbe il coraggio di spedirle, perché eravamo troppo in male arnese. Alle ventidue avevamo il coprifuoco e dovevamo essere in baracca; questo obbligo si estinse quando ricevemmo il passaporto. In uno dei tanti pacchi che ricevetti da casa, oltre a generi di conforto, trovai 50 sigarette, che scambiai subito con un operaio tedesco per un paio di scarponi usati. Il lavoro in fabbrica era cambiato: dovevamo innalzare, con scale, corde e tavole, delle passatoie aeree, sulle quali gli operai avevano il compito di isolare le tubazioni del vapore, dopo aver riparato i guasti. Questo lavoro ci impegnò per diversi mesi, al punto che noi stessi avevamo imparato a fare i lavori di isolazione. Diventando civili, anche il vitto migliorò ma era sempre scarso; alle nostre rimostranze ci veniva risposto che quello era il trattamento riservato anche ai civili tedeschi. Venne un altro Natale, ma per fortuna la corrispondenza con casa era frequente e i pacchi continuavano ad arrivare. Gli allarmi erano continui, i rifugi a prova di bomba, il pericolo era quello di non giungere in tempo, perché passavano solo pochi minuti dall’allarme all’arrivo dei bombardieri. Infatti, una notte, correndo verso il rifugio, le bombe furono più veloci di noi e ci caddero a poca distanza: ci buttammo a terra, la paura bloccava le gambe, la strada correva parallela ai binari, dove erano posteggiati vagoni e cisterne. Sarebbe bastato uno spezzone incendiario per annientare tutta la zona. 18 gennaio 1945. Suona l’allarme di primo mattino, ci dirigiamo verso il rifugio, sibili e scoppi scuotono fin nelle fondamenta questo gigante di cemento armato, capimmo che il bombardamento era diretto sulla nostra fabbrica. Al cessato allarme, il solito spettacolo di distruzione si parò dinnanzi ai nostri occhi: fumo e incendi all’interno della raffineria. Andando verso la nostra baracca uno spettacolo indescrivibile si presenta ai nostri occhi: il plotone della guardia territoriale, che di solito veniva ospitato nel nostro rifugio era ridotto a una tremenda massa informe di carne, divise e sangue. Vennero colpiti in pieno da un grappolo di bombe: certi si erano nascosti sotto i carri merci e da questi spuntavano, gambe, corpi informi. Una strage, anziani riservisti sacrificati al grande Reich, ma ciò non fu abbastanza. In distanza notammo

che la nostra casetta aveva una strana forma, infatti anch’essa era stata colpita da una bomba. La zona, dove avevo il mio castello e l’armadietto, non esisteva più. Una profonda buca era tutto quello che possedevo, oltre naturalmente a ciò che indossavo; per mia fortuna era un’abitudine consolidata tenere sempre addosso i documenti. La direzione mi concesse alcune ore libere per rovistare e ritrovare qualcosa delle mie povere cose. Eravamo in dodici a dormire in quella stanzetta: i più riuscirono a trovare qualche indumento tra le macerie, io e il mio compagno di castello invece non trovammo più nulla. Per tre-quattro giorni, soldati della territoriale con una cesta e delle aste di ferro continuavano a frugare nei crateri delle bombe e tra la ferraglia dei vagoni distrutti, alla ricerca di brandelli dei caduti. Ci stringemmo nelle altre stanze, dormimmo un paio di notti per terra, su giacigli improvvisati, fino a che arrivarono nuovi castelli con pagliericci e coperte. Dopo questo bombardamento non ci fu più acqua, così ci arrangiammo alla meglio: vicino alla casetta vi era uno dei soliti canali morti dal quale prendevamo l’acqua per lavarci, anche se su essa galleggiavano macchie di olio. Dal Vaticano ci furono inviati indumenti usati: io ricevetti un paio di calzoni neri a righe, che mi arrivavano alle caviglie, una giacca doppio petto con le maniche così corte, che mi lasciavano scoperti i polsi, un capotto militare e un paio di pullover. Per fortuna nei pacchi da casa, oltre ai generi alimentari, vi erano camicie e biancheria. L’arrivo di questi pacchi era il legame che ci unisce alla famiglia, in essi percepivamo il profumo e l’amore della nostra casa.

Siamo in febbraio, altri due nostri compagni sono partiti per l’Italia con nostra comprensibile invidia. Il lavoro in fabbrica dopo l’ultimo bombardamento è molto calato, certi reparti sono stati chiusi e si lavora più che altro alla rimozione delle macerie e allo smaltimento delle riserve che ancora esistono nelle grandi cisterne risparmiate dai bombardamenti. La direzione aveva escogitato un sistema per non subire ulteriori distruzioni: dopo il passaggio della prima ondata di apparecchi, venivano incendiati dei bidoni colmi di liquidi infiammabili, così la zona appariva già distrutta alla seconda o terza ondata di bombardieri. Gli allarmi non si contavano più, anche due per notte, dormivamo vestiti e con le scarpe ai piedi. La stufa a carbone non riscalda abbastanza, è freddo, i canali sono ghiacciati e non possiamo prendere l’acqua per lavarci, ci arrangiamo alla meglio in fabbrica. Sono stato costretto ad andare da un dentista: era da tempo che avevo male, così mi mandarono in centro città. Una dottoressa mi disse che doveva levarmi due denti, perchè non c’erano possibilità per curarli così quella notte ebbi forti perdite di sangue. Le nostre escursioni serali in città avevano anche lo scopo di procurarci qualcosa da mangiare, andavamo negli ‘Schnellquelle’, piccoli ambienti in cui, per pochi Pfennig, ci davano patate lesse accompagnate da salse di pesce oppure scodelle di brodo di dadi.

Per tre o quattro volte l’allarme ci colse in città; i rifugi erano tanti e ben protetti: fu dopo uno di questi allarmi, che si protrasse per alcune ore, che perdemmo l’ultimo traghetto. Così sperimentammo il tunnel sotto l’Elba, che ci condusse fino alla zona industriale, ma per raggiungere il nostro domicilio dovemmo camminare ancora per cinque chilometri, con il timore di allarmi aerei.

Venne aprile, la raffineria era pressoché ferma, ci mandarono a fare barricate anticarro nelle vie di Amburgo. Lavoriamo nei quartieri distrutti, dobbiamo costruire delle muraglie con i mattoni delle case bombardate, e inserire come rostri, diverse putrelle di ferro, sempre raccolte tra le macerie. Terminato il lavoro un cartello avvisava che l’opera era stata eseguita dalla raffineria. Eravamo proprio alla fine ce ne accorgemmo quando tra le macerie trovammo ritratti di Hitler, divise e camicie brune, bracciali e distintivi con la croce uncinata. Gli operai tedeschi che ci guidavano, scuotendo la testa, ci facevano capire che il loro sogno illusorio era finito. Siamo preoccupati per l’immediato futuro: l’innalzamento delle barricate nelle strade della città ci fa capire che l’esercito è pronto a combattere casa per casa, solo rifugiandoci nei bunker della raffineria potremmo salvarci dall’imminente attacco. Durante la notte, in direzione di Harburg il cielo è in fiamme; gli allarmi si susseguono ma non vi sono bombardamenti. Ormai dormiamo nel bunker, la notte sentiamo aerei sorvolare il canale a bassa quota e mitragliare il porto, dove sono ancorate diverse imbarcazioni militari. Un mattino, forse il 27 o il 28 aprile, Rasmusser con nostra grande sorpresa e felicità ci lesse un giornale tedesco, che riportava la notizia della morte di Mussolini48, la guerra in Italia era finita e, con molta probabilità, Amburgo sarebbe stata dichiarata città aperta. Ciò che rimaneva dell’esercito tedesco, aveva abbandonato la città. Eravamo al settimo cielo. Distribuirono un filone di pane a testa e dei pacchetti di margarina, perché la cucina e la raffineria avevano cessato l’attività in attesa degli eventi. Era il 2 di maggio; una camionetta si fermò davanti alla baracca, ne scese un ufficiale – credo inglese – con la pistola in pugno. Saputo che eravamo Italiani, ex-IMI, prendendone nota ci disse che l’indomani sarebbero venuti a prelevarci. Quella notte nessuno dormì, cantammo a squarciagola fino all’alba. L’incubo era finito. Il giorno dopo, puntuali arrivarono 4 autocarri alleati e con questi lasciammo Amburgo, dopo quasi tre ore di viaggio nel quale attraversammo villaggi completamente distrutti; ci fecero entrare in un ex-campo di concentramento, nella località di Fischbeck; ci trovavamo in un zona collinosa con campi e boschi di pini, disabituati da lungo tempo allo spettacolo della natura, la vista di tutto quel verde ci dette la vera essenza, della pace.

48 Benito Mussolini morì il 28 aprile 1945.

Qui ci fecero fare la doccia e con una pompa ci cosparsero di una polvere bianca. Ci interrogarono e ci visitarono, ci fecero raccontare la nostra storia, ci diedero dei documenti e, alla nostra domanda di rimpatrio, risposero che ci sarebbero voluti mesi prima di poter tornare a casa poiché la rete ferroviaria era praticamente inesistente. La delusione fu sostituita da una calma rassegnazione: ormai sarebbe stata una questione di qualche mese. Il cibo era buono, mangiammo finalmente perfino della carne, anche se in scatola e altri cibi di cui avevamo ormai dimenticato l’esistenza. Per allietarci, due volte alla settimana venivano compagnie musicali o di varietà; il campo era un ex-lager per ufficiali belgi, i quali godevano persino di una sala teatro con palcoscenico. Trovammo sotto i pavimenti delle baracche scatolette di alimenti, sigarette, corrispondenza, cose abbandonate nella fretta dell’evacuazione, dato che in quella zona passò il fronte. Testimonianza di ciò erano i carri armati sventrati e i rottami di aerei sparsi nella campagna circostante… Il tempo che trascorremmo in questo campo fu un susseguirsi di abitudini ormai perse: il mattino era dedicato alla doccia e per chi lo voleva alla ginnastica. Potevamo uscire dal campo dalle 14 alle 22, così che in gruppetti ci incamminavamo lungo questi sentieri di campagna per assaporare con pienezza d’animo la natura che ci circondava. 30 luglio. Una colonna di mezzi militari entrò nel campo, era arrivato il momento tanto atteso, ritornavamo a casa; dopo averci sistemati sui camion, ci trasferirono in una ex caserma dell’esercito tedesco, eravamo tornati ad Amburgo, scorgevamo le navi che transitavano sull’Elba, ci distribuirono delle gallette, carne e verdure in scatola, e ci diedero il documento di rimpatrio. L’euforia che ci pervadeva non ci fece dormire, finalmente il mattino dopo, raggiunta la stazione che pullulava di soldati alleati e di colonne di rimpatrianti, con una tradotta prendemmo la direzione dell’Italia, tanto desiderata. Nel lungo viaggio del rientro incrociammo treni ospedali, mezzi militari alleati; nelle soste delle stazioni ci distribuivano cibo, bottiglie di acqua e sigarette, nelle stazioni vedevamo i civili tedeschi ammassati nei vagoni merci, ma non sentivamo spirito di rivalsa, avevamo dimenticato tutte le sofferenze patite, andavamo finalmente verso il sole, la nostra casa, i nostri affetti per lungo tempo ardentemente desiderati. La sera del 3 agosto arriviamo a Mittenewal49, cittadina situata in prossimità del confine austriaco; ci fanno scendere dal treno e ci trasferiscono in una grande caserma, dopo averci nuovamente cosparsi di quella polvere bianca, e averci distribuito zuppa calda e cibi in scatola, ci conducono in camerate vuote di arredi, ci corichiamo sulla paglia tentando di prendere sonno, ma siamo troppo euforici e tesi per poter dormire. Verso mezzogiorno ci riportano in stazione e riprendiamo il viaggio, siamo vicini a casa, solo poche ore ci separano dal momento tanto bramato di abbracciare i nostri cari e chiudere per sempre questa triste esperienza.

49 Si tratta con ogni probabilità di Mittenwald.

5 agosto 1945. Alle ore 3 di notte il treno si ferma, sono a Bolzano; salutati i compagni di viaggio, scendo dal treno con gambe tremanti per l’emozione. In stazione trovai civili e soldati coricati sulle panche nelle sale d’aspetto in attesa della fine del coprifuoco. Finalmente, alle prime luci dell’alba mi incamminai lungo le strade conosciute.

Ma il viaggio non era ancora finito. Dopo avere contattato amici di famiglia che mi accolsero con le lacrime agli occhi, presi il trenino che mi portò alla Mendola, ma non essendoci mezzi di locomozione, mi incamminai verso Ronzone50, dove la mia famiglia era sfollata, camminando di buona lena raggiunsi le prime case del paese, ad una signora affacciata chiesi se conosceva la mia famiglia, questa, comprendendo chi ero, mi fece salire in casa e corse a chiamare i miei famigliari, è impossibile descrivere l’incontro, gli abbracci, le lacrime di felicità che suggellarono questa triste esperienza della mia vita. In questi sessanta anni, forse per pudore, non raccontai a nessuno – neanche alla mia famiglia – i fatti più dolorosi che mi videro come protagonista. Scrivendo queste mie memorie e avendo poi conosciuto le grandi tragedie che furono perpetrate in nome di una follia, mi sono reso conto che i nostri sacrifici e le tribolazioni patite, furono niente, al confronto di quelle subite da altri. Ho voluto portare questa mia testimonianza in memoria di quei sessantamila (chi dice ottantamila) IMI morti, che con il loro sacrificio contribuirono al riscatto dell’Italia, anche se da questa non sono stati ancora sufficientemente riconosciuti, come meriterebbero.

50 Località della val di Non, nel Trentino orientale.

Ritorno ad Amburgo, sessant’anni anni dopo51

Dovrei dire 63 anni dopo, perché il 2 novembre 1943 arrivammo ad Amburgo, dopo aver soggiornato nel campo di concentramento di San Bostel52,dal 12 settembre 1943. …Voglio testimoniare quanto segue: navigando in Internet con Google, nella pianta della città di Amburgo, in Werftstrasse, dove c’era la Rhenania Ossag sede del lavoro coatto per noi prigionieri IMI, vidi che esisteva un’insieme di costruzioni e di cisterne con la dicitura SHELL nel tetto di un padiglione. Negli ultimi tempi c’era nel mio intimo il desiderio di tornare ad Amburgo per rivedere i luoghi dove avevo vissuto gli anni di prigionia e di lavoro coatto e poter ritrovare nella località di Haidkaten traccia del lazzaretto dove avevo trascorso i tre mesi più tragici della prigionia.

Sulla sinistra Orazio Leonardi in visita alla Shell di Amburgo nel 2006.

51 Leonardi scrive all’ANPI di Bolzano una lettera il 19 novembre 2006 in cui spiega il motivo del suo ritorno ad Amburgo: “A seguito della mia “memoria” già in Vs possesso, voglio testimoniare ancora quanto sugue. In questo periodo ho sentito molto forte il desiderio di tornare ad Amburgo per rivedere i luoghi dove ho vissuto durante gli anni di prigionia e di lavoro coatto e magari per ringraziare qualche dirigente Shell, nel ricordo di un capo tedesco che, una volta tornato in fabbrica (allora si chiamava Rhenania Ossag) dopo un ricovero nel lazzaretto di Heidkaten, vista la mia debolezza (pesavo 50 kg.), con un gesto di pietà mi salvò la vita, facendomi svolgere un lavoro più leggero. Se questo non fosse avvenuto , probabilmente oggi non potrei raccontare gli avvenimenti successi sessanta anni fa…”. 52 Si trattava del lager X B di Sambostel, situato tra Brema ed Amburgo.

Orazio Leonardi con alcuni responsabili all’interno dello stabilimento Shell di Amburgo.

Per organizzare il viaggio ad Amburgo ho interpellato via e-mail il Consolato Italiano di Amburgo chiedendo il loro aiuto per esaudire il mio desiderio di rintracciare il luogo del lazzaretto e contattare la raffineria Shell per una mia eventuale visita, questi contatti risalivano al mese di agosto 2006. Il Consolato Italiano, nella persona della segretaria dott.sa Bergamaschi, si interessò al mio caso contattando la direzione della Shell e ottenendo il benestare per la mia visita; del lazzaretto invece non ne hanno trovato traccia; mi hanno però informato che nei dintorni di Amburgo, nel grande cimitero di Ojendorf, vi è un settore interamente dedicato ai caduti italiani IMI. Il 29 ottobre insieme a mia moglie e ai miei cognati siamo arrivati all’aeroporto di Amburgo. Il giorno dopo, contattato il consolato, siamo andati a visitare il sacrario di Ojendorf… È stata un’esperienza dolorosa, vi sono sepolti più di 5800 soldati IMI, nelle lastre tombali vi è inciso il nome, cognome, arma e grado di ogni caduto… Camminando tra le tombe rivivevo come in un tragico sogno, il periodo triste della mia permanenza nel lazzaretto, rivedevo i volti emaciati e sofferenti, risentivo le invocazioni e la disperazione nelle voci senza speranza, nella certezza di non più rivedere i propri cari. Confesso, che un pianto irrefrenabile ha scosso il mio essere, è stata un’esperienza che non potrò mai più dimenticare. Mi ero portato dall’Italia un tricolore, e in esso ho avvolto dei fiori che ho deposto sul sacello che ricorda i nostri soldati morti nella disperazione, morti di stenti, di fame e di malattia.

Con commozione ho saputo,che tutti gli anni, nella giornata delle Forze Armate, il Consolato Italiano e autorità Germaniche, rendono onore e omaggio ai nostri caduti. Il giorno dopo un taxi ci ha prelevato dall’albergo e ci ha condotto alla raffineria Shell. Sono stato accolto con vera cortesia e curiosità dall’addetto alle pubbliche relazioni, Ing. Henry Weber che, tramite un’interprete – anch’essa messa a disposizione dal Consolato – volle sapere tutto sulla mia prigionia, il contesto storico in cui mi ero trovato, il lavoro coatto che eravamo stati costretti a svolgere. Il mio racconto lo stupì e lo commosse; si è dimostrato così interessato da condurmi in un archivio, dove giacevano vecchi documenti, ma di quegli anni non esisteva traccia. Dato che mi ero portato da casa i documenti, rilasciati nel settembre 1944 dalla Gendarmeria quando contro la nostra volontà diventammo lavoratori civili e che attestavano che il nostro datore di lavoro e il nostro domicilio era presso la raffineria Rhenania Ossag, l’ing. Weber se li è fotocopiati e ha chiesto all’interprete di tradurgli la mia memoria, per conoscere appieno l’esperienza da me vissuta. Dopo averci fatto visitare i vari reparti dandoci spiegazione tecniche sul lavoro, ormai totalmente computerizzato, siamo stati invitati alla loro mensa. Al momento del commiato mi ha abbracciato con calore e simpatia.

Seguono ora i risultati di alcune interviste condotte nel 2007 a Bolzano ad ex-Internati. Cominciamo con Tarquinio Barbierato.

3.2 Tarquinio Barbierato

Tarquinio Barbierato è nato il 21 maggio 1920 a Padova. La sua famiglia si trasferì a Bolzano nel marzo del 1940, quando lui era già stato richiamato al servizio militare. I genitori avevano preso in affitto un maso (che oggi non esiste più) all’angolo tra via Milano e via Palermo. Fu richiamato alle armi il 2 febbraio 1940. Dopo due anni e mezzo di servizio al distretto militare di Pola, venne trasferito al ruolo di istruttore per le reclute. In seguito, contemporaneamente alla sua attività di istruttore, svolse servizio di guardia armata a Pola: presso le scuole della Marina, all’ospedale militare della Marina, alla centrale elettrica della città. Svolse servizio di istruttore per qualche mese anche a Trieste. Poi, con l’armistizio, arrivarono i tedeschi, e ordinarono di consegnare tutte le armi. Il giorno 30 settembre ci hanno condotti tutti al porto di Pola. C’era la motonave “Vulcania”, adibita al servizio ospedale, dipinta di bianco con una grande croce rossa, enorme, 22.000 tonnellate… Siamo saliti in 4.000, ci hanno messi dappertutto. Io ho dormito in coperta, mi ricordo ancora, perché era caldo. Ricordo che siamo arrivati a Venezia, siamo sbarcati nell’isola della Giudecca alla sera. Da lì ci hanno fatti scendere tutti e c’è stata la scelta; chi voleva aderire e chi non voleva aderire… Ricordo che nel gruppo c’erano molti avieri e marinai; la metà decise di aderire. Quelli che aderivano potevano subito tornare a casa, a raggiungere le proprie famiglie. I non aderenti venivano invece caricati sui vagoni e messi in viaggio per cinque giorni, quaranta per vagone... Siamo andati attraverso il Tarvisio, poi l’Austria, a Kemnitz, Lipsia e siamo arrivati a Berlino. Da Berlino a Stettino, sul mar Baltico, lì era un grande campo, si stava malissimo. Una squadra di noi, una ventina di noi hanno chiesto di andare a lavorare, subito… Una parte andavamo a montare baracche in legno e un’altra parte a fare degli enormi scavi nelle piazze principali per consentire che si formassero degli accumuli d’acqua quando bombardavano per spegnere gli incendi. Ad un certo punto ha incominciato a fare freddo, molto freddo, ci hanno fatti rientrare al campo di concentramento e trasferiti a Mannheim, sul Reno. Poi insieme ai miei compagni siamo stati alloggiati presso una scuola e adibiti tutti allo sgombro delle macerie… Poi lì mi sono sentito poco bene e sono stato trasferito in un campo di concentramento; era un campo di smistamento vicino a Düsseldorf, dove c’era un ospedale militare italiano: c’erano metà italiani e metà russi; però era amministrato e diretto da ufficiali slovacchi… Nell’ospedale operavano con le lame da barba, le fasciature venivano fatte con la carta igienica… Dopo in estate facevano i vermi, quando tiravano via la carta igienica sulle ferite c’erano i vermi, no? E lì c’era una media di 10-12 morti al giorno, quasi tutti di TBC. Lì sono stato due mesi e ho conosciuto il capitano medico Manca e poi un tenente medico trevigiano di cui non ricordo il nome, fumava le foglie di

patate, povero diavolo. E lì si doveva lavorare in che condizioni… C’era un capellano militare che dopo la guerra sono andato a trovare a San Giovanni Persiceto (Bologna); questo qui era riuscito ad ottenere per trasportare i morti uno di quei carretti che hanno i tedeschi con le sponde alte, con due cavalli. Su questo carro vengono caricate le casse da morto. Venivano sepolti umanamente. E questo cappellano era riuscito a farsi autorizzare a coprire il carro con una enorme bandiera bianca, rossa e verde che lui l’aveva sottratta in Grecia, l’aveva nascosta e lì copriva le casse che andavano al cimitero. Mi ricordo che si chiamava don Antonio. Sono rimasto in ospedale due mesi. Avevo sempre la febbre. Lì ho visto le cose più strane. Gente che… I malati di TBC quando camminavano finivano uno contro all’altro, non si vedevano neanche… Erano come degli scheletri umani che si spostavano. Ricordo uno di La Spezia, sarà stato alto come lei, che voleva entrare in baracca. Lo sa che non riusciva nemmeno ad alzare il piede per scavalcare lo stipite della porta? E allora io sono andato istintivamente per aiutarlo, l’ho preso per il polso, ho messo una mano sotto l’ascella e l’ho sollevato tutto… Sarà stato trenta chili… Cose bestiali. Vicino al campo c’era una fabbrica di benzina. Quando arrivavano i bombardamenti i tedeschi, anziché tenere accese le luci che illuminavano il campo di concentramento, per indicare agli anglo americani la presenza di prigionieri, spegnevano tutta l’illuminazione di modo che gli americani per sbaglio bombardavano anche noi… Poi da lì sono guarito. Naturalmente i russi avevano un trattamento particolare, i russi li seppellivano nelle fosse comuni… Li avvolgevano nei fogli di carta oleata di colore arancione… li chiudevano con un legaccio e poi nella fossa comune, dopo un po’ di terra, c’era sempre la pala meccanica che aspettava per coprirli… … Io suonavo la fisarmonica, avevo con me la fisarmonica. C’era un mio amico che suonava il violino, è di Fermo, è stato sindaco di Fermo… C’era un capitano tedesco, che era il responsabile del Lager, il quale ci tollerava, anche lui stava qualche volta ad ascoltare. A un certo momento hanno detto «Siete idonei». Basta, via. Siamo finiti a Düsseldorf. A Düsseldorf ci hanno portati in un comando tedesco e ci hanno classificati. Ci hanno chiesto «Tu cosa fai?». Ero con un caro amico che era un maestro di Alessandria, Benzi Giovanni. Mi disse: «Tu cosa dici?». Lui aveva deciso di fare il contadino, «così vado in campagna e sto bene», disse. Dico io «il contadino non lo so fare»… Purtroppo, se ti mandavano di ritorno da dove eri andato a lavorare, dicevano che non eri all’altezza e ne passavi… Ne abbiamo visti noi… Io e un amico siamo finiti a Remscheim (?), a una quarantina di chilometri da Düsseldorf, vicino a Solingen, a una decina di chilometri da Wupperthal. Siamo finiti in una fabbrica di utensili che faceva anche parti meccaniche per carri armati… Io me n’ero accorto perché mi erano capitati in mano dei disegni e si vedeva che i pezzi servivano per i carri armati.

In questa fabbrica il sottoscritto dopo quindici giorni è stato scelto, messo direttore del reparto tempere. Il mio capo vero e proprio era un anziano di 65 anni, piangeva sempre perché aveva un figlio disperso in Albania e uno disperso in Russia. Siccome io avevo lavorato i primi quindici giorni con lui, là, e mi ha visto lavorare, mi ha detto: «Te la sentiresti di fare il direttore la notte?». I turni erano infatti di 12 ore. Senonché al sabato loro non lavoravano. E allora il sottoscritto Barbierato si faceva 12 ore + 12 ore che vuol dire 24 ore, sempre in fabbrica… Ero trattato benissimo e infatti lì ho conosciuto cosa vuol dire lavorare seriamente. Una sera, un sabato sera, sono uscito, sono andato a prendere una birra, io e questo giovanotto del violino. C’era una birreria lì a trecento metri, un viale alberato di tigli, un odore fantastico mi ricordo, e stavamo lì uno vicino all’altro… Ad un certo punto vedo un signore e una signora che venivano verso di noi, dall’altra parte della strada. Quando saranno stati a dieci metri da noi, lui si è tolto il cappello e ci ha salutati. Era il padrone della fabbrica! Lui mi conosceva, sapeva chi ero io e cosa facevo nella sua fabbrica… Tre quattro giorni prima della fine della guerra ci hanno concentrati tutti su una collina a Wupperthal. Tutti: russi, francesi… E per una notte e due giorni siamo stati sotto le cannonate degli americani… Tarquinio mi ricorda che gli americani continuavano a sparare verso una montagna e non ne capiva il motivo, che però venne presto svelato quando tutta la montagna saltò per aria: Era piena di munizioni in gallerie. Con l’arrivo di due “enormi carri armati” americani Tarquinio e compagni sono finalmente liberi: era il mezzogiorno del 25 aprile 1945.

3.3 La guerra di Bruno Bertoldi, una vita nei Lager

Bruno Bertoldi sull’isola di Corfù nel 1942, durante un momento di svago

La testimonianza di Bruno Bertoldi è stata raccolta dallo storico roveretano Nicola Spagnolli. Questo ex internato, di origini trentine ma residente a Bolzano, è anche un sopravissuto dell’eccidio di Cefalonia. Per tale motivo ci è sembrata cosa interessante proporre in Appendice un dettagliato aggiornamento storiografico sui fatti accaduti nell’isola greca nei giorni successivi alla dichiarazione italiana di armistizio.

3.3.1 La guerra di Bruno, di Nicola Spagnolli

Riportiamo qui di seguito i risultati delle conversazioni tenute da chi scrive con il sergente maggiore Bruno Bertoldi, reduce di Cefalonia, nel settembre del 2007 nella sua casa di Bolzano. Bruno Bertoldi nasce a Mitterndorf, in Austria, il 23 ottobre del 1918 in un campo di concentramento dove, durante la prima guerra mondiale, erano stati raccolti i trentini che abitavano in territori prossimi alle zone di guerra e che per questo erano stati sfollati dalle autorità austriache. Nel 1919 torna con la famiglia a Carzano, in Valsugana, dove i suoi congiunti vivevano prima dell’esodo forzato. Dai 15 e i 18 anni fa l’apprendista fabbro. Finito l’apprendistato nel 1937, e consigliato da uno zio entusiasta della vita e dell’arte militare, fa domanda per entrare nell’esercito e va a Verona al corso per sottufficiali. Bertoldi non aveva un interesse particolare per l’esercito né il fervore bellicista instillato dal regime fascista nei giovani ma, un po’ per spirito d’avventura, un po’ per trovare un’occasione di realizza-

zione in un contesto di povertà e penuria di possibilità, decide di arruolarsi. A Verona è impiegato al Comando Auto. A quel tempo, ci dice Bruno, non c’erano gli autoreparti ma c’era solo un comando auto che forniva mezzi e autieri ai vari reparti dell’esercito secondo le necessità.53 Tra il ’38 e il ’39 viene destinato come autiere con il grado di caporal maggiore al IV Corpo d’armata di stanza a Bolzano. Nel giugno del 1940, quando Mussolini proclama l’entrata in guerra dell’Italia, è a Colle Isarco dove era collocato un deposito di automezzi. All’annuncio della mobilitazione, viene destinato al Quartier Generale della Divisione Acqui a Merano, dove svolge servizio per la XVIII legione Camicie Nere d’Assalto. Partito via mare per il fronte greco-albanese, Bruno sbarca a Durazzo nel dicembre del 1940 dove ritrova la XVIII legione Camice Nere, salpata per l’Albania dal porto di Brindisi.54 Da Durazzo, man mano che le operazione belliche volgono a favore dell’Italia coadiuvata dai tedeschi, egli prosegue a sud via terra assieme al Comando della Divisione Acqui e alle CC.NN. Da Porto Edda55, nell’aprile del 1941, Bruno parte alla volta di Corfù assieme alla Divisione Acqui. Sull’isola, dove inizialmente era stato dislocato il Comando di Divisione, rimane tutto il resto del ‘41, dopodiché, dal 1942 fino all’eccidio, è a Cefalonia al seguito del comando della Divisione Acqui. Una volta arrivato a Cefalonia, perde qualsiasi contatto con la XVIII legione CC.NN.56 Il comando della divisione era dotato di otto vetture, in particolare automobili Fiat e autocarri Taurus OM, e di quattro motociclette, di cui due Motoguzzi Alce in dotazione del Regio Esercito e due requisite ai civili in Italia.

Questa foto di Bertoldi fu scattata a Cefalonia da un commilitone, poco prima dell’8 settembre 1943

53 Il Reggimento autieri fu costituito solo nel 1942. Fonte: Sito internet dell’esercito, www.esercito.difesa. it/root/Unita2_sez/arma_tramat_index.asp. 54 G. Bedeschi, Fronte greco-albanese: c’ero anch’io, Milano, Mursia, 1977. 55 Già Santi Quaranta, ribattezzato così in onore di Edda, figlia di Mussolini. 56 Nel 1942 non c’era più la XVIII legione CC.NN perché sostituita dal 19° battaglione e 367° compagnia mitraglieri CC.NN. Si veda G. Rochat, op. cit., 1993, p. 33.

Dello sbarco sull’isola e dell’occupazione, Bruno non ha ricordi di contrasti o particolari difficoltà, tanto da aver quasi dimenticato di essere in guerra. Stando a quanto racconta, i rifornimenti di cibo arrivavano regolarmente da Patrasso e venivano scaricati a Sami, il più delle volte, o ad Argostoli. A differenza della truppa, che lamentava scarsità, sia qualitativa che quantitativa di viveri, Bruno non ricorda problemi di questo tipo. Riusciva persino a regalare ad alcuni bambini del luogo qualche genere di prima necessità. Sull’isola egli era autiere del generale Edoardo Gherzi, classe 1889, comandante della fanteria divisionale che aveva combattuto nella prima guerra mondiale. Sul carattere e l’atteggiamento di Gherzi, Bruno ricorda come il suo obiettivo fosse quello di condurre l’occupazione dell’isola nella maniera più pacifica possibile. Gherzi, continuali sergente maggiore, pensava continuamente alla sua famiglia in Italia. Quando si trattò di decidere se arrendersi o combattere, Gherzi fu tra quelli pronti a consegnare le armi ai tedeschi pur di ritornare a casa dalla sua famiglia e di far ritornare sani e salvi i propri uomini. Nel giorno della caduta di Mussolini, Bruno non ricorda particolari episodi avvenuti sull’isola. Viene a sapere della destituzione del duce direttamente da Gherzi quando va a prendere il generale alla mensa ufficiali. Stando alle sue parole, il sentimento prevalente scaturito dall’annuncio della caduta di Mussolini fu: “tutti a casa”. Il sergente maggiore non aveva accesso agli uffici del comando di Divisione, per cui non aveva alcun canale informativo privilegiato. Non venne a conoscenza del contenuto dei colloqui fra Gandin e i tedeschi, né seppe che da Brindisi era arrivato l’ordine di resistere ai tedeschi. Egli è convinto, come altri superstiti o familiari delle vittime, che a scatenare il conflitto fu l’ordine di Apollonio di sparare sulle due motozattere tedesche nell’episodio del 13 settembre. Fino all’agosto del ’43, racconta, il comando di Divisione e il comando della fanteria divisionale erano collocati ad Argostoli; poi, per motivi di sicurezza, con lo scoppiare del conflitto le sedi dei due comandi furono collocate in due località separate: Gandin si spostò a Razata57, Gherzi a Kokkolata vicino a Keramies presso la “Casa del Dottore”. Sempre a Keramies c’era il suo domicilio e quello del comandante della fanteria. Il nostro autiere non è stato direttamente testimone delle trattative tra Gandin e i tedeschi nei giorni successivi all’8 settembre. Nei giorni cruciali ricorda che accompagnava Gherzi ad Argostoli per seguire le trattative tra Gandin e Barge. Con il comandante di divisione, non ebbe praticamente contatti.

57 Non abbiamo trovato traccia di questa nuova collocazione nei saggi consultati, anche se ,guardando le mappe fornite da Montanari nel suo saggio, si possono osservare gli spostamenti del comando nelle varie fasi del conflitto, prima nelle vicinanze di Razata e, successivamente più a ovest verso la costa, in quelle di Prokopata.

Nelle ore finali degli scontri, la sede del comando di Gherzi viene bombardata da colpi di mortaio e circondata dai tedeschi. Bruno, che aveva ricevuto l’ordine di preparare l’auto andandola a recuperare sotto gli ulivi, incontra i soldati tedeschi che avevano circondato la casa. Un soldato si prepara a fare fuoco su di lui ma, e qui Bruno ha vaghi ricordi, l’arma si inceppa o il militare ha un momento di esitazione. Il sergente maggiore proferisce qualche parola in dialetto che viene capita dal militare in divisa tedesca, suo conterraneo arruolato nella Wehrmacht. Quest’ultimo lo risparmia e lo lascia andare. Fuggendo, Bruno sentirà i colpi dei mitra tedeschi che falciano Gherzi, il tenente colonnello Sebastiano Sebastiani e gli altri occupanti della sede (marconisti, piantoni, attendenti). Secondo Bruno, a rimanere uccisi in quel 22 settembre presso la “Casa del Dottore” furono 14 persone. Lui fu l’unico superstite. Racconta di ripensare spesso al volto di quel soldato e di avere l’impressione che si trattasse di un suo ex compagno al corso sottufficiali, il quale aveva lasciato l’Italia per seguire in Germania la famiglia che aveva optato per il trasferimento nel Reich.58 Fino a pochi anni fa, racconta, quell’immagine del soldato con il mitra spianato si ripresenterà più volte in sogno. Scampato alla strage della “Casa del Dottore”, dopo alcuni giorni di clandestinità presso Keramies, Bruno va ad Argostoli a costituirsi per il timore che la famiglia che lo ospita possa subire rappresaglie. Si consegna ai tedeschi, rimanendo prigioniero ad Argostoli per alcuni giorni presso il comando della Marina germanica. Posto di fronte alla proposta di continuare la guerra in divisa tedesca, oppone il rifiuto. Per lui la guerra è finita, non ne vuole più sapere. Vuole solo tornare a casa. Dopo aver atteso la partenza in qualità di prigioniero, ai primi di ottobre del ’43 viene imbarcato ad Argostoli alla volta di Patrasso59. Da Patrasso viene condotto ad Atene da dove, via treno passando per l’Albania, la Jugoslavia, l’Austria, e la Germania, arriva a Leopoli, in Ucraina. Da qui partirà alla volta di Minsk, in Bielorussia, all’inizio del ’44. A Minsk, il sergente maggiore viene rinchiuso in un campo di prigionia per soldati russi e da lì condotto a est, a Borisov dove, assieme a una quaran-

58 Tra il 1938 e il 1939 il governo italiano e quello tedesco si accordarono per affrontare e risolvere la questione altoatesina. Dopo due anni di trattative, il 23 giugno 1939, a Berlino vennero firmato gli accordi, in seguito ai quali, le popolazioni di madrelingua tedesca e ladina della provincia di Bolzano, della zona mistilingue della provincia di Trento, dell’Ampezzano, del Bellunese e della Val Canale (in provincia di Udine), furono poste di fronte ad una scelta: mantenere la cittadinanza italiana, e quindi restare nelle proprie case, ma rinunciando una volta per tutte ad essere considerati tedeschi, oppure optare per la cittadinanza del Reich, accettando il trasferimento oltre confine e la liquidazione dei beni. Si veda L. Baratter, Le Dolomiti del Terzo Reich, Milano, Mursia, 2005, pp. 101-128. 59 Bertoldi non ricorda esattamente il giorno della partenza. Consultando le tabelle dei trasporti marittimi riportate da Schreiber (op. cit., 1997, pp. 376-377), è verosimile ipotizzare che il suo imbarco per il continente sia avvenuto o sulla nave Calidon, partita il 13 ottobre, o sulla Gerda Toft, salpata da Cefalonia il 17 dello stesso mese. Bertoldi, però, racconta di essere stato fortunato perché, prima della sua partenza, due navi erano state affondate provocando la morte di centinaia di uomini. Si tratta delle navi Ardena, partita il 28 settembre, e Marguerita, salpata lo stesso giorno della Calidon. Pertanto, è pensabile che Bertoldi sia partito con la Gerda Toft, arrivata senza intoppi a Pireo, sulla costa ateniese.

tina di prigionieri (quattro italiani, sei o sette ebrei, sei o sette polacchi, e il resto russi), viene impiegato come meccanico sui mezzi tedeschi in una ex officina che fungeva anche da dormitorio. Qui c’erano un comandante e pochi uomini tedeschi a guardia di questa squadra di lavoratori coatti. Vi rimane per circa sei mesi poi, con l’avanzata sovietica nell’estate del ’44, i tedeschi, costretti ad indietreggiare, abbandonano il campo. Il comandante, anche se aveva ricevuto l’ordine di uccidere i prigionieri, risparmia loro la vita e li lascia andare. Bruno e gli altri fuggono in ordine sparso nella zona tra Minsk e Borisov. Catturato dai partigiani polacchi assieme agli altri quattro prigionieri italiani che erano con lui, viene consegnato ai sovietici pochi giorni dopo. Questi, nel frattempo, erano stati informati della resistenza italiana a Cefalonia e, pertanto, trattano Bruno con un certo rispetto. Il piccolo gruppo di prigionieri viene condotto a est, a Tambov. In questo campo, siamo nell’autunno del ’44, incontra soldati della ARMIR e militari francesi. Le condizioni di vita nel campo sono durissime per il freddo, le pessime condizioni igienico sanitarie e la fame, a causa della quale, egli racconta, si verificarono ad atti di cannibalismo. Successivamente viene trasferito nel gulag di Tashkent, in Uzbekistan, dove viene impiegato nella raccolta del cotone.60 Viveva in un sottocampo dove c’erano solo italiani delle armate di Grecia e Jugoslavia. Qui, racconta, incontra anche italiani fuoriusciti dall’Italia per motivi politici che facevano proselitismo in favore del comunismo. Bertoldi era (ed è rimasto) un apolitico, per cui non partecipa a questi incontri. Da Tashkent, a guerra finita, arriva la notizia del suo rimpatrio. Il 13 ottobre del 1945 parte con altri italiani alla volta dell’Italia. Sarà un viaggio durissimo. Per bere si raccoglievano attorno ai bulloni del vagone per raccogliere qualche goccia di condensa. Dopo aver fatto sosta a Vienna, dove viene preso in consegna dagli americani i quali sottopongono gli ex prigionieri ad un trattamento di disinfestazione dai pidocchi, il 4 dicembre del ’45 arriva al Brennero. Giunto a Bolzano, dove sosta per una visita medica, viene rimesso su un treno per Pescantina, in provincia di Verona, dove viene interrogato. Qui prende un treno che lo riporta a Castelnuovo, in Valsugana, il 12 dicembre 1945. Giunto in stazione, per la fame e il deperimento fisico, non riesce nemmeno a scendere il predellino del treno. Si lascia così cadere su un cumulo di neve formatosi sul marciapiede del binario, dal quale viene raccolto dal personale ferroviario. Il suo viaggio è finito. Finalmente è a casa. Nel 1954 Bruno riceve la Croce al merito di guerra per internamento in

60 Bertoldi non sarà l’unico sopravvissuto di Cefalonia a finire nei campi sovietici. Stando al libro di De Negri e Bettini, figlie di ufficiali della Acqui fucilati rispettivamente a Cefalonia e Corfù, altri 870 superstiti saranno fatti prigionieri dai sovietici e sistemati nei gulag. G. Bettini, M. De Negri, La memoria del futuro, Associazione Nazionale Divisione “Acqui” – Consiglio Regionale della Toscana, 2004, scaricabile dal sito http://www.associazioneacqui.it/la_memoria_del_futuro.pdf

Germania, assegnata una seconda volta nel 1966. Nel 1977 ottiene dal Ministero della Difesa il riconoscimento di partigiano combattente nella formazione Acqui e, nel 1981, riceve il Brevetto di Volontario della Libertà per aver rifiutato di collaborare con i tedeschi e la RSI. Dopo aver fatto domanda di risarcimento per il suo lavoro coatto presso i tedeschi e aver ricevuto un primo rimborso, nel 2007 ottiene dalle autorità tedesche, tramite l’International Organisation for Migration (IOM) che si occupa di gestire il fondo creato dalla Germania per risarcire gli ex internati, un ulteriore indennizzo. È uno dei pochi ad aver ottenuto un rimborso dall’organizzazione sopraccitata. Molti ex internati stanno ancora aspettando. Bruno ci tiene sempre a precisare che lui riferisce solo ciò che ha visto e vissuto. La guerra da lui raccontata coincide sostanzialmente con quella da lui stesso vissuta. Si sente fortunato rispetto a quanti non sono tornati da Cefalonia e dalla prigionia, e un po’ si vergogna, si sente in colpa per questo destino a lui favorevole. Ciononostante, riesce ancora a sorridere ricordando alcuni episodi, mentre quando ripensa alla sorte degli altri compagni, si fa più pensieroso e sospira. “Ogni reduce è come un libro con la sua storia da raccontare”, mi ha detto in uno dei nostri incontri. Ha perfettamente ragione il sergente maggiore. Il problema è che questi libri rimangono spesso chiusi e si perdono così occasioni irripetibili perché, anche se le loro pagine sono spesso sbiadite, poco precise nei resoconti, sono delle letture che arricchiscono tanto il ricercatore quanto il neofita.

Bertoldi ritratto in Grecia nel 1941, accanto ad un mezzo della “Acqui”

3.4 Mario Comina

Mario Comina è nato a Bronzolo (Bolzano) nel 1924. Lui non è un ex internato ma comunque un testimone diretto di molti avvenimenti che coinvolsero i soldati italiani a Bolzano nei giorni successivi all’armistizio. All’inizio del settembre 1943 era rimasto per diverse ore bloccato sotto il cavalcavia della Stazione ferroviaria di Bolzano in seguito ad un bombardamento anglo americano sulla città. Lavorando in ferrovia Comina riuscì ad evitare un possibile richiamo militare nell’esercito tedesco, dopo l’istituzione della Zona di Operazioni delle Prealpi. Infatti quando mi hanno chiamato a fare il militare e han visto che io facevo parte di questa organizzazione internazionale per i trasporti, non hanno avuto il coraggio di obbligarmi a fare il militare… Quindi sono rimasto lì sempre un po’ in bilico e quindi io facevo questo lavoro proprio per salvarmi dal militare. Io ricordo più che l’8 settembre in sé, che fu un momento di paura e attesa, il fatto che io andavo sui campi del Talvera, dove ci sono gli impianti sportivi adesso, perché lì c’erano ammassati migliaia e migliaia di nostri soldati. Lì giravo un po’, volevo cercare di aiutare alcuni feriti, i quali… mi confidavano le loro paure, sa io ero giovane e non potevo dare grandi consigli. Però annotavo tutto e sono riuscito ad informare molti genitori. Abitavo vicino alla ferrovia. Quando passavano questi treni carichi di militari, di nostri connazionali, questi buttavano fuori dai finestrini dei biglietti, ne ho raccolti tanti, ho cercato di darmi un po’ da fare. Proprio in questa azione dei biglietti una volta mi hanno preso… Le autorità tedesche volevano farmi fare il militare; io ho cercato di dire non posso, sono malato… Alla fine mi hanno dato la divisa della Flak, che era la contraerea, e sono andato a finire sopra a Bressanone, a Sciaves. Io frequentavo il Liceo artistico a Venezia, quindi dipingevo. Quando sono arrivato su [a Sciaves] ho visto che i pericoli c’erano anche in contraerea. Allora, si costruivano delle baracche, anche quella del ritrovo degli ufficiali. Lì mi sono messo a raffigurare canzoni come Lilì Marleen e [i tedeschi] si sono subito entusiasmati. Allora mi dislocarono a fare il disegnatore in un posto tranquillo, ho fatto un sacco di quadri.

3.5 Gioacchino D.

Il testimone in questione è nato nel 1923 in provincia di Belluno, nel paese di Vas (località posta sulla sinistra orografica del fiume Piave, non molto distante da Lentiai). È arrivato a Bolzano nel 1937 (“mio padre era assistente edile, sapeva che c’era tanto lavoro e quindi aveva deciso di trasferirsi qui”). Prima di essere richiamato militare Gioacchino aveva trovato lavoro presso le acciaierie di Bolzano. Quindi viene richiamato al servizio militare e condotto in zona jugoslava. In seguito viene aggregato alla sua divisione a Bressanone, dove lo coglie l’armistizio. Io ero nel genio alpini come soldato semplice. La notte dell’armistizio ho cercato di fuggire, di scappare in ogni modo, ma non ce l’ho fatta. Volevo scavalcare e imboccare le strade che conoscevo, invece ci hanno sbattuti tutti dentro una caserma e il giorno dopo ci hanno portato… Era in centro, ma non so esattamente dove. Era la caserma base, era una caserma grande. Lì ci hanno imbarcato il giorno dopo. Arrivati in Germania sono stato preso e messo in un’officina meccanica vicino ad Amburgo. Lì purtroppo, senza volerlo, ho fatto un danno di un lavoro. Era un difetto meccanico che è stato fatto su un pezzo. Mi hanno portato in un posto «assassino», mi hanno buttato in un luogo dove sono rimasto 18 giorni, era un luogo buio in cui non si vedeva niente, come una prigione. Mi hanno tirato fuori dopo 18 giorni e mi hanno portato in un altro posto, era una camera a gas… Lì c’era un giovanotto, invalido perché era stato ferito in Russia. Siccome io parlavo un po’ di tedesco, egli dialogava con me e mi diceva qualche cosa. Dice «Stai attento a cosa ti succede adesso… Qui, vedi, vogliono metterti nella camera a gas… Sai cosa fai? Tu ti butti per terra e fingi di essere morto… Ti butti per terra e so io cosa fare». Ad un certo punto arrivò un superiore che si rivolse immediatamente alla guardia tedesca e gli disse: «Cosa aspetti a buttare dentro questo ragazzo qua?». «Non aspetto niente» – risponde l’invalido di guerra – “perché questo ragazzo qui è morto, non si può assolutamente buttarlo dentro… Perché dobbiamo buttarlo dentro? È morto non si può assolutamente buttare dentro… Perché buttarlo dentro se è morto? » «È morto?» «Si, è morto poco tempo fa» «Ah si? Va bene. Dopo portalo via». Mi sono salvato la vita, questa è la cosa che più mi ricordo. La zona ricordo che si chiamava St. Pauli, poco fuori da Amburgo, in periferia. Da lì mi sono salvato perché sono tornato nel mio campo, sono tornato al lavoro e sono arrivato alla fine della guerra. Si potrebbe dire che non si mangiava niente, un po’ di quelle porcherie di erbe, rape… Non si era grassi!… Sono rimasto ad Amburgo fino alla fine della guerra.

Gli inglesi sono arrivati a liberarci… Prima avevo visto tanti bombardamenti, altroché, ad Amburgo. Poverino, uno lo ho salvato io, là nel campo dove ero io. Eravamo sotto a una specie di casa, di baraccone e quando ho sentito i bombardamenti che è venuta giù una bomba, l’ho preso per le gambe e l’ho tirato fuori… Guandalini Nino… L’ho tirato fuori e si è salvato. A piedi non sono tornato, perché sono 2.000 chilometri! Sono arrivati [gli Alleati] e ci hanno caricato… Per gli italiani c’erano i treni apposta; ci hanno scaricato a Bolzano. Noi abitavamo alle «semirurali». La mia mamma e il mio fratello erano al paese. Erano tornati al paese. Quindi sono tornato giù, siccome non sapevo come fare andare ho trovato un posto qui. Ho incrociato un camion che andava giù per la strada. Ho detto: «Dove va per piacere Lei?». «Si va a Feltre noi». «Ma dice sul serio? Potete farmi salire che torno da prigioniero?». «Certo». «E ti portiamo dove?». «A Vas». Da lì mi han portato a Vas, ci siam fermati e lì ho trovato la famiglia. Nel dopoguerra sono tornato alle Acciaierie dove ho lavorato fino al 1980. Facevo il meccanico. Avevo 24 operai. Nel tempo libero mi occupavo di sport, come giudice/arbitro delle coppe del mondo di sci. Due anni fa mi è arrivato da Roma dal Presidente della Repubblica un attestato di Commendatore della Repubblica.

3.6. Gudrun Giovannini

Gudrun Giovannini è nato l’8 ottobre 1922 a Bellombra, vicino ad Adria, in provincia di Rovigo. Rimane senza papà a 11 anni, con quattro fratelli. La famiglia possedeva un mulino e un forno per la panificazione fino alla morte del padre. In seguito con la famiglia si trasferisce a Bolzano, nel 1938, in via Firenze. La madre aveva preceduto il trasferimento dei figli; da quando, infatti, aveva trovato impiego alla Montecatini come cuoca. Poi lei ha trovato casa e siamo arrivati anche noi. Abbiamo proseguito il lavoro che avevamo giù, da panettieri. Eravamo ragazzini. Io e i miei fratelli abbiamo lavorato sempre da panettiere presso privati. Sono partito militare nel 1942. È stata una bella carriera. Sono andato subito in Jugoslavia, lì sono stato ferito ad una gamba. Ero con il settimo artiglieria Isonzo… Ero a Novo Mesto, in Croazia. Lì sono stato ferito ad una gamba, il proiettile è entrato dal ginocchio ed è uscito dal polpaccio. Al momento non ho sentito niente, solo che dopo dieci minuti avevo tutto il piede bagnato e ho guardato, c’era sangue. Allora sono andato in infermeria, ho detto quello che era successo. L’infermiere mi ha messo un bastoncino di vetro, è passato dentro da un buco e fuori dall’altro. Disse che dovevo andare all’ospedale. Poi arrivò il comandante, un colonnello, a sentire cosa era successo. Da lì mi hanno mandato all’ospedale, 4-5 giorni, poi sono venuto in licenza. In seguito ho fatto una pleure, allora mi hanno mandato all’ospedale a Novo Mesto, lì ho fatto una trentina di giorni, poi mi hanno mandato in convalescenza e finita la convalescenza mi hanno mandato direttamente al corpo, in Jugoslavia. Allora io mi sono fermato a Gorizia…. Lì ho marcato visita; il dottore mi mandò all’ospedale a fare una visita di controllo. Volevano mandarmi ancora al fronte. Chiesi allora un’ulteriore visita medica. Intanto è successo il caos dell’8 settembre. Abbiamo sgomberato la nostra caserma e siamo andati al campo di aviazione sempre quella notte. Abbiamo portato via tutto quello che c’era da portare via. Lì sono andato su un apparecchio, tanto [gli aeroplani] erano lì fermi… Anche i partigiani jugoslavi sparavano contro gli italiani. Allora ho azionato la mitragliatrice dell’aereo e iniziato a fare fuoco. Son venuti subito i comandanti a tirarmi via. I tedeschi hanno circondato il reparto e ci hanno avviati alla prigionia. Dopo varie traversie venni caricato su un treno a Verona. I treni erano pieni, bisognava salire sul tetto. Anche io salii in cima ad un vagone, sperando di poter saltare giù in prossimità della città di Bolzano. Ma quando arrivai nel capoluogo altoatesino mi accorsi che ovunque era presidiato dalle forze armate tedesche. Non c’era possibilità di fuga né di incontrare la madre che in quei giorni attendeva il mio passaggio alla stazione. Continua così il viaggio verso la Germania.

Dopo alcuni giorni di treno, arrivammo a Luckenwald, un campo di smistamento non molto distante da Berlino. Lì abbiamo fatto proprio una cura dimagrante. Durante il giorno prendevano dei nostri e li portavano nei campi a raccogliere delle foglie di barbabietola. Arrivavano alle cucine, buttavano dentro e quello lì era il rancio. Alla sera ci davano un pane, di quelli grandi, dei mattoni diciamo. Dovevamo dividerlo in 30-32 e anche un pochettino di carne… biancastra, non so che carne fosse se animale o… Per conto mio era, diciamo, di corpi umani, non era carne… Rimasi lì 40 giorni, arrivai al limite. La fame e le privazioni provocavano dolorose dissenterie con perdita di sangue. Allora da lì mi han mandato a Berlino. Qui ci hanno messi in una settantina in una scuola, adibiti a sgomberare macerie. Un giorno ci hanno mandato a sgomberare sul tetto di un palazzo. Era stata colpita la parte superiore dell’edificio. Nel frattempo suona l’allarme e allora tutti giù. Cercammo di entrare in un rifugio antiaereo ma i tedeschi ci cacciarono, niente italiani! Sono entrati tutti dentro e noi siamo rimasti nel corridoio. È arrivato il bombardamento e… una bomba si è infilata nel bunker, ci sono rimasti tutti. Abbiamo lavorato dalla mattina alla sera a caricar su morti. Da lì ci hanno mandato nei dintorni di Berlino, eravamo vicini ad una fabbrica di birra. E lì, anche lì, bombardamenti sempre. Una notte bombardamento, eravamo sotto nei rifugi improvvisati, sentivamo queste bombe che venivano giù… schwhhhhhhhhhh…. È andata bene anche quella volta. Usciamo fuori, davanti alla porta che dava sull’esterno dell’edificio c’era una bomba inesplosa… E allora il giorno dopo venivano i prigionieri politici, venivano loro a sgombrare e tirare via… Siamo stati lì un bel po dopo ci hanno mandati a Neumark (?), eravamo un centinaio e dovevamo lavorare in una fabbrica, un gran complesso. Arrivava il carbone dalla Ruhr e tramite un nastro enorme entrava in fabbrica. Con i minerali la fabbrica ricavava diversi prodotti, tra i quali anche la margarina. Insieme ad un amico fui impiegato anche per recuperare dell’olio fuoriuscito da un silos danneggiato durante un bombardamento. Non si faceva in tempo a riprare un reparto che la notte… tac … bombardavano. Veniva sempre un apparecchio prima, buttava giù manifestini, «sgomberate che stanotte veniamo». E di fatti non mancavano. Loro avvisavano prima. Dopo siamo scappati, in dieci, verso gli americani, perché avevano fatto una puntatina. Noi siamo scappati e abbiamo sequestrato un carro. C’era un contadino con un cavallo, abbiamo preso il carro e il cavallo, abbiamo caricato su i nostri zaini. All’indomani ripartimmo. Dopo ci siamo rifugiati in un paese che c’era delle saline dove recuperavano il sale da terra, erano profondi seicento metri questi buchi e gli ascensori erano rotti. C’erano due pozzi. E allora sono andato giù un giorno, se non si aveva da bere non si riusciva più a tornare su.

Bisognava andare giù con due borracce di acqua. C’era giù tanta roba italiana, casse di stivali, casse enormi di candele (che dopo noi prendevamo per farci chiaro in queste gallerie). C’era nascosta diversa roba in quelle gallerie lì. Insomma un giorno vengo su, porta su qualche cosa che ho trovato… Ci sono tre ragazzine intorno a questo pozzo che piangevano. E allora domando «Perché piangete?». Dice «È andata la mamma giù stamattina e non è ancora arrivata». Chiesi allora ai miei compagni di avventura se qualcuno di loro era disposto a scendere nel pozzo per cercare la donna. Nessuno voleva andare: «Figurati se vado a rischiare la vita per una donna…». Allora scesi da solo. Quelle bambine mi facevano pietà. Prima di scendere presi con me due borracce d’acqua e chiesi di poter mantenere un contatto a voce con chi restava su. A metà trovo là en mucieto61: è la donna raggomitolata, priva di sensi, stesa lungo il ripido cammino a scale che sale a spirale lungo la grande voragine. Trovo sta signora, era ormai assiderata, le do da bere, è rinvenuta un po’. Lei davanti e io dietro che la spingevo su per queste scale e siamo arrivati su. Da allora ho vissuto come un nababbo. La signora ha voluto che andassi a casa sua perché le avevo salvato la vita. Ho trascorso lì praticamente quindici giorni a casa di questa signora… Ero un pascià… Dopo ci han preso, siamo andati sotto agli americani, sotto agli inglesi, con la speranza di venire a casa presto, invece ci hanno tenuto lì un bel pezzo. Così una sera in due-tre abbiamo deciso di scappare. Abbiamo buttato lo zaino dall’altra parte, abbiamo attraversato l’ostacolo… Appena arrivati di là, tac! Mi hanno preso di nuovo e mi han rimesso dentro!

61 “A metà trovo lì un piccolo mucchio”.

3.7 Mantovani Bruno

Bruno Mantovani nasce il 1 febbraio 1922 a Riva del Garda (Trento). Viene catturato a Bolzano mentre si trova lì militare. Era stato richiamato nel 1943 con il primo scaglione 1924, dopo essere stato fatto rivedibile due volte. Dopo neanche 3-4 mesi di militare mi hanno portato in prigionia. Ho fatto tre mesi il militare a Bolzano, 232° fanteria. Ci hanno fatto prigionieri, ci hanno portati nel Talvera. Di là mi hanno riportato in caserma, caricato su un treno e mi hanno portato a Krems… Mi trovai in una località vicino a Weidhofen. Appresi nel Lager della rinascita della Repubblica Sociale. Chiesero se volevamo andare volontari, ma io volontario non sono mai andato da nessuna parte, perciò… Ci portarono in un paese a lavorare, io lavoravo in fabbrica. Il paese si chiamava Amstette, vicino a Mauthausen… In fabbrica facevo le valvole al tornio, lavoravo sulla valvola e dopo un anno mi hanno mandato ai laminatoi e ho fatto un anno di laminatorio… Lì è successa una cosa che non ho fatto apposta – per l’amor di Dio – però c’era il ferro che tornivo che era rovinato e lasciava un segno nella valvola… Hanno detto che il mio era sabotaggio, ragione per cui mi hanno processato, dieci anni ai lavori forzati… E mi hanno mandato ai laminatoi nella stessa fabbrica di prima. In quella fabbrica eravamo in venticinque di noi [internati], poi dopo ne sono arrivati altri 200 dalla Grecia. Dopo sono arrivati i Russi a liberarci. A dir la verità non sono uno che mangia tanto. Non ho mai patito la fame. Io sono stato anche una settimana senza mangiare, non soffrivo… Però c’erano quelli… Ricordo un povero disgraziato morto per la fame, era di Belluno. Piangeva sempre, aveva una fame da matti. Noi gli davamo quel poco che avanzavamo perché appena arrivati là, in quel campo, eravamo in 25 ma arrivava il mangiare per 250 persone. Però dopo quando siamo effettivamente diventati 250 le pignatte erano sempre le stesse… Io con la fame, dico la verità, non ho mai sofferto. … Io devo dirle la verità: non ho sofferto la prigionia, ma tanti ne hanno sofferto. Un maestro che è morto, quello aveva paura delle cimici… Quando si spegnevano le luci ti saltavano addosso… Questo maestro non mangiava e non dormiva, si lavoravano dodici ore con mezz’ora di pausa… Ci ha lasciato le penne… Poi ci sono stati tre che sono voluti scappare, sono stati uccisi… Certo che ci cercava guai li trovava… Ma uno che andava tranquillo e beato… Io mi ero fatto prendere in simpatia dal maresciallo… Aveva una bicicletta: io gliela bucavo così poi gliela riparavo e mi dava anche il pane. Ero il suo meccanico personale! … Dopo siamo passati civili, si poteva uscire, coi soldi che prendevo andavo in un paese a circa 5 chilometri e andavo in un’osteria, coi soldi del campo… Da noi arrivavano anche i pacchi di Mussolini, zucchero e pasta ci davano.

Quelli che sono andati volontari con Mussolini sono finiti peggio! Io ho conosciuto uno che era stato volontario nei repubblichini… Quello, dopo, lo hanno portato in ospedale e gli hanno fatto l’appendicite a freddo, porco giuda, ha detto che ha sentito tanto di quel male… Perché lo facevano apposta per vendicarsi contro quelli che erano andati volontari. La guerra è una cosa bestiale. Poi sono arrivati i russi i quali avevano un buon rapporto con i prigionieri italiani. In seguito riuscii ad arrivare in macchina fino a Salisburgo; dopo insieme ai miei compagni fui caricato in treno e portato prima ad Innsbruck, al campo di aviazione; poi a piedi 4/5 chilometri dall’aereoporto alla stazione ferroviaria, scortato dai francesi. Quando sono arrivato qui a Bolzano mi hanno caricato su un camion e portato alla caserma Huber, al Centro Accoglienza Rimpatriati… Ma io sono andato via subito perché sono arrivati mio padre, mia madre. Mia madre mi ha visto sul camion che mi portava [alla Huber]… Noi eravamo venuti a vivere a Bolzano nel 1936. Mio papà era venuto da Riva a Bolzano per lavoro. Poi nel ’40 ho fatto la patente. Ho costruito la zona industriale portando materiale, alle semirurali ho portato il materiale, con il ribaltabile, ho portato la ghiaia. Quando sono tornato dalla Germania ho fatto l’autista, ho sempre viaggiato. Autista col camion: facevo Bolzano-Napoli, Napoli-Milano, MilanoBolzano. Una settimana ci impiegavo. Perché le macchine più di 40 km/h non andavano… Poi nel 1948 hanno iniziato gli autobus a Bolzano e io ero autista: facevo piazza Don Bosco – Stazione. Io sono il primo autista di Bolzano… Io ho fatto trent’anni e poi sono andato in pensione. Ho dato il mio contributo a Bolzano, l’ho dato! E come anche! Ho visto nascere la zona industriale e l’ho vista distruggere, ho visto nascere le semirurali e le ho viste distruggere.

3.8 Giovanni R.

Il signor Giovanni è nato a Venaus (Torino) il 30 ottobre 1922. Si trasferisce con la famiglia a Bolzano quando ha tre anni. “Mio padre era capo cantiere, ha costruito una centrale in Piemonte, una sulla Sila e quella di Cardano”. Io ho fatto il servizio militare a Torino… Poi in ultimo mi hanno mandato in Grecia perché io ero un radio telegrafista. Sono arrivato ad Atene. Lì ho incominciato a trasmettere… Ad Atene c’è questa montagna dove ci sono delle gallerie, da una parte i tedeschi dall’altra gli italiani… Noi eravamo a disposizione del supercomando. Poi dopo mi hanno mandato a sostituire una persona in fondo al Peloponneso; eravamo in una stazione radio composta da 6 radio telegrafisti. Tre mesi prima dell’8 settembre 1943, cento metri sopra di noi si è piantata un’altra radio tedesca. Siccome io ho imparato il dialetto sudtirolese e continuavo a studiare coi libri la lingua ho avuto dei contatti e allora mi trattavano come un fratello. Il 9 settembre sono arrivate due autoblinde e loro dietro. E noi avevamo capito perché con la radio sapevamo già tutto. Ordini di distruggere tutti i cifrari, rompere la… Quando sono arrivati giù ci hanno preso a calci nel sedere… «Ma come se ieri ero tuo fratello adesso mi prendi a calci nel sedere», no? E dopo ci hanno fatto fare tutto il Peloponneso a piedi… fino al canale di Corinto. Con i tedeschi coi fucili…Ci hanno messo su dei carri, siamo arrivati ad Atene, lì all’aperto come le bestie che ghe nei pascoli… Siamo partiti da Atene sulle tradotte però aperte, abbiamo passato la Jugoslavia… Il viaggio doveva essere fino a Trieste e da lì mandarci in Italia. Questa era la promessa… Insomma può immaginare: due gallette e una scatolina per alquanti giorni… Quando si fermava il treno era come con le cavallette: spariva tutto nel circondario per la fame che c’era… Di notte siamo arrivati a Linz, da lì hanno chiuso i vagoni. Arrivati a Vienna ci hanno fatti scendere tutti e tre tedeschi ci hanno portato via tutto quello che c’era negli zaini. E poi siamo ripartiti… Siamo arrivati dopo non so quanto tempo a [?] e lì eravamo 1213.000 militari. C’era un tedesco che girava tra di noi e gridava “Dolmetscher! Dolmetscher!”62. E io sono andato vicino a questo qui e gli ho detto in dialetto di qua…«Cosa vuol dire Dolmetescher?». Sono parole che uno non ha imparato… Quello quando ha sentito che sapevo tre parole di dialetto [tedesco] mi ha preso mi ha portato davanti a un capitano… E lì dovevo spiegare [ai prigionieri italiani] che dovevano aprire gli zaini, che i fascisti dovevano andare da una parte. Dopo da lì ci hanno chiusi dentro… Ce ne avrei da raccontare perché in quaranta dentro un vagone, senza gabinetto senza niente. La facevano nel cappello dell’alpino e cercavano di buttarla fuori, c’erano le inferriate che

62 “Interprete! Interprete!”.

non riuscivi neanche… La disgrazia: un cappello di alpino è caduto fuori ed è rimasto impigliato, sai che ci sono quei ganci fuori… È rimasto fuori pieno di m… Quando siamo arrivati a destinazione c’era un maresciallo che voleva sapere di chi era quel cappello… … Insomma al 6 di ottobre sono arrivato in Boemia, dove c’era una fabbrica, c’era una gande miniera di carbone e una grande fabbrica; dal carbone veniva estratta la benzina sintetica… A noi davano qualche pacco di margherina e lì c’erano circa 60.000 mila prigionieri che lavoravano… Il peggio di tutto è stato che oltre a morire per dissenteria, per il gonfiore delle gambe eccetera, c’erano i bombardamenti… Io a casa ho delle fotografie dove in un bombardamento sono morti una ventina di miei compagni, li hanno messo nelle carte da morto con le corone e hanno detto «questo è quello che fanno gli americani e gli inglesi» e sparavano tre colpi in aria. Il 20 luglio 1944 c’è stato l’attentato a Hitler. Noi si cantava si rideva. Come guardie tedesche c’erano tutti invalidi e loro dicevano «Ah meno male, chissà che non lo ammazzano…». Anche i tedeschi erano stufi della guerra e della dittatura. Concludo ricordando che tornando a casa ho incontrato gli americani che ci hanno chiuso nella fabbrica di birra di Pilsen63. Dentro eravamo 5.000, si dormiva quasi peggio che nei campi di concentramento e per darci da mangiare ci davano ceci, sacchi di ceci, avevano fatto le latrine fuori con delle porte. Eravamo tutti seduti uno vicino all’altro. Per giunta c’era un tubo dell’acqua che usciva fuori, fino a che tutto quell’insieme [di escrementi umani] non è arrivato dentro nell’acqua e da lì è incominciato il tifo, tutti dissenterie… Un mio collega di Trieste ha fatto un anno più perché l’han portato col tifo in ospedale… Gli americani ci trattavano come delle bestie.

63 La cittadina di Pilsen si trova oggi nella Repubblica Ceca.

3.9. Romeo da Col

Il protagonista di questa intervista non è un ex Internato; però è stato testimone dell’attività del CAR di Bolzano in quanto era uno degli aiutanti incaricati di trasportare i rimpatriati dalla stazione ferroviaria fino alle caserme di via Druso, dove appunto era stato allestito il Centro Accoglienza. Romeo da Col nasce a Domeggie di Cadore (Belluno) e arriva a Bolzano a circa dodici anni di età. “Poi siccome Bolzano c’erano i bombardamenti durante la guerra ci siamo trasferiti in periferia. Ci siamo trasferiti ad Appiano dove siamo rimasti durante tutta la guerra”. Quando sono arrivati i tedeschi mi hanno anche chiamato ma mio padre mi aveva trovato lavoro nel ’43 alle acciaierie di Bolzano. Ero operaio, un ragazzo, ero lì e facevo il tornitore, lavoravo alle macchine utensili, officina meccanica. I tedeschi mi chiamano, come hanno chiamato tanti italiani, nel ‘43 o nel ‘44, e sono andato nella caserma a Gries. C’era un tavolo con tutti ufficiali, poi sul pavimento c’era un segno rotondo di gesso. Si andava tutti nudi lì, poi ti facevano girare nel cerchio su te stesso, guardavano poi … Io non ho più saputo niente, non mi hanno richiamato, forse ero troppo giovane e troppo magro per andare lì… Fossi stato in Germania erano mandati in Russia i bòci… Comunque io, lavorando allo stabilimento industriale acciaierie che lavorava anche per i tedeschi (non molto ma faceva anche lavori per le truppe tedesche), avevo una certa possibilità di non andare militare anche se avessi avuto qualche anno in più… Tanto è vero che avevo degli amici di vent’anni che non sono andati, quelli rischiavano di più… Però li hanno trattenuti perché lo stabilimento era mobilitato per una certa produzione… Io ho passato tutta la guerra lì. L’8 settembre è stata proprio una cosa brutta per me… È stata una cosa brutta perché abitavo alla periferia di Appiano e di notte abbiamo sentito Bem! Bum! Bam! Sparavano col cannone. La mattina dopo c’erano tedeschi d’appertutto perché in paese sopra il paese di Appiano c’era una parte della divisione «Cuneense» che era arrivata dalla Russia e si era fermata qui in Alto Adige. Una parte di questi soldati si trovava su nel bosco a Monte di Appiano. Lì nel bosco c’era qualche battaglione di italiani. I tedeschi invece erano venuti e si erano accampati in paese di Appiano, sotto il paese, andando verso la stazione; dove c’è una falegnameria, adesso, lì c’era un accampamento di tedeschi con l’artiglieria. Sapevano che gli alpini erano su nel bosco: han sparato su nel bosco ci sono stati almeno 3-4 morti tra gli italiani che li ho visti io. Un tedesco almeno è morto perché l’ho visto io caricare sul camion… Io

da bòcia andavo a curiosare, questo è l’8 settembre che ho visto io… Poi gli alpini li hanno catturati, chi non è scappato… Perché da lì, andando su per il bosco, si arriva sul dosso… Bisogna conoscere i sentieri e allora si arriva in provincia di Trento verso la val di Non… Se uno oggi fosse sveglio anche di notte all’alba sarebbe in grado di salire su lì e in un paio d’ore, o poco più, si arriva sulla cresta e dopo vai giù per la val di Non… Allora, finita la guerra già il 27 28 [aprile] i primi prigionieri hanno iniziato ad uscire dal campo di concentramento di via Resia e non sapevano dove andare. La stazione ferroviaria non funzionava. Dal Brennero in giù fino a Bolzano funzionava, a Ora o a Trento forse era interrotta. Questi prigionieri sono capitati in giro per le strade di Bolzano. Le acciaierie di Bolzano e la Lancia si sono prestate a dare da mangiare. Allora io lavoravo lì da bòcia, sui tavoli erano pieno di prigionieri, anche donne, ancora con la divisa da prigionieri e aspettavano per andare a casa giù per l’Italia, qualcuno anche all’estero… Mi ricordo anche dei greci che erano di passaggio. Conclusione, passati due tre giorni, è cominciato a arrivare dalla Germania questa gente e allora hanno organizzato alle caserme Huber, che allora si chiamavano con un altro nome, in via Druso… La direzione delle acciaierie ha avuto una telefonata da qualcuno e ha chiesto a noi. Mi ricordo di quattro-cinque persone, eravamo amici, il giorno dopo siamo arrivati lì, ci hanno dato la fascia CLN, porto d’armi, però io la pistola non l’avevo… Ecco noi tutti i giorni coi camion andavamo in stazione di Bolzano… arrivavano fuori a migliaia dai treni, gente che non stava neanche in piedi. Dovevamo aiutarli a salire sui camion americani scoperti, su dalle scalette, qualcuno non stava neanche in piedi dalla debolezza, arrivavano dai campi della Germania. Si portavano giù al CAR, poi si aiutavano a scendere, li accompagnavamo dentro… Tutti i giorni avanti e indietro, i camion militari americani erano fermi in fila fuori dalla caserma su via Druso, ogni tanto partiva una colonna… Sono rimasto lì quasi due mesi scarsi per fare questo servizio, anche per le cucine. Poi ad un certo momento arrivava continuamente gente di tutte le nazioni, greci francesi tutte le razze, donne anche tante. Gli internati mi raccontavano di quello che avevano visto… Ognuno raccontava la storia del suo campo, io non avevo neanche idea dell’esistenza di questi campi perché non si sapeva quasi… Raccontavano dei campi, dei maltrattamenti, la fame…

3.10 Amedeo Bertesina

Nel corso del suo racconto Amedeo ci porta anche la testimonianza del sacrificio di tanti soldati italiani caduti a Dubrovnik – Ragusa il 12 settembre 1943 sotto il piombo nazista della divisione SS-Prinz Eugen. Amedeo Bertesina è nato a Polesella (Rovigo) il 13 ottobre 1923. Io sono venuto a Bolzano nel 1957. Mio padre era un piccolo contadino, la nostra era una famiglia patriarcale, eravamo 32 in famiglia. Prima di partire militare facevo il contadino. Mi è arrivata la cartolina in dicembre del ’42. Il 9 gennaio del 1943 sono partito con al 56° fanteria divisione “Marche” a Treviso. Lì è stato fatto un battaglione di reclute. Poi il 20 marzo sono partito per la Jugoslavia destinazione Ragusa via mare, FiumeRagusa, e da Ragusa a Mostar in completamento di una divisione a Mostar. La situazione di primo impatto… ho trovato gli anziani che… Non avevo ancora vent’anni… Ho trovato degli anziani che mi hanno indicato «stai attento, qua, così» perché ero porta-arma, avevo un fucile mitragliatore. Comunque sparare non ho mai sparato, mai, per fortuna. Sono andato al primo battaglione del 56° fanteria e lì avevamo presidio dell’aereoporto di Mostar, vicino alla città, appena fuori. Dopo sono andato in montagna, sopra Mostar e dopo in Montenegro… Anche là erano ‘puntate’, si partiva il mattino e si tornava la sera. Poi dopo ci hanno ritirati di là e ci hanno passati presidiari di ferrovia sulla tratta Ragusa-Mostar. Lì si presidiava la ferrovia. Io non ho mai sparato, dico la verità. Solo che sono stato lì fino a un mese prima dell’armistizio. Poi dopo, ad un certo punto, hanno tirato fuori tutti i giovani del 1922 e del 1923 e ci hanno fatto fare il corso di cacciatori anti-carro che dovevamo addestrati per andare all’assalto dei carri armati per lo sbarco che era stato fatto in Sicilia. Si facevano delle buche per terra e si imparava. Da lì è capitato l’armisitizio. Allora è venuto il colonnello, ha fatto un’adunata. Disse: «Ricordatevi che i nostri nemici sono diventati gli amici e gli amici sono diventati nemici». In poche parole i tedeschi sono diventati nostri nemici. E alla mattina ci hanno attaccato i tedeschi. Abbiamo fatto tre giorni di resistenza, ci sono stati anche morti ma solo al momento della resa. La nostra divisione era molto potente senonché già i tedeschi avevano preso la divisione “Messina”; avevamo visto i militari della “Messina” in ritirata verso Mostar… E lì abbiamo fatto la resistenza per tre notti e due giorni. Ci hanno portati alle porte di Ragusa, vicino al mare, lì sono capitati gli ufficiali tedeschi col generale Sandro Piazzoni, comandante del corpo d’Armata, e da lì si sono accordati di lasciar passare i tedeschi per Ragusa mentre noi saremmo partiti con le navi che erano già pronte. Invece la mattina del giorno 12 settembre ci hanno attaccato che eravamo disarmati; l’artiglieria era stata consegnata la notte ai tedeschi, un tra-

dimento del generale Piazzoni… È stato proprio un disastro, i bombardieri tedeschi passavano ormai sopra di noi… Son venuti una camionetta tedesca con la mitragliera a 4 canne della contraerea, hanno abbassato le canne ci hanno sparato addosso con la 20 millimetri, un disastro, un macello. Noi eravamo disarmati. Io mi sono salvato perché ero uno dei primi e c’erano una ventina di muli legati alla ringhiera, che c’era un burrone nel mare, e lì ero stanco e ho visto sparare, ho visto un disastro… Sono caduto per terra, non so se siano stati i muli che mi hanno buttato per terra o cosa, mi sono trovato per terra perché i primi otto muli li avevano ammazzati, sventrati diciamo. … Un duecento morti c’erano, lì abbiamo presi e messi sul marciapiede di qua e di là… Questo fatto è successo tra il porto e la città di Ragusa. … Siam partiti di lì 7 ottobre da Ragusa, ci hanno portati su treni scoperti perché i partigiani volevano vedere i treni scoperti, perché quelli col materiale li facevano saltare, finché siamo arrivati in Austria, siamo passati per l’Ungheria il giorno 13 ottobre che era il mio compleanno; alla sera eravamo in un campo di concentramento… Lì ho dormito una notte… Al mattino è capitato un tavolino con un ufficiale tedesco e un interprete, ci volevano trenta persone per andare a lavorare, i primi trenta sono capitato anch’io e siamo andati a lavorare nei boschi a 24 chilometri sud ovest di vienna, facevamo i boscaioli, a tagliare le piante. Non avevamo guardie ma avevamo civili, armati, militarizzati, a controllarci. Non si poteva scappare. Un anno ho fatto questo lavoro; poi ci hanno tirato fuori in dieci a costruire le scuole per forestali… Il primo anno la fame era forte. Quando eravamo quei dieci ci hanno portato in Comune, ci hanno fotografato, ci hanno dato i documenti da civile… Non avevamo neanche la guardia.. Fino a che sono capitati i russi. Tre giorni prima che capitassero i russi ci hanno detto «Arrangiatevi». Allora un civile ci ha portato a casa sua , dice «invece che stare qua è meglio andare nel bosco», perché i russi – dice – non vengono nei boschi… Siamo andati nel bosco, abbiamo fatto la nostra capanna… La notte del 10 o 11 aprile un acquazzone che non finiva più, e lì abbiamo dovuto tornare nelle case, tornati nelle case alla sera siamo andati in un rifugio… La mattina una gran sparatoria e allora ci siamo nascosti sotto le panchine, che c’erano le donne e i bambini, perché gli uomini non c’erano. È venuto dentro uno delle SS e ha detto “italiani fuori” e ci ha messi al muro. Allora un civile, un contadino insomma che aveva una decina di mucche, ha visto questo, è venuto fuori, ha preso una mitragliatrice e dice «Prima di questi italiani me e tutta la famiglia». Poi sono arrivati i russi, ci hanno trattato bene: sono rimasto sei mesi con loro.

3.11 Alfredo Conci

Alfredo Conci è nato l’8 marzo 1923 a Roncegno (Trento), arrivato a Bolzano nel dopoguerra, esattamente nel 1954. Mio papà era lattoniere, vetraio e io ho imparato da lui, io ho fatto l’apprendista, andavo a scuola apprendisti a Borgo Valsugana. Dunque noi realmente vivi siamo in tre fratelli, però eravamo in dieci. I primi due, Luigi e Tullio, sono morti a Mitterndorf durante la prima guerra mondiale come profughi, erano là con la mamma e le nonne. Uno è morto di varicella, Tullio è morto della polmonite doppia, mi sembra. Erano in baracche che non c’era riscaldamento, facevano continuamente cambiare da una all’altra baracca, i bambini avevano un anno e tre anni mi sembra, insomma son restati fuori… Il papà era stato nella sanità con gli austriaci durante la Grande Guerra, aveva una macchina a vapore che distillava l’acqua potabile. Era in Galizia a Leopoli, lui è tornato nel 1918. Mia mamma e mia nonna hanno fatto un po’ di penitenza fuori, fame e tutto quello che c’era insomma. Come sono arrivato a Bolzano? Nel 1954 dico a mio fratello «andiamo a Bolzano a vedere il giro d’Italia». C’era Coppi ancora. Dico «dato che andiamo su andiamo a vedere», perché avevo trovato sul giornale un’inserzione che cercavano un saldatore un meccanico per impresa edile e dico «andiamo a vedere, curiosare». Son venuto su e non mi han lasciato più andare via, sono venuto a Bolzano. E ho fatto quel lavoro lì, ho cominciato prima come meccanico saldatore poi sono migliorato fino a che sono diventato dirigente, ho fatto 47 anni in questa azienda… La cartolina per il servizio militare l’ho avuta il 17 aprile del 1943 Mi hanno chiamato nell’aeronautica. È stata una peripezia! Mi hanno vestito qua alla casermetta dell’aeroporto di Bolzano. Sono arrivato su con mio papà e la mattina, verso le 10, abbiamo preso il tram. Siamo venuti su col treno e poi col tram siamo venuti giù a san Giacomo verso Laives. Sono arrivato e ormai li avevano già vestiti, erano tutti pronti… Sono arrivato in ritardo; mi hanno vestito e compagnia bella. Poi la sera verso le 21,30 dovevamo prendere il treno per andare a Gorizia. Un sergente dice «come faccio io con te, ormai non ti posso mettere dentro nella tradotta. Fai una cosa: io ti lascio libero, se vuoi vestiti in borghese, se vuoi resta in divisa». E allora sono uscito con il drappello vestito e i vestiti miei li ho lasciati alla casermetta là a San Giacomo. Poi siamo andati al treno, abbiamo preso la tradotta e siamo andati verso Gorizia e siamo arrivati a Trento. Quando siamo arrivati a Trento io dico «scendo e vado in Valsugana a casa», perché il sergente mi aveva detto che potevo presentarmi lunedì, quel giorno era sabato. E allora giù dalla tradotta a Trento, c’era il controllo militare, ho attraversato i binari sono andato fuori dalla parte opposta alla stazione, poi ho preso Piazza Venezia, cosa fare? Aspettare cosa? Avevo un vestito da

naja, scarpe nuove, ho iniziato a camminare a piedi, dico vado avanti, forse… insomma alle cinque di mattina sono arrivato a Roncengno, cinque ore ho camminato. Ho dovuto levare le calze, le scarpe, poi dopo la mattina, sai com’è in paese, fai il bullo, mi sono vestito da naja e sono… Ho raccontato quello che è successo. Intanto che sono là al bar arriva il maresciallo dei carabinieri mi vede, mi conosce, dice «Come mai qua. Sei in permesso? Come mai non ti sei presentato ieri?». «Come non mi sono presentato !?!» e allora ho raccontato. «Ma sei pazzo» ha detto «ma sai che dovrei metterti in prigione». Son dovuto scappare a casa, poi mi sono presentato il lunedì, il lunedì non è successo niente… Ero al centro di istruzione di San Pietro di Gorizia. Era una zona militare, quando si andava fuori la sera bisognava andare in cinque/sei, c’erano gli sloveni, i partigiani. Dopo da là ci hanno aggregati al distaccamento di fanteria a Vicenza, alla caserma Ederle. E allora hanno fatto la divisione antiparacadutisti dell’Aeronautica. E il giorno prima dell’8 settembre ci hanno imbarcati su una tradotta e si doveva andare a Pisa, qui prendere l’aereo e andare in Sicilia, nella piana di Catania, per contrastare gli americani. Per fortuna che non siamo andati perché ci han rimesso la pelle tutti quando sono arrivati gli americani… … Poi siamo arrivati fino a Campo di Marte, a Padova, e là fermi, non si partiva più… Era l’8 settembre. È arrivato, lo ricordo ancora, il nostro sottotenente e ha detto «ragazzi la storia si mette male, io vi saluto», tutti gli ufficiali se la sono svignata e là da soli non si sapeva cosa fare… C’è stato un allarme aereo, siamo andati via dalla ferrovia, siamo andati in campagna, poi siamo ritornati… Poi la notte ci hanno riportati di nuovo a Vicenza e da Vicenza siamo entrati in caserma poi una volta di nuovo fuori al treno e ci hanno portati a Valdagno, sempre di notte, siamo arrivati a Vadagno circa la mattina alle sette, ci hanno portato in una palestra. Saranno state cinque sei ore che eravamo dentro, poi tutto di colpo un trambusto, hanno iniziato a sparare e sono arrivati dei carri armati che venivano dalla parte di Asiago verso Vicenza e si vede che sapevano già tutto o che c’erano gli informatori ci hanno beccato dentro in palestra… Ci hanno fatto uscire a ‘gattoni’, sparavano ad altezza d’uomo per farci paura… Poi ci hanno caricati su camion e ci hanno portati a San Pietro di Mantova e siamo andati dentro un distaccamento dell’artiglieria di Mantova, era tutto recintato con i muraglioni alti… Dai camion avevamo buttato tanti biglietti per dire «guarda che son passato», per avvisare a casa. Dopo mio papà è venuto a Mantova, ma ormai era troppo tardi. A Mantova abbiamo fatto una settimana di fame, avevamo costruito le tende, e poi dopo tre quattro giorni hanno cominciato a darci da mangiare… Si faceva la fila la mattina per ricevere il rancio: pagnotta e poi minestra, te la davano alle sei le sette di sera, c’era un sole, caldo, zanzare, una roba pazzesca. Le latrine avevamo fatto un buco con un palo di traverso. Là ci han fatto fare una settimana di penitenza. Mitragliatrici in cima ai muri, tutte SS, poi ci hanno imbarcati. Abbiamo fatto tre chilometri da Mantova siamo andati in stazione a piedi, tradotta, e poi in Germania.

C’è voluta una settimana di treno per arrivare in Germania. Io sono stato fortunato perché fra i miei compagni avevo un amico di Bronzolo e quando siamo arrivati a Bronzolo c’erano le donne e lui ha iniziato a gridare per tedesco, allora sono venute le donne… È successo che il papà era un capoccia dei frutticoltori di Bronzolo. È andato di corsa al comando militare e gli ha spiagato la storia, no? Il treno è stato fermo tre-quattro ore, fattostà che l’hanno fatto venire giù… E sua sorella ha portato per lui zaini pieni di cose da mangiare, mele, pane, vino e dopo Carlo [è il nome dell’amico di Bronzolo] mi ha salutato e mi ha detto «tieniti il mangiare, ciao, ci vediamo»… Sai che poi ho fatto una brutta figura che non sono mai andato a trovarlo? Poi siamo partiti per la Germania, mi ricordo che ci siamo fermati a Norimberga, in un grande scalo merci, dopo quattro giorni siamo usciti per andare in gabinetto, il gabinetto si faceva dentro un berretto, un cappello, dopo si buttava fuori dal vagone. Una notte il treno si ferma, in mezzo ai boschi. Madonna che freddo, ci hanno aperti i portelli e ci facevano scendere 5-6 alla volta, dovevi fare delle scalette di legno fatte sul terreno e in fondo c’era una baracca, veniva fuori proprio il vapore dal freddo come d’inverno… Avevo la coperta addosso e là ci han dato la prima volta patate, una zuppa di rape e lì siamo stati fermi tre quattro ore, poi il treno riparte e siamo arrivati vicino a Danzica, ad Hammerstein64, dove c’erano i primi campi che abbiamo visto inglesi, americani, polacchi, russi… Siamo arrivati alla sera, piovigginava, ci hanno messo in un recinto tutta la notte, bagnati e fradici… Il mattino dopo sono venuti e ci hanno aperto tutti gli zaini, ci hanno portato via tutto… Io avevo le scarpe nuove, avevo le vecchie nello zaino, mi hanno fatto togliere quelle nuove e mi hanno lasciato quelle vecchie… … Ci hanno portato via tutto ci hanno lasciato quel po’ di vestiario, calzetti una maglia, io avevo la divisa d’ordinanza poi avevo quella di fatica, ci hanno portati in un locale, c’erano delle grate, pensi male, cominci a dire qua… ci hanno fatto spogliare nudi, e dopo aprono le porte, le doccie… Fatte le doccie siamo ritornati dove eravamo prima, veniva dentro l’aria calda per asciugarci, poi ci hanno fatto uscire da là e ci hanno portato nelle baracche di legno, soliti tavolacci a due tre piani… Appena siamo arrivati, il giorno dopo, alla parte opposta da noi c’era altre baracche con la bandiera tricolore… Perché ci han detto «volete andare in Italia? Allora dovete votare per la Repubblica di Salò»… dei nostri almeno non è andato via neanche uno… Ad un certo punto dei funzionari vennero a cercare tra gli internati chi voleva andare a lavorare. Io finii a pochi chilometri da Stettino, a lavorare per la Mercedes. Cercavano tubisti e saldatori per impianti di riscaldamento, allora ci hanno scelti, ci hanno messo alla prova, non volevano mica prendere

64 Era lo Stalag II B 313 di Hammerstein/Schlochau, oggi in Polonia. Vi erano 99 campi di lavoro che dipendevano da esso. Lo Stalag di Hammerstein venne smobilitato nel gennaio del 1945.

degli sprovveduti. Anche nella fabbrica c’erano i lager, c’erano gli italiani, i francesi, i russi, i polacchi… Saranno stati là 2.000 persone. Il mangiare era pessimo: una volta al giorno ci davano un litro, neanche sempre, di zuppa di rape, patate non ne vedevi mai neanche. Poi una volta alla settimana dopo 3-4 mesi ci portavano al magazzino viveri e ci davano un pezzettino di pane bianco, un tanto così di burro… poi davano 2 sigarette al giorno, insomma qualcosa prendevi. Il lavoro invece era abbastanza buono, non mi posso lamentare… Poi ero volenteroso e capace, dopo 5-6 mesi mi hanno fatto una squadra di 4 persone, ero il capo squadra, si facevano gli impianti delle baracche. Poi a volte restavo dentro in fabbrica e dove facevano i reparti nuovi preparavo tutti gli impianti per l’aria, per il vapore, tutti lavori di idraulica… Avevamo l’interprete da campo e poi un interprete in fabbrica; interprete da campo era un impiegato qua del Comune di Bolzano, de Robertis, e invece quello di fabbrica quello è morto due anni fa, una brava persona anche quello. Alfredo rimase nella stessa fabbrica a lavorare fino alla fine della guerra.

3.12 Alcuni documenti di Mario Michielli

In questo caso ho pensato di fare cosa utile riproducendo alcuni documenti messi gentilmente a disposizione presso il Circolo Culturale ANPI di Bolzano dai famigliari di un ex-Internato di Bolzano, Mario Michielli. Questa è la cartolina (con la dicitura Kriegsgefangenenpost, posta per prigionieri di guerra) che veniva data agli internati in un campo di transito o di smistamento. Il testo è in francese e contiente un comunicato standard per tutte le famiglie: “Io sono prigioniero di guerra in Germania in buona salute. Noi saremo trasportati da qui in un altro campo nel giro di qualche giorno. Non scrivetemi fino a quando non otterrete il mio nuovo indirizzo”.

Ecco la piastrina di riconoscimento che veniva data in dotazione agli Internati. Quella qui riprodotta apparteneva al sottotenente Mario Michielli, nato a Trieste il 15 febbraio 1920, residente a Bolzano. Fu internato a Stablach e in seguito a Münster. Fece ritorno a Bolzano nell’agosto 1945: Quella che segue è invece una riproduzione della cartolina utilizzata dagli internati per comunicare con le proprie famiglie:

Il permesso rilasciato dal comandante del Lager di Bocholt a Michielli in qualità di interprete degli ufficiali italiani internati nello Stammlager VI F:

Molto interessante è poi questa scheda: Riproduce il documento, scheda di rimpatrio o foglio di via, rilasciato dal CAR di Bolzano agli internati.

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