IL LATO OSCURO DELLO STREAMING: TV, OTT E PIRATERIA A CONFRONTO

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ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITA' DI BOLOGNA

SCUOLA DI LETTERE E BENI CULTURALI

Corso di laurea in Cinema, televisione e produzione multimediale

TITOLO DELLA TESI

Il lato oscuro dello streaming: TV, OTT e pirateria a confronto. Analisi dello streaming calcio “pirata” in Italia

Tesi di laurea in Economia e marketing dei media audiovisivi

Relatore Prof. ssa: Veronica Innocenti

Correlatore Dott: Gabriele Prosperi

Presentata da: Danilo Callea

Appello primo

Anno accademico 2017-2018

2 INDICE INTRODUZIONE…………………………………………………………………..p. 4 CAPITOLO 1: VIDEO STREAMING NEGLI ECOSISTEMI (IN)FORMALI DEI MEDIA 1.1 Economia informale dei media……….......….………………………………...p. 11 1.2 Breve storia della tecnologia streaming………………………………………...p. 18 1.3 Ecosistemi digitali, OTT e multi-sided market.…………………………………p. 22 1.4 YouTube tra UGC ed istituzionalizzazione…………………………………... p. 28 1.5 Siti d’indicizzazione informale...……………………………………………….p. 32 1.6 Architettura dell’informazione, trovabilità e tag………………………………. p. 36 1.7 User-experience e Big Data come nuovo vantaggio competitivo……………....p. 39 1.7.1 Analisi dei Big Data negli OTT…………………………………………..p. 40 1.7.2 Netflix come awareness………………………………………………….p. 42 1.7.3 Amazon Prime Video come cross-selling ………………………….p. 43 1.7.4 Nuovo vantaggio competitivo……………………………………………p. 44 1.8 Finestre distributive e streaming……………………………..………………...p. 46 1.8.1 Competizione e coesistenza……………………………………………...p. 47 1.8.2 Geoblocking ed aggiramento informale…………………………….…...p. 49 CAPITOLO 2: CONTINUITÀ TRA “VECCHIA” TV E STREAMING ON DEMAND 2.1 TV, streaming e flusso..…….………….……………….…………………….p. 53 2.1.1 Ancora palinsesto……….………………………………………………..p. 54 2.1.2 Ancora format…………………………………………………………….p. 58 2.1.3 Branding, reputazione e fidelizzazione…..……….………………………p. 61 2.2 Il “bello della diretta” 2.0 e second screen…….….…….....………….………..p. 63 2.3 Serie TV on demand ed il fenomeno del revival…….…………………………..p. 67
3 2.3.1 Gilmore Girls (non) crescono...……………………………………..……p. 72 2.4 Nuove nicchie ed utenti/fan……………...………………,…………………….p. 74 CAPITOLO 3: CASE STUDY “STREAMING CALCIO ‘PIRATA’ IN ITALIA” 3.1 Il calcio in Italia tra “vecchia” TV, social media e streaming………………….p. 79 3.2 La battaglia per i diritti audiovisivi sportivi.…………………………..………..p. 90 3.3 Streaming calcio “pirata”………………………………………………………p. 97 3.3.1 Highlights on demand……..………………………………..……………..p. 98 3.3.2 Live-streaming……..…………………………………………………….p. 100 CONCLUSIONE (La palla è mia. Telco e tech-firm alla conquista dello streaming)…………….p. 103 BIBLIOGRAFIA………………………………………………………………...p. 108 SITOGRAFIA……………………………………………………………………p. 118

INTRODUZIONE

Nel corso dell’intervista a Stuff.tv

1 Ted Sarandos – attuale Chief Content Officer di Netflix – ha affermato che ogni qual volta viene reso disponibile Netflix per la prima volta in un datoPaese,il traffico nellostesso Paese sui siti pirataquali BitTorrent subisce un netto calo. Allo stesso tempo, indagini giornalistiche2 e recenti studi accademici3 hanno suggerito l’ipotesi che – quantomeno ai loro albori – questi nuovi attori over-thetop abbiano utilizzato i canali informali e non autorizzati sia per attingere a dati sensibili di preferenze e tendenze degli utenti (vedi Netflix), sia per caricare file pirata sui propri cataloghi (vedi Spotify).

Nel (nuovo) mondo del video streaming, in particolare, appare ancora più evidente questa capacità – da parte dei nuovi attori dell’audiovisivo – di studiare ed interpretare pratiche di consumo ed accesso su canali informali e pirata per poter costruire valore e vantaggio competitivo rispetto alle figure tradizionali dei media, quali ad esempio i broadcaster.

1 Luke Edwards, “Netflix’s Ted Sarandos talks Arrested Development, 4K and reviving old shows”, Stuff.tv, 01/05/2013, https://www.stuff.tv/news/netflixs-ted-sarandos-talks-arrested-development-4k-and-reviving-oldshows (consultato il 08/05/2018).

2 Tim Worstall, “How Clever, Netflix Monitors BitTorrent To Purchase Shows”, Forbes, 16/09/2013 https://www.forbes.com/sites/timworstall/2013/09/16/how-clever-netflix-monitors-bittorrent-to-purchaseshows/#2a180d5260ff (consultato il 08/05/2018)

3 David Turner, “Spotify Confronted a Research Team That Exposed Their Ties to Illegal File Sharing Sites”, TrackRecord, 13/10/2017 https://trackrecord.net/spotify-confronted-a-research-team-that-exposed-their-t1819442394 (consultato il 08/05/2018); in corso di pubblicazione il volume: Marika Eriksson, Rasmus Fleisher, Anna Johansson, Patrck Vonderau, Pelle Snickars, Spotify Teardown: Inside the Black Box of Streaming Music, MIT Press, 2018 circa.

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“People are the common denominator of progress.”
John Kenneth Galbraith (1964)

L’approccio accademico nei confronti di una materia in continua evoluzione e mutazione – come è il caso del video streaming nello spettro (in)formale dei media –rappresenta un difficile banco di prova per raggiungere concetti e tesi che possano apparire quantomeno attendibili nel medio-lungo periodo. Una rapida disamina dei volumi (accademici e non) a proposito dei nuovi sviluppi dello streaming e dei media in generale testimonia proprio questa difficoltà nell’afferrare le nuove prospettive e pratiche di consumo, produzione e distribuzione nel campo dell’audiovisivo. La stessa immagine e “reputazione” del video streaming sembra infatti contraddittoria: per molto tempo assurto a simbolo di forme di consumo informali, pirata ed “oscure”, adesso appare come il nuovo must per ogni comparto mediale che voglia confrontarsi con le moderne dinamiche del presente ed essere competitiva nel futuro, nonché bandiera dei nuovi player nel campo dei media come Netflix e Amazon Prime Video, sempre più alfieri di un certo sentimento goodwill che ha già accompagnato altre importanti realtà della Silicon Valley.4

Non solo, anche il concetto stesso di streaming legato all’audiovisivo appare piuttosto ambiguo e confuso, sia nell’approccio più giornalistico e divulgativo che in quello accademico. Da unlato infattisifa riferimentoallo streaming in quanto“mezzo”,ovvero come modalità di fruizione attraverso un device (per lo più pc o tablet), spesso in contrapposizione allo schermo televisivo classico. Dall’altro si utilizza la pratica dello streaming come sinonimo di on demand, ovvero come modalità di fruizione anytime/anywhere, quest’ultima definita “non lineare” così da essere contrapposta a quella “lineare” della tv classica, invece legata ad un palinsesto e ad un flusso continuo che non “aspetta” lo spettatore. Eppure, entrambe queste ipotesi – spesso accompagnate dall’aggettivo post o disruptive5 – possono essere facilmente smentite: trasmissioni e film in streaming possono essere visionate facilmente anche sul classico televisore grazie alla nascita di Smart tv collegate alla rete internet. Nel caso dell’equazione tra

4 Si rimanda a: Marina Levina, Amy Adele Hasinoff, “The Silicon Valley Ethos: Tech Industry Products, Discourses, and Practices”, Television & New Media, vol. 18, n. 6, 2017, pp. 489-495.

5 Marc Laverette, Brian L. Lott, Cara Louise Buckley (a cura di), It’s Not TV: Watching HBO in the PostTelevision Era, Routledge, Abingdon-on-Thames, 2007; Larry Downes, Paul Nunes, Big Bang Disruption: Strategy in the Age of Devastating Innovation, Penguin, New York, 2014.

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streaming ed on demand – sebbene quest’ultima sia una delle modalità preponderanti e caratteristiche del video streaming – è semplice constatare come parte sempre più importante sia ormai il live streaming di importanti eventi così come quelli più privati, spesso coadiuvato da piattaforme social quali Facebook o Twitter con i loro servizi di live streaming.

Prima ancora che legato a pratiche di visione personalizzate oppure a schermi classici o piccoli come quelli degli smartphone, lo streaming nasce grazie ad internet e non può farne a meno. Allo stesso tempo, da quando la banda di connessione è diventata abbastanza “larga” da accogliere contenuti video, ormai internet non può più essere immaginato e pensato senza il video streaming.

Il video streaming sembra dunque la naturale evoluzione di un processo che – come spesso accade – nasce nel tessuto informale di scambio e di pratiche di consumo divergenti e “pirata” che utilizzavano la connessione internet per fruire di qualcosa (il video, appunto) cui la stessa connessione non era stata pensata originariamente. Da questo décalage o scarto tra consumo divergente “agile” ed assetto lento ed

“ingombrante” dei comparti audiovisivi tradizionali lo streaming ha potuto imprimersi come modalità di visione via via più istituzionale, in parte scombinando ma più verosimilmente proseguendo lo scenario e le pratiche dei tradizionali player dei media In questo senso, un approccio che voglia esaminare il video streaming in maniera critica ed organica non può fare a meno di partire dagli spunti offerti dall’economia informale dei media e da quelle pratiche di consumo divergenti che hanno anticipato, per certi versi, l’attuale situazione nel panorama mediale. Così il primo capitolo di questo studio si apre proprio indagando sulle tecniche e sugli strumenti dell’economia informale declinati nel mondo dei media grazie al volume Informal Media Economy dei due studiosi Lobato e Thomas. Se il connubio streaming ed internet appare inscindibile, una breve storia dello sviluppo della tecnologia streaming e puntuali spunti d’informatica, come ad esempio lo sviluppo di determinati protocolli di codifica video, appaiono necessari per contestualizzare il fenomeno in tappe storico-tecnologiche fondamentali. Ovviamente, non basta solo l’evoluzione tecnologica per inquadrare un fenomeno così complesso che ha forti rimandi ad una “cultura convergente” e diffusa o anche solo a strutture economiche particolari come lo sviluppo di veri e propri ecosistemi mediali e

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piattaforme digitali in grado di attivare un nuovo multi-side market e nuovi intermediari.

In questo senso, recenti studi mettono in luce interessanti spunti circa il “controllo locale” che i nuovi player OTT riescono a garantire su di un materiale fino ad ora piuttosto “magmatico” e non autorizzato, come è appunto il caso del video streaming.

Una delle prime e più celebri creature della cultura del video streaming, YouTube, sembra proprio emblematica di questo passaggio da piattaforma di video sharing “dal basso” ad una crescente istituzionalizzazione e sfruttamento dei contenuti in streaming sulla piattaforma.

Nel panorama più propriamente informale dello streaming, cybelocker e siti d’indicizzazione di video streaming svolgono un ruolo fondamentale alla stregua di community anche attraverso scambi “reputazionali” tra utenti/fan in una forma di compensazione ed influenza con le attuali strutture istituzionali dei media

Data la crescente abbondanza di contenuti, con una mole di video in streaming potenzialmente infinita, diventano sempre più importanti i concetti legati all’architettura dell’informazione e trovabilità, di modo da ottimizzare e rendere estremamene fruibili i cataloghi di video streaming di vecchi e nuovi player dei media.

Così si arriva ad uno degli aspetti centrali di questo studio, ovvero l’idea in base alla quale sia sempre più importante l’user-experience, ovvero l’esperienza di visione, nel mutato panorama dello streaming video e delle piattaforme digitali, garantendo un nuovo vantaggio competitivo a quegli attori, nel campo dei media, in grado di eccellere nella facilità di accesso ai propri cataloghi, nella raccolta di dati e preferenze (i famigerati Big Data) nonché nelle dinamiche di partecipazione ancillari alla stessa visione. Su questa scia si presentano i concetti di Netflix come awareness e Amazon

Prime Video come cross-selling. Chiude il primo capitolo un’analisi sulle finestre di distribuzione e sfruttamento del prodotto audiovisivo attraverso un rapporto di competizione e coesistenza tra broacaster tradizionali e piattaforme streaming over-thetop. Un ruolo importante è svolto dalle pratiche di geoblocking del contenuto mediale su base territoriale, e di conseguenza dalla risposta informale e “pirata” di aggiramento dello stesso blocco geografico (circumvention) per quanto riguarda la visione in streaming. Tutto ciò all’ombra di una rapida «svalutazione» del prodotto presente su uno o più cataloghi delle piattaforme digitali

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Streaming è anche la traduzione inglese di “flusso”, ovvero il termine utilizzato da Raymond Williams per descrivere profeticamente uno degli emergenti e specifici tratti del medium televisivo. Il secondo capitolo di questo lavoro s’incentrerà proprio sulla televisione, soffermandosi maggiormente sui rapporti di continuità tra “vecchia” tv lineare ed il nuovo consumo streaming. In questo senso, creature televisive come il palinsesto ed i format costituiscono ancora sacche di resistenza molto forti nei confronti della visione cosiddetta personalizzata, influenzando a loro volta lo streaming on demand. Non solo, anche il concetto di branding legato al contesto televisivo assume una valenza sempre più centrale, a maggior ragione nelle prospettive dello streaming e dell’appropriazione informale e grassroot di contenuti.

Allo stesso tempo, diventa fondamentale per la TV l’aspetto partecipativo e hic et nunc di un evento ripreso in diretta, sia esso sportivo o d’intrattenimento, il quale non può essere sostituito dalla fruizione on demand, configurandosi anzi come uno specifico televisivo sempre più strategico e sfruttato anche attraverso nuove pratiche di consumo “pirata”.

Un particolare contenuto mediale che invece sembra maggiormente svilupparsi su pratiche di consumo in streaming on demand sembra il recente boom delle serie tv. Ma anche all’interno di questa dinamica si assiste sempre più spesso a dei revival di vecchie e celebri serie televisive che spesso fungono da “ponte” tra i tradizionali broadcaster e le nuove piattaforme OTT di video streaming, con un importante riferimento all’aspetto informale di partecipazione tra utenti.

L’ultima parte del secondo capitoloindagherà inuovi ruoli del pubblico,in specialmodo televisivo, di fronte all’avvento dello streaming e delle piattaforme OTT. Verranno così messe in connessione le vecchie tipologie di audience con quelle più recenti quali prosumer e social TV user. E se la pirateria e lo streaming non autorizzato hanno fatto da incubatore nei confronti delle nicchie e delle pratiche di consumo fandom, i nuovi player dell’audiovisivo stanno sempre più investendo nel coinvolgimento di queste nuove nicchie, con un ritorno sia economico (più abbonati) sia di reputazione e fidelizzazione.

Il capitolo finale si concentrerà su un caso di studio riguardante lo streaming “pirata” delle partite di calcio in Italia. Il calcio – all’interno del panorama televisivo italiano –

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è da sempre un appuntamento quasi imprescindibile, sia nella modalità degli highlights della partita attraverso programmi e format televisivi rodati, sia e soprattutto attraverso la diretta delle partite su tv generalista o pay. Il mercato audiovisivo italiano è certamente meno evoluto rispetto a quello statunitense e nordeuropeo,6 favorendo così una situazione particolare di “conservazione passiva” di vecchie abitudini di fruizione televisiva ma, allo stesso tempo, di attesa nel riscontrare e valutare come le nuove tendenze di consumo, ed in particolare lo streaming, possano inserirsi nel contesto mediale nazionale. L’ambito dei media riguardante lo sfruttamento delle partite di calcio è sicuramente uno dei settori di punta di ogni televisione, sia essa free-to-air o pay tv. Spesso l’avere o meno l’esclusiva di una particolare rassegna calcistica o fase finale di un torneo rappresenta una killer application rispetto agli altri rivali. Da qui ne consegue una vera e propria “battaglia” per accaparrarsi i diritti audiovisivi sportivi, mediati a loro volto da istituzioni di garanzia edantitrust sovranazionali in grado di muoversi sulsottile filo tra diritto all’informazione e sfruttamento dell’evento sportivo.

L’ultimo paragrafo tratterà finalmente dello streaming “pirata” e non autorizzato di un evento sportivo come quello calcistico nelle due modalitàs live e highlights on demand.

L’evento calcistico, di fatti, spesso funge da “collettore sociale” così da favorire il binomio tifoso/pirata, dinamica molto simile a quella del fan/pirata per i siti d’indicizzazione di film e serie tv. Lo streaming non autorizzato di una partita di calcio dialoga inoltre con il particolare statuto della diretta e della facile reperibilità dell’evento, fattori indispensabili al momento della ricerca e della messa a disposizione di un link per lo streaming pirata.

La sezione conclusiva offrirà delle riflessioni finali sulle prospettive future dello streaming e sulla sempre più importante questione della net neutrality legata ancora una volta allo streaming e, a maggior ragione, agli spazi e pratiche di consumo divergenti ed informali.

Il lavoro qui realizzato ha un carattere eminentemente interdisciplinare, e non potrebbe essere altrimenti data la materia – il video streaming nello spettro informale dei media,

6 Si rimanda ai dati consultabili sul sito: https://www.themediabriefing.com/analysis/the-global-media-landscapein-eight-charts/ (consultato il 08/05/2018).

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per l’appunto – per sua stessa natura debordante in molteplici spazi e branche del sapere, così come nelle pratiche di consumo e sfruttamento economico.

Gli studi e le citazioni qui svolte abbracciano infatti spunti riguardanti l’informatica, l’economia (compresa la sua branca “informale”), la giurisprudenza in special modo in relazione ai dirittidi licenzae disfruttamento dell’audiovisivo calcistico, oltre ainaturali riferimenti riguardanti gli studi culturali, televisivi e sui media più in generale. Le fonti bibliografiche spaziano dai volumi ed autori stranieri come Henry Jenkins, Jason Mittell, il già citato Ramon Lobato e Patrick Vonderau fino ai contributi di studiosi ed accademici delle maggiori università e centri studi italiani, come ad esempio gli spunti raccolti nel recente volume Streaming Media. Distribuzione, circolazione, accesso.

Accanto alle fonti bibliografiche, imprescindibile è stato il lavoro di visione e ricerca su riveste accademiche e di settore – in particolare la rivista Television & New Media – il cui contributo e analisi sui temi di stringente attualità è stato fondamentale per le questioni affrontate in questo saggio. Altrettanto importante è stata la ricerca di articoli su blog e siti internet al fine di rimanere aggiornati sulle tante novità del settore che vanno via via affollandosi, così come la presenza presso convegni e dibattiti sul tema nel corso degli studi universitari.

La tesi esposta quidi seguito sipresenta,dunque, come unlavoro olisticodi ricognizione comprensivo delle varie voci e prospettive che si affacciano su una materia suscettibile di molte sfaccettature in grado di occupare, influenzare e dialogare con tutto lo spettro dell’economia informale dei media. La differenza tra una struttura dei media estremamente integrata ed una più agile ed informale risulta spesso da una differenza di grado nello stesso spettro economico, al cui centro vengono a stabilirsi sempre più le pratiche di consumo ed in particolare la tipologia del video streaming. Quest’ultimo, infatti, diventa lo specchio di nuove prospettive di distribuzione e produzione dei media, capaci d’intrecciarsi con l’aspetto informale e “pirata” tanto quanto con i tradizionali player nel campo dell’audiovisivo, continuando ed allo stesso tempo mutando il panorama dei media e televisivo in particolare.

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“It’s all in the game.”

The Wire (David Simon, 2002-2008)

1.1 Economia informale dei media

Manuel Castells e Alejandro Portes introducono7 l’economia informale come un concetto d’uso comune i cui labili confini sociali non possono essere racchiusi all’interno di una rigida definizione. Prima di giungere alle posizioni assunte da Castells e Portes, l’esistenza stessa di un’economia come quella informale sottintendeva l’idea di una differenza fra due, distinte e spesso inconciliabili tipologie di economie. Da una parte, infatti, un’economia ufficiale che può essere misurata e dunque considerata parte integrante del Prodotto Interno Lordo (PIL) di una Nazione, dall’altra parte ci si riferiva ad un insieme di pratiche sociali ed economiche “non autorizzate” che operavano in una sorta di zona grigia, opaca e difficile da misurare. Questo era soprattutto il pensiero dei primi antropologi ed economisti che hanno studiato il fenomeno negli anni ’70 del Ventesimo secolo.

L’antropologo inglese Keith Hart8 – attraverso il suo studio sulle forme di mercato non convenzionale in Ghana – aveva documentato una serie di lavori, appalti e pratiche agricole di piccola scala che, sebbene fossero in grado di alimentare una cospicua rete di lavoro per la popolazione locale, non risultavano inserite in un modello economico

7 Manuel Castells, Alejandro Portes, “World underneath: the origins, dynamics, and effects of the informal economy”, in A. Portes, M. Castells, Lauren A. Benton (a cura di), The Informal Economy: Studies in Advanced and Less Developed Countries, John Hopkins University Press, Baltimora (USA), 1989, pp. 11-40.

8 Keith Hart, “Informal Income Opportunities and Urban Employment in Ghana”, The Journal of Modern African Studies, Cambridge University Press, vol. 11, n. 1, 1973, pp. 61-89.

11 CAP. 1 VIDEO STREAMING NEGLI ECOSISTEMI (IN)FORMALI DEI MEDIA

formale e nazionale. Difatti, volontà degli studiosi era combattere il problema della disoccupazione nel Paese reintegrando queste attività di sub-occupazione nell’economia nazionale.

Questa prima analisi introduce una problematica che accompagnerà fin da subito gli studi nel campo dell’economia informale: ossia la difficoltà nel misurare, tracciare e controllare le attività economiche informali con l’intento di reintegrarle nel tessuto economico ufficiale. In un primo momento gli studiosi che si sono avvicinati a questo campo hanno preso in esame soprattutto i paesi in via di sviluppo, creando così una netta distinzione fra le economie sviluppate con sistemi economici istituzionalizzati ed economie in via di sviluppo caratterizzate da pratiche economiche non convenzionali, non registrate e non integrate in un sistema economico top-down. A partire dagli anni ’80, con l’avvento delle politiche economiche di deregulation di stampo reaganiano e thatcheriano, l’aspetto informale ha iniziato ad interessare anche l’economia dei paesi occidentali. Lo stesso Hart,9 rivisitando i suoi assunti, afferma che gli spazi informali declinati in pratiche di outsourcing, mercato libero e in un più generale laissez-faire hanno iniziato ad essere una prerogativa nei nuovi imperativi economici occidentali. Sempre Hart sostiene che la recente crisi economica sta invece riportando il pendolo verso una «re-regulation» delle pratiche informali più estreme, quale ad esempio la finanza speculativa.

Sicuramente uno dei meriti legati all’introduzione del concetto di economia informale è stato quello di aver aperto – come un grimaldello – tutta una serie di connotazioni economiche più labili, diversificate e stratificate rispetto al rigoroso linguaggio economico ufficiale. Pierre Bourdieu,10 introducendo il concetto di capitale culturale, afferma infatti che è impossibile riuscire a spiegare il funzionamento del mondo sociale con il solo capitale economico nel senso più ristretto del termine. E ancora le studiose

Julie Graham e Katherine Gibson presentano l’approccio per una «diverse economy»11

i cui contorni tra mercato, lavoro e valore risultano più sfumati rispetto alle rigide

9 Keith Hart, “On the informal economy: the political history of an ethnographic concept”, CEB Working Paper No. 09/042, Centre Emile Bernheim, Bruxelles, 2009.

10 Pierre Bourdieu, “The Forms of Capital”, in Imre Szeman, Timothy Kaposy (a cura di), Cultural Theory: An Anthology, John Wiley & Sons, 2011.

11 J.K. Gibson-Graham, A Postcapitalist Politics, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2006.

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meccaniche di regolamentazione. In uno studio successivo,12 la possibilità performativa di questa dottrina di pensiero trova applicazione in svariati campi, dalle trasformazioni del paesaggio rurale nelle Filippine alla pesca sulla midcoast americana al rapporto etico fra prodotti e sostenibilità. Questo approccio accademico – da prendere anche con un certo scetticismo nelle sue conclusioni – può essere utile nel momento in cui è in grado di attivare una nuova prospettiva di studio sugli aspetti economici che appaiono non misurabili, non regolamentati e non definiti a priori da rigide impalcature economiche. Sul versante dei media, Gillian Doyle13 introduce l'economia dei media come un’economia caratterizzata da alti costi iniziali, oligopoli che creano forti barriere all'ingresso e bassi o quasi nulli costi di riproduzione. Questo sistema economico incentiva la creazione di forti economie di scala così da ammortizzare gli alti costi iniziali. Una conseguenza di tutto ciò è l'elevata tendenza a creare sempre più paesaggi mediali conglomerati ed altamente integrati verticalmente e obliquamente, con l'intenzione di istituzionalizzare queste stesse strutture economiche. Appare evidente, inoltre, come lalegittimità omenodi questepratiche d’integrazione dipenda dalcontesto legislativo e politico che va manmano mutando, equindi dalla maggiore o minorestretta delle norme antitrust nel corso del tempo. Unendo i due campi – economia informale ed economia dei media – Lobato e Thomas14 si servono proprio della definizione di economia informale per applicarla più in particolare allo studio sui media. I due studiosi si soffermano sulla complementarietà dei due modelli: formale ed informale. I due sistemi economici, difatti, nell’economia dei media si comportano non più divisi in un sistema binario che procede su strade parallele, ma al contrario come un’unica linea che viaggia dai siti internet pirata fino ai grandi conglomerati mediali. La differenza non è più di tipo oppositivo e manicheo –legale/illegale, formale/informale – ma risulta da una semplice variazione di grado sulla stessa linea di sviluppo: dal più informale fino alle economie più strutturate. In sintesi,

12 Gerda Roelvink, Kevin St. Martin and J.K. Gibson-Graham (a cura di), Making other Worlds Possible. Performing Diverse Economies, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2015.

13 Gillian Doyle, Understanding Media Economics, SAGE, Londra, 2002.

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14 Ramon Lobato, Julian Thomas, The Informal Media Economy, Polity Press, Cambridge-Malden, 2015.

l’economia dei media può essere vista come uno spettro di variazioni e tonalità che procede da un polo informale ad uno più istituzionalizzato, e viceversa.

Sempre nel volume The Informal Media Economy, Lobato e Thomas c’informano della penetrabilità di elementi economici informali anche nelle conglomerate più integrate. Un esempio è offerto dal caso di News Corporation del magnate Rupert Murdoch. In base ad un'inchiesta svolta da Neil Chenoweth,15 è venuto alla luce il fatto che la conglomerata di Murdoch si serve di una sussidiaria, la NDS, per sfruttare il lavoro “informale” di hackers informatici, così da distribuire liberamente nel Web chiavi di accesso per i canali criptati dei competitor di News Corporation. Sull'altro versante, è difficile se non impossibile trovare strutture mediali che siano totalmente

“informalizzate”: è infatti molto comune rintracciare elementi formali anche nelle piattaforme mediali di medie o grandi dimensioni gestite da fan e volontari. Ne sono la conferma i siti fansub, dove vengono distribuiti gratuitamente i sottotitoli per la maggior parte dei programmi televisivi in diverse lingue, anche le più improbabili. Sebbene questi siti web quali OpenSubtitle, Subscene e anche l'italiano SubIta siano spesso gestiti da amatori che non ricevono alcun compenso, le strutture all'interno delle quali operano risultano altamente organizzate. Una rigida programmazione, spartizione di compiti, controllo e verifica fra i volontari traduttori fa sì che la maggior parte dei sottotitoli siano pronti nell'arco di qualche ora dopo la messa in onda dell'episodio o del programma televisivo tradotto. In particolare, per quanto riguarda il sottogenere degli anime fansubs, Schules16 espone i motivi che caratterizzano la pratica ludica che s’instaura tra i volontari, il testo da tradurre ed il medium di riferimento attraverso l’engagement costruito dalle comunità degli appassionati di anime giapponesi. Questo stesso engagement produce poi un insieme di autonominate figure “professionali” all’interno della stessa comunità, quali ad esempio: tech-savvy, competenti in lingua giapponese ed esperti della cultura anime.

A questo punto risulta chiaro come lo stesso spettro di variazione dal formale all'informale possa disgregarsi e riaggregarsi in diverse combinazioni con differenti

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15 Neil Chenoweth, Murdoch’s Pirates, Allen & Unwin, Sydney, 2012. 16 Douglas Michael Schules, “Anime Fansubs: translation and media engagement as ludic practice”, Doctor of Philosophy thesis, University of Iowa, 2012.

strutture mediali, più o meno integrate e distanti l'una dall'altra. È possibile, infatti, riscontrare elementi informali che accompagnano anche le strutture mediali più istituzionalizzate e, allo stesso tempo, elementi propri dell'economia formale che investono spazi di comunità mediali per fan e amatori.

A tutto ciò bisogna aggiungere il fatto che – in special modo nelle economie mediali –le strutture che appaiono istituzionalizzate ed integrate nel sistema legislativo corrente provengono da una fase embrionale in cui spesso operavano ai margini della legalità, servendosi occasionalmente di pratiche economiche informali. Ne è un esempio il settore del broadcast televisivo commerciale in Europa ed in particolare in Italia fra gli anni ‘70 ed ‘80. Nel caso sopracitato, da una situazione di «far-west delle frequenze» –come definito dalla studiosa Francesca Anania17 – si è poi giunti alla legittimazione istituzionale di un duopolio di fatto, comprendente il servizio pubblico RAI da una parte, e le reti commerciali Fininvest dall’altra.

Allo stesso modo, appare molto difficile creare una realtà economica nel settore dei media che adotti soltanto delle risorse di tipo informale. Il rapporto fra i due modelli economici risulta essere fortemente sussidiario ed inclusivo. Nella fattispecie, Lobato e Thomas18 individuano una serie di strumenti utili per capire e rappresentare il rapporto tra le due economie formali ed informali e come questi due modelli si commisurano e controllano a vicenda. Vengono così descritte le funzioni (tab.1), ossia le modalità attraverso cui le pratiche informali si presentano nei mercati formali mediali; si passa poi agli effetti (tab.2), ovvero i cambiamenti che l’economia informale produce nel mercato formale e viceversa; ed infine si hanno i controlli (tab.3), intesi come i meccanismi attraverso i quali vengono regolate le attività informali nei media. Se da un lato l’economia informale – in special modo nei media – può essere definita come un laboratorio che produce output differenziati, più competizione e facilità di accesso, dall’altro versante spesso ne consegue una riconsiderazione al ribasso per quanto concerne il reddito e le condizioni di lavoro per gli occupati nel settore, così come la creazione di un mercato del lavoro fuori dai parametri istituzionali. Studiosi

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17 Francesca Anania, Breve storia della radio e della televisione italiana, Carocci Editore, Roma, 2004. 18 R. Lobato, J. Thomas, op. cit., pp. 29-37.

come Hesmondhalgh19 argomentano la tesi secondo la quale sia necessario un modello di lavoro “differenziato” e, di conseguenza, abbastanza flessibile per venire incontro alle nuove complessità createsi con la rivoluzione digitale. Di contro, accademici quali Gill20 e Formenti21 si scagliano contro la sempre crescente «informalizzazione» del lavoro nell’industria dei media, la quale alimenta fenomeni di poca trasparenza e nepotismo, nonché precarietà e sfruttamento delle risorse creative.

Tabella 1 – Funzioni: Influenza delle attività informali sui mercati formali.22

Funzione Definizione Esempio

Gap-filling Workarounds informali attraverso cui risolvere problemi di natura pratica o d’informazione

Incubatore Crescita, nel settore informale, di abilità, idee, stili e processi che possono spostarsi nell’ambito formale

Outsourcing Creare remunerazioni più basse, mercati del lavoro più flessibili ed al di fuori delle strutture istituzionali

Taste-testing Misura della domanda di un consumatore per un prodotto o lavoro al di fuori del mercato stabilito

Effetto “volano” Uso di pratiche informali per promuovere la domanda in mercati formali

Educativo Educare i consumatori o le aziende per quanto riguarda la possibilità di nuove tecnologie e formule commerciali

Network di riferimento personali, cambio delle regole e “senso pratico”

Organizzazione di comunità mediali, performance amatoriali, sviluppo di tecnologie da “garage”

Lavoro occasionale e freelance; delocalizzazione di lavoro a basso costo

Adozione dei media informali per la “marketing intelligence”

Promozione virale attraverso i social media

Crowdsourcing; servizi di messaggistica basati sui social network; e-commerce

19 David Hesmondhalgh, “Assessing media labour in the digital age”, Conference Paper, International Communication Association Annual Conference, Boston, 2011.

20 Rosalind Gill, “Inequalities inmedia work”, in PetrSczepanik, PatrickVonderau(acuradi), Behind the Screen: Inside European Production Cultures, Palgrave, Basingstoke, 2013, pp.189-206.

21 Carlo Formenti, Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro, Egea, Milano, 2011.

22 R. Lobato, J. Thomas, op. cit., p. 31 (trad. mia).

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Tabella 2 – Effetti: Come le attività informali mutano i mercati formali, e viceversa.23

Effetto Definizione Esempio

Sostituzione Re-localizzazione di un’attività nell’ambito informale (e viceversa)

Dispersione Le attività di mercato si muovono in direzioni che risultano difficili da tracciare

Mancate vendite a seguito della pirateria; sostituzione SMS con messaggistica istantanea su internet

Streaming informale del contenuto TV che produce valore per gli inserzionisti, per i providers di internet e per le piattaforme

Estensione Creazione di una domanda di mercato addizionale nel settore formale

Rivalutazione Cambio di valore grazie alla circolazione nell’economia informale

Monetizzazione dell’ascolto pubblico di musica attraverso l’applicazione Shazam

Hardware contraffatti che intaccano la fiducia del marchio; circolazione in una sottocultura in grado di aumentare il prestigio del marchio

Ridistribuzione Ripresa, nel settore formale, di tecnologie e pratiche sviluppate nell’ambito informale (e viceversa)

Riconfigurazione Cambio delle logiche di organizzazione in un settore del mercato formale

Applicazioni di tipo p2p nel settore formale, come ad esempio Skype

Distributori cinematografici riducono il prezzo dei DVD per meglio competere con la pirateria

17
23
, p. 33
Ibidem
(trad. mia).

Tabella 3 – Controlli: Meccanismi per gestire le pratiche informali.24

Controllo Definizione Esempio

Restrizione Riduzione delle pratiche informali attraverso il rafforzamento legislativo

Codificazione Processo legislativo che formalizza modelli dell’economia informale

Controversia fra i detentori dei diritti di copyright e gli Internet Service Provider (ISP)

Sistemi tecnologici Digital Rights Management (DRM) che permettono al possessore del bene una suacondivisone limitata e non estensiva

Autorizzazione Estensione legale ed inquadramento burocratico per comprendere i nuovi fenomeni informali

Misurazione Elaborare informazioni circa la grandezza e la natura di un settore informale, attivando una regolamentazione o altre strategie del settore formale

Promozione Interventi mirati ad incoraggiare particolari pratiche informali

Classificazione dei videogiochi; licenze per le stazioni televisive comunitarie

Monitoraggio governativo e corporativo dei social media e delle piattaforme p2p

Appoggio e promozione governativa di attività informali, quali ad esempio sistemi di aggiramento del geoblocking

1.2 Breve storia della tecnologia streaming

Una volta introdotto il concetto di economia informale legato al macrosistema dei media è bene soffermarsi su un campo in particolare, dove gli strumenti dell’economia informale e formale si sono maggiormente e vicendevolmente influenzati, ovvero lo streaming video attraverso la rete Internet.

Da un punto di vista strettamente tecnologico, uno dei primi studi25 in merito ha messo in luce alcune caratteristiche, non solo tecniche, che saranno molto importanti per la definizione e successiva configurazione dello streaming video: tecnologia di

24 Ibidem, p. 35 (trad. mia).

25 Dapeng Wu, Yiwei Thomas Hou, Wengwu Zhu, Ya-Quin Zhang, John M. Pea, “Streaming Video over the Internet: Approaches and Directions”, IEEE Transactions on Circuits and Systems for Video Technology, vol. 11, n. 3, marzo 2001, pp. 282-300.

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compressione video efficiente; controllo di qualità (rate control) dei pacchetti dati inviati; scalabilità del contenuto su diversi dispositivi; servers streaming e protocollo standard per la codifica e decodifica dei dati video. Già alla fine degli anni Novanta esistevano timidi accenni della cosiddetta “Internet TV”, con i braodcaster tradizionali che implementavano nuovi servizi di streaming video online (si pensi a Rai Click, ad esempio). Tuttavia, i primi grossi limiti dello streaming video erano ancora ben presenti e dati dalla scarsa velocità di connessione offerta dagli Internet Service Provider (ISP) e dalla tecnologia di delivery dei pacchetti video in streaming ancora da perfezionare. RealNetworks è stata fra le prime aziende ad intuire il valore dello streaming video attraverso RealVideo, ma la vera sfida per accaparrarsi il dominio di questa nuova tecnologia – a metà degli anni Duemila – fu vinta dall’azienda Adobe grazie alla sua creatura Flash Player. Flash Player si sposava molto bene ai nuovi dettami del Web 2.0 che stava allora consolidandosi: interattività, scalabilità e larghezza della banda dati. Di paripasso allo sviluppo del Web 2.0, iniziano a proliferare un arcipelago di piattaforme video streaming user-generated. Tra queste spicca YouTube, piattaforma di distribuzione di video amatoriali nata nel 2005 e poi acquisita dal colosso Google un anno dopo. Negli stessi anni si assistette anche all’ascesa dei principali social network, i quali svolsero un ruolo fondamentale nel rendere l'immagine fotografica e il video gli elementi comunicativi privilegiati. In questo senso Gunthert evidenzia che:

Facebook […] divenuto pubbliconel 2006, haapportato tra il 2009 edil 2011 considerevoli perfezionamenti alla sua interfaccia grafica per meglio visualizzare immagini e foto, così da facilitare l’integrazione di file visuali e dare loro maggiore visibilità. 26

Come sottolinea l’articolo di Alex Zambelli apparso sul sito online del Guardian, 27 il 2007 è stato l’anno che ha fatto da vero e proprio spartiacque nello sviluppo della tecnologia streaming video. In quell’anno, infatti, l’azienda Moved Networks ha introdotto la tecnologia denominata HTTP-based adaptive streaming Grazie a questa

26 André Gunthert, “The conversational image”, Études Photographies, vol. 31, 2014 (trad. mia).

27Alex Zambelli, “A history of media streaming and the future of connected TV”, The Guardian, 01/03/2013, https://www.theguardian.com/media-network/media-network-blog/2013/mar/01/history-streaming-futureconnected-tv. (consultato il 31/05/2018)

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tecnologia si è iniziato ad utilizzare il più diffuso protocollo HTTP per distribuire contenuti mediali in piccoli pacchetti, variando la qualità ed il “peso” dei pacchetti video a seconda delle condizioni della connessione (veloce oppure più lenta). Già l’anno successivo Netflix– l’azienda fondata diecianni prima comeattività dinoleggio diDVD – avrebbe attivato il suo primo servizio di video streaming on demand, accessibile tramite abbonamento.

L’utilizzo del protocollo HTTP come distribuzione di contenuto audiovisivo ha fatto sì che Content Providers (CP) quali Hulu, Amazon Instant Video e lo stesso Netflix potessero nascere e svilupparsi come strutture over-the-top (OTT), appoggiandosi alle infrastrutture internet già esistenti.28 In questo senso l’AGCOM29 definisce gli OTT come «piattaforme internet-based»,30 ovvero prive di una propria infrastruttura di reti, e come imprese in grado di fornire:

servizi, contenuti e applicazioni di tipo rich media, basati sulla forte presenza di contenuti audiovisivi [che] traggono ricavo, in prevalenza, dalla vendita di contenuti e servizi agli utenti finali (ad esempio nel caso di Apple e del suo Itunes) e di spazi pubblicitari, come nel caso di Google e Facebook.31

Bisogna attendere il 2012 quando, grazie allo sforzo congiunto di più di 50 compagnie e organizzazioni industriali – tra le quali Microsoft, Netflix, Apple, 3GPP32 e W3C33 –si affaccia lo standard Dynamic Adaptive Streaming HTTP, meglio conosciuto come MPEG-DASH. Il nuovo standard – come testimonia la ricerca condotta da Sodagar34 –presenta ricche implementazioni nello sfruttamento anche economico della tecnologia dello streaming video. Si può infatti citare35 la funzione ad-insertion, ossia la possibilità

28 Cristopher Müller, Stefan Lederer, Christian Timmerer, “An Evolution of Dynamic Adaptive Streaming over HTTP in Vehicular Environments”, Proc. 4th Workshop MoVID, Chapel Hill, NC, USA, 2012, pp. 37-42.

29 Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, è un’Autorità amministrativa indipendente italiana di regolazione e garanzia, istituita nel 1997 con la legge Maccanico.

30 AGCOM, Relazione annuale 2012 sull’attività svolta e sui programmi di lavoro, 2012, p. 28.

31 Ivi.

32 Acronimo di Third Generation Partnership Project. Si tratta di un accordo di collaborazione, formalizzato nel 1998, fra enti che si occupano di standardizzare sistemi di telecomunicazione in diverse parti del mondo.

33 Sigla di World Wide Web Consortium: Organizzazione non governativa internazionale che ha come scopo quello di sviluppare tutte le potenzialità del World Wide Web.

34 Iraj Sodagar, “The MPEG-DASH Standard for Multimedia Streaming Over the Internet”, IEEE MultiMedia, vol. 18, n. 4, aprile 2011, pp. 62-67.

35 Ibidem, p.66

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d’introdurre inserzioni pubblicitarie come segmento nel flusso video sia live che on demand; supporto alle tecnologie Scalable Video Coding (SVC) e Multiview Video Coding (MVC) per meglio adattarsi alla scalabilità di diversi dispositivi mobile ed infine, forse l’aspetto più intrigante, l’implementazione di sistemi di analisi e raccoglimento dati in grado di offrire al Content Provider ottimi report durante la sessione di streaming degli utenti.

Se da un lato la fruibilità e la facilità di accesso ai servizi di video streaming iniziava ad essere sempre più pervasiva presso il largo pubblico, dall’altro versante rimaneva da colmare il gap circa la risoluzione video offerta. Per molto tempo la tecnologia di distribuzione del video streaming e la grandezza della banda internet offerta dai gestori di Rete non consentivano una qualità video ottima, o quanto meno ai livelli dei broadcaster tradizionali Il divario è stato già in parte colmato, negli ultimi anni, grazie ad una sempre maggiore capacità di compressione dati agli stessi bitrates e, parallelamente, una crescente capacità di trasmissione grazie alla diffusione della fibra ottica e rete mobile 4G. Questi processi – ancora in evoluzione – hanno fatto sì che la qualità video streaming live e on demand copra ormai anche l’alta definizione video (HD), con punte di definizione a 4k.36 Di pari passo si è diffusa la tecnologia cloud computing, essenziale per lo sviluppo del video streaming come servizio on demand per gli utenti. Il cloud computing è definito dal National Institute of Standards and Technology (NIST) come:

Un modello per rendere disponibile l’accesso alla rete in modo ubiquo, conveniente ed on demand ad un pool condiviso di risorse del computer configurabili (ad esempio reti, server, servizi per archiviare i file), i quali possono essere facilmente forniti e rilasciati con il minimo sforzo di gestione.37

In sintesi, il cloud computing descrive la pratica di esternalizzazione e condivisione online di attività informatiche tradizionalmente svolte off-line. Come evidenzia J. Dale Prince,38 vi sono due imprese – nel campo della distribuzione dei media – che sono

36 Il 4k, chiamato anche Ultra-HD, è uno standard per la risoluzione della televisione digitale, del cinema digitale e della computer grafica.

37 Peter Mell, Tim Grance, “The NIST definition of Cloud Computing”, NIST Special Publication 800-145, 2011.

38 J. Dale Prince, “Introduction to cloud computing”, Journal of Electronic Resources in Medical Library, vol. 8, n. 4, 2011, pp. 449-458 (trad. mia).

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riuscite ad emergere proprio grazie allo sfruttamento dei principi alla base del cloud computing: Spotify per quanto riguarda la distribuzione musicale e Netflix nell’ambito dello streaming video. L’architettura cloud prevede infatti una distribuzione di contenuti – ovunque ed in qualsiasi momento – a tutti gli utenti collegati alle piattaforme tramite Internet. Come esemplifica sempre J. Dale Prince,39 i vantaggi del servizio cloud possono essere riassunti in: abbattimento dei costi grazie all’utilizzo di applicazioni web-based spesso gratuite; inutilità di grandi spazi sull’hard-disk per conservare file da parte degli utenti; possibilità di controllare da remoto e condividere file con altri utenti.

1.3 Ecosistemi digitali, OTT e multi-sided market

Il precedente e breve excursus sullo sviluppo delle tecnologie e servizi streaming ci permette d’inquadrare su un determinato percorso storico-tecnologico la comparsa degli «ecosistemi digitali» 40 in grado di accogliere – ma soprattutto influenzare – la stessa tecnologia di video streaming.Il concetto diecosistema legato ai media aiutaa concepire quest’ultimi come sistemi aperti, strutture interconnesse, ambienti che attivano un’esperienza complessa ed olistica fra produzione e consumo, dove il fruitore di contenuto streaming prende parte attiva alla propria richiesta di contenuto (on demand, per l’appunto), in modalità e tempistiche personalizzabili.

Il paradigma ecosistemico consente dunque di dialogare e in un certo senso anche di superare la cosiddetta “convergenza mediale”. Convergenza dei media che già Jenkins41 definiva come spinta sia da processi discendenti (istituzionalizzati) dall’alto vero il basso, guidati dalle grandi corporation, sia da processi (informali) guidati dal basso, ovvero dagli utenti e consumatori Sempre Jenkins42 mostra come la ricerca di estensione del valore economico, sinergia e franchise muova sempre più le industrie dei media verso la convergenza, al fine di controllare il flusso mediale disperso in mille

39 Ibidem, pp. 453-454.

40 Claudio Bisoni, Veronica Innocenti, Guglielmo Pescatore, “Il concetto di ecosistema e i media studies: un’introduzione”, in Claudio Bisoni, Veronica Innocenti (a cura di), Media Mutations. Gli ecosistemi narrativi nello scenario mediale contemporaneo. Spazi, modelli, usi sociali, Mucchi, 2013, pp. 11-26; Veronica Innocenti, Guglielmo Pescatore, “Information Architecture in Contemporary Television Series”, Journal of Information Architecture, vol. 4, n. 1-2, 2012.

41 Henry Jenkins, Cultura Convergente, Maggioli Editore, 2007, pp. XLI, XLII. 42 Ivi.

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device e forme più o meno informali di partecipazione dal basso (grassroots). Un problema che viene messo in luce già da Bolin43 è infatti la difficoltà nel controllare la circolazione dei contenuti. Il valore economico si sposterebbe dunque dalla produzione al consumo, con il compito d’individuare i nuovi “mezzi di consumo” in grado di generare diverso valore per le imprese dei media. Gli ecosistemi digitali – ed in particolare la creazione di piattaforme over-the-top (OTT) nel campo dello streaming video – riuscirebbero a questo punto ad assolvere proprio a questa funzione di controllo ed allo stesso tempo di “habitat” per le nuove forme di partecipazione ed interazione del contenuto mediale, abbracciando così tutto lo spettro (in)formale dei media con i suoi diversi player in campo. Brembilla e Innocenti44 , nella fattispecie, individuano come elementi centrali del funzionamento dei suddetti ecosistemi i due concetti chiave di effetti di rete e system thinking Gli effetti di rete sono introdotti da Katz e Shapiro45 come quegli effetti che aumentano il valore di un prodotto o servizio all’aumentare del numero di utilizzatori dello stesso servizio o prodotto. In questo senso piattaforme streaming OTT comeNetflixpossono aumentare il valore della propria piattaforma man mano che più utenti ne fanno parte. Più utenti ne fanno parte e maggiormente Netflix riuscirà a segmentare i propri utenti, a migliorare la propria lista di video da raccomandare e in generale il proprio servizio streaming. Questi miglioramenti porteranno ad un ulteriore e maggior numero di utenti e così via in un circolo virtuoso che crea sempre più distanza rispetto agli altri competitor.

Alla base di questo processo non vi è la vendita di prodotti ma un system thinking46 in grado di percepire come valore l’insieme dei servizi, l’usabilità e l’accesso alla piattaforma stessa, dove i contenuti video sono organizzati, catalogati ed “abitati” come

43 Göran Bolin, “Media technologies, transmedia storytelling and commodification”, in Tanja Storsul, Dagny Stuedahl (a cura di), Ambivalence Towards Convergence. Digitization and Media Change, Nordicom, Göteborg, 2007, pp. 237-248.

44 Paola Brembilla, Veronica Innocenti, “Convergenza e divergenza. La dialettica industria-uso negli ecosistemi digitali e narrativi”, in Valentina Re (a cura di), Streaming Media. Distribuzione, circolazione, accesso, Mimesis, 2017, pp. 166-167.

45 Michael L. Katz, Carl Shapiro, “Network Externalities, Competition and Compatibility”, The American economic review, vol. 75, n. 3, 1985, pp. 424-440.

46 Donald A. Norman, “Systems Thinking. A Product is More Than the Product”, Interectations, n. 16, 2009, pp. 52-54.

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in un ecosistema. A generare valore, a questo punto, diventa la stessa user experience47 (UX), ovvero l’esperienza connessa alla fruizione del contenuto digitale all’interno della piattaforma. Chuck Tryon parla non a caso di «mobilità della piattaforma» riferendosi ad «un crescente spostamento verso un accesso ubiquo e mobile a un’ampia gamma di opzioni d’intrattenimento.» 48 Questo processo, sempre secondo Tryon, procede ben al di là del mero cambiamento tecnologico per investire anche e soprattutto gli aspetti sociali, politici ed economici.49

Proseguendo il discorso su ecosistema digitale e OTT, interessanti e recenti lavori mettono in correlazione il principio della piattaforma con quello di infrastruttura.50

Gillespie51 descrive le piattaforme digitali su diversi livelli semantici, facendo riferimento ad esempio all’aspetto architettonico di una «superficie rialzata» su cui l’azione fra diversi attori della società è possibile, metafora di opportunità e scambi reciproci. Alcuni studi hanno poi associato le piattaforme digitali al fenomeno di una cosiddetta «disintermediazione»52 dovuta proprio allo scavalcamento dei consueti player intermediari fra la domanda e l’offerta, come nel caso delle piattaforme di Airbnb e Sky Scanner per quanto concerne il settore turistico, le quali avrebbero bypassato il ruolo svolto dalle tradizionali agenzie di viaggio. Vonderau,53 invece, parla di una «reintermediazione» svolta dalle stesse piattaforme digitali, proprio grazie alla funzione di aggregatori d’informazioni e contenuti per gli utenti. Nell’accezione di Vonderau,54 il principio di aggregazione procede al di là della semplice capacità di estrarre contenuti da varie fonti e renderli disponibili su una risorsa dedicata. Esso infatti – nel campo dei

47 Effie Lai-Chong Law, et al., “Understanding, scoping and defining user experience: a surevey approach”, Proceedings of the SIGCHI Conference on Human Factors in Computing Systems, ACM, 2009, pp. 719-728.

48 Chuck Tryon, Cultura On Demand. Distribuzione digitale e futuro del film, Minimum Fax, 2017, p. 25.

49 Ivi

50 Jean-Christophe Plantin, Carl Lagoze, Paul N. Edwards, C. Sandvig, “Infrastructure Studies Meet Platform Studies in the Age of Google and Facebook”, New Media & Society, vol. 20, n. 1, 2016, pp. 293-310.

51 Tarleston Gillespie, “The Politics of ‘Platforms’”, New Media & Society, vol. 12, n. 3, 2010, pp. 347-364.

52 Rob Law, Rosanna Leung, Ada Lo, Daniel Leung, Lawrence Hoc Nang Fong, “Distribution channel in hospitality and tourism: Revisiting disintermediation from the perspectives of hotels and travel agencies”, International Journal of Contemporary Hospitality Management, vol. 27, n. 3, 2015, pp. 431-452.

53 Patrick Vonderau, “Beyond Piracy: Understanding Digital Markets”, in Jennifer Holt, Kevin Sanson (a cura di), Connected Viewing: Selling, Streaming, & Sharing Media in the Digital Era, Routledge, New York, 2014, pp. 99-123.

54 Patrick Vonderau, “The Politics of Content Aggregation”, Television & New Media, vol. 16, n. 8, 2015, pp. 717-733.

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media – avanza su uno spettro variegato che va da cataloghi altamente “taggati”

attraverso algoritmi automatici a library indicizzate a mano, da «piattaforme-brand» che distribuiscono il proprio contenuto (HBO GO, CBS All Access) ad altre che acquisiscono contenuto proprietario da diversi player (Hulu, in particolare).

Spingendosi ancora più a fondo, sempre Vonderau55 mette in luce un’interessante problematica. Da un lato, infatti, è proprio la funzione aggregatrice delle piattaforme, il suo principio unificatore, a rendere tale il contenuto in streaming altrimenti scomposto in variegate «particelle di dati». Dall’altro versante lo stesso Vonderau afferma che l’accumulazione di titoli nella “coda lunga” delle piattaforme – con conseguente confusione sul prezzo dello stesso contenuto presente su più canali – genera una «svalutazione» di quest’ultimo.

Sul versante economico, le piattaforme riescono ad attivare quello che è stato definito da Rochet e Tirole come un «multi-sided market»,56 dove è possibile far incontrare domande ed offerte le quali, altrimenti, farebbero fatica ad incrociarsi. Martens,57 nello specifico, suggerisce che diversi attori del mercato come venditori, compratori e pubblicitari sono disposti a riunirsi insieme nelle piattaforme poiché quest’ultime riescono ad abbattere i costi di transazione. Costi di transazione definiti già da Coase58 – in un celebre articolo apparso alla fine degli anni ’30 del Novecento – come quei costi d’uso del mercato, dipendenti sia da problemi informativi che da difficoltà di contrattazione e che spiegano, dunque, la necessità di spostare processi economici all’interno di un’impresa, così da abbattere quegli stessi costi. Seguendo questa scia di pensiero, da un punto di vista economico le piattaforme digitali non farebbero altro che rispondere alle stesse esigenze e problematiche di mercato che avevano spinto alla nascita dell’impresa tradizionale.

55 Ibidem, p. 719 e pp. 727-729.

56 Jean-Charles Rochet, Jean Tirole, “Two-Sided Markets: A Progress Report”, RAND Journal of Economics, vol. 37, n. 3, 2006, pp. 645–67.

57 Bertin Martens, “An Economic Policy Perspective on Online Platforms”, Institute for Prospective Technological Studies Digital Economy Working Paper, 2016.

58 Ronald H. Coase, “The Nature of the Firm”, Economica, vol. 4, n. 16, novembre 1937, pp. 386-405.

25

Van Dijck,59 d’altro canto, concepisce le piattaforme come «mediatrici più che intermediarie» fra i diversi player. In questo senso, Schwarz60 elabora ulteriormente ed in maniera più problematica il concetto di piattaforma digitale. Essa, infatti, automatizza gli scambi di mercato e media le relazioni sociali ed economiche, ma non appena quest’ultime relazioni si spostano su di un’infrastruttura materiale in grado di mediarle e misurarle, esse acquistano un maggior grado di tracciabilità, così da rendere ben più formali, tracciati ed istituzionalizzati quegli stessi scambi che prima si svolgevano attraverso dinamiche informali. In altre parole, se da un punto di vista economico le piattaforme digitali quali YouTube facilitano un complesso multi-sided market tra diversi attori, allo stesso tempo queste piattaforme attuano un rigido controllo sulla creazione user-generated che è fortemente incentivata dalle stesse.

Diverso è il caso di piattaforme principalmente producer-generated come Netflix, Amazon e Hulu, le quali da un lato attivano la stessa dinamica economica multi-sided market in qualità di piattaforme digitali, dall’altro si comportano semplicemente come «one-way broadcaster», con al massimo contenuto personalizzabile e on demand.

Ancora Schwarz61 mostra come il principio logico alla base delle piattaforme digitali riguardi l’interazione fra le stesse piattaforme su tre livelli concettuali e topografici distinti: micro, meso e macro (fig. 1). Nel primo livello, quello micro, si ha uno stretto controllo (local control) all’interno della stessa piattaforma attraverso strumenti quali, ad esempio, i termini e le condizioni di servizio, regolamenti e protocolli al fine di garantire un inquadramento e previsione circa il comportamento dei fruitori della piattaforma. Nel livello intermedio, quello definito meso, l’aspetto chiave riguarda invece l’interconnessione generativa tra le diverse piattaforme digitali. In questo senso si può citare il caso della condivisione di un video in streaming su diverse piattaforme. Infine, a livello macro, si può riscontrare il principio del cosiddetto «accumulo corporativo»62 delle super-piattaforme digitali quali Google, Amazon e Facebook, a cui

59 José van Dijck, Thomas Poell, “Understanding Social Media Logic”, Media & Communication, vol. 1, n.1, 2013, pp. 2-14.

60 Jonas Andersson Schwarz, “Platform Logic: An Interdisciplinary Approach to the Platform-Based Economy”, Policy & Internet, vol. 9, n. 4, 2017, pp. 374-394.

61 Ibidem, p. 378.

62 Ibidem, p. 383.

26

sarebbero subordinate le stesse piattaforme di distribuzione dei media come Netflix e Spotify. Non a caso Spotify63 è recentemente migrata sull’infrastruttura Google Cloud, ed allo stesso modo Netflix si affida ad Amazon Web Services64 per il suo traffico di streaming video. Su questa scia, recenti studi accademici si soffermano proprio sulla «tensione paradossale»65 che anima le suddette piattaforme, spinte allo stesso tempo da «logiche d’innovazione democratica e di controllo infrastrutturale.»66

Figura

piattaforma (controllo locale)

interconnessione

Ciò che interessa in questo studio sono proprio i rapporti – problematici, interconnessi e sussidiari – che attivano gli OTT di video streaming in tutto lo spettro dell’economia dei media, dal polo più informale a quello maggiormente istituzionalizzato, così inquadrati in sintesi:

63 Alex Conrad, “Spotify Moving Onto Google Cloud Is A Big Win For Google Over Amazon And Microsoft”, Forbes, 23/02/2016,

https://www.forbes.com/sites/alexkonrad/2016/02/23/spotify-is-a-big-win-for-google-cloud/#7eec067674b9 (consultato il 31/05/2018)

64 Alex Hern, “Amazon Web Services: the secret to the online retailer's future success”, The Guardian, 02/02/2017, https://www.theguardian.com/technology/2017/feb/02/amazon-web-services-the-secret-to-the-online-retailersfuture-success (consultato il 31/05/2018)

65 Ben Eaton., Silvia Elaluf-Calderwood, Carsten Sorensen, Youngjin Yoo, “Distributed Tuning of Boundary Resources: The Case of Apple’s iOS Service System”, MIS Quarterly, vol. 39, n. 1, 2015, p. 218.

66 Ivi.

27
1: Livelli delle piattaforme digitali.
Accumulo
corporativo
Livello micro Livello meso Livello macro

• incubazione – già negli interstizi informali – del principio di aggregazione di contenuti mediali, fedeltà, investimento emotivo, fandom e binge watching (es. i cosiddetti “siti indicizzati” associati a cyberlocker);

• dispersione del valore del contenuto mediale distribuito sia su canali formali che informali, valore che migra dai produttori e distributori tradizionali verso nuovi player quali i gestori di rete (ISP), gestori di piattaforme ed inserzionisti;

• sostituzione del valore nel campo dell’audiovisivo, di modo che dallo sfruttamento di un contenuto attraverso le finestre di distribuzione ci si sposta sempre più verso l’user-experience (UX), l’interattività e l’accessibilità delle piattaforme OTT;

• riconfigurazione delle pratiche di distribuzione del prodotto mediale da parte dei tradizionali attori dell’audiovisivo attraverso la creazione di proprie piattaforme

OTT streaming (es. CBS All Access, HBO GO);

• nuove restrizioni e (auto)codificazioni attuate dalle stesse piattaforme attraverso un controllo locale sui propri contenuti, soprattutto se user-generated come è il caso di YouTube (es. sottoscrizione dei “termini di servizio” per gli utenti della piattaforma);

• misurazione e tracciabilità del comportamento degli utenti nelle piattaforme OTT, laddove nel campo informale questi stessi dati appaiono nascosti e di difficile rilevazione;

• conseguente estensione di mercato attraverso la creazione di domanda addizionale di analytics e profilazioni (cosiddetti “Big Data”), i quali possono poi essere rivenduti in un multi-sided market.

1.4 YouTube tra UGC ed istituzionalizzazione

A metà strada tra gli spazi informali ed i player tradizionali dei media si situano le piattaforme che distribuiscono in streaming contenuto video user-generated, come è il caso di YouTube.Lapervasività delservizio divideo streaming offerto dallapiattaforma YouTube è tale che – secondo dati Alexa67 – ad oggi esso risulta essere il secondo sito

28
67
Dati estrapolati dal sito internet: https://www.alexa.com/topsites (consultato il 31/05/2018)

più visitato al mondo, dopo Google (proprietario tra l’altro dello stesso YouTube). Nata nel 2005 con lo slogan “broadcast yourself”, la piattaforma di video sharing è rapidamente diventata sinonimo di streaming video su Internet. Come sostiene Jawed Karim68 – uno dei tre fondatori della piattaforma di video streaming – il successo di YouTube, rispetto agli altri competitor, è stato possibile grazie all’implementazione di quattro funzionalità: raccomandazioni di altri video attraverso un’apposita lista di “video correlati”; link per condividere video via email; possibilità di poter commentare i video (ed altre funzionalità legate ai social network) ed infine un duttile video player che potesse essere facilmente “embeddato”69 sui siti e blog.

Già da questi presupposti appare chiaro come la popolarità di YouTube sia spiegabile attraverso un processo di sempre maggiore partecipazione di consumatori/produttori (definiti anche prosumer) in una community come può essere rappresentata da una piattaforma di video sharing “dal basso” (grassroot). Rispetto agli altri siti di video streaming UGC, YouTube è stato in grado di abbracciare, con lungimiranza, le caratteristiche della nuova generazione del Web quali interattività, condivisione e scalabilità su diversi dispositivi. Lo stesso contenuto in streaming appare pervaso da quello che viene definito da Paul Grainge come «ephemeral media»,70 ossia un insieme di contenuti audiovisivi caratterizzati dalla brevità, all’interno di un range mediale temporalmente compresso che può essere fruito o consumato in pochi minuti, se non addirittura secondi. Seguendo questo scia, Snickars e Vonderau71 si riferiscono a YouTube come «il vero epitomo della cultura digitale», alimentando quella «clip culture» in grado di ridefinire non solo il Web Entertainment, ma anche l’informazione online.

Non è poi così azzardato constatare che YouTube abbia, di fatto, mutato le modalità di fruizione ed approccio al contenuto audiovisivo digitale, favorendo, ad esempio, tutta

68 Jean Burgess, Joshua Green, YouTube: Online Video and Participatory Culture, Polity Press, Cambridge, 2009, p. 2.

69 Dall’inglese “to embed”, nel gergo del Web ci si riferisce alla pratica d’incorporare funzionalità come videoplayer o post tratti dai social network all’interno d’ipertesti quali siti Web, blog o articoli online

70 Paul Grainge (a cura di), Ephemeral Media. Transitory Screen Culture from Television to YouTube, PalgraveMacmillan, Londra, 2011, p. 3.

71 Pelle Snickars, Patrick Vonderau (a cura di), The YouTube Reader, National Library of Sweden, Stoccolma, 2009, p. 11.

29

una serie di celebrità legate proprioalla piattaforma (si veda il fenomeno dellecosiddette

“YouTube Celebreties”).72 In un certo senso, possiamo intendere YouTube come il contenitore di una library digitale con una “coda lunga”73 che si aggiorna costantemente di contenuti al ritmo di 300 ore di video al minuto.74 Library che si presenta infinitamente estesa, ramificata su diversi dispositivi ed interfacce, facilmente condivisibile su blog e social network, aggiornata da milioni di prosumer (compresi soprattutto grandi conglomerati e produzioni tradizionali) e caratterizzata, alsuointerno, da contenuto mediale per lo più in una versione short-form, duttile e rapida nella fruizione.

Ad un’analisi più approfondita, l’intuizione dei creatori di YouTube – e poi soprattutto il successivo sfruttamento da parte di Google – risiede nell’aver ideato un vero e proprio aggregatore di contenuti video in streaming. Aggregatore la cui forza, rispetto alle altre piattaforme di questo tipo, è rappresentata dall’implementazione di tutta una serie di strumenti di condivisione, video correlati ed accesso semplice, veloce ed ubiquo. I primi studi accademici75 sul fenomeno YouTube si erano concentrati soprattutto sulla distinzione fra piattaforme video user-generated e piattaforme video Non-UGC.

Di pari passo allo sviluppo ed alla crescita di YouTube, Jin Kim76 si concentra invece proprio sulla sempre più crescente istituzionalizzazione della piattaforma di video sharing, passando dall’essere una piattaforma UGC ad un servizio più propriamente definito come «professionally generated content (PGC)». Nella fattispecie, Kim mostra come YouTube – più che una rivoluzione nel campo dei media – ne rappresenti in realtà un’evoluzione. Proprio YouTube, a partire dall’acquisizione di Google nel 2006, ha sviluppato tutta una serie di tecnologie, come ad esempio il Video Id e Content ID, che

72 http://www.tvguide.com/galleries/youtube-stars-make-more-1089689/ (consultato il 31/05/2018).

73 Il termine “coda lunga”, coniato per la prima volta da Chris Anderson, è usato per descrivere un modello economicoecommercialedoveiricavivengonoottenutinonsolograzieallavenditadimolteunitàdipochioggetti (i best seller) ma anche vendendo pochissime unità di tantissimi oggetti diversi. Si rimanda a: Chris Anderson, La coda lunga. Da un mercato di massa a una massa di mercati, Codice Edizioni, Torino, 2007.

74 https://fortunelords.com/youtube-statistics/#Facts_and_Numbers (consultato il 31/05/2018).

75 MeeyoungCha, Haewoon Kwak, PabloRodriguez, Yong-Yeol Ahn, SueMoon, “ITube, YouTube, Everybody Tubes: Analyzing the World’s Largest User Generated Content Video System”, Proceedings of the 7th ACM SIGCOMM conference on Internet measurement, ACM, 2007, pp. 1-14.

76 Jin Kim, “The institutionalization of YouTube: From user-generated content to professionally generated content”, Media, Culture & Society, vol. 34, n. 1, 2012, pp. 53-67.

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aiutano i proprietari dei diritti d’autore a rintracciare materiale non autorizzato sulla piattaforma. E ancora si possono citare l’inserimento di specifici spot promozionali nel segmento di video streaming, nonché la creazione di apposite sezioni a pagamento quali “Featured Videos” e “Promoted Videos”, ovvero video sponsorizzati dalla stessa piattaforma. Tutte queste implementazioni, dunque, hanno condotto YouTube ad una transizione: da servizio per lo più user-generated content a vero e proprio professionalgenerated content. Di fatti, le stesse industrie dei media tradizionali hanno imparato a sfruttare la piattaforma diYouTube comeuna sorta di vetrinache rimandaalla pubblicità dei propri contenuti in maniera più ingegnosa ed avvincente.

Sebbene l’aspetto per così dire informale dello user-generated content continuerà ad essere presente sulla piattaforma, lo stesso Kim77 suggerisce che esso sarà sempre più nascosto e marginalizzato dalle crescenti spinte formali rappresentate dal producergenerated content. In questo senso Pietrobruno78 sottolinea come il motore di ricerca di YouTube da un lato favorisca un «flusso di contenuti omogenei» rispetto ad un imperativo culturale dominante, dall’altro la stessa piattaforma neutralizza questa omogeneizzazione attraverso la partecipazione grassroot degli utenti. A questo punto, prendendo in prestito le categorie dell’economia informale dei media sopra esposte, si può evidenziare come il processo di “formalizzazione” che ha investito YouTube abbia favorito, fra gli altri:

• un’auto-codificazione rappresentata da un crescente “giro di vite” verso il materiale non autorizzato presente sulla piattaforma (quello che Andersson Schwarz79 definisce come «local control»);

• un incubatore per processi di sviluppo e sfruttamento di video streaming attraverso la creazione di video sponsorizzati e segmenti pubblicitari all’interno dei suddetti video;

• ed infine una ridistribuzione e riconfigurazione dei contenuti da parte dei tradizionali player dell’industria dei media.

77 Ibidem, p. 59.

78 Sheenagh Pietrobruno, “YouTube flow and the transmission of heritage: The interplay of users, content, and algorithms”, Convergence, First Published 07/12/2016, p. 2, http://journals.sagepub.com/doi/abs/10.1177/1354856516680339

79 A. J. Schwarz, op. cit., p. 381.

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Lobato e Thomas,80 non a caso, collocano la piattaforma di YouTube esattamente a metà dello spettro dell’economia informale dei media. Spettro che – come si è già visto –procede dai siti (anche e soprattutto video streaming) pirata ai grandi broadcast nazionali della tv lineare, e non solo. I due studiosi giustificano questa collocazione in quanto la piattaforma funziona sia da veicolo promozionale per i produttori tradizionali del settore dei media, sia come mezzo di distribuzione di contenuto amatoriale non autorizzato da parte dei detentori di diritti di copyright. Come fanno notare sempre Lobato e Thomas, questa situazione intermedia è molto spesso contesa e pericolosa. Distributori e produttori tradizionali hanno varie volte denunciato81 lo status – a parer loro illegale –della piattaforma, in particolare nei primi anni di vita della stessa. Si può allora aggiungere un’ulteriore differenza, forse più concreta e meno idealistica, che intercorre fra YouTube ed il resto delle piattaforme di questo tipo quali ad esempio Dailymotion o Vimeo: YouTube, nel frattempo, è riuscita ad imporsi come piattaforma di video sharing poiché ha vinto (o anche solo finanziariamente sostenuto) quelle battaglie legali che gli altri suoi diretti concorrenti hanno perso, imprimendo e così “legalizzando” di fatto il proprio status, più di altri.

1.5 Siti d’indicizzazione informale

Su un versante più propriamente informale, Pescatore introduce la pirateria digitale come un «fenomeno che si genera dallo scarto tra lo stato oggettivo dei prodotti creativi nel loro uso concreto (bene pubblico) ela caratterizzazione che viene loro attribuita dalla norma giuridica».82 All’interno di questo fenomeno «il pirata, che per molti versi appare come la versione digitale del freerider, andrebbe invece oggi guardato come un utente ed un consumatore, seppure anomalo rispetto alle forme consolidate».83 Gallio e Martina, a loro volta, evidenziano come la cosiddetta pirateria digitale ed i contesti informali abbiano una forteinfluenza nel «ripensamento globale delle logiche produttive

80 R. Lobato, J. Thomas, op. cit., p. 19.

81 Russ VerSteeg, “Viacom v. Youtube: Preliminary Observations”, NCJL & Tech, vol. 9, art. 4, autunno 2007, pp. 43-68.

82 Guglielmo Pescatore, “La pirateria come forma di consumo dei beni culturali”, in Roberto Braga, Giovanni Caruso (a cura di), Piracy Effect. Norme, pratiche e studi di caso, Mimesis, Milano-Udine, 2013, pp. 43.

83 Ibidem, p. 48.

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e distributive di contenuti audiovisivi»84 con conseguente impatto proprio sulle strutture

più istituzionalizzate nella produzione e distribuzione dei media. Per capire meglio come il campo informale dei media digitali influenzi anche le strutture più istituzionali (e viceversa),bisogna muoversi qualche passoal dilà diciòche riguarda lo streaming video nello specifico, per occuparsi di file sharing più in generale. La cornice entro cui questi processi sono possibili è il superamento di quella che è già stata definita da Rifkin85 come «l’era dell’accesso» ai prodotti e servizi fino all’approdo nella nuova «era della circolazione», dove i contenuti mediali sono incentivati ad essere condivisi, diffusi e “spalmati”,86 al fine di accrescerne il valore economico e culturale.

L’universo informale dei media sembra effettivamente pervaso da una forte componente partecipativa intesa come appartenenza ad una community, all’interno della quale si rinsaldano valori di giustificazione e gap-filling tra norma sociale e norma giuridica circa la distribuzione e fruizione pirata del contenuto mediale.87

Un esempio di tutto ciò è rappresentato dai cosiddetti “siti d’indicizzazione”, a cui si associano i cyberlocker. Come già esposto da Lobato,88 questi siti si pongono in una sorta di “zona grigia” e semi-legale (infatti sono disponibili servizi premium a pagamento per usufruire di siti cyberlocker), a differenza di pratiche di distribuzione come BitTorrent, definite dallo stesso Lobato come «extra-legali». Mentre la condivisione di file via torrent si estende su una rete P2P, i servizi cyberlocker come Rapidshare, Mediafire ed il defunto MegaUpload, sfruttano la classica struttura client-

84 Nicolò Gallio, Marta Martina, “La mutazione del gene pirata. Possibili combinazioni dicrowdfundinge sistemi di delivery misti”, in R. Braga, G. Caruso (a cura di), op. cit., p. 125.

85 Jeremy Rifkin, The Age of Access: The New Culture of Hypercapitalism. Where all of Life is a Paid-for Experience, J. P. Tarcher/Putnam, 2001.

86 Con il termine “spalmati” ci si riferisce ai cosiddetti spreadable media, introdotti da Henry Jenkins per descrivere la capacità di alcuni contenuti di essere diffusi “dal basso”, senza l’apporto di campagne di marketing virale. Si veda: Henry Jenkins, Sam Ford, Joshua Green, Spreadable Media: Creating Culture and Mining in a Networked Culture, New York University Press, 2013.

87 Su questi concetti si rimanda ai testi: Jonas Andersson Schwarz, Stefan Larsson, “The Justification of Piracy: Differences in Conceptualization and Argumentation between Active Uploaders and Other File-Sharers”, in Martin Fredrikson, James Arvanitakis (a cura di), Piracy. Leakages from Modernity, Litwin Books, Sacramento, 2014, pp. 217-239; Lawrence Lessig, Remix: Making Art and Commerce Thrive in the Hybrid Economy, Bloomsbury, Londra, 2008.

88 Ramon Lobato, Shadow Economies of Cinema: Mapping Informal Film Distribution, BFI-Palgrave, Londra, 2012, p. 97.

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server, 89 sostanzialmente identica all’architettura di rete delle più formali piattaforme

OTT per la distribuzione video in streaming. Se da una parte la stessa architettura clientserver si configura come un canale di distribuzione istituzionale (ovvero un server che distribuisce contenuti a diversi client), nel caso dei siti cyberlocker si ripresenta una logica di community, professionalizzazione e condivisione “dal basso”,90 già alla base del file sharing attraverso protocollo torrent.

I sopracitati siti cyberlocker funzionano come “magazzini” per caricare file di grandi dimensioni (grazie alla figura dell’uploader), a seguito del quale si ottiene un URL per accedere al file caricato. Ed è a questo punto che entrano in gioco i cosiddetti “siti d’indicizzazione”, in grado di raccogliere questi URL e condividerli con altri utenti ed appassionati. In questo senso, Gabriele Prosperi91 individua due macrocategorie: da una parte siti generalisti che si comportano alla stregua di motori di ricerca per URL di cyberlocker, dall’altra parte una community abitata da database, forum e blog dove questi link vengono invece catalogati e filtrati in varie categorie e sotto-categorie, magari concentrandosi su una particolare classificazione di contenuto mediale.

Quest’ultima tipologia – in particolare – ben si presta nel rappresentare una sorta di “incubatore” di pratiche di fidelizzazione rispetto ad un determinato servizio o catalogo di distribuzione video streaming. Ciò che distingue un sito d’indicizzazione da un altro è proprio la diversa capacità di catalogare, filtrare ed implementare la propria library di link, con la presenza di differenti tipologie di utenti e fandom alla ricerca di un determinato sito d’indicizzazione in grado di soddisfare i propri gusti. Ad esempio, un indexing site come Italia-Film risulta differente – nella struttura, nella catalogazione e selezione di link a contenuti – rispetto ad un altro indexing site come AnimedB, specializzato invece nella sola catalogazione video di anime giapponesi, compresi titoli fra i più introvabili. AnimedB, nella fattispecie, presenta una serie di liste di vario ordine e tipologia, categorie e generi ben dettagliati, possibilità di fruizione in streaming o

89 Demetris Antoniades, Evangelos P. Markatos, Constantine Dovrolis, “One-Click Hosting Services: A FileSharing Hideout”, Internet Measurament Conference. Proceedings of the 9th ACM SIGCOMM Conference on Internet Measurement, Chicago, 4-6 novembre 2009, pp. 223-234.

90 Måns Svensson, Stefan Larsson, Marcin de Kaminski, “Professionalizzazione, gender e anonimato nelle comunità di file sharing globale”, in R. Braga, G. Caruso (a cura di), op. cit., pp. 65-77.

91 Gabriele Prosperi, “File Sharing e Investimento Emotivo. Il ruolo dei siti di indicizzazione nelle pratiche di distribuzione informale”, in V. Re (a cura di), op. cit., p. 221.

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download del contenuto video. Italia-Film invece, improntato su contenuti video più popolari e diversificati, si distingue per il sistema di raccomandazione e video correlati. In sostanza, i siti d’indicizzazione si configurano come un servizio facilmente riconoscibile di catalogazione, selezione ed in grado di attivare una forte fidelizzazione da parte di determinati freerider, i quali apprezzano quel determinato servizio e decidono di farne parte come “comunità”.

Come evidenzia sempre Prosperi,92 nello scenario dei siti d’indicizzazione si genera così un valore economico ibrido: da una parte è possibile una monetizzazione del flusso di utenti attraverso appositi banner pubblicitari, dall’altra parte – ed in maniera più consistente – si assiste ad un rientro economico che è più di tipo comunitario e “reputazionale”, il quale risponde all’istanza di colmare la domanda di contenuti e facilità d’accesso che i media tradizionali, nel campo formale, non hanno ancora esaudito. A questo punto, viene a crearsi un effetto di rete – come descritto nel paragrafo precedente – in grado di convogliare più partecipanti verso una determinata community del sito d’indicizzazione, in forza di uno scambio reputazionale ed “emotivo” legato al bisogno ed alla facilità di accesso verso determinati contenuti digitali. Com’è evidente, nel campo del video streaming le piattaforme informali quali Altadefinizione, Eurostreaming e Italia-Film s’inseriscono – in Italia – come naturali competitor rispetto a piattaforme OTT “istituzionali” quali Netflix e Infinity. Lo stesso fenomeno del binge watching93 non nasce con Netflix – sebbene parte della stampa sia di questo parere94 – ma ricalca modalità di visione su portali pirata, dove il contenuto dei media veniva (viene) fruito con tempistiche personali ed attraverso pratiche di consumo divergenti rispetto alla distribuzione tradizionale dei media 95 Se allora lo spazio informale dei media ha alimentato e fatto da “incubatore” a diverse pratiche poi implementate nelle nuove strutture OTT formali, la nuova sfida di quest’ultime risiede

92 Ibidem, p. 226.

93 Termineinglesechestaadindicarelavisioneconsecutiva dipiùepisodidi unaserieoprogrammatv, traducibile con “abbuffata”.

94 Simone Cosimi, “Netflix, i trucchi per usarlo meglio: dal binge watching di coppia alle categorie nascoste”, La Repubblica, 16/10/2017, http://www.repubblica.it/tecnologia/2017/10/16/news/netflix_i_trucchi_per_usarlo_meglio_dal_binge_watching _di_coppia_alle_categorie_nascoste-178470382/ (consultato il 31/05/2018)

95 P. Brembilla, V. Innocenti, op. cit., pp. 170-171.

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proprio nell’offrire un servizio – o per meglio dire – una “esperienza di visione” ben distinguibile e riconoscibile, conveniente e comoda da raggiungere.

1.6. Architettura dell’informazione, trovabilità e tag

Come già ben evidenziato da Barry Schwartz,96 un’offerta di contenuti e prodotti spropositata – così come l’aumentata tendenza a soddisfare tante nicchie di mercato –può generare nel consumatore un aumentato senso di confusione nello scegliere, dovuto proprio all’eccesso di questa offerta di beni, ovvero il cosiddetto «paradosso della scelta». Quest’analisi inquadra molto bene anche la condizione in cui viene a trovarsi l’universo del video streaming, con una gamma di possibilità di visione che spazia dal live all’on demand, dal contenuto user-generated fino a produzioni ad alto budget, dai video di tipo short-form ai classici lungometraggi del cinema e così via. Nel contesto più propriamente televisivo già John Ellis parlava di «era dell’abbondanza».97 Sempre in questo senso John Ladagraf accenna ad una vera e propria «peak TV»,98 descrivendo così l’aumento sempre crescente di serie tv prodotte sia dai canali broadcast sia, soprattutto, da parte delle piattaforme streaming over-the-top. Ne deriva l’idea di «svalutazione»99 del prodotto audiovisivo proposta da Vonderau, in particolare quando lo stesso prodotto è offerto su più canali e piattaforme video OTT.

Per poter meglio navigare in questo mare magnum dell’offerta digitale in video streaming può esserci utile, in questo senso, il concetto di Architettura dell’Informazione (IA) introdotto da Resmini e Rosati come «un campo di studio focalizzato nel risolvere i problemi di base di accesso ed uso della vasta quantità

96 Barry Schwartz, The Paradox of Choice – Why More is Less, Harper Perennial, 2004.

97 John Ellis, Seeing Things. Television in the Age of Uncertainty, I.B. Tauris, Londra, 2000.

98 Jason Lynch, “With 455 Scripted Series Released This Year, ‘Peak TV’ Has Yet to Actually Peak”, Adweek, 21/12/2016,

http://www.adweek.com/tv-video/455-scripted-series-released-year-peak-tv-has-yet-actually-peak-175218/ (consultato il 31/05/2018)

99 P. Vonderau, op. cit., pp. 727-729.

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d’informazioni oggi disponibile»100 e dunque come «possibile collante fra i vari contesti d’interazione uomo-informazione, da quelli fisici a quelli digitali (e viceversa).»

101 Non è così azzardato immaginare, a questo punto, le piattaforme OTT che distribuiscono video in streaming come delle mappe in mano all’utente che vuole fruire di un dato contenuto. Mappe che – alla stregua di quelle di una metro – riescono a semplificare la via d’accesso al video, le “stazioni” su cui fermarsi (ovvero i video raccomandati) ed una panoramica generale, stilizzata ma efficacedi tutta la rete (in questo caso, i cataloghi di contenuti video). Già Uricchio, proprio nel campo audiovisivo, ha evidenziato come il metro di catalogazione e concettualizzazione delle categorie di contenuti è strettamente correlato a cosa diventa possibile vedere o fruire.102 Collegato a questo campo è il termine “trovabilità”, intesa come «la capacità di reperire l’elemento cercato all’interno di spazi (informativi) complessi.»103 Fra gli strumenti utili allo scopo si possono citare diversi modelli utili a classificare e reperire un oggetto: le classiche tassonomie, la classificazione “a faccette” e – soprattutto in riferimento al mondo digitale – le folksonomie ed i tag.

Le tassonomie sono un metodo di classificazione di tipo gerarchico (ovvero classi contenute le une nelle altre) ed enumerativo, inquanto le classi sono già stabilite a priori, nella sua stessa struttura. Un esempio di questo tipo di catalogazione negli ambienti dello streaming video è rappresentato dagli archivi video digitali, si pensi a Rai Teche o all’Archivio dell’Istituto Luce. In quest’ultimo caso, ad esempio, la directory – o indice dei documenti – è scomposta in un insieme di classi (arte, costume, cronaca) e sottoclassi. Se questo metodo di classificazione top-down è molto utile per chi già sa cosa cercare (known-item seeking), per colui che invece deve navigare in un universo in espansione – come quello dello streaming video – queste classificazioni lasciano il posto

100 Andrea Resmini, Luca Rosati, “A Brief History of Information Architecture”, Journal of Information Architecture, vol. 3, n. 2, autunno 2011, p. 33 (trad. mia).

101 Luca Rosati, Architettura dell’Informazione. Trovabilità: dagli oggetti quotidiani al Web, Apogeo, Milano, 2007, p. 4.

102 William Uricchio, “Television’s Next Generation: Technology/Interface Culture/Flow”, in Lynn Spiegel, J. Olsson (a cura di), Television after TV, Duke University Press, Durnham-Londra, 2004, pp. 163-183.

103 L. Rosati, op. cit., p. 137.

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a favore di un “sistema di classificazione molto più sfumato”,104 come è il caso del sistema di classificazione “a faccette”. Questo metodo di catalogazione è così definito perché un oggetto o informazione viene scomposto in dimensioni più elementari – le “faccette”, per l’appunto – le quali a loro volta possono essere ricomposte di modo da ottenere delle classi più flessibili e su misura per l’utente. Come evidenziato in un recente articolo,105 la piattaforma di Netflix si serve proprio di un sistema di classificazione “a faccette”, così da utilizzare un numero ben definito di descrittori di base (come ad esempio: genere, ambientazione ecc…). Queste faccette vengono poi combinate tra loro attraverso un algoritmo on the fly, ovvero durante la navigazione dell’utente, di modo da creare decine di migliaia106 di categorie e sottocategorie estremamente dettagliate e personalizzate per ogni utente, come ad esempio la categoria “programmi TV USA ambientati a Los Angeles [sic.]”.

Ancora più recenti e flessibili sono le cosiddette folksonomie. Coniate per la prima volta da Thomas Vander Wal,107 le folksonomie sono modelli di classificazioni creati direttamente da chi fruisce i contenuti grazie all’associazione di un tag, o parola chiave, ad un contenuto (digitale in questo caso). La forza di questa classificazione sta nella capacità collaborativa di catalogare i contenuti.108 Specialmente in uno spazio come quello degli ecosistemi dei media digitali dove le categorie tendono a mutare e sovrapporsi più facilmente, i tag riescono a creare delle nuove connessioni trasversali “dal basso” tra i vari video in streaming. Sempre i tag nascono così in un contesto informale bottom-up, allo scopo di meglio catalogare, trovare ed “abitare” informazioni e contenuti nell’infinita scelta disponibile nel mondo digitale. Le piattaforme user-

104 Geoffrey Bowker, Susan L. Star, Sorting Things Out: Classification and Its Consequences, MIT Press, Cambridge, 1999, p. 65.

105 Master di architettura dell’informazione e user experience design, “Netflix sotto il cofano. Architettura dell’informazione e user experience in Netflix (parte 1)”, Trovabile, 13/11/2017, https://trovabile.org/articoli/ia-ux-netflix-1 (consultato il 31/05/2018).

106 Alexis C. Madrigal, “How Netflix Reversed Engineered Hollywood”, The Atlantic, 02/01/2014, https://www.theatlantic.com/technology/archive/2014/01/how-netflix-reverse-engineered-hollywood/282679/ (consultato il 31/05/2018).

107 Thomas Vander Wal, “Folksonomy Coinage and Definition”, wanderval.net, 2007, http://www.vanderwal.net/folksonomy.html (consultato il 31/05/2018).

108 Ae-Ttie Ji, Cheol Yeon, Heung-Nam Kim, Geun-Sik Jo, “Collaborative Tagging in Recommender System”, AI 2007: Advences in Artificial Intelligence, 2007, p. 378.

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generated sono quelle che meglio si prestano a questo tipo di classificazione, si pensi anche al fenomeno degli hashtag su piattaforme social come Twitter ed Instagram.

1.7 User-experience e Big Data come nuovo vantaggio competitivo

A questo punto appare evidente come la navigazione, i punti d’accesso e la trovabilità di contenuti video streaming diventino essi stessi una “esperienza” di fruizione per l’utente della piattaforma OTT. La suddetta piattaforma viene così a configurarsi alla stregua di un’interfaccia che già Chamberlain definiva come «un database interattivo di possibili scelte di visione del contenuto.»109 Questa esperienza di fruizione può identificarsi come user-experience (UX), il cui campo di studio risulta abbastanza recente ed è strettamente connesso alla pratica della fruizione ed interazione di un utente/consumatore rispetto ad un determinato servizio o prodotto, in particolar modo nell’ambiente digitale. Nielsen e Dorman definiscono l’user-experience come:

Tutti gli aspetti d’interazione dell’utente con l’azienda, i suoi servizi, ed i suoi prodotti Il primo requisito per un’efficace user experience è quello d’incontrare gli esatti bisogni del cliente, senza disturbarlo o infastidirlo Di seguito arriva la semplicità e l’eleganza che rende i prodotti una gioia da possedere, una gioia da usare La vera user experience procede oltreil bisognodi dareai clienticiòchevoglionoooffrireloroelementi giàprecompilati.110

L’user-experience indaga sui molti fattori (transitori, emotivi, ambientali) che intervengono durante l’interazione tra un utente ed un servizio o prodotto. Nella costruzione di un’interfaccia tra l’utente e la piattaforma di video streaming – ad esempio – vengono utilizzati test d’usabilità e analisi dei dati per capire come costruire un’interfaccia che sia la più agevole e fruibile possibile per l’utente. I test d’usabilità possono essere somministrati ad un campione di utenti che accede ad un servizio per capire i passaggi anche mentali “a caldo”, gli ostacoli e le scorciatoie che l’utente incontra nell’interazione rispetto al suddetto servizio.

109 David Chamberlain, “Television Interfaces”, Journal of Popular Film & Television, vol. 38, n. 2, 2010, p. 86.

110 Jakob Nielsen, Don Norman, “The definition of user experience”, Nielsen Norman Group, https://www.nngroup.com/articles/definition-user-experience (consultato il 31/05/2018, trad. mia).

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1.7.1 Analisi dei Big Data negli OTT

Un’ulteriore fase di definizione è poi rappresentata dal raccoglimento ed analisi dei dati di accesso, interazione e comportamento degli utenti (analytics). Nel campo delle piattaforme di video streaming un leader del settore è certamente Parrot Analytics, grazie a servizi dedicati di monitoraggio, segmentazione del pubblico, comparazione della domanda di contenuti su diversi mercati e così via.111 E ancora la Video Content Analysis (VCA) si basa sull’indicizzazione di un video in un catalogo attraverso l’analisi di metadati, del sonoro, del contenuto visivo ed altre informazioni presenti nel video stesso.112 Non solo dati “freddi”, ma anche le emozioni degli utenti possono essere, in un certo modo, misurati. Come fa notare Ester Corvi,113 recentemente sono nate anche società come Canvs, le quali offrono dei servizi di misurazione – attraverso l’analisi dei post sui social network – del gradimento e del sentimento degli utenti durante la visione di un determinato film o serie tv. L’analisi è inoltre molto differente da social a social: mentre Twitter o Facebook si prestano molto bene nel raccogliere le impressioni di fan e spettatori, Instagram invece – per la sua caratteristica di social per lo più “visivo” –risulta già più difficile da monitorare.114 Su questo versante, Kennedy e Hill115 s’interrogano proprio sulle problematiche inerenti la cosiddetta datification della società, constatando un «data power» sempre più diffuso ed associato anche ad un certo piacere nella visualizzazione degli stessi dati.

Grazie al raccoglimento e all’analisi dei cosiddetti “Big Data” è dunque possibile implementare un design d’interfaccia e di accesso alla piattaforma ed ai contenuti che sia il più possibile vicino alle esigenze degli utenti, ma anche una mole d’informazioni estremamente preziosa su gusti, abitudini e preferenze degli stessi

111 https://www.parrotanalytics.com/product/ (consultato il 31/05/2018).

112 Amir Ganddomi, Murtaza Haider, “Beyond the hype: Big data concepts, methods and analysis”, International Journal of Information Management, vol. 35, 2015, p. 142.

113 Ester Corvi, Nuovo cinema web. Netflix, Hulu, Amazon: la rivoluzione va in scena, Hoepli, Milano, 2016, p. 130.

114 John Lafayette, “Canvs Analyzing Instagram for Emotional Responses of TV Shows”, The Business of Television, 31/05/2017, http://www.broadcastingcable.com/news/currency/canvs-analyzing-instagram-emotional-responses-tvshows/166182 (consultato il 31/05/2018).

115 Helen Kennedy, Rosemary Lucy Hill, “The Pleasure and Pain of Visualizing Data in Times of Data Power”, Television & New Media, vol. 18, n. 8, 2017, pp. 769-782.

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Sempre Netflix – proprio sfruttando il suo enorme database – è in grado di sostenere dinamiche di produzione straight-to-series, differenti rispetto al classico pilot televisivo. Così facendo è stato possibile ordinare direttamente la produzione delle prime due stagioni di House of Cards – Gli intrighi del potere (House of Cards, Beau Willimon, 2013-2018) proprio perché la stessa Netflix, grazie all’analisi dei dati di preferenza degli utenti, aveva già previsto una larga audience potenziale pronta ad accogliere ed apprezzare il nuovo prodotto televisivo.116 Proseguendo su questa scia, Francesco Marrazzo afferma che «Netflix in questo settore è all’avanguardia. Con uno staff dedicato di 330 persone e investimenti pari a 150 milioni all’anno.»117 Non a caso Pescatore, stavolta in riferimento alle pratiche informali e divergenti sul consumo dei media, evidenzia che «il contrasto alla pirateria è, e sarà sempre più, inversamente proporzionale alla possibilità di quantificarne la pratica in termini di ascolto e tipologie d’uso.»118 E ancora Lobato e Thomas119 – riferendosi al successo su BitTorrent della serie HBO Il Trono di Spade (Game of Thrones, David Benioff, D. B. Weiss, 20112019) – mostrano come la vera controversia fosse nel metodo alternativo di misurazione del successo vantato dal canale HBO, ovvero attraverso il numero di download su torrent. Come a sua volta mette in luce Bilton,120 quegli stessi dati sulla popolarità negli spazi “pirata” vengono utilizzati ed analizzati dalle stesse piattaforme video on demand “istituzionali”.

A questo punto il raccoglimento e l’analisi – da parte dei nuovi OTT – di tutti questi dati di accesso, preferenze di visione, numero di visualizzazioni, profilazione in base all’età ed al sesso (attinti anche da spazi informali) creano proprio quel «mercato reticolare»121 che trasforma il consumo divergente né in pirati e neppure nella classica audience tradizionale, ma in utenti con determinati profili e preziose informazioni. Questi stessi

116 Michael D. Smith, Raul Thelang, Streaming, Sharing, Stealing: Big Data and the Future of Entertainment, MIT Press, Cambridge-Londra, 2016, p. 4.

117 Francesco Marrazzo, Effetto Netflix, Egea, Milano, 2016, p. 92.

118 G. Pescatore, op. cit., p. 41.

119 R. Lobato, J. Thomas, op. cit., p. 156.

120 Nick Bilton, “Content creators use piracy to gauge consumer interest”, The New York Times – Bits Blog, 17/09/2013,

https://bits.blogs.nytimes.com/2013/09/17/content-creators-use-piracy-to-gauge-consumer-interest/ (consultato il 31/05/2018).

121 G. Pescatore, op. cit., p. 41.

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dati possono poi essere utilizzati sia nella pianificazione e programmazione di contenuto audiovisivo mirato a certe tipologie di pubblico, sia nella quantificazione e vendita degli stessi ad inserzionisti, come nel caso delle piattaforme advertising video on demand o AVOD, il cui esempio più calzante è YouTube.

1.7.2 Netflix come awareness

Oltre alla profilazione e creazione di una nuova audience, la struttura di ricerca e catalogazione presente nell’interfaccia della piattaforma di Netflix, ad esempio, ci dice molto anche sull’esperienza di visione che la stessa Netflix vuole favorire. Come si è visto, il sistema di catalogazione su Netflix è definito “a faccette”. L’accesso al contenuto tramite il tasto di ricerca è reso problematico già dal fatto che è nascosto rispetto al resto del catalogo. Se poi ci si spinge alla ricerca per categorie, quest’ultime spesso risultano incoerenti e di difficile navigazione: se un certo contenuto è presente in più categorie e ben in evidenza, altri determinati contenuti del catalogo risultano più nascosti e compaiono solo in fondo o non affatto. Inoltre, l’impatto di visione del catalogo è tutto indirizzato verso delle direttrici ben precise, ovvero lo scorrimento orizzontale delle serie/film consigliati o le categorie che potrebbero interessare quel determinato utente perché ha già visionato una data serie tv o film

Queste scelte sono certamente mirate a:

• convogliare la maggiore attenzione verso la propria produzione targata Netflix, con budget sempre più in aumento nella produzione di nuovi contenuti;122

• favorire quell’esperienza di visione legata al “minimo sforzo” in un catalogo estremamente ricco.

Quest’ultima volontà dell’azienda californiana è strettamente connessa ad una strategia di riduzione della complessità dell’offerta presente sul catalogo.

A monte di questa strategia si può citare il modello integrato di ricerca delle informazioni proposto da Marcia Bates. Bates123 infatti individua quattro strategie di

122 John Koblin, “Netflix Says It Will Spend Up to $8 Billion on Content Next Year”, The New York Times, 16/10/2017, https://www.nytimes.com/2017/10/16/business/media/netflix-earnings.html (consultato il 31/05/2018).

123 Marcia J. Bates, “Toward an integrated model of information seeking and searching”, The New Review of Information Behaviour Research, vol. 3, 2002, pp. 1-15.

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raccolta o ricerca dell’informazione. Una prima strategia è la ricerca attiva e consapevole (searching) di un oggetto o informazione specifica. La seconda strategia –denominata browsing – mantiene un grado attivo di esplorazione, ma verso dei contenuti o informazioni non specifiche Le altre due strategie invece vedono un coinvolgimento passivo da parte dell’utente/fruitore. In un caso, definito monitoring, si assorbono contenuti specifici senza inseguirli direttamente, mentre nell’ultima strategia di ricerca, chiamata awareness, si ha una fruizione passiva di contenuti e informazioni qualsiasi che vanno incontro all’utente/fruitore, senza che quest’ultimo li cerchi. Se le prime due strategie di ricerca, le quali si basano su un coinvolgimento attivo, possono essere ben comuni nella fruizione informale e “pirata” del contenuto video in streaming (si pensi alla ricerca di specifici portali streaming illegali o torrent per un determinato film o serie tv), le altre due strategie si avvicinano di più alla fruizione classica di contenuto video su canali broadcast o pay-tv.

L’user-experience di Netflix, attraverso un problematico e difficile accesso allo specifico titolo di un film o serie tv, favorisce così una fruizione che è più incentrata sulle due strategie passive di ricerca definite monitoring ed awareness. In questo modo – attraverso un complesso sistema di profilazione e personalizzazione del vasto catalogo streaming – viene riproposto un “equilibrio ottimale” tra il classico modello di visione passiva proprio dei broadcaster tradizionali (awareness), ma implementato in un catalogo molto ricco e fruibile on demand, su qualsiasi device, in qualsiasi momento ed al ritmo che si desidera.

1.7.3 Amazon Prime Video come cross-selling

Diverso ancora è il caso di un altro – potente – competitor nel settore delle piattaforme SVOD,124 ovvero Amazon Prime Video. Se uno dei punti di forza di Netflixvuole essere la focalizzazione sulla distribuzione e produzione di video streaming,125 il core business

124 Acronimo per “Subscription Video On Demand”, ossia le piattaforme di video streaming cui si può accedere attraverso una quota fissa di abbonamento, in genere mensile.

125 Nathan McAlone, “Netflix CEO Reed Hastings has a favorite way of explaining competition with Amazon, but there's a problem with it”, Business Insider, 06/06/2017, http://www.businessinsider.com/amazon-is-walmart-and-netflix-is-starbucks-reed-hastings-2017-6?IR=T (consultato il 31/05/2018).

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del gigante Amazon è solo in parte (e neppure la parte più importante) incentrato sulla distribuzione e produzione di contenuto video streaming on demand. Come mette in evidenza sempre Corvi: «per quanto riguarda la capacità di vendere altri prodotti insieme ai film (cross selling), Amazon […] è meglio posizionato rispetto ai competitor.»126 Francesco Di Chiara –a proposito di Amazon Prime Video –nota come: la raccolta dei dati [su Amazon Prime Video, NdA] sia finalizzata non soltanto alle raccomandazioni interne alla piattaforma VOD, come avviene per esempio nell’interfaccia di Netflix, ma ad azioni più ampie che coinvolgono la promozione dei contenuti sulla base delle preferenze espresse dagli utenti attraverso i prodotti culturali o di consumo acquistati sulla piattaforma retail e viceversa.127

In altre parole, è altamente probabile che Amazon sfrutti i dati di acquisto e consumo raccolti dal proprio gigantesco retail store per meglio utilizzarli nella programmazione di contenuto. Allo stesso tempo i medesimi contenuti audiovisivi, per Amazon, servono anche a «vendere più scarpe»,128 come afferma lo stesso fondatore di Amazon.

1.7.4 Nuovo vantaggio competitivo

L’esperienza di accesso e fruizione di contenuti video in streaming all’interno dei complessi ecosistemi digitali assume, dunque, essa stessa un valore economico distinguibile ed un possibile vantaggio competitivo che Porter129 già definiva come il valore che un’azienda riesce a creare per i propri clienti, rispetto agli altri competitor. Valore che a sua volta è inteso – sempre da Porter – come ciò che gli acquirenti sono disposti a pagare per avere un certo servizio o prodotto. In questo caso, il valore di una piattaforma di video streaming consiste proprio in questa “esperienza di visione” che, come nel caso di Netflix, si presenta più facile ed immersiva rispetto alla ricerca di un contenuto, compreso quello “pirata”, sul web. Esperienza più personalizzata grazie

126 E. Corvi, op. cit., p. 125.

127 Francesco Di Chiara, “Amazon in the OTT jungle. Le strategie di valorizzazione del prodotto e selezione del pubblico degli Amazon Studios”, in V. Re (a cura di), op. cit., p. 118.

128 Nathan McAlone, “Amazon CEO Jeff Bezos said something about Prime Video that should scare Netflix”, Business Insider, 02/06/2016, http://www.businessinsider.com/amazon-ceo-jeff-bezos-said-something-about-prime-video-that-should-scarenetflix-2016-6?IR=T (consultato il 31/05/2018).

129 Michael E. Porter, Competitive Advantage: Creating and Sustaining Superior Performance, Free Press, New York, 1985.

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all’implementazione di analisi sulle preferenze, sui comportamenti degli utenti e sulle modalità di visione o ancora, come nel caso diAmazon Prime Video, attraverso strategie di cross selling del contenuto audiovisivo con altri prodotti. Porter a questo punto concepisce due modelli di vantaggio: vantaggio di costo, ovvero fornire un prodotto/servizio al prezzo più basso, e il vantaggio di “differenziazione”, inteso come il vantaggio di offrire un servizio o prodotto diverso – possibilmente migliore – rispetto agli altri concorrenti e per cui il cliente è disposto a pagare (premium price). Sul vantaggio di costo le piattaforme OTT “istituzionali” giocano una partita impari rispetto agli spazi di distribuzione informale pirata, dove i contenuti vengono distribuiti per lo più gratuitamente. Fra gli SVOD, in particolare, si può instaurare tuttavia una competizione di costo circa il pricing di abbonamento alla piattaforma. Ricerche recenti130 mostrano, ad esempio, come per i servizi offerti dagli SVOD quali Netflix, Hulu ed Amazon Prime Video i consumatori americani siano già vicini al limite massimo di spesa disposti a pagare, quantificabile tra i 10-11 dollari al mese. Il vero vantaggio competitivo degli OTT formali – ed in particolare gli SVOD – risiede in un vantaggio di differenziazione rappresentato dal (migliore) servizio di offerta, catalogazione ed “esperienza di visione” sia rispetto agli interstizi informali di distribuzione “pirata”, sia rispetto agli altri player tradizionali del settore audiovisivo. La stessa pratica del binge watching – così come la nuova moda del binge racing131 – è fortemente implementata proprio da Netflix già attraverso alcuni accorgimenti di userexperience come la presenza di un pulsante che consente di saltare la sigla di una serie tv o programma. Ciò avviene proprio perché questa modalità di fruizione favorisce un’immersione continuativa nella visione. Una modalità nata già nel contesto informale della pirateria e che è ormai vista come un vero vantaggio competitivo rispetto alla fruizione offerta dai media tradizionali.

132

130 Gfk, Comparing Streaming Services 2014 and 2016 Reports, Gfk US, New York, 2016, http://www.gfk.com/en-us/insights/press-release/to-raise-new-revenue-netflix-and-amazon-prime-might-need-toaccept-ads/ (consultato il 31/05/2018).

131 Veronica Innocenti, “La gara degli spettatori”, Il Sole 24 Ore – Nòva, 21/01/2018, http://nova.ilsole24ore.com/esperienze/serie-1-innocenti/ (consultato il 31/05/2018)

132 Jeremy Bowman, “3 Revealing Thoughts From Netflix CEO Reed Hastings at CodeCon”, The Motley Fool, 06/06/2017, https://www.fool.com/investing/2017/06/06/x-quotes-from-netflix-ceo-reed-hastings-at-codecon.aspx (consultato il 31/05/2018)

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1.8 Finestre distributive per lo streaming

Vonderau afferma133 che lo streaming ha sia riorganizzato la distribuzione di contenuto audiovisivo, sia creato nuovo disordine. Per capire meglio questa affermazione, è importante riferirsi – preliminarmente – allo sfruttamento del contenuto audiovisivo attraverso il modello delle finestre di distribuzione (windows). Come scrive Valentina

Re:

Il sistema delle windows distributive ha garantito a lungo la massimizzazione del valore economico dei contenuti, creando un regime di scarsità artificiale in cui il singolo prodotto risultava via via disponibile, con diversi gradi di esclusività, tramite un unico canale, e su specifici territori.134

Allo stesso modo Ulin osserva che «la distribuzione è tutta volta a massimizzare periodi separati di esclusiva.»135 Nel caso del film cinematografico, ad esempio, il tradizionale sfruttamento delle finestre di distribuzione riguarda determinate tempistiche al fine di generare il massimo profitto possibile: una prima uscita nella sala cinematografica; successivo sfruttamento attraverso la messa in onda su canali pay-per-view (Sky Primafila, ad esempio); poi canali pay-tv satellitari o premiun cable; ed infine l’approdo sui broadcast tradizionali free-to-air. L’avvento delle nuove piattaforme video streaming ha affiancato e, in un certo senso, anche «rotto la clessidra»136 della tradizionale distribuzione sia di film che di serie tv. Nel nuovo ecosistema digitale, infatti, succede che:

• gli operatori TVOD (transactional video on demand) come iTunes e Chili Tv si affiancano alla pay-per-view televisiva nella modalità di “acquisto a richiesta” del singolo e più recente prodotto audiovisivo;

• allo stesso modo le piattaforme SVOD si appaiano ai canali tv via cavo o satellitari che offrono un catalogo di contenuti ad una quota fissa mensile;

133 P. Vonderau, op. cit., p. 730.

134 Valentina Re, “See What’s Next. Continuità, rotture e prospettive nella distribuzione online”, in V. Re (a cura di), op. cit., p. 13.

135 Jeff Ulin, The Business of Media Distribution. Monetizing Film, TV, and Video Content, Focal Press, Burlington-Oxford, 2010, p. 31 (trad.mia).

136 Marco Cucco, “La rottura della clessidra. Le sfide del VOD alla filiera cinematografica e alle politiche pubbliche”, in Valentina Re (a cura di), op. cit., pp. 73-88.

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• infine, le piattaforme AVOD – compresi i portali su Internet dei principali braodcaster (catch-up tv) – riprogrammano i film e le serie tv gratuitamente sui propri cataloghi a prezzi di licenza ridotti, proprio come avviene per le emittenti tv tradizionali.

Come fa notare Ester Corvi,137 questi stessi allineamenti fra window tradizionale e digitale sono cambiati a causa dello stravolgimento attuato dai nuovi grandi player SVOD come Netflix e Amazon Prime, definiti stand-alone perché svincolati dai broadcaster tradizionali. Gli SVOD, infatti, tendono sempre più ad “accorciare” i tempi nella filiera di distribuzione del contenuto audiovisivo. In particolare, Netflix privilegia per la distribuzione dei propri contenuti – compresi film ad alto budget – la formula di rilascio definita day-and-date, ovvero in contemporanea sulla propria piattaforma streaming e nelle sale cinematografiche. Il recente caso Okja-Festival di Cannes138 ha reso ancora più evidente questa rottura circa i tempi di sfruttamento della pellicola.

1.8.1 Competizione e coesistenza

Sul versante più propriamente televisivo, i broadcaster tradizionali attuano delle strategie sia di competizione che dicoesistenza139 con gli OTT stand-alone. Dauna parte le maggiori emittenti e canali tv premium implementano sempre più servizi a loro volta stand-alone che distribuiscono contenuti in streaming complementari o differenti rispetto ai propri canali lineari (ad esempio la distribuzione di contenuti “extra” disponibili solo su piattaforma streaming proprietaria). Dall’altro lato, sempre sul versante della distribuzione, si applicano strategie di coesistenza tra broadcaster e OTT attraverso la vendita dei diritti di ritrasmissione da parte dei primi (in USA nota come pratica delle syndication) ai nuovi player OTT che ridistribuiscono contenuto video

137 E. Corvi, op. cit., p. 117.

138 Alissa Wilkinson, “Cannes 2017: two vastly different cinema cultures provoke one big Netflix controversy”, Vox, 31/05/2017, https://www.vox.com/culture/2017/5/24/15676892/cannes-netflix-controversy-culture-stiller-swinton-smith (consultato il 31/05/2018).

139 PaolaBrembilla, EdoardoMollona, Game of Strategy. Analisi strategica del settore delle serie tv nell’industria televisiva statunitense, Giappichelli Editore, Torino, 2015, pp. 122-127.

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streaming on demand. Recenti notizie140 su possibili accordi tra il canale tv satellitare

Sky e la piattaforma Netflix circa la possibilità di rendere visibile il catalogo di quest’ultimo agli abbonati Sky Q si situa proprio in questa solco di coesistenza fra due competitor “naturali”. La differenza sta piuttosto nelle modalità e nei tempi di distribuzione dei contenuti. Luca Barra afferma infatti che:

le potenziali finestre [distributive, NdA] si moltiplicanoall’ampliarsi di piattaforme digitali e altre offerte mediali, ma allo stesso tempo la scarsità artificiale è più difficile da mantenere, i tempi diventano rapidi, gli spazi, si sovrappongono; in generale, non c’è più una sola regola che vale per ogni contenuto, ma ogni testo “richiede” soluzioni sartoriali per valorizzare ogni singola destinazione e tentare di costruire un successo, di massa o di nicchia che sia.141

Eppure, anche la pratica di “accorciare” – se non saltare direttamente tutta la filiera di distribuzione top-down dal produttore al consumatore – non nasce con le nuove piattaforme OTT stand-alone, ma è uno dei tratti salienti del consumo divergente cosiddetto “pirata”. Anzi, la presenza stessa – a monte – di una struttura di controllo sulla tempistica di consumo a fronte, invece, di una disponibilità potenziale di contenuto digitale anytime/anywhere è uno dei motivi che giustificano la stessa esistenza di pratiche di consumo pirata, le quali in parte hanno avuto il merito di accelerare questo fenomeno di scavalcamento delle finestre.142 Spedicato mostra, infatti, come il ricorso ai circuiti informali e non autorizzati sia spesso dettato più da una libertà di scelta che da una libertà di prezzo.143

Ad esempio, nel campo degli anime giapponesi la frammentazione dei contenuti su diverse piattaforme streaming sia specializzate come CrunchyRoll, Amazon Strike (piattaforma anime di Amazon Prime Video) e Daisuki sia “generaliste” come la stessa Netflix provoca:

140 Andrea Biondi, “Accordo Sky-Netflix: pacchetto unico nei contenuti”, Il Sole 24 Ore, 01/03/2018 http://www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2018-03-01/accordo-sky-netflix-pacchetto-unico-contenuti 094726.shtml?uuid=AE1FPC9D (consultato il 31/05/2018).

141 Luca Barra, “Prefazione. Rivoluzioni, Tentavi e Fallimenti: Una Cultura Audiovisiva Digitale In Progress”, in C. Tryon, op. cit., p. 11.

142 G. Pescatore, op. cit., p. 47.

143 Giorgio Spedicato, “Distribuzione delle opere via internet e diritto d’autore”, in V. Re (a cura di), op. cit., p. 163.

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• da un lato la tendenza, da parte dei fan, a ritornare su spazi di distribuzione pirata ed informale al fine di “autocrearsi” piattaforme unitarie sugli anime;

• dall’altro lato le compagnie di anime giapponesi cercano sempre più di ridurre lo spazio delle finestre di distribuzione tra il Giappone ed il resto del mondo, a causa della competizione di nuovi player globali OTT.144 In quest’ottica il fenomeno degli anime giapponesi può rientrare nel classico esempio di «capitalizzazione di nicchie che non rientrano necessariamente nei desidered audiences dei broadcaster tradizionali.»145 Il pubblico appassionato di anime, spesso, non fa parte della categoria di semplice audience o di quella di utenti di una piattaforma, ma più propriamente creano una rete fandom. La nuova tendenza dei grandi SVOD è quella di accrescere il proprio numero di abbonati proprio intercettando la domanda di queste nicchie nella “coda lunga” dei propri cataloghi streaming. Tuttavia, nei circuiti fandom come è il caso degli appassionati di anime, si assiste a volte ad una maggiore resistenza circa le modalità di distribuzione imposte dai nuovi OTT di video in streaming. La diffusa pratica di Netflix, ad esempio, di comprare l’esclusiva delle ritrasmissioni negli USA di alcuni anime giapponesi e di posticiparne l’uscita sulla piattaforma fino alla conclusione della stagione – per poi distribuirli nella formula all-at-once – ha generato un “effetto contrario” di ritorno al consumo, da parte dei fan, su spazi informali e pirata.146

1.8.2 Geoblocking ed aggiramento informale

A questo punto è interessante notare come la riorganizzazione delle finestre distributive e delle licenze di ritrasmissione del contenuto audiovisivo debba fare i conti con una serie di restrizioni d’accesso geografiche (geoblocking) che in parte stridono con

144 David Ng, “For the anime industry, the streaming revolution is both a blessing and a curse”, Los Angeles Times, 01/07/2017, http://www.latimes.com/business/hollywood/la-fi-ct-anime-business-20170701-story.html (consultato il 31/05/2018).

145 P. Brembilla, V. Innocenti, in V. Re (a cura di), op. cit., p. 178.

146 Lauren Orsini, “Why NetflixMaking More Anime May NotBe A Good ThingFor Fans”, Forbes, 01/02/2018, https://www.forbes.com/sites/laurenorsini/2018/02/01/why-netflix-making-more-anime-may-not-be-a-goodthing-for-fans/#195c47967ba5 (consultato il 31/05/2018).

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l’annunciata «tendenza globale»147 delle maggiori piattaforme digitali, comprese quelle streaming OTT. Geoblocking così definito da Lobato:

Alla stregua di una tecnologia di localizzazione che utilizza i database degli indirizzi IP per determinare la posizione dell’utente, [il geoblocking, NdA] è diventato un meccanismo chiave per gestire il traffico internazionale di video streaming e per mantenere la separazione di mercati dei media nazionali.148

Il blocco geografico di contenuti video nasce, dunque, come meccanismo di controllo allo scopo di mantenere un mercato di distribuzione e sfruttamento del contenuto video in streaming su base regionale. Associato al geoblocking è la tecnologia di geolocalizzazione su Internet. Meccanismi di geoblocking e geo-localizzazione sono ampiamente utilizzati, ad esempio, dalle piattaforme advertising video on demand come Hulu (nella sua versione gratuita con pubblicità) al fine di:

• da un lato associare ai propri contenuti video un mercato pubblicitario locale in base alla posizione geografica dell’utente (geolocalizzazione);

• dall’altro a bloccare quegli accessi (geoblocking) provenienti da indirizzi IP per cui non esiste ancora un mercato territoriale su cui poter massimizzare il proprio profitto.

Come fanno notare Ashraf e Alvarez Léon,149 la stessa piattaforma AVOD Hulu nasce per offrire un’infrastruttura tecnologica e una cornice legale al fine d’intercettare contenuto video streaming altrimenti sparso in variegati spazi informali non autorizzati e non misurabili.

La risposta informale a questa tecnologia avviene tramite l’aggiramento (circumvation) del geoblocking con un Virtual Private Networks (VPM). Il ricorso al VPM consente di aggirare i limiti geografici di accesso attraverso la creazione di un indirizzo IP virtuale dislocato in altre località geografiche. Come evidenziano sempre Ashraf e Alvarez

Léon:

147 J. A. Schwarz, op. cit., p. 378; E. Corvi, op. cit., pp. 82-88.

148 Ramon Lobato, “Introduction: The New Video Geography”, in Ramon Lobato, James Meese (a cura di), Geoblocking and Global Video Culture, Institute of Network Cultures, Amsterdam, 2016, p. 10 (trad. mia).

149 Cameran Ashraf, Luis Felipe Alvarez Léon, “The Logics and Territorialities of Geoblocking”, in R. Lobato, J. Meese, op. cit., p. 49

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Questa tensione tra mercato territorializzato e l’aumento di domanda attraverso network digitali fuori dal mercato è un esempio di come nuove territorialità stanno prendendo il posto delle precedenti […] Questo ha portato ad una molteplicità di strategie coesistenti come la creazione di forti mercati territoriali attraverso il geoblocking, campagne di distribuzione ibrida attraverso le piattaforme e distribuzioni globali e simultanee.150

Il ricorso a pratiche informali di aggiramento del geoblocking rappresenta, allora, una risposta ai limiti offerti dall’imposizione di un mercato regionale che stride con il flusso d’informazione e la presenza di contenuto streaming in uno spazio che è ormai globale.151

Come si è visto, la recente tendenza delle piattaforme di video streaming OTT è quella di allargare sempre più il proprio mercato a livello globale, come testimonia la presenza di Netflix in 190 paesi e quella di Amazon Prime Video presente addirittura in più di 200 nazioni sparse nel mondo.152 Tuttavia, l’offerta dei cataloghi degli stessi OTT varia molto a seconda delle diverse località regionali, anche e soprattutto a causa dei diritti di licenza di ritrasmissione negoziati su base territoriale e nazionale e per un arco di tempo limitato. Come evidenzia Tryon:

sebbene cataloghi online come Netflix e Hulu possano fornire agli utenti l’accesso a numerosi titoli, potenzialmente possono anche cambiare i tempi di distribuzione di molti importanti programmi tv e film in modi complessi, in parte alterando la velocità con cui i contenuti sono resi disponibili per le repliche o il recupero.153

In questo senso viene a restringersi notevolmente la mobilità potenzialmente anytime/anywhere dello stesso contenuto streaming video su piattaforme OTT, tornando ad avvicinarsi all’idea effimera (temporalmente e spazialmente) di contenuto video inserita nel «flusso televisivo»154 di Raymond Williams, diventando un nuovo flusso di contenuti on demand per così dire “ad intermittenza”, ovvero fino a quando la licenza

150 Ibidem, p. 49 (trad. mia.)

151 Ivi

152 Leo Barraclough, “Amazon Prime Video Goes Global: Available in More Than 200 Territories”, Variety, 14/12/2016, http://variety.com/2016/digital/global/amazon-prime-video-now-available-in-more-than-200countries-1201941818/; Exequeil Minaya, Amol Sharma, “Netflix Expands to 190 Countries”, The Wall Street Journal, 06/01/2016, https://www.wsj.com/articles/netflix-expands-to-190-countries-1452106429 (articoli consultati il 31/05/2018).

153 C. Tryon, op. cit., p. 68.

154 Raymond Williams, Television: Technology and Cultural Form (1974), Routledge, Londra-New York, 2003.

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di distribuzione rende disponibile quel dato contenuto su piattaforma o device Come afferma lo stesso Lobato:

Non è più possibile parlare di “un” singolo Netflix, inteso come un servizio che offre lo stesso contenuto e la stessa esperienza ovunque; è adesso più accurato descrivere Netflix come una serie di servizi nazionali associati ad una comune architettura della stessa piattaforma.155

I cataloghi delle suddette piattaforme, a questo punto, si configurano in quelle che Hoyt definisce come «collezioni rotative di diritti di licenza».156 Il sempre maggiore investimento dei nuovi SVOD globali su proprie serie tv e film può essere spiegato proprio come una pressante risposta verso la svalutazione effimera del contenuto video streaming acquistato su licenze fortemente limitate da un punto di vista regionale e temporale. Il fatto di poter contare, all’interno del proprio catalogo, di contenuti proprietari che possono essere distribuiti ovunque, in contemporanea e spinti dalla capillarità globale della stessa piattaforma, crea un possibile ed ulteriore vantaggio competitivo proprio per quest’ultima.

155 RamonLobato, “RethinkingInternationalTVFlows Research intheAgeofNetflix”, Television & New Media, vol. 19, n. 3, 2017, p. 245.

156 Eric Hoyt, Hollywood Vault: Film Libraries before Home Video, University of California Press, Berkeley, 2014, p. 2 (trad. mia).

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2 CONTINUITÀ TRA “VECCHIA” TV E STREAMING ON DEMAND

“È come guardare la televisione. Solo che puoi vedere molto oltre”. Oltre il giardino (Being There, Hal Ashby, 1979)

2.1 TV, streaming e flusso

Che l’avvento dello streaming video digitale abbia accelerato e, per certi versi, ormai

“istituzionalizzato” una modalità di visione – anche televisiva – di tipo on demand è ormai un dato appurato. Ad una prima analisi sembra che il nuovo imperativo di accesso on demand possa collidere e – in un certo senso – anche superare gli strumenti di sfruttamento economico e distribuzione di contenuti dei tradizionali broadcaster. Amanda Lotz157 identifica nella distribuzione di contenuti personalizzati ed indipendenti dal palinsesto uno dei tratti distintivi della nuova tv cosiddetta “non lineare”. Lo stesso Reed Hastings – CEO di Netflix – ha dichiarato che la TV broadcast morirà entro il 2030.158 Sulla stessa scia diversi accademici,159 a seguito del proliferare di nuove piattaforme e differenti forme di consumo televisivo, hanno parlato di «fine della televisione» nella sua accezione più classica. Altri autori,160 sempre in riferimento

157 Amanda Lotz, Portals: A Treatise on Internet-Distributed Television, University of Michigan Press, Ann Harbor, 2017, p. 2.

158 John Hecht, “Netflix Chief Downplays Nielsen Plans to Measure Streaming Service Viewership”, The Hollywood Reporter, 24/11/2014, https://www.hollywoodreporter.com/news/netflix-chief-downplays-nielsen-plans-751931 (consultato il 31/05/2018).

159 Si rimanda a: Elihu Katz, Paddy Scannell (a cura di), The end of television? Its impact on the world (so far), Sage, 2009; Lynn Spigel, Jan Olsson, (a cura di), Television after TV: Essays on a Medium in Transition, Duke University Press, Durham, 2009.

160 Su questa punto di segnalano i seguenti volumi: Amanda Lotz (a cura di), Beyond Prime Time: Television Programming in the Post-Network Era, Routledge, New York, 2009; Graeme Turner, Jinna Tay (a cura di), Television Studies after TV: Understanding Television in the Post-Broadcast Era, Routledge, Londra, 2009.

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CAP.

all’avvento del consumo digitale della tv, hanno introdotto il concetto di post-televisione o post-network, mettendo maggiormente l’accento sui caratteri di discontinuità e rottura che il mondo digitale favorirebbe nei confronti del vecchio network televisivo. Infine, studi recenti161 hanno iniziato a soffermarsi sugli aspetti di sviluppo più graduali e di maggiore continuità ed influenza reciproca tra la tradizionale tv lineare e la nuova tv non lineare, rappresentata dagli OTT che distribuiscono video streaming. In questo senso, dunque, diventa importante capire come i tradizionali strumenti della tv broadcast s’inseriscono e permeano lo stesso mondo dello streaming all’interno di un ecosistema digitale complesso e diversificato, a un tempo informale ed istituzionalizzato.

2.1.1 Ancora palinsesto

Una delle creature più interessanti della televisione “lineare” è il concetto di flusso televisivo legato al palinsesto. John Ellis introduce il termine di palinsesto (schedule) in questi termini: «se i programmi sono i blocchi di costruzione della televisione, allora il palinsesto è la sua architettura, in grado di definire l’edificio che da significato ad ogni blocco di programma».162 Il palinsesto televisivo può essere pensato come una griglia composta da blocchi di circa trenta minuti – definiti slot – che occupano l’intera giornata televisiva. Questa griglia si espande sia in senso verticale, con gli slot che si allungano o accorciano fra un programma e l’altro nel corso della giornata televisiva, sia in orizzontale con gli appuntamenti dei programmi tv “spalmati” con una certa frequenza nel corso della settimana. Ogni settimana viene inglobata in una stagione televisiva e le stagioni in un intero anno. Oltre ai contenuti veri e propri, nel palinsesto vengono ad inserirsi – come dei tasselli – gli spazi pubblicitari e i momenti di autopromozione dell’emittente, i quali creano cesure e momenti di “riallineamento” della programmazione televisiva. Il palinsesto è dunque inteso come:

161 A questo proposito si veda: Karoline Andrea Ihlebæk, Trine Syvertsen, Espen Ytreberg, “Keeping Them and Moving Them: TV Scheduling in the Phase of Channeland Platform Proliferation”, Television & New Media, vol. 15, n. 5, 2014, pp. 470-486; Luca Barra, Massimo Scaglioni, “Convergenze Parallele. Il broadcaster tra lineare e non lineare”, in V. Re (a cura di), op. cit., pp. 31-47.

162 John Ellis, “Scheduling: the last creative act in television?”, Media, Culture & Society, vol. 22, n. 1, 2000, p. 25. (trad. mia)

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• lo strumento grazie al quale è possibile «trasformare in ‘discorso’ un’aggregazione di unità di programmazione»163 che appaiono frammentate;

• uno strumento di potere164 in quanto definisce lemodalità, la decisione e la messa in onda dei contenuti per il pubblico. Interessante è notare, a questo punto, come il palinsesto instauri un legame privilegiato con il «tempo sociale e tempo televisivo»,165 quest’ultimo inteso nell’idea di flusso (flow). In questo senso già Raymond Williams metteva in luce come, all’interno del flusso televisivo, la programmazione offerta si scompone e ricompone in segmenti che s’incrociano e fluiscono l’uno dentro l’altro a costituire un flusso che, per quanto libero e caotico, appare mediato e dunque «pianificato».166 Ad inquadrare questo flusso televisivo – per così dire “magmatico” – verso determinate direttive è proprio il palinsesto, il quale a sua volta dialoga con il tempo degli spettatori. Il flusso televisivo così catturato instaura un rapporto di reciproco scambio con il tempo degli spettatori, quest’ultimo scandito da:

• routine quotidiane e rituali come i pasti;

• variazione del ritmo televisivo a causa dell’improvvisazione di una diretta televisiva prolungata;

• o ancora l’irruzione di un main event in grado di scompigliare momenti di ripetizione televisiva già introiettata dallo spettatore

Il palinsesto crea in questo caso dei tempi e ritmi differenti, a volte accelera attraverso sequenze frenetiche di programmi, altre volte si adagia nella ripetizione dello stesso tempo televisivo, sempre in una potenziale visione frazionata dovuta allo zapping, al passaggio da un canale televisivo all’altro di modo che lo spettatore «si trova a dover mettere insieme un tutto armonico con materiale di scarto».167

Luca Barra evidenzia come il palinsesto – nel nuovo mondo digitale – da un lato è «sotto il fuoco incrociato di varie spinte centrifughe» pronte a distruggerlo, dall’altro appare

163 Nora Rizza, “Tempo televisivo e orientamento del consumo”, in Nora Rizza (a cura di), Immagini di televisione. Strategie di orientamento del consumo televisivo, Rai Eri, Roma, 1986, p. 30.

164 J. Ellis, op. cit., p. 26

165 Piermarco Aroldi, La meridiana elettronica. Tempo sociale e tempo televisivo, Franco Angeli, Milano, 1999.

166 R. Williams, op. cit., p. 106.

167 Aldo Grasso, Radio e televisione. Teorie, analisi, storie, esercizi, Vita e Pensiero, Milano, 2000, p. 131.

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anche «inaspettatamente resiliente, capace in modo costruttivo di ritagliarsi un nuovo valore e uno spazio differente nella costante evoluzione dello scenario».168 Le spinte centrifughe sono relative alle nuove tecnologie (piattaforme digitali, ad esempio), ai discorsi testuali convergenti e alle mutate pratiche di consumo, si pensi al consumo on demand e fandom. Di fronte a questi nuovi interrogativi sempre Barra mostra169 come il palinsesto possa continuare ad esercitare un ruolo centrale in quello che è uno specifico televisivo

Innanzitutto, esso rappresenta un importante momento di sincronizzazione, di appuntamento per un pubblico sia esso generalista o targettizzato. Un esempio sono i grandi appuntamenti come il Festival di San Remo o il “rituale” telegiornale delle ore 20, i quali rappresentano un «orologio sociale condiviso»170 ed occasione di dibattito e comunanza sociale, nonché “eventizzazione” dello spettacolo In questo senso Enrico Menduni afferma:

la televisione, nella sua versione attuale a più livelli, è la principale fornace popolare in cui oggi è fusa la narratività, lo storytelling, una grande narrazione condivisa. Può farlo perché è intrinsecamente multiformato: fatta di finzione e factual, di news e di entertainment, di contenuti brandizzati e non, di un insieme di culture in continua evoluzione. Assomiglia così alla vita da confondersi con la vita stessa.171

Anche lo spazio della serialità televisiva – ed in particolar modo quella italiana –continua ad essere investita nella sua pratica di sincronizzazione sociale attraverso il collocamento reiterato e condiviso in un preciso slot del palinsesto di una stessa emittente. Questo è il caso – ad esempio – de Il commissario Montalbano (Andrea Camilleri, 1999-), il cui appuntamento fisso al lunedì sera sulle reti RAI è ormai vissuto come un vero e proprio rendez-vous da parte del pubblico, comprese le repliche dei vecchi episodi, riproposti allo stesso giorno ed orario. Proprio questa sorta di ritualità

168 Luca Barra, Palinsesto. Storia e tecnica della programmazione televisiva, Laterza, Roma-Bari, 2015, p. 157.

169 Ibidem, pp. 178-182.

170 Aldo Grasso, “E la tv uccide (anche) il palinsesto”, Corriere della Sera, 09/11/2009.

171 Enrico Menduni, “La televisione è la nuova televisione”, Link. Idee per la televisione, 26/03/2018 http://www.linkideeperlatv.it/la-televisione-e-la-nuova-televisione/ (consultato il 31/05/2018).

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collettiva è infatti premiata, di anno in anno, con ascolti quasi sempre molto alti172 al momento della prima messa in onda di ogni episodio sul palinsesto RAI. La visione per così dire “in differita” dello stesso episodio in streaming on demand – modalità catchup offerta peraltro dallo stesso portale Rai Play – continua ad essere marginale seppur in crescita rispetto alla prima visione “lineare”. La reiterazione di episodi ad una certa cadenza – sia essa settimanale o giornaliera – porta lo spettatore ad optare per più palinsesti, ovvero a «scegliere con cura una temporalità di elezione ed a seguirla con fedeltà».173

In questo senso, allora, il palinsesto rappresenta una “vecchia” alternativa alla nuova moda del binge watching in streaming sui portali OTT. Se spesso si è parlato delle pratiche di consumo informali, fandom e divergenti come anticipazione dell’on demand (cfr. par. 1.5), allo stesso tempo certe nicchie di fan ed appassionati possono invocare un ritorno “al rituale dell’appuntamento” e dell’attesa di un nuovo episodio cadenzato in un determinato lasso di tempo, preferendo la precedente visione scheduled rispetto a quella all-at-once dei nuovi operatori streaming OTT.174 In questo modo, il palinsesto della tv lineare rappresenta ancora il primo incontro con la programmazione televisiva, nella sua accezione di novità ed offerta di un appuntamento vissuto come “evento”. Lo streaming on demand da un lato rincorre e ripropone i contenuti in modalità differita o catch-up, dall’altro versante spesso ricalca funzioni del palinsesto come quella delle repliche di serie televisive e tv multichannel, stavolta offerti in un catalogo personalizzabile anytime/anywhere.

Infine, la riproposizione del palinsesto televisivo è spesso un «necessario strumento di orientamento all’interno di un panorama complesso, caotico e sovrabbondante, dove è facile perdersi».175 Come si è visto precedentemente (cfr. par. 1.6 e 1.7), gli stessi nuovi

172 MassimilianoCarbonaro, “Ascoltitv, perilcommissarioMontalbanoquasi11milioniditelespettatori”, Tvzap, 20/02/2018, http://tvzap.kataweb.it/news/221921/ascolti-tv-per-il-commissario-montalbano-quasi-11-milioni-ditelespettatori/ (consultato il 31/05/2018).

173 Luca Barra, “Lost on air: le nuove temporalità della tv”, in Massimo Scaglioni (a cura di), La Tv dopo la tv. Il decennio che ha cambiato la televisione: scenario, offerta, pubblico, Vita e Pensiero, Milano, 2011, p. 114.

174 Allegra Frank, “A beloved anime’s now on Netflix, but not quite in the way fans want”, Polygon, 30/06/2017, https://www.polygon.com/2017/6/30/15902742/little-witch-academia-season-one-netflix (consultato il 31/05/2018).

175 L. Barra, op. cit., 2015, p. 180.

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operatori OTT stand-alone come Netflix cercano di smussare la difficoltà di una ricerca attiva di contenuti in cataloghi sterminati attraverso il ricorso ad algoritmi e proposte ad hoc più o meno pertinenti, di modo che la visione in streaming si avvicini al flusso continuo del palinsesto. Quest’ultimo, allora, può continuare a rappresentare un modello di visione alternativo rispetto agli algoritmi basati sulle preferenze dei suddetti cataloghi streaming. Una visione – quella offerta tramite il palinsesto tv – che si accomoda nella facilità disimpegnata di contenuti semplici, reiterati nella loro banalità rituale e arrangiati dagli “addetti ai lavori” della televisione broadcast, senza alcuno sforzo di ricerca da parte degli spettatori della rete televisiva.

2.1.2 Ancora format

In quest’ottica, uno dei tasselli diventati fondamentali nella programmazione del palinsesto è proprio rappresentato dai format televisivi.176 Il format è definito da Moran e Malbon come «il set di elementi invariabili di un programma a partire dal quale sono prodotti gli elementi variabili di un singolo episodio del suddetto programma».

Chalaby178 individua due aspetti chiave del format televisivo:

177

• una dimensione narrativa distintiva, non dissimile dalla classica sceneggiatura di uno spettacolo d’intrattenimento, attraverso episodi dove confluiscono tensioni emozionali e precisi modelli di drammatizzazione;

• la suanatura intimamente transnazionale.Unformat può infattidefinirsi tale solo dal momento in cui è riadattato fuori dai confini nazionali di origine. Esportazione del format che si configura come un trasferimento di expertise, ovvero linee guida fondamentali alla creazione e riadattamento dello stesso format.

Come spiega sempre Chalby,179 il successo recente dei format tv è legato – oltre che alla nascita di nuovi mercati su di una miriade di canali digitali – anche al concomitante

176 Axel M. Fiacco, Fare televisione. I format, Laterza, Bari, 2013.

177 Albert Moran, Justin Malbon, Understanding the Global TV Format, Intellect, Bristol-Portland, 2006, p. 20 (trad. mia).

178 Jean K. Chalaby, “The making of an entertainment revolution: How the TV format trade became a global industry”, European Journal of Communication, vol. 26, n. 4, pp. 294-295

179 Ibidem, pp. 305-306.

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sviluppo di un flusso d’informazione globale Lo stesso global flow è possibile grazie alla pratica del file sharing informale, così come attraverso la visione in streaming su piattaforme user-generated come YouTube. Questo flusso globale d’informazioni –come si è già visto (cfr. par. 1.8) – investe anche la programmazione streaming delle piattoforme OTT stand-alone come Hulu e Netflix, spingendo quest’ultime a riterritorializzare la propria offerta sia attraverso un mercato pubblicitario locale, sia attraverso la produzione di contenuti per un target ed una domanda più nazionale.180 La scommessa dei format televisivi, a questo punto, è quella d’intercettare una domanda di contenuti locali tramite un format televisivo dal respiro sovranazionale e, contestualmente, riadattato su base regionale attraverso precise indicazioni di time slots su palinsesto della rete tv dove lo stesso format verrà esportato.

La presenza di format televisivi semplici e ripetitivi nella loro formula si pone così come “riflesso” dello stesso palinsesto, confermando un rituale d’intrattenimento e di presa immediata sul pubblico: un appuntamento che “non impegna”, facile da seguire e cadenzato al solito orario. Super-format181 televisivi dal successo mondiale come Who

Wants to Be a Millionaire? (Briggs, Whitehill, Knight, 1998-in corso), talent come X Factor (Cowell, 2004-in corso) così come i recenti factul182 – inseriti nella cadenza di un palinsesto televisivo – rappresentano un momento ideale d’incontro e di appuntamento con lo spettatore nella sua versione couch potato.

Appare chiaro, dunque, come la programmazione e la costruzione di un palinsesto in grado di rispondere ad esigenze di condivisione, orientamento, facilità di visione e sincronizzazione sociale possa continuare ad esercitare un’interessante influenza sul futuro sviluppo della tv in streaming. In questo senso si può citare il lavoro di Catherine Johnson183 circa l’adattamento del canale broadcast ITV nei confronti delle nuove dinamiche dell’on demand e piattaforme streaming digitali. Johnson evidenzia come

180 Si veda, in questo caso, la produzione da parte di Netflix di serie tv a respiro più locale e nazionale come Marseille (Dan Franck, 2016-in corso) e Suburra (Daniele Cesarano, Barbara Petronio, 2017-in corso).

181 Peter Bazalgette, Billion Dollar Game: How Three Men Risked it All and Changed the Face of Television, Time Warner, Londra, 2005.

182 Veronica Innocenti, Marta Perrotta, Factual, Reality, Makeover. Lo spettacolo della trasformazione nella televisione contemporanea, Bulzoni, Roma, 2013.

183 Catherine Johnson, “Beyond catch-up: VoD interfaces, ITV Hub and the repositioning of television online”, Critical Studies in Television: The International Journal of Television Studies, vol. 12, n. 2, 2017, pp. 121-138.

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l’interfaccia web del canale TV (fig. 2) risponda, da un lato, a meccanismi di ricerca e recupero on demand del singolo programma tv (catch-up), così da frammentare il flusso televisivo e spingere l’utente ad una ricerca attiva (browsing) attraverso i menù della piattaforma. Dall’altro versante, lo stesso contenuto on demand «continua ad essere programmato in una sequenza significativamente strutturata su una logica temporale basata sul palinsesto».184 Non c’è solo disruption, dunque, ma una maggiore continuità tra distribuzione televisiva lineare e non lineare, dove il ruolo di “cucitura” fra i due poli è ancora una volta svolto da pratiche di consumo e produzione a volte informali, le quali si stagliano in zone liminari e di passaggio fondamentali. A questo proposito sono profetiche le parole di John Ellis:

la vera sorpresa, in realtà, è che i programmi televisivi dipendono dal presente, dal qui e ora: solo così hanno un valore culturale. La novità è ancora importante e questo vale anche per i format. […]La televisione degli eventi, la tvdi cuiparlare, è così diventata l’elemento chiave della persistente vitalità del medium.185

184 Ibidem, p. 134 (trad. mia).

185 John Ellis, “Televisione Evento. La tv nell’età dell’abbondanza”, Link Mono, luglio 2010. http://www.linkideeperlatv.it/televisione-evento/ (consultato il 14/04/2018).

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Figura 2: Portale Web del broadcaster inglese ITV.

2.1.3 Branding, reputazione e fidelizzazione

Di fronte all’emergere di pratiche di consumo divergenti, frammentate e multitasking, anche il comparto televisivo ha adottato delle strategie editoriali ben precise per differenziarsi e competere nel nuovo paradigma di visione inaugurato con il digitale terrestre e con lo streaming online. Una di queste è sicuramente il concetto di branding declinato sul versante televisivo. Branding che funziona sia nella dinamica macro del palinsesto del canale tv, sia in quella micro del programma promosso dal canale stesso. Come esposto da Turrini,186 le dinamiche e strategie di branding televisivo si sviluppano sui concetti di:

• Brand positioning, ovvero come il canale è posizionato o vuole posizionarsi rispetto alla fascia di età del pubblico, se è un canale rivolto prevalentemente ad un genere maschile e/o femminile e così via;

• Brand values ed attributes, ossia quei valori e caratteristiche del canale TV in grado d’identificare dei benefici per il pubblico che ne fruisce;

• Tone of voice, inteso come una modalità di comunicazione generale del brand che si esprime sia nei singoli programmi che nel canale televisivo in generale;

• Locus, in riferimento ai differenti comparti mediali e non che il canale può utilizzare in maniera organica;

• Tempistica, ossia in quali tempi il brand televisivo decide di promuovere i propri prodotti.

Le componenti cognitive del brand, ovvero quelle in grado di dare una sagoma e personalità al canale, sono individuati in elementi che accompagnano ripetutamente la presentazione del canale al pubblico. Fra questi si può citare ad esempio il marchio, composto dal logo del canale, i payoff, ovvero brevi slogan che sintetizzano la mission del canale, la palette cromatica ed i brevi intro musicali che accompagnano il marchio. Su un piano più denotativo agiscono invece le componenti emozionali legate al brand televisivo. Quest’ultimi, infatti, dialogano strettamente con l’immagine e l’eredità del brand televisivo, quindi con una certa componente “reputazionale” che accompagna –

61
186 Jacopo Turrini, “Il canale come brand”, in Massimo Scaglioni, Anna Sfardini (a cura di), La televisione. Modelli teorici e percorsi d’analisi, Carocci Editore, Roma, 2017, pp. 183-200.

non a caso – anche lo spazio informale e pirata di distribuzione nella sua dinamica di scambio (cfr. par. 1.5). In questo caso, la reputazione è data dallo scambio di valori ed appeal che il brand televisivo negozia nei confronti del proprio pubblico. Sempre Turrini187 evidenzia come – in un universo mediale che moltiplica le occasioni di consumo – il fatto di produrre programmi-brand con una forte identità può spesso ritorcersi contro lo stesso canale televisivo che li produce. Serie tv fortemente identitarie come ad esempio Mr. Robot (Sam Esmail, 2015-in corso) rischiano di offuscare il brand televisivo, in questo caso USA Network, il quale può diventare «un anonimo aggregatore di contenuti, privo di capacità di fidelizzazione e quindi facilmente sostituibile».188 Per scongiurare quest’ipotesi sempre più probabile in un regime di peak tv, già gli attuali nuovi player SVOD come Netflix adottano forti strategie di branding transmediale per promuovere e fidelizzare la propria piattaforma e la propria awareness, prima ancora che i propri contenuti in sé e per sé, ovvero scissi dal catalogo Netflix. In questo senso, accordi con il brand Marvel Cinematic Universe (MCU) ed un’attenta strategia di positiong ed autopromozione culturale del fenomeno del binge watching pongono Netflix come l’attuale leader nel panorama degli OTT.189 Così è diventato più importante scoprire “la nuova serie targata Netflix” piuttosto che la serie tv in sé e per sé. Non solo branding ma anche «rebranding»190 dei broadcaster tradizionali per poter apparire più appetibili ai nuovi pubblici e risultare coerenti nei valori e nella mission del canale TV.

Proseguendo questo discorso, Federico di Chio individua191 sei differenti tipologie di contenuto televisivo declinate in base al medium di provenienza, alle caratteristiche intrinseche del prodotto ed al contesto ambientale di riferimento:

• Contenuto/flusso, il quale si staglia come riempitivo seriale negli interstizi del medium televisivo grazie a forze d’inerzia e radicamento al palinsesto;

187 Ibidem, p. 185.

188 Ivi

189 Paola Brembilla, “Dalla TV alle OTT: il caso Netflix”, in M. Scaglioni, A. Sfardini, op. cit., pp. 282-286.

190 Cinzia Squadrone, “Il marketing televisivo”, in M. Scaglioni, A. Sfardini, op. cit., p. 178.

191 Federico di Chio, “Content Sphere”, in Federico di Chio (a cura di), Media Morfosi 2. Industrie e immaginari dell’audiovisivo digitale, Link. Idee per la televisione, pp. 202-208.

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• Contenuto/appuntamento, che invece è in grado di stabilire abitudini e legami duraturi con il pubblico che ne fruisce, così da costituire valore per la community e per il canale che ospita tali contenuti;

• Contenuto/evento, ovvero quei contenuti che riescono ad esercitare una forza attrattiva unica in virtù dell’esclusività dell’evento trasmesso, spesso in diretta (finale della UEFA Champions League, Notte degli Oscar);

• Contenuto/asset che possiede un valore patrimoniale reiterato nel tempo. Ne sono un esempio l’archivio storico della RAI.

• Contenuto/brand, ossia quel contenuto che, come si è già visto, possiede un appeal primariamente in virtù della reputazione e dei brand values del marchio che produce o distribuisce tale contenuto. Gli esempi più recenti e calzanti sono, per l’appunto, le serie targate Netflix o HBO;

• Contenuto/attrazione il cui valore risiede soprattutto nella capillarità di distribuzione e nella capacità di generare traffico. Sempre di Chio evidenzia come i contenuti/brand avranno sempre più importanza nel futuro «sia nella versione “centripeta”, legata all’esistenza di una destination che li raccoglie; sia nella versione “centrifuga”, legata alla loro distribuzione diffusa nei social».192

La scommessa sia dei nuovi player OTT sia deitradizionali broadcaster risiede, dunque, nel creare una forte identità di brand legata alla reputazione e fidelizzazione del proprio pubblico, in grado di resistere alle forti spinte di svalutazione dei contenuti audiovisivi presenti su più piattaforme streaming e spazi divisione in generale, compresi soprattutto gli interstizi informali e pirata.

2.2 Il “bello della diretta” 2.0 e second screen

Se nel precedente paragrafo si è parlato dei concetti di palinsesto, flusso, format e branding come momenti di possibile connessione tra tv lineare e la nuova tv in streaming, intimamente legato a questi elementi è la diretta, la quale è stata – fin dalla nascita del medium televisivo – un elemento essenziale della stessa tv.

192 Ibidem, p. 208

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Come testimonia Auslander,193 al momento della nascita delle prime trasmissioni televisive negli anni ’30 e ’40 del Novecento la diretta rappresentava la totalità della programmazione. L’avvento della registrazione televisiva ha reso possibile una programmazione in differita, favorendo così la capacità – da parte dei broadcaster – di creare un palinsesto ben strutturato e pianificato a lungo termine. Come mette ben in evidenza Crisell,194 la registrazione televisiva ha reso possibile la trasformazione dei programmi tv in beni e prodotti, così da permettere la compravendita degli stessi. Se questo è accaduto soprattutto per la pianificazione di film, serie tv e trasmissioni registrate in studio, altri programmi televisivi non hanno mai smesso di servirsi della diretta come specifico mezzo di diffusione e tratto caratterizzante dello stesso programma. Si pensi alla diretta dei notiziari o quella relativa agli eventi sportivi (in occasione delle Olimpiadi, ad esempio).

Per certi versi, la recente diffusione dello streaming on demand ha meglio evidenziato ed accentuato uno specifico televisivo dei broadcaster tradizionali, ovvero la diretta televisiva di un evento in grado di creare un appuntamento ed una sincronizzazione sociale hic et nunc. Seguendo questa scia, per Karin van Es la diretta è intesa come «una costruzione, un prodotto d’interazione fra istituzioni, tecnologie ed utenti/spettatori».

195

Van Es mostra infatti come il concetto di liveness definito precedentemente dagli accademici come technical performance, ovvero legato alla simultaneità tra produzione e ricezione di un evento, sia ormai antiquato rispetto alle nuove prospettive digitali. Affrontare il concetto di diretta come costruzione aiuta, invece, a soffermarsi meglio sugli aspetti sfaccettati del live nel panorama delle piattaforme dei media. Un primo punto di partenza teorico sul concetto di diretta risiede in quello che Couldry196 evidenzia come una categoria rituale dei media in grado di legittimare il cosiddetto «myth of mediated centre». Proseguendo questo discorso, la differenza fra liveness e, ad esempio, la diretta di una telecamera di sorveglianza risiede proprio nel costruire un

193 Philip Auslander, Liveness: Performance in a Mediatized Culture, Taylor & Francis, 2008, pp. 12-13.

194 Andrew Crisell, Liveness and Recording in the Media, Palgrave Macmillan, New York, 2012, pp. 25-29.

195 Karin van Es, The future of Live, Polite, Cambridge, 2016, p. 5 (trad. mia).

196 Si rimanda a: Nick Couldry, Media Rituals: A Critical Approach. Routledge, Londra, 2003; Nick Couldry, “Liveness, ‘reality,’ and the mediated habitus from television to the mobile phone”, The Communication Review, vol. 7, n. 4, 2004, pp. 353-361.

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evento mediale da seguire e condividere con un pubblico. In questo senso, la diretta televisiva e mediatizzata costruisce un precisomomento da vedere edascoltare in quanto si è membri di una certa comunità (anch’essa mediatizzata). Sempre van Es197 scorge un limite in questa concezione in quanto non si può parlare di diretta in senso generale ma sarebbe preferibile riferirsi ad una differenziata «constellations of liveness». La studiosa mostra198 infatti come la diretta – a proposito di trasmissioni quali i notiziari o i canali di news – sia utilizzata per inquadrare il tg in una cornice reale e autentica. La diretta di eventi sportivi in tv, invece, è ancora differente in quanto risulta più incentrata sull’imprevedibilità della competizione e degli avvenimenti live, nonché sul concetto di presenza.

E se ci si sposta su altri panorami mediali, è abbastanza evidente come la diretta offerta tramite servizi quali Facebook Live o Periscope sia ulteriormente diversa e rispondente a parametri di forte interazione partecipativa. In quest’ambito, Andrejevic199 sottolinea come la scarsità introdotta dai social media non avviene limitando la produzione di contenuti – come accade invece coi broadcaster – ma selezionando i contenuti attraverso algoritmi in grado di creare un «regime di visibilità» che investe la stessa diretta. Per restare sul versante dei social, una delle pratiche di consumo televisivo che si è maggiormente sviluppata di recente è l’uso di dispositivi quali smartphone e tablet –definiti second screen – in simultanea alla visione tradizionale di contenuto televisivo e spesso proprio in concomitanza con eventi tv in diretta. In questo senso Blake invita a concepire il second screen «non come un oggetto o un dispositivo mediale, ma come un’esperienza».200 Inoltre, la stessa accezione di “secondo schermo” in riferimento a dispositivi come smartphone o tablet implica un insito giudizio di valore sui sopracitati device che è subalterno rispetto allo schermo televisivo “principale”, ovvero quello televisivo. In realtà e sempre più spesso – ed in particolare fra i più giovani – si assiste

197 Karin van Es, “Liveness redux: on media and their claim to be live”, Media, Culture & Society, vol. 39, n. 8, 2017, pp. 1245-1256.

198 Ibidem, p. 1249.

199 Mark Andrejevic, “‘Free lunch in the digital era: organization is the new content”, in Lee McGuigan, Vincent Manzerolle (a cura di), The Audience Commodity in a Digital Age: Revisiting Critical Theory of Commercial Media, Peter Lang, New York, 2014, pp. 193-206.

200 James Blake, Television and the Second Screen: Interactive TV in the age of social participation, Routledge, Abingdon, 2017, p. 1 (trad. mia).

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all’utilizzo di schermi quali laptot o smartphone come primaria fontedi visione,dimodo da preferire i più neutrali termini come «dual screen» o «companion device».

Come già mostrato in recenti studi,201 uno dei vantaggi nell’utilizzo delle piattaforme social da parte dei broadcaster è quello di riuscire ad intercettare gusti, preferenze e pratiche di visione del pubblico, tutto ciò in maniera simultanea alla stessa programmazione, spostando le discussioni da “macchinetta del caffè” in uno spazio regolato e misurabile, come quello dei social. Sempre in riferimento alla social TV, Philip Napoli202 suggerisce come gli stessi twitter o determinati topic sull’evento TV, discussi dal pubblico sui canali social, possano diventare essi stessi contenuto televisivo ancillare al medesimo evento TV trasmesso in diretta. E ancora, attraverso l’incoraggiamento – da parte dei broadcaster – di discussioni in second screen sull’evento in diretta, è possibile ricreare un’attesa sociale di partecipazione allo stesso evento (buzz), sfruttando cosìivantaggi diuna social community che sièraccolta attorno alla diretta televisiva.

L’accoppiamento tra trasmissione in diretta e social network ha reso possibile quello che Sørensen definisce come «revival of live TV»203 negli universi multipiattaforma di distribuzione dei media in streaming.Sørensenmostra infatti – attraversoun interessante case study sui broacaster inglesi BBC e Channel 4 – come l’aspetto della diretta, lungi dal rappresentare un antico ricordo del passato, è sempre più al centro delle nuove strategie di sviluppo dei broacaster nelle nuove piattaforme digitali. La BBC, in particolare, ha creato un proprio sistema di gestione di contenuti live sul web, chiamato BBC Live, grazie al quale è possibile seguire – su ogni device – diverse dirette simultaneamente, come nel caso delle Olimpiadi Invernali di Sochi 2014. Così sempre Sørensen evidenzia come i broadcaster si servano dei social per aumentare «attention

201 Si veda: Gillian Doyle, “Innovation in use of digital infrastructures: TV scheduling strategies and reflections on public policy”, in Tanya Storsul, Harne H. Krumsvik (a cura di), Media Innovations, Nordicom, Göteborg, 2013, pp. 111–125; Hye Jin Lee, Mark Andrejevic, “Second-screen theory: from the democratic surround to the digital enclosure”, in J. Holt, K. Sanson (a cura di), op. cit., pp. 40-61.

202 Philip Napoli, “On automation in media industries: integrating algorithmic media production into media industries scholarship”, Media Industries Journal, vol. 18, n. 1, 2014, pp. 35-38.

203 Inge Ejbye Sørensen, “The revival of live TV: liveness in a multiplatformcontext”, Media, Culture & Society, vol. 38, n. 3, 2016, pp. 381-399.

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around live events, and in this process accumulate viewers, […] and centrality in the mediation of live events».204

Nel campo informale del video streaming in diretta, Adam Rugg e Benjamin Borroughs205 mostrano come servizi in live streaming per dispositivi mobile possano essere utilizzati, fin dalla loro nascita, in modalità di consumo divergenti e pirata. L’esempio è dato dal servizio live Periscope (acquisito dal social network Twitter), il quale è stato utilizzato per rendere disponibile la premiere della quinta stagione del Trono di Spade (Game of Thrones, David Benioff, D. B. Weiss, 2011-2019) sia ai non abbonati HBO sia ai residenti fuori dagli USA, dove la messa in onda era stata posticipata. Lo stesso accade con il servizio Live di YouTube,206 sebbene si assista ad un rapido rafforzamento del cosiddetto local control attuato dalla stessa piattaforma user-generated sul contenuto. In questo modo, un servizio di live streaming nato per aumentare il contributo partecipativo ad eventie situazioni vissute in diretta si trasforma in un canale di aggiramento (circumvation) di materiale protetto da copyright o imposto dai limiti di licenza territoriali e geografici. Su questa scia si può riprendere l’ipotesi di Schwarz già trattata precedentemente (cfr. par. 1.3), in base alla quale le piattaforme user-generated da un lato incentivano sempre più la partecipazione di utenti con servizi come ad esempio il live streaming, dall’altro lato attuano un rigido controllo sullo stesso servizio per consentire un proficuo multi-sided market con diversi attori interessati (inserzionisti, detentori dei diritti di licenza, ISP).

2.3 Serie tv on demand ed il fenomeno del revival

Sul versante dello streaming on demand, invece, a dominare la scena sono sempre più le serie televisive. Jason Mittell207 mette in evidenza una caratteristica generale che

204 Ibidem, p. 386.

205 Adam Rugg, Benjamin Borroughs, “Periscope, Live-streaming and Mobile Video Culture”, in R. Lobato, J. Meese, op. cit., pp. 64-72.

206 Garrett Sloane, “On YouTube Live, pirates plunder entire channels like ESPN and CNN”, AdAge, 05/04/2017 http://adage.com/article/digital/youtube-live-pirates-stream-entire-channels-espn/308576/ (consultato il 31/05/2018).

207 Jason Mittell, Complex tv. Teoria e tecnica dello storytelling delle serie tv (ed. italiana a cura di Fabio Guarnaccia e Luca Barra), Minimum Fax, Roma, 2017.

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investe le recenti serie tv, ovvero la loro tendenza a creare mondi complessi e trame estremamente sfaccettate. In questo senso lo stesso Mittell afferma che:

è cambiato il modo in cui gli spettatori guardano le serie, così come sono cambiate la produzione e distribuzione, e tutto ciò ha portato a una nuova modalità di storytelling che io ho definito “complex tv”, televisione complessa.208

Allo stesso modo si è assistito ad una sempre crescente «serializzazione delle serie tv»209, nonché alla creazione di ecosistemi narrativi concepiti come sistemi aperti, resilienti ed alla stregua di:

strutture interconnesse che si configurano attraverso meccanismi di rimediazione/rilocazione e di intertestualità/intermedialità […], rendendo la materia narrativa un universo percorribile dall’utente, e in cui l’esperienza può essere riconfigurata in maniera non determinata. 210

Questi ecosistemi narrativi creano così universi espansi in cui vengono continuamente rimodulate e negoziate le richieste di pubblico e fan da parte della produzione della serie stessa. Come evidenziano Brembilla e Innocenti,211 nell’intricato universo delle serie tv complesse si deve tener conto di diversi tipo di pubblico – siano essi fan o semplici spettatori – i quali interagiscono con questi mondi in modalità diverse e personalizzate, allineandosi o disallineandosi rispetto al prodotto seriale “ufficiale”.

La modalità di visione personalizzata – introdotta prima dal consumo divergente “pirata” e adesso dallo streaming on demand offerto dai nuovi OTT – consente un maggiore grado di appropriazione dello stesso prodotto televisivo nei tempi e nei gusti degli spettatori, facilitando l’immersione inununiverso seriale complesso Questestesse pratiche e gusti attivano forme di partecipazione grassroot come fanfiction e blog le quali, a loro volta, influenzano la produzione “a monte” di una serie tv, come ad esempio nel caso di spin-off, reboot e revival

In questo senso, un aspetto molto interessante che appare dalla configurazione narrativa della serialità televisiva è la difficoltà nel rintracciare un vero finale che sia

208 Ibidem, p. 14.

209 VeronicaInnocenti, GuglielmoPescatore, Le nuove forme della serialità televisiva. Storia, Linguaggio e Temi, Archetipo Libri, Bologna, 2008.

210 C. Bisoni, V. Innocenti, G. Pescatore, op. cit., pp. 17 e 18.

211 P. Brembilla, V. Innocenti, op. cit., pp. 173-174.

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soddisfacente per l’economia della stessa seriee per il pubblico che ne fruisce.212 Levine e Parks al riguardo affermano che: «the industrial structure of commercial television lends itself to the constant recovery of used, terminated, canceled, expired material for maximum return».213 Le serie televisive presentano dunque – già nella loro stessa natura seriale – una sorta di “vita sempre latente”, anche quando ne viene annunciata la morte attraverso un finale più o meno esplicito. Da questo punto di vista Mittell individua diversi tipi di finali per le serie tv:

• sospensione, quando lo show viene interrotto bruscamente, solitamente già nel corso della prima stagione come è il caso della serie Reunion (Jon Harmon Feldman, Sara Goddman, 2005), interrotta dopo appena nove episodi;

• wrap-up, ovvero quando la fine della serie non è né arbitraria ma neppure totalmente programmata dalla produzione, come ad esempio la serie tv Terriers (Ted Griffin, 2010);

• conclusione, quando i produttori sanno percerto che laserie terminerà adun certo punto.

Come afferma lo stesso Mittell, l’ultimo caso, la conclusione già pianificata, è poco comune nell’ambito della serialità in quanto la fine di una serie tv viene spesso vista come un fallimento o esaurimento del potenziale commerciale della stessa. Su questa scia è facile prevedere come la serialità televisiva, per suo stesso statuto, sia sempre in bilico tra la sua “fine-fine” ed una rinascita in forme diverse. Partendo dall’idea di culto già esposta da Umberto Eco214 si può affermare che le opere cosiddette “cult” non cessano mai davvero di vivere, in quanto rimangano nelle forme di vivaci discussioni e dibattiti tra fan, come materiale da fanfiction e ancora come richiesta o speranza di una

212 Si veda: Jason Mittell, “Finali”, op. cit., pp. 520-572; Frank Kelleter, “Five Ways of Looking at Popular Seriality”, in Frank Kelleter (a cura di), Media of Serial Narrative, Ohio State University Press, Columbus, 2017; Marta Martina, “Nothing ever ends: il concetto di fine negli universi seriali”, Dissertion Thesis, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, Dottorato di ricerca in Studi teatrali e cinematografici, 25 Ciclo, DOI 10.6092/unibo/amsdottorato/5897; Zoe Williams, “Too closure for comfort: the death of definitve TV endings”, The Guardian, 24/04/2017, https://www.theguardian.com/tv-and-radio/2017/apr/24/tv-endings-breaking-badwalking-dead-big-little-lies (consultato il 31/05/2018).

213 Elana Levine, Lisa Parks, “Introduction”, in ElanaLevine, Lisa Parks (a cura di), Undead TV: Essays on Buffy the Vampire Slayer, Duke University Press, Durham, 2007, p. 5.

214 Umberto Eco, “Casablanca: Cult Movies and Intertextual Collage”, in Giovanni Guagnelini, Valentina Re (a cura di), Visioni di altre visioni: intertestualità e cinema, Archetipo Libri, 2007, pp. 172-181.

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futura rinascita della serie. La vita “oltre la morte” delle serie tv può prendere la forma di spin-off, ovvero comecreazione diuna nuovaserie derivativa daun universo narrativo già esistente, come è il caso ad esempio di Better Call Saul (Vince Gilligan, Peter Gould, 2015-in corso) nata sulla scia di Breaking Bad (Vince Gilligan, 2008-2013), o ancora Private Practice (Shonda Rhimes, 2007-2013) a partire da Grey’s Anatomy (Shonda Rhimes, 2005-in corso).

Un’altra modalità interessante di “rinascita” è offerta dai rerun, ossia dalla riproposizione e ripetizione della stessa serie tv, messa in onda in tempi e modalità uguali o differenti rispetto alla sua prima visione. Come evidenzia Derek Kompare,215 i molteplici rerun di show televisivi come Lucy ed io (I love Lucy, CBS, 1951-1957) –reiterati negli anni ed in momenti differenti del palinsesto dei broadcaster – riescono a comporre quel «patrimonio televisivo» in grado di plasmare la memoria personale e collettiva degli spettatori. Proprio in questo senso Nelson216 mette in luce il particolare valore del rerun, il quale non si situa tanto nello show in sé e per sé quanto nel ricordo para-testuale che attiva presso lo spettatore. Nel caso dei cataloghi delle piattaforme streaming, la presenza di un vecchio show balzato “in evidenza” (poiché, ad esempio, se ne sono appena acquistati i diritti di licenza) attiva un bagaglio di ricordi para-testuali che può essere simile alle ritrasmissioni della stessa serie in slot e tempi differenti all’interno del classico palinsesto tv. E addirittura la possibilità on demand – offerta all’utente della piattaforma – di scandagliare il catalogo alla ricerca di un ben determinato episodio scisso dall’economia narrativa della serie tv, maggiormente si presta a pratiche di riappropriazione dello stesso in funzione di ricordi e citazioni. Infine, si può considerare il revival di una serie tv, che è ancora differente rispetto al rerun ed allo spin-off e meglio si articola nel discorso dello streaming video. Il revival si configura come la ripresa e messa in produzione di uno show che ha cessato di essere prodotto dopo un arco di tempo più o meno lungo. Sempre lo stesso Eco217 – insistendo sull’analisi tra ripetitività e serialità – individua il concetto di ripresa come il classico

215 Derek Kompare, Rerun Nation: How Repeats Invented American Television, Routledge, New York, 2005.

216 Jenny L. Nelson, “The Dislocation of Time: A Phenomenology of Television Reruns”, Quarterly Review of Film and Video, vol. 12, n. 3, 1990, pp. 79–92.

217 Umberto Eco, “L’innovazione nel seriale”, in Veronica Innocenti, Guglielmo Pescatore (a cura di), Le nuove forme della serialità televisiva. Storia, linguaggi e temi, Archetipo Libri, 2008, pp. 93-101.

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esempio di recupero di archetipi di successo in base ad esigenze spesso di natura commerciale.

Come mette in luce Kathleen Loock,218 i nuovi operatori streaming OTT stanno guidando un nuovo ed importante trend che vede la comparsa di numerosi revival di serie tv interrotte in un passato più o meno remoto, come ad esempio Le amiche di mamma (Fuller House, Jeff Franklin, 2016-in corso) a partire da Gli amici di papà (Full House, Jeff Franklin, 1987-1995) o ancora Arrested Development - Ti presento i miei (Arrested Development, Mitchell Hurwitz, 2003-in corso), entrambi i revival prodotti da Netflix. Come evidenzia sempre Loock:

[revivals, NdR] speakto viewers’ feelings of generational belonging andthe waysin which such temporally dispersed television shows can shape successive media generations by perpetuating televisual experiences, memories, and attachments.219

Così descritti, i suddetti revival si configurano come il desiderio di ricollocare certe abitudini e ricordi legati ad universi narrativi epratiche mediali passate nei nuovi media, in una spinta nostalgica in grado di ricucire e far comunicare l’età della flow-tv con quella dello streaming. I revival infatti – a differenza delle reunion o dei rerun – non consistono unicamente nella riproposizione dello stesso cast o dello stesso identico episodio, ma in un riadattamento in grado di accontentare sia il pubblico affezionato alla serie antenata sia la nuova generazione di pubblico ormai legata alle nuove pratiche discorsive digitali. In questo modo le nuove piattaforme di video streaming, proprio grazie alla produzione di revival, posseggono un’interessante e strategica possibilità nel presentarsi come continuazione e passaggio dell’evoluzione televisiva, facendo così affidamento ai propri dati di analisi e preferenze di visione (cfr. par. 1.7) per meglio capire su quale revival poter puntare in futuro.

218 Kathleen Loock, “American Tv Series Revivals: An introduction”, Television & New Media, vol. 19, n. 4, 2018, pp. 299-309.

219 Ibidem, p. 8.

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2.3.1 Gilmor Girls (non) crescono

Una mamma per amica: Di nuovo insieme (Gilmore Girls: A year in the life, Amy Sherman-Palladino, 2016) è il revival della serie televisiva cult Una mamma per amica (Gilmore Girls, Amy Sherman-Palladino, David Rosenthal, 2000-2007). Il suddetto revival è stato prodotto da Netflix nel 2016 nella forma della miniserie di quattro episodi a distanza di circa dieci anni dall’ultima stagione, andata in onda sul broadcast americano The CW.

La serie tv è ambientata nell’immaginaria cittadina americana di Stars Hollow nel Connecticut e vede come protagoniste la giovane madre Lorelai, la brillante figlia Rory ed il taciturno Luke, proprietario dell’omonima tavola calda. All’interno di un fitto tessuto cittadino “provinciale” viene tratteggiata – nel corso di sette stagioni – una commedia dai toni ironici, sentimentali e in una cornice che riesce ad anticipare un certo gusto indie. L’attesa per un revival da parte di fan e nuovi appassionati delle serie tv appariva quanto meno evidente da una serie d’indizi:

• Innanzitutto, le critiche circa il finale della serie originaria, in particolare da parte della showrunner Amy Sherman-Palladino, esclusa dall’ultima stagione della serie antenata;

• la combinazione di reunion del cast originale ed eventi promossi dai fan della serie come ad esempio lo Stars Hollow festival;220

• il fatto che la serie originaria, conclusasi nel 2007, fosse diventata un fenomeno di binge watching sullastessa piattaforma Netflix, la quale nelfrattempo neaveva acquisito i diritti di licenza.221

Ryan Lizardi222 mette in luce la caratteristica distintiva del revival di Una mamma per amica proprio in riferimento allo spettro del desiderio per un oggetto perduto, la serie tv appunto. Spettro che procede dall’accettazione commemorativa della fine della serie per arrivare alla melanconica perpetuazione del desiderio, potenzialmente all’infinito. Da

220 https://www.gilmoregirlsfanfest.com/ (consultato il 31/05/2018)

221 Emily Yahr, “Gilmore Girls Revival: How a TV Reboot Goes from Idea to Reality”, The Washington Post, 05/11/2016, https://www.washingtonpost.com/lifestyle/style/gilmore-girls-revival-how-a-tv-reboot-goes-fromidea-to-reality/2016/11/03/5c241150-94d3-11e6-bb29bf2701dbe0a3_story.html?noredirect=on&utm_term=.d4861d694b04 (consultato il 31/05/2018)

222 Ryan Lizardi, “Mourning and Melancholia: Conflicting Approaches to Revivng Gilmore Girls One Season at a Time”, Television & New Media, vol. 19, n. 4, 2018, pp. 379-395.

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un lato la creatrice Amy Sherman-Palladino è più vicina all’accettazione commemorativa, così da consentire ai vecchi fan della serie tv originaria di fare un altro ed ultimo viaggio nella cittadina di Stars Hollow attraverso un finale che possa dare finalmente giustizia ed appagamento a sé stessa ed ai fan. Dall’altro versante vi è la volontà, da parte di Netflix, di perpetuare il desiderio di visione per i propri utenti attraverso meccanismi di binge watching e, soprattutto, quella di aumentare il numero di nuovi abbonati alla propria piattaforma streaming. Il revival di una Una mamma per amica cerca così di raggiungere questi due obiettivi, in parte anche opposti tra loro: soddisfare le richieste dei vecchi fan della serie tv che attendono un nuovo finale che sia degno della serie originaria (grazie al sigillo della vera ideatrice della serie tv), ma allo stesso tempo accrescere il numero di nuovi fruitori e fan dello show attraverso una serie di quattro mini-movie in grado di far avvicinare anche coloro che non conoscevano lo show.

Questo delicato e fragile equilibro è reso possibile – all’interno del testo del revival di Una mamma per amica – attraverso spinte “auto-citazionistiche” che strizzano l’occhio ai veri appassionati della serie tv e, dall’altro versante, grazie a riferimenti più o meno diretti all’attualità ed alle nuove, o presunte tali, forme di consumo non lineari promosse dagli OTT in streaming. In quest’ultimo caso, lo stesso Lizardi223 mostra come la modalità di visione del binge watching sia esplicitamente citata proprio in un passaggio del revival, ovvero in un dialogo tra i protagonisti Rory e Luke, così da incentivare la validità del nuovo tipo di visione promossa dalla stessa piattaforma OTT che ha prodotto il revival della serie tv.

In definitiva, nell’universo della serialità televisiva, lo strumento del revival, se utilizzato con cognizione di causa (ad esempio attraverso l’analisi di preferenze e tendenze) può rappresentare uno strumento estremamente strategico e di “cucitura” tra le aspettative di una base di “vecchi” fan ed appassionati e nuovi utenti delle piattaforme in streaming sempre alla ricerca di nuovi contenuti e scoperte in un desiderio malinconico ed inappagato che tende a non esaurirsi mai del tutto.

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223 Ibidem, p. 6.

2.4 Nuove nicchie di pubblico ed utenti/fan

Lo stesso pubblico della televisione appare coinvolto nella dinamica ambivalente di resistenza e mutazione, continuità e distacco rispetto alle tradizionali modalità di visione televisiva “classica”, con il video streaming in grado di funzionare da catalizzatore per i nuovi cambiamenti e, allo stesso tempo, da conferma per gli aspetti che invece non sembrano mutare più di tanto. Se l’audience e gli strumenti di calcolo d’ascolto quali share224 e rating225 rimangono ancora centrali nello sviluppo del classico two-side market dei broadcaster generalisti, pian piano inizia a farsi avanti il nuovo statuto di utente delle piattaforme streaming OTT, quest’ultimo legato a nuove dinamiche già sviluppate nel precedente capitolo (cfr. par. 1.7) e date dalla profilazione, modalità di accesso, consumo e preferenze di visione. Allo stesso tempo, l’allargamento dei canali fruibili nella televisione cosiddetta “lineare” grazie al digitale terrestre (DTT), così come il già citato fenomeno della Peak TV nel panorama dell’offerta audiovisiva ha sì creato confusione e maggiore incertezza sulla scelta di contenuti, ma allo stesso riesce ad accontentare nuove nicchie di pubblico, altrimenti non intercettabili. Proprie queste nicchie, nella ricerca di contenuto non disponibile sui canali “istituzionali”, hanno da sempre accompagnato l’approccio non autorizzato e “pirata” dello streaming. Approccio non autorizzato che è visto come risposta a un fallimento di mercato che si situa nella difficoltà, da parte dei tradizionali player dei media, di rispondere alla domanda di determinati contenuti e nelle modalità e nei prezzi desiderati.226 Quello che una volta era il “pirata” acquisisce così lo statuto di “utente” all’interno dei nuovi player Svod stand-alone, quest’ultimi capaci d’intercettare proprio queste nuove esigenze e, allo stesso tempo, controllarle localmente al fine di creare nuovo valore e vantaggio competitivo attraverso l’analisi di dati degli stessi utenti. Una volta acquisiti questi stessi dati, la tendenza degli Svod è

224 Lo share, rilevato in Italia dall’Auditel, è il rapporto percentuale tra il numero di spettatori medio registrato da un programma o in una fascia oraria e il totale degli spettatori che contemporaneamente stavano usufruendo di altri canali mediante lo stesso media (fonte Wikipedia).

225 Il rating, rilevato nel mercato USA dall’azienda Nielsen, è il rapporto percentuale tra il numero di spettatori medio registrato da un programma o in una fascia oraria e il totale della popolazione statistica a cui si fa riferimento, ossia il totale stimato degli individui in grado di usufruire di un televisore (fonte Wikipedia).

226 P. Brembilla, in M. Scaglioni, A. Sfardini (a cura di), op.cit., p. 282.

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quella di addirittura incentivare la creazione di nuove nicchie di pubblico, così d’aumentare il proprio numero di abbonati.

Già Jenkins,227 nell’ambito televisivo, individuava tre categorie generalizzate di pubblico: zapper, casual e loyal. La prima categoria corrisponde grossomodo allo spettatore che preferisce guardare spezzoni e segmenti di diversi canali TV piuttosto che soffermarsi su un preciso programma o show. Appare immerso nel “flusso” televisivo non di un singolo broadcaster o programma ma della TV tout court. Lo spettatore loyal è invece colui che sceglie appositamente i programmi televisivi da guardare, rivedendoli più volte attraverso la registrazione dello stesso, parlandone nei momenti di socialità ed attivando pratiche di condivisione con altri spettatori appassionati. Lo spettatore loyal può infatti essere definito a tutti gli effetti come l’antesignano del nuovo «digital fan».228 Il digital fan si contraddistingue per l’aspetto partecipativo ed interattivo con il contenuto mediale, per lo più serializzato. In questo modo vengono a costituirsi pratiche di appropriazione del testo da parte dei fan, pratiche che confluiscono nelle cosiddette fanfiction, così definite da Paul Booth:

Fanfiction è una forma di riscrittura del testo mediale esistente; non una revisione ma letteralmente uno “scrivere attorno” a differenti aspetti del cult di finzione. […] La riscrittura non è la fase ultimale del lavoro del fan. C’è un processo ulteriore: […] ovvero quello che coinvolge non solo la creazione di nuove storie, me la rilettura di quelle storie in nuovi contesti e con nuovi significati.229

Il lavoro di riscrittura di fanfiction non avviene poi in modo solitario e solipsistico, ma sempre all’interno di community dove si crea dibattito e condivisione tra fan, così da creare dei domini fandom dove vengono rinsaldati valori di reputazione e partecipazione

“dal basso”, su canali non ufficiali, informali ed a margine della “fonte istituzionale”.

Infine, lo spettatore casual è colui che condivide una posizione intermedia tra loyal e zapper Il pubblico casual si rapporta ad uno show in maniera più “attenta” rispetto allo zapper, seguendo magari un programma o show dall’inizio alla fine, se interessato. Ma allo stesso tempo il pubblico casual spesso non attua quelle performance di

227 Henry Jenkins, op. cit., pp. 58-63.

228 Paul Booth, Digital Fandom: New Media Studies, Peter Lang, 2010, p. 19.

229 Ibidem, p. 75 (trad. mia).

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partecipazione ed appropriazione del contenuto TV proprie invece dello spettatore loyal Quest’ultimo, infatti, acquisisce più valore agli occhi dei broadcaster ed inserzionisti proprio in virtù della sua maggiore attenzione allo show e i suoi prodotti (il merchandising, ad esempio), così come alla sua capacità di promozione e partecipazione a community che accrescono e aggiungono ulteriore valore, reputazione e “pubblicità” allo stesso show. Questi stessi scambi di valore avvengono ancora più spesso all’interno di fandom e blog informali e non autorizzati, dove il vero valore di scambio economico tra fan s’incentra maggiormente sulla reputazione e condivisione tra utenti/fan (cfr. par. 1.5).

Sempre a proposito di pubblico e media, Fausto Colombo definisce230 l’attività del pubblico nelle funzioni di ricezione, fruizione, uso e consumo nei processi di scambio con la produzione, in questo caso televisiva. A partire da questa prospettiva, la studiosa Sfardini rielabora231 ulteriormente le categorie di pubblico televisivo, riaggiornandole al nuovo avvento del digitale terrestre, dello streaming e della social TV, così da individuare quattro differenti traiettorie di ricerca impostate su differenti gradi di ideologia/quotidianità ed attività/passività nella ricezione e consumo, traiettorie su cui si adagiano altrettante categorie del “nuovo pubblico”

La prima traiettoria è dettata dalla componente partecipativa, all’interno della quale viene distinto il cosiddetto «cittadino-elettore» dal «cittadino partecipante». Se il primo subisce maggiormente gli effetti del potere televisivo in una condizione di «cittadinanza sottile»,232 il cittadino partecipante – attraverso l’utilizzo di social e second screen connessi alla fruizione televisiva – riesce invece ad interagire più intensamente nel discorso pubblico (non senza preoccupanti possibili derive d’irrigidimento politico).

La seconda traiettoria, quella dell’azione, evidenzia tre diverse tipologie di pubblico: couch potato, brand communuty e producer.

230 Fausto Colombo, “Ricezione e consumo dei media. Limiti e prospettive di una (in)distinzione”, in Egeria Di Nallo, Roberta Paltrinieri (a cura di), Cum sumo. Prospettive di analisi del consumo nella società globale, Franco Angeli, Milano, pp. 174-186.

231 Anna Sfardini, “Il pubblico: concetti, metafore, traiettorie di ricerca”, in M. Scaglioni, A. Sfardini (a cura di), op. cit., pp. 93-106.

232 John Zaller, “A New Standard of News Quality: Burglar Alarms for the Monitorial Citizen”, Political Communication, vol. 20, 2003, pp. 109-130.

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Lo spettatore couch potato è stato introdotto precedentemente nelle sue caratteristiche di spettatore passivo e poco incline all’azione televisiva. E’ anche il tipico spettatore “generalista” e più legato – nella letteratura tanto quanto nell’ideologia comune – ai tradizionali media e broadcaster “lineari”. In una dimensione mediale sempre più partecipativa la sua figura – possibilmente legata al contenuto/flusso già descritto da di Chio – è destinata a diventare via via più rara. La brand community invece – stagliandosi a metà dello spettro legato all’azione degli spettatori – è tesa a valorizzare i rapporti di reciproco scambio tra produzione e consumo. Come già sottolineato nel paragrafo riguardante il concetto di branding (cfr. par. 2.1.3), l’identità legata al brand tanto del classico canale tv quanto delle nuove piattaforme OTT è sempre più centrale nelle dinamiche di consumo e ricerca di contenuti a partire da una base di branding values riconosciuti e rinsaldati da entrambe le parti, pubblico e produzione. In questo modo la capacità di condivisione, fruizione e partecipazione di un pubblico legato ad un determinato brand viene fatto rientrare in un processo di sfruttamento e controllo locale (cfr. par. 1.3) da parte dello stesso brand.

La terza categoria di pubblico nel grado più avanzato della traiettoria legata all’azione è quella del producer, ovvero dello spettatore che si trasforma egli stesso in agente produttivo di contenuti. La sua evoluzione ed affermazione è stata possibile soprattutto grazie all’avvento del digitale, alla cultura della convergenza mediale ed all’abbattimento delle barriere e confini tra consumo e produzione. Un’ulteriore traiettoria è individuata nel processo d’interazione tra pubblico e TV. Il primo grado di questo percorso è rappresentato dalla classica audience, che ha rappresentato per molto tempo l’unico metro per quantificare e conoscere le modalità di consumo ed accesso del mezzo televisivo, sebbene attualmente porti con sé un certo grado di “passività” dettata più semplicemente dalla “presenza” di un pubblico, tralasciando tutte le altre dinamiche comportamentali e partecipative, invece essenziali nel mondo dello streaming audiovisivo. Su un grado più avanzato nello spettro dell’interazione, si trovano le figure di prosumer ed user multipiattaforma, ovvero quegli spettatori più vicini all’aspetto personalizzato della visione e fruizione, legati ad esempio allo streaming su varie piattaforme OTT. La stessa Sfardini afferma che:

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La centralità assunta dal tema dell’accesso e dell’utilizzo integrato di specifici devices tecnologici ha accentuato l’importanza della dimensione fruitiva del consumo a scapito di quella ricettiva 233

In questo modo lo spettatore – utilizzando una molteplicità di device e piattaforme –“dilata” per così dire lo stesso contenuto televisivo su diversi media, di modo che la produzione debba fare i conti anche con gli importanti requisiti di scalabilità e confezionamento dei contenuti pensati per schermi differenti. L’estremo grado di questa traiettoria è il nuovo «social TV user» per il quale l’aspetto interattivo sui canali social, la funzione dei commenti sugli stessi e la condivisione di brevi clip (cfr. par. 2.2) acquistano un valore fondamentale d’interazione con il medium e con la comunità di appartenenza.

Infine, si può citare l’ultima traiettoria distudiosul pubblico, quella identitaria. La prima categoria è quella definita ancora una volta da Sfardini come «comunità interpretativa» dove i processi di negoziazione identitaria fra consumo e produzione sono ancora maggiormente spostati sul secondo paradigma. Più spostate invece sul campo dell’appropriazione sono invece le due categorie di fandom e pubblici performer. I fandom abbiamo già visto essere delle comunità che spesso fioriscono su tessuti informali, a latere della produzione ufficiale, attraverso l’appropriazione affettiva dei contenuti mediali e creazione simbolicadi nuovi contenuti grassroot da partedegli stessi fan/utenti. I pubblici performer sono, infine, l’estremo punto della performance identitaria del pubblico. Performance che il più delle volte si palesa grazie a programmi TV come i talent e reality o, attualmente, sempre più sui maggiori social network. La sempre crescente appropriazione e personalizzazione del contenuto mediale si riflette, dunque, in una vera e propria “costellazione” di categorie legate allo statuto di pubblico televisivo, dalla classica audience al fandom fino al nuovo social TV user. Le suddette categorie dialogano così con le abitudini quotidiane e sociali declinate nelle nuove tecnologie e pratiche di consumo dei media.

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233 A. Sfardini, op. cit., p. 102.

CAP. 3 CASE STUDY “STREAMING CALCIO ‘PIRATA’ IN ITALIA”

“Nel buio della sala correvano voci incontrollate e pazzesche. Si diceva che l'Italia stava vincendo per venti a zero e che aveva segnato anche Zoff di testa, su calcio d'angolo...”.

Il secondo tragico Fantozzi (Luciano Salce, 1976)

3.1 Il calcio in Italia tra “vecchia” TV, social media e streaming

Raymond Williams affermava234 – già alla fine degli anni ’60 del XX secolo – che guardare lo sport in TV fosse uno dei motivi per cui valesse la pena possedere il televisore. Se ci riferisce ad uno sport in particolare, il calcio, e ad una nazione, l’Italia, il binomio sport/TV ed il suo indissolubile connubio già profetizzato da Williams appare piuttosto vero e concreto.

L’ingresso del calcio nei televisori degli italiani ha una data precisa: 24 gennaio 1954.235

Per la prima volta, dopo i precedenti esperimenti,236 nel corso di quella data venne trasmessa in diretta la partita tra le Nazionali d’Italia ed Egitto, valevole per la qualificazione ai Mondiali di calcio dello stesso anno. La cronaca della partita fu affidata, tra gli altri, a Niccolò Carosio, celebre radiocronista che in questo modo siglò una sorta di passaggio di testimone dalla radio – all’epoca padrona indiscussa del “racconto calcistico” – alla neonata televisione. Il primo programma sportivo italiano,

234 Raymond Williams, “As We See Others”, The Listener, 01/08/1968.

235 https://www.tuttomercatoweb.com/accadde-oggi/24-gennaio-1954-la-tv-italiana-trasmette-la-prima-partitadi-calcio-928764 (consultato il 31/05/2018).

236 http://pochestorie.corriere.it/2018/02/05/5-febbraio-1950-il-calcio-arriva-in-televisione/ (consultato il 31/05/2018).

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Domenica Sportiva, è anche il più longevo programma della tv italiana. Lo sport, ed in particolar modo il calcio, iniziano dunque ad essere raccontati come spettacolo televisivo cui assistere dal divano di casa. Ci si trova ancora nell’era televisiva della cosiddetta “scarsità” dell’offerta, in un regime di monopolio rappresentato dalla Rai e con una ancora scarsa diffusione di apparecchi televisivi. In un certo senso si può affermare che il calcio, inteso come prodotto televisivo, abbia accompagnato e rappresentato il passaggio dall’età della “scarsità” all’età della “competizione”, tramite nuovi player quali le reti commerciali Fininvest negli anni ’80 ed il successivo ingresso dei canali pay-tv satellitari a partire dai primi anni ’90.

Il cosiddetto “Mundialito” del 1980 è stato infatti un altro momento di passaggio fondamentale. In quell’occasione – e per la prima volta in Italia – una rete commerciale, Canale 5, riuscì ad accaparrarsi i diritti di trasmissione (sebbene in leggera differita) di un importante evento calcistico internazionale, scavalcando così la monopolista Rai. Gli stessi programmi televisivi ancillari all’evento sportivo iniziarono a proliferare sulle reti locali, così come la sperimentazione di format di successo come ad esempio 90° minuto, Quelli che il calcio…. e Il Processo del lunedì. Venne così a crearsi una particolare configurazione del prodotto televisivo calcistico: da una parte la diretta live della partita vera e propria, dall’altro il racconto dell’evento sportivo nei momenti sia precedenti alla partita che post-gara, grazie alla riproposizione degli highlights della stessa e dibattiti in studio (si pensi alla celebre “moviola”).

In un mercato televisivo sempre più competitivo grazie all’ascesa dei nuovi player commerciali, già a partire dagli anni ’70 e poi per tutti gli anni ’80 cominciano ad essere trasmesse le dirette di alcune prestigiose competizioni europee per club.

Negli anni ’90 si assistette così:

• alla creazione di format calcistici di successo come la rinnovata Coppa dei Campioni – UEFA Champions League da parte della federazione UEFA, competizione che vede fronteggiarsi le più blasonate squadre d’Europa;

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• alla nascita, all’indomani della Legge Mammì,237 dei nuovi canali satellitari quali

TELE+238 prima e Stream TV239 dopo.

Questi fattori concomitanti crearono un nuovo sfruttamento per quanto concerne la diretta televisiva delle partite di calcio, con i nuovi canali pay-tv e pay-per-view in grado d’inserirsi nell’offerta delle dirette dei massimi campionati di calcio italiani, trasformando così l’appuntamento calcistico in un bene di club, accessibile tramite decoder e previa sottoscrizione di un abbonamento.

Proprio in questo contesto l’evento calcistico iniziò a legarsi sempre più, sia finanziariamente che come bacino di pubblico, alla televisione. Così come la stessa televisione cominciò a concepire l’appuntamento calcistico come uno dei pochi ed importanti momenti di sincronizzazione sociale legati ad un evento che si svolge in diretta. Se in un primo momento era stato lo stesso palinsesto TV a doversi allineare al calendario delle partite e delle stagioni calcistiche, a partire dagli anni ’90 le emittenti televisive hanno pian piano imposto anticipi e posticipi delle partite durante i campionati di Serie A e B, di modo da sfruttare in maniera più redditizia slot del palinsesto molto ambiti, come ad esempio il prime time della domenica.

A questo proposito Raymond Boyle afferma che:

the history of TV and sport is one characterized by innovation, change, disruption, dispute, and ultimately the recognition that TV needed sporting content and the elite sport has become financially and symbolically dependent on TV.240

In questo senso, un evento calcistico come quello della UEFA Champions League rappresenta un oramai sempre più raro appuntamento televisivo live capace di convogliare un elevato numero di spettatori a livello internazionale e cadenzato in vari momenti nel corso di tutto l’anno (o meglio, nel corso di tutta la stagione televisiva). Un

237 Legge 6 agosto 1990, n. 223 nata a seguito della direttiva comunitaria 89/552/CEE “Televisione senza frontiere”.

238 Tele+, lanciata nel 1990, è stata la prima piattaforma televisiva commerciale a pagamento in Italia (pay tv) Nel 2003 è stata inglobata da Sky Italia.

239 Stream Tv è stata una piattaforma televisiva commerciale a pagamento operante in Italia, lanciata nel 1997 e poi assorbita nel 2003 da Sky Italia.

240 Raymond Boyle, “Television Sport in the Age of Screens and Content”, Television & New Media, vol. 15, n. 8, 2014, p. 747.

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format che non ha quasi eguali per portata di spettatori, fidelizzazione, prestigio e ricorrenza periodica.

Lo stesso Boyle mostra241 infatti come i broadcaster tradizionali rappresentino ancora un solido baluardo perlo sfruttamento delmercato televisivo annesso al calcio, inquanto rimangono gli unici attori in grado di raccogliere attorno ad un unico evento sportivo larghe fette di audience che appaiono oggi sempre più frammentate dall’ipertrofica offerta di contenuti.

Nel corso del nuovo millennio in Italia si poté assistere alla fusione dei canali pay-tv Tele+e Stream TV nella nuova piattaforma televisiva a pagamento Sky Italia, così come alla creazione del canale a pagamento Mediaset Premium, all’interno del gruppo Fininvest, compresa poi la fallimentare esperienza di Dahlia TV, del gruppo La7. In questo rinnovato parco dell’offerta calcistica televisiva – arricchito anche dal concomitante avvento del digitale terrestre – la dispersione del prodotto calcistico appare ancora più palese e strettamente legata alla “battaglia” per accaparrarsi i diritti di ritrasmissione (cfr. par. 3.2). Ecco allora un’istantanea – ad ogni modo meramente esemplificativa e parziale – della situazione italiana attuale:

• la Rai, in quanto servizio pubblico, si presenta come contenitore degli eventi calcistici e delle dirette che riguardano principalmente la Nazionale italiana di calcio o competizioni nazionali minori per club, come ad esempio la TIM Cup. Dal 2018 l’emittente di Stato tornerà, dopo sei anni, a trasmettere in chiaro le partite delle squadre di club italiane impegnate nella prestigiosa competizione UEFA Champions League;242

• il comparto Mediaset, almeno fino a giugno 2018,243 appare in grado di attuare una doppia strategia: da un lato l’acquisto in esclusiva di un’intera competizione calcistica come la UEFA Champions League per il proprio canale a pagamento

241 Ibidem, p. 749.

242 Fulvio Bianchi, “Rai, tutto fatto per la Champions: dal 2018 il mercoledì la gara di una italiana in chiaro”, La Repubblica – Spy Calcio, 31/05/2017, http://www.repubblica.it/rubriche/spycalcio/2017/05/31/news/champions_rai_sky-166874294/ (consultato il 31/05/2018).

243 Redazione Huffington Post, “Mediaset vince la Champions League nel 2015-2018. Con 700 milioni di euro, battuta l’offerta di Sky”, Huffington Post, 10/02/2014, https://www.huffingtonpost.it/2014/02/10/mediasetchampions-league_n_4759736.html (consultato il 31/05/2018).

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Mediaset Premium, dall’altro la possibilità di ottimizzare i profitti allargando il bacino di spettatori attraverso la diretta in chiaro sui propri canali free-to-air delle partite più importanti della suddetta competizione, nel più classico two-sided market Modalità che può essere spiegata attraverso il concetto economico di dynamic inconsistency, 244 in base al quale alcune decisioni di prezzo e vendita divengono inconsistenti prese in tempi differenti, compreso lo sfruttamento di un evento sportivo Inoltre, sempre Mediaset è recentemente diventata anche l’attuale detentrice dei diritti di trasmissione in Italia di una competizione che ha risonanza mondiale come la FIFA World Cup 2018 in Russia;245

• la piattaforma a pagamento Sky Italia sembra capace di mantenere la diretta dei più importanti campionati di calcio per club in Europa, comprese altre competizioni europee minori, come ad esempio la UEFA Europa League Dal 2018246 cambierà ancora l’offerta con l’esclusiva della UEFA Champions League che passa dalle reti Mediaset a Sky Italia, con quest’ultima in grado di ampliare il proprio carnet di appuntamenti così da provare a concentrare in un’unica piattaforma tutti gli appuntamenti calcistici di maggior richiamo, sia nazionali che internazionali;

• infine, i canali Eurosport 1 e 2 (di proprietà del gruppo Discovery Communications) sembrano defilati per quanto riguarda l’offerta delle partite dei massimi campionati di calcio, privilegiando la diretta di altri sport – compresi i diritti tv sulle Olimpiadi fino al 2024247 – o limitandosi agli highlights di una competizione di prestigio come la UEFA Champions League.

244 Si veda: Finn E. Kydland, Edward C. Prescott, “Rules Rather than Discretion: The Inconsistency of Optimal Plans”, The Journal of Political Economy, vol. 85, n. 3, giugno 1977, pp. 473-492; Daniel Read, George Loewenstein, Shobana Kalyanaraman, “Mixing virtue and vice: combining the immediacy effect and the diversification heuristic”, Journal of Behavioral Decision Making, vol. 12, n. 3, 1999, pp. 257-273.

245 Redazione Sport Mediaset, “Ufficiale: i Mondiali di Russia 2018 in esclusiva a Mediaset”, Sport Mediaset, 21/12/2017, http://www.sportmediaset.mediaset.it/calcio/russia2018/ufficiale-i-mondiali-di-russia-2018-inesclusiva-a-mediaset_1188069-201702a.shtml (consultato il 31/05/2018).

246 Fulvio Bianchi, “Champions e Europa League, a Sky i diritti tv 2018-2021”, La Repubblica, 14/06/2017, http://www.repubblica.it/sport/calcio/champions/2017/06/14/news/diritti_tv_a_sky-168070801/ (consultato il 31/05/2018).

247 Giuliano Balestrieri, “A Eurosport i diritti tv per le Olimpiadi fino al 2024”, La Repubblica – Economia & Finanza, 29/06/2015, http://www.repubblica.it/economia/finanza/2015/06/29/news/olimpiadi_diritti_tv117937896/ (consultato il 31/05/2018).

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Ciò che appare evidente, ad ogni modo, è una forte frammentazione dei contenuti calcistici, contesi fra diversi competitor televisivi e con quest’ultimi in grado di attuare differenti strategie di competizione e sfruttamento del prodotto “calcio”. Così un format come ad esempio la UEFA Champions League, poiché appare estremamente ambito248 e unico nel suo genere per le ragioni sopra esposte, può cambiare “casa” di anno in anno, generando confusione tra tifosi ed abbonati ai vari canali pay-tv.

A rendere ancor più frammentaria l’offerta delle partite di calcio è quella che Hutchins e Rowe definiscono come «online digital plenitude»,249 dovuta al contemporaneo moltiplicarsi dello streaming online su molteplici schermi quali laptop, tablet e smartphone (cfr. par. 2.2), così come una maggiore dispersione ed offerta degli stessi appuntamenti sportivi. I due accademici affermano infatti che:

lower barriers of access and cost have multiplied the number of media companies, sports organizations, clubs, and even individuals athletes who can produce and distribute content for online consumption and allowed large numbers of users to appropriate, modify and share digital sports footage trough web sites.250

Anche il calcio, dunque, ha da tempo iniziato ad imperversare sul Web, sia sul versante della diretta streaming online, sia per quanto riguarda la fidelizzazione attraverso i nuovi social media. Interessante, a questo punto, è analizzare il legame sempre più stretto tra social network e calcio. Da un lato i social media rappresentano una vetrina unica per i tifosi nel condividere i momenti che accompagnano la propria squadra, specialmente per eventi calcistici di portata internazionale come gli Europei o i Mondiali di calcio. A tal proposito si può citare l’interessante lavoro di studio svolto da Neil O’Boyle e Colm Kearns a proposito del fenomeno di “mediatizzazzione positiva” dei fan irlandesi durante la manifestazione sportiva UEFA EURO 2016 in Francia. Gli stessi due studiosi infatti scrivono:

248 Giovanni Armanini, “Diritti tv, la Champions 2018-2021 è un successone: + 50% nei mercati chiave”, Calcio e Finanza, 07/09/2017 http://www.calcioefinanza.it/2017/09/07/diritti-tv-champions-2018-2021-incassi-pernazione/ (consultato il 31/05/2018).

249 Brett Hutchins, David Rowe, “From Broadcst Scarcity to Digital Plenitude: The Changing Dynamics of the Media Sport Content Economy”, Television & New Media, vol. 10, n. 4, 2009, pp. 354-370.

250 Ibidem, p. 356.

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The behaviour of Irish fans attending the 2016 Union of European Football Associations (UEFA) European Championship in France (hereafter Euro 2016) attracted worldwide media attention […]much of this coverage centered on video of footage of Irish fans, taken on smartphones and posted to the Internet (in most cases by fans themselves). As the tournament unfolded, therefore, Irish fans become increasingly central to the “eventness” of Euro 2016.251

Dall’altro versante, anche i più importanti club di calcio e calciatori iniziano a fare un uso attento e strategico dei più diffusi social media, al fine di rinsaldare la comunicazione e il legame con la propria base di tifosi. Ormai ogni importante club calcistico ha un proprio profilo Twitter, Facebook o Instagram, attraverso cui è in grado di raggiungere ed aggiornare la propria base di tifosi (sempre più internazionali) su notizie riguardanti nuovi acquisti di calciatori o a diffondere immagini e video di “backstage” direttamente dagli spogliatoi e campi d’allenamento. Per quanto concerne la diretta delle partite, il servizio live di Facebook – Sports on Facebook – ha recentemente proposto252 la diretta delle due semifinali della coppa nazionale per club in Spagna, nonché le partite del campionato messicano di calcio, quest’ultimo visibile soltanto per gli utenti che accedono dagli USA,253 confermando così le diffuse politiche di geoblocking già esposte in precedenza (cfr. par. 1.8).

Il live streaming online delle partite di calcio o degli highlights vede coinvolti sia i tradizionali player del comparto televisivo, attraverso adattate pratiche di strategia e distribuzione, sia nuovi attori e piattaforme di distribuzione stand-alone.

Se si rimane nel campo dei tradizionali broadcaster e canali pay-tv, Rai, Mediaset e Sky presentano tutti dei siti dedicati e dei portali catch-up dove è possibile seguire la diretta in streaming a partire dai canali ufficiali. Per Rai esiste ad esempio il nuovo portale Rai Play, dove è possibile seguire in diretta le partite in streaming. Lo stesso vale per Mediaset, la quale ha recentemente reso disponibile anche sulle proprie properties

251 Neil O’ Boyle, Colm Kearns, “The Greening of Euro 2016: Fan Footage, Representational Tropes, and the Media Lionization of the Irish in France”, Television & New Media, First Published 22/11/2017, p. 2. https://doi.org/10.1177/1527476417741201 (consultato il 31/05/2018).

252 David Del Valle, “Spain’s Copa del Rey streamed on Facebook”, Advanced Television, 03/02/2017, https://advanced-television.com/2017/02/03/spains-copa-del-rey-streamed-on-facebook (consultato il 31/05/2018).

253 Scott Sochnick, “Facebook Will Live-Stream Mexican Soccer in Deal With Univision”, Bloomberg Technology, 13/02/2017, https://www.bloomberg.com/news/articles/2017-02-13/facebook-will-live-streammexican-soccer-in-deal-with-univision (consultato il 31/05/2018).

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online la possibilità di seguire in diretta streaming tutte le partite della prestigiosa FIFA World Cup 2018 in Russia.254 Sia Rai Play che il portale Mediaset offrono il proprio servizio streaming gratuitamente, previa registrazione al sito e sottoscrizione dei termini di servizio. Attraverso questo stretto controllo e profilazione sugli accessi ai portali, i broadcaster possono così attuare e sfruttare il classico two-sided market, rinnovato nella forma del cosiddetto multi-sided market su piattaforma digitale, comprendente altri attori del mercato come ad esempio i gestori di rete (cfr. par. 1.3).

Sky già da tempo ha affiancato ai propri canali la piattaforma Sky Go, da cui gli abbonati ai canali pay tv possono seguire le dirette streaming, comprese le partite di calcio per gli abbonati all’omonimo pacchetto. Ancora Sky – per scongiurare il sempre più diffuso fenomeno del cord-cutting255 – offre una piattaforma di contenuti in streaming online, chiamata Now TV, la quale non richiede la stipula di abbonamento, come per i canali pay tv, ma il semplice pagamento di un pass giornaliero, settimanale o un ticket mensile per determinati pacchetti di contenuti (compreso il calcio), disponibili in streaming e fruibili sul televisore tramite strumenti quali Chromecast.256

Oltre ai tradizionali broadcaster televisivi, anche altri attori hanno iniziato ad entrare in maniera sempre più graduale nel campo dello streaming per le partite di calcio. Si può citare il caso di TIM Vision, classico esempio di telco che attua strategie d’integrazione obliqua nell’acquisto e distribuzione di contenuti audiovisivi attraverso una propria piattaforma digitale. La piattaforma TIM Vision, attraverso il sito Seria A TIM, propone un pacchetto di tre partite per ogni turno di Serie A in formato pay-per-view, da vedere in streaming su diversi apparecchi mobile o pc.

Fra i nuovi player in grado di offrire interessanti contenuti in streaming non è poi così sorprendente trovare i siti di scommesse sportive quali Bet365 e SNAI. Quest’ultima, in particolare, offre la possibilità di guardare in streaming, senza telecronaca e su un videoplayer che non può ingrandirsi a tutta pagina, le partite di Serie A, B ed altri

254 Redazione Sport Mediaset, “Mediaset-Russia 2018, un’altra rivoluzione: tutto il Mondiale in diretta online”, Sport Mediaset, 22/12/2017, http://www.sportmediaset.mediaset.it/calcio/russia2018/mediaset-russia-2018-unaltra-rivoluzione-tutto-il-mondiale-in-diretta-online_1188356-201702a.shtml (consultato il 31/05/2018).

255 Nell’ambito televisivo, con il termine cord-cutting ci si riferisce alla pratica, da parte degli abbonati ai canali pay-tv, di rescindere l’abbonamento in favore dei nuovi competitor OTT online.

256 Chromecast è un adattatore che, collegandosi al televisore, permette di visualizzare in streaming i contenuti prelevati in rete attraverso il browser Chrome, di proprietà di Google.

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campionati minori. Il servizio è disponibile soltanto per gli utenti che hanno già versato un importo minimo sul proprio conto valido per il centro scommesse, integrando così due tipi di business piuttosto redditizi e complementari, scommesse e calcio. Già da questi esempi si può evincere come per un certo tipo di pubblico, sia esso tifoso o semplice spettatore, una qualità di visione più bassa o su un videoplayer piccolo possono essere “barattate” con la facilità di un servizio immediatamente accessibile e ad un costo vantaggioso, meglio ancora se legato ad altre attività complementari alla visione della partita, come le scommesse sportive (cross-selling). A questo punto si può notare la somiglianza fra il videoplayer di un sito pirata e quello di un sito di scommesse on-line (fig. 3).

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Figura 3: Somiglianza fra i videoplayer di un sito streaming “pirata” (A) e di un sito di scommesse on-line (B).
(A) (B)

Fuori dai confini nazionali è già possibile fruire di partite in streaming attraverso piattaforme OTT stand-alone. Fra queste una delle più in crescita è sicuramente Dazn, di proprietà di Perform Group. La suddetta piattaforma di video streaming stand-alone è specializzata nella proposta di contenuti sportivi nelle due modalità live e on demand, dunque con la possibilità di rivedere un appuntamento sportivo “in diretta”, stavolta nei tempi e modi personalizzati dall’utente stesso. Proprio per questo motivo Dazn è stato definito da più parti come «il nuovo Netflix per il calcio».257 Dapprima diffuso in Germania, Austria, Svizzera e Giappone, Dazn è adesso presente anche in Canada e distribuisce, attraverso la propria piattaforma OTT, oltre 8.000 eventi sportivi in streaming, compresi i prestigiosi appuntamenti della UEFA Champions League e UEFA Europa League a partire dalla stagione 2018-19. Quest’ultimi appuntamenti, tuttavia, saranno disponibili nelle sole nazioni di Germania ed Austria, confermando così il sempre più importante ruolo di “controllo” svolto dalla tecnologia di geoblocking (cfr. par. 1.8).

Negli USA è invece attiva la piattaforma di sport streaming Fubo, la quale offre, tra i molti eventi, alcune partite di UEFA Europa League, UEFA Champions League ed i principali campionati nazionali attraverso tre diversi pacchetti di abbonamento mensili. Anche in questo caso il geoblocking non consente l’accesso proveniente da altre nazioni escluse dal servizio streaming offerto da Fubo. Infine, si può citare la piattaforma live streaming Mycujoo. Fondata da due giovani studenti portoghesi, Mycujoo offre la possibilità di guardare in live streaming le partite di calcio di campionati minori fin quasi ad arrivare alle categorie dilettantistiche, provando così ad intercettare la “coda lunga” e le nicchie più nascoste di sportivi e tifosi. In questo caso è molto probabile che la diretta di una partita di calcio si allontani sempre più dalla categoria di “liveness” legata ad un evento (cfr. par. 2.2) per avvicinarsi alla semplice di diretta come può essere quella di una telecamera a circuito chiuso.

Infine, forse un aspetto non particolarmente attinente ma piuttosto intrigante e sempre più diffuso riguarda la diretta di un’altra tipologia di visione, ovvero quella legata al

257 Giovanni Armanini, “Il nuovo Netflix per il calcio si chiama Dazn, ed è già attivo in Germania”, Calcio & Finanza, 16/08/2016, http://www.calcioefinanza.it/2016/08/16/dazn-nuovo-netflix-sport-calcio/ (consultato il 21/03/2018).

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mondo “partecipativo” dei videogiochi. In questo senso il portale Twitch offre, fra gli altri, un servizio di live streaming dei più celebri titoli di simulazione calcistica, come ad esempio il videogame FIFA sviluppato dall’americana Electronic Arts. Proprio quest’ultimo titolo conta circa quattro milioni di follower sul proprio canale Twitch. Come evidenziano alcuni recenti articoli,258 il mondo degli eGamers, ovvero i videogiocatori professionistici, influenza sempre più il mondo reale con continui rimandi fra le piattaforme di gioco virtuale ed il calcio giocato “sul campo”. In questo senso, portali come Twitch offrono sia il live streaming di veri e propri tornei di calcio fra eGamers su piattaforme di gioco virtuali, sia la possibilità di rivedere on demand la suddetta partita virtuale o torneo. Infatti, uno degli aspetti cardine dello streaming dei videogiochi è propria la loro capacità di attivare una forte spinta partecipativa fra il pubblico che segue lo streaming e chi lo gioca. L’utente che fruisce dello streaming sui portali Twitch è infatti egli stesso spesso un videogamer, il quale decide di rivedere più volte (on demand) la stessa partita di un torneo del videogioco FIFA per poter imparare, apprendere ed imitare a sua volta le mosse ed i trucchi che vede sullo schermo.

Interessante è a questo punto notare come le categorie di streaming live e on demand tendano a scemare ed a fondersi insieme in una prospettiva sempre più partecipativa, virtuale ed avveniristica, come quella appunto dello streaming videoludico. Da questa breve ricognizione riguardante l’offerta dell’evento calcistico tra “vecchi” e nuovi media, risulta abbastanza evidente una sempre più netta dispersione del prodotto “calcio” sia sulla tv tradizionale (free-to-air e pay-tv), sia nell’offerta in streaming online, sebbene bisogna tener presente anche della rapida deperibilità dell’evento sportivo, poiché viene spesso fruito in diretta e in un arco di tempo limitato L’evento calcistico, infatti, è spesso visto come un unicum nel campo dell’offerta live dei media audiovisivi, diventando così un prodotto estremamente ambito da parte di tutti gli operatori nel mercato TV – ed adesso anche OTT – interessati al suo sfruttamento per raccogliere maggior audience, abbonati ed utenti.

258 Emanuele Atturo, “Come FIFA è entrato nel calcio reale”, l’Ultimo Uomo, 24/10/2017

http://www.ultimouomo.com/come-fifa-e-entrato-nel-calcio-reale/ (consultatoil 31/05/2018);Simon Hattenstone, “Hashtag United, Wimbly Womblys and the Virtual Gamers Striking It Rich”, The Guardian, 14/06/2017

https://www.theguardian.com/football/2017/jun/14/hashtag-united-virtual-gamers-striking-rich-sport-2-0 (consultato il 31/05/2018).

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Le grandi compagnie telco – all’interno di questo scenario – cominciano ad entrare con sempre maggior prepotenza nel campo dell’acquisizione ed offerta di contenuti sportivi per così dire “pregiati”, di modo da rivaleggiare con le tradizionali pay-tv. In tal senso un esempio – fuori dai confini nazionali – è rappresentato259 dalla recente ed agguerrita disputa tra l’operatore telefonico inglese BT Group e la pay-tv Sky UK circa l’acquisizione dei diritti di licenza della Premier League, massimo campionato calcistico inglese.

3.2 La battaglia per i diritti audiovisivi sportivi

Strettamente legata alla dispersione dell’offerta delle partite di calcio in Italia (ed Europa) è la cosiddetta “battaglia” per i diritti audiovisivi sportivi nel nuovo contesto digitale Quando si parla di diritti audiovisivi sportivi, ed in particolare quelli relativi a manifestazioni calcistiche, si fa riferimento a cifre importanti e quasi impareggiabili rispetto ad altri comparti dei media. Basti pensare al recente bando di assegnazione da parte della Lega Serie A dei diritti di sfruttamento delle immagini delle partite di Serie

A al nuovo player cino-spagnolo Mediapro (con obbligo di cedere i suddetti diritti a terze parti) alla cifra monstre di 1,05 miliardi di euro l’anno per il triennio 2018-2021.260 Bando in seguito bocciato dal Tribunale di Milano.261 La suddetta “battaglia” viene giocata su più campi:

• da una parte le Leghe e Federazioni calcistiche (con all’interno anime ed interessi diversi da club a club), le quali cercano di ottimizzare il più possibile la vendita del proprio “prodotto”, spesso grazie all’intervento d’intermediari ed advisor quali ad esempio Infront Sports & Media;262

259 Nic Fildes, “Sky the winner as BT trims Premier League”, Financial Times, 14/02/2018, https://www.ft.com/content/49a54742-1178-11e8-940e-08320fc2a277 (consulto il 31/05/2018).

260 Tiziana Cairati, “Mediapro si aggiudica i diritti tv del calcio 2018-2021. Sky contro la Lega: offerta inammissibile”, La Stampa, 05/02/2018, http://www.lastampa.it/2018/02/05/sport/calcio/mediapro-siaggiudicata-i-diritti-tv-del-calcio-per-il-triennio-qTmbwruqCcJeYKwuTefqmM/pagina.html (consultato il 31/05/2018).

261 Fulvio Bianchi, “Diritti tv, il giudice dà ragione a Sky e annulla il bando Mediapro”, La Repubblica, 09/05/2018, http://www.repubblica.it/sport/calcio/2018/05/09/news/caos_diritti_tv_giudice_annulla_bando_mediapro195896242/ (consultato il 31/05/2018).

262 Azienda specializzata nel marketing per lo sport con sede a Zurigo, in Svizzera. Nel febbraio 2015 viene a acquistata dalla conglomerata cinese Dalian Wanda.

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• dall’altra gli operatori televisivi ed i nuovi player delle piattaforme digitali che competono per accaparrarsi un prodotto audiovisivo, come quello calcistico, che spesso funge da killer application per via delle potenzialità economiche ed audience (o abbonati) che riesce a raccogliere in quanto evento live di grande risonanza;

• al centro di questa “battaglia” per i diritti audiovisivi sportivi una funzione fondamentale è svolta dagli organi antitrust quali AGCM263 e AGCOM, nonché dalle direttive comunitarie europee al fine di tutelare la competitività e il rispetto delle regole del mercato nell’assegnazione dei suddetti diritti.

Raymond Boyle a tal proposito afferma che: «the position of copyright in the arena of sports content rights and properties of sporting organizations is an area of growing legal and commercial interest in the digital age».264

Come ben esposto nel volume di Morelli,265 agli albori della nascita di un «mercato per i diritti audiovisivi sportivi» vi stava la collisione tra due entità e prerogative differenti: da una parte le emittenti televisive che difendevano la pretesa di riprendere gli eventi sportivi liberamente, in base al diritto di cronaca,266 dall’altra gli organizzatori del suddetto evento sportivo, i quali reclamavano il diritto esclusivo di utilizzazione economica sui propri eventi. Sempre Morelli individua267 tre fasi nell’evoluzione sia storica che normativa del mercato dei diritti audiovisivi in Italia:

• una prima fase, a partire dagli anni ’60, incentrata sulla vendita centralizzata, da parte di leghe calcio e federazioni, dei diritti televisivi ad un unico acquirente “autorizzato”, la Rai. In questa fase, lo stesso Morelli individua268 una prima bipartizione nella fruizione del prodotto calcistico: la modalità del

263 Autorità garante della concorrenza e del mercato, è un’autorità amministrativa indipendente italiana istituita con la legge n. 287/1990, su impulso di direttive comunitarie.

264 Raymond Boyle, “Battle for control? Copyright, football and European media rights”, Media, Culture & Society, vol. 37, n. 3, 2015, p. 360.

265 EnzoMorelli, I diritti audiovisivi sportivi. Manuale giuridico, pratico e teorico, sui diritti di trasmissione degli eventi sportivi a seguito della riforma Melandri, Giuffrè Editore, 2012, pp 27-31.

266 Si veda: Salvatore Alberto Romano, “Diritto di cronaca e ripresa di spettacoli sportivi”, Giur. Merito, vol. I, 1978, pp. 530 ss.; Emanuele Santoro, “Manifestazioni sportive e cronaca televisiva”, Rivista di diritto sportivo, 1979, pp. 46 ss.

267 E. Morelli, op. cit., pp. 3-251.

268 Ibidem, p. 7.

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«cinegiornale», che si concentra sugli highlights della partita, e la modalità «documentario», che invece descrive dettagliatamente la manifestazione sportiva dall’inizio alla sua conclusione;

• una seconda fase, iniziata negli anni ’90 fino al 2005, in cui si assiste al progressivo abbandono della vendita centralizzata da parte delle leghe e federazioni, a favore della vendita “individuale”, in base alla quale ogni club dei principali campionati di calcio in Italia risulta padrone dei propri diritti di trasmissione codificati. È questo, infatti, il periodo in cui proliferano le reti paytv quali Tele + e Stream TV, poi confluite in Sky Italia;

• infine, una terza fase, in cui avviene il “ritorno” alla vendita centralizzata da parte delle leghe e federazioni calcio, ma tenendo conto di un regime concorrenziale per così dire “multipiattaforma”, composto da diversi player – siano essi televisivi o i nuovi OTT – e con l’obbligo di non cedere l’intera esclusiva di una competizione ad un unico acquirente, ma di suddividere l’offerta in differenti “pacchetti”, come previsto nel “decreto Melandri-Gentiloni”.269 La cosiddetta

“spartizione” dei compensi dei diritti tv tra i diversi club dei campionati italiani nel periodo 2018-21 sarà regolato dal recente “decreto Lotti”, che promette più equità fra i club italiani.270

La prima comparsa del termine di “diritti audiovisivi sportivi” in Italia arriva piuttosto in ritardo, più precisamente nella legge delega del 19 luglio 2007, n. 106, poi adottata nel cosiddetto “decreto Melandri-Gentiloni”. Nel testo della suddetta legge vengono infatti accorpati i diritti audiovisivi sportivi nell’ambito del diritto d’autore,271 diventando così “diritti connessi” al diritto d’autore, per quanto concerne la trasmissione, comunicazione e messa a disposizione del pubblico – sia in sede

269 Nel decreto legislativo n.9/2008 (“Melandri-Gentiloni”), all’articolo 9, comma 4 si legge: «è fatto divieto a chiunque di acquisire in esclusiva tutti i pacchetti relativi alle dirette, fermi restando i divieti previsti in materia di formazione di posizioni dominanti».

270 Redazione Calcio & Finanza, “Lotti firma il decreto per i diritti tv della Serie A: ‘Più equilibrio tra le big e le piccole’”, Calcio e Finanza, 01/03/2018, http://www.calcioefinanza.it/2018/03/01/diritti-tv-serie-a-decreto-lotti/ (consulto il 31/05/2018).

271 Legge 22 aprile 1941, n. 633, recante titolo “Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio”.

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radiotelevisiva che su internet – delle partite dei maggiori campionati professionistici di calcio e basket italiani.

Prima di allora gli eventi sportivi hanno goduto, storicamente, di una sorta di debole copertura rispetto ad altre manifestazioni ed eventi, a carattere più artistico e creativo, le quali venivano tutelate già allora dal diritto d’autore. In tal senso, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea da un lato ha affermato272 che gli incontri sportivi – in quanto sono disciplinati da propri regolamenti di gioco – non lasciano margine alla libertà creativa e per questo motivo non rientrano a pieno titolo nelle opere d’ingegno tutelate dal diritto d’autore. Dall’altro versante, sempre la Corte di Giustizia evidenzia come gli incontri sportivi rivestano un carattere unico ed originale e, in base a questo, possano godere di una forma di tutela come per le opere d’ingegno, sebbene sia attenuata e soggetta a restrizioni al fine di proteggere il diritto all’informazione su eventi di rilevanza sociale come previsto dall’art. 3-bis della direttiva 89/552/CEE dal titolo “Televisione senza frontiere”.273 La studiosa Benetazzo274 a tal proposito mostra come il Parlamento Europeo, proprio in riferimento agli eventi di rilevanza sociale, si sia più volte espresso a favore della trasmissione in chiaro dei cosiddetti listed-events, ovvero quegli eventi e quelle competizioni sportive e calcistiche la cui presenza è assicurata nei palinsesti televisivi. Distinti dai listed-events vi sono invece i contenuti sportivi definiti premium, i quali possono essere distribuiti attraverso segnale criptato sui canali pay-tv. In questo senso, infatti, si muove la direttiva comunitaria 97/36/CE e l’art. 14 della successiva direttiva 2010/13/UE, la quale sancisce che ciascun membro dell’Unione Europea abbia facoltà di stilare una propria lista degli eventi sportivi di particolare rilevanza (listedevents), siano essi nazionali e non, che devono essere trasmessi in chiaro. Lista che deve poi essere notificata alla Commissione europea che ne verifica la compatibilità con il diritto comunitario.

In Italia, l’AGCOM ha dunque dato attuazione alle direttive comunitarie grazie alle delibere 9 marzo 1999, n. 8/99 e successiva delibera 15 marzo 2012 n. 131275 attraverso

272 Direttiva comunitaria 97/36/CE.

273 Cfr. Cristiana Benetazzo, “Diritti audiovisivi ed eventi sportivi tra esclusive, pluralismo e mercato”, Federalismi.it Rivista di Diritto Pubblico comparato, n. 20, 2017, p. 16.

274 Ibidem, pp. 17-18.

275 Le delibere citate sono tutte consultabili sul sito web: www.agcom.it

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una propria lista degli eventi di rilevanza nazionale che devono essere trasmessi in chiaro. Tra questi si può citare, a titolo esemplificativo, la finale e tutte le partite della Nazionale italiana durante il Campionato del Mondo di calcio, la finale e le semifinali delle competizioni europee per club quali la UEFA Champions League e la UEFA Europa League qualora siano coinvolte squadre italiane e tutte le partite della Nazionale italiana di calcio, in casa e fuori casa, nel corso di competizioni ufficiali. In altre Paesi, come ad esempio nel Regno Unito ed in Belgio, è accaduto che siano stati inseriti tra i listed-events di rilevanza nazionale intere competizioni calcistiche, come nel caso degli Europei e dei Mondiali di calcio.276

A questo punto appare evidente come la “battaglia” per il mercato dei diritti audiovisivi sportivi sia fortemente influenzata da questa problematicità tra direttive antitrust a tutela del diritto d’informazione da un lato e detentori dei diritti di sfruttamento dall’altro, problematicità espressa dalla spaccatura tra listed-events in chiaro ed eventi sportivi premium, quest’ultimi per lo più diffusi attraverso segnale criptato dai canali pay-tv. Come fatto notare ancora da Benetazzo, la sfida che organi antitrust ed operatori economici si trovano di fronte è la realizzazione di più obiettivi simultaneamente:

consentire l’accesso da parte del massimo numero di utenti possibile a contenuti di qualità e di loro interesse senza doversi abbonare a una pluralità di piattaforme, proteggendo al contempo una concorrenza effettiva nel mercato della distribuzione dei contenuti audiovisivi, senza, perciò, frenare l’innovazione nel settore. 277

A questo punto il tema dei diritti audiovisivi sportivi si pone proprio in questa contrapposizione, al fine d’individuare «il giusto limite oltre il quale l’informazione sullo spettacolo sportivo finisce col tramutarsi in indebita appropriazione del risultato dell’altrui attività lavorativa».278

276 Sara Gobbato, “Diritti tv: la Corte UE conferma l’integrale inclusione di Mondiali ed Europei di calcio tra gli ‘eventi di rilevanza nazionale’ di Belgio e Regno Unito”, Media Laws, 19/07/2013, http://www.medialaws.eu/diritti-tv-la-corte-ue-conferma-lintegrale-inclusione-di-mondiali-ed-europei-di-calciotra-gli-eventi-di-rilevanza-nazionale-di-belgio-e-regno-unito/ (consulto il 31/05/2018).

277 C. Benetazzo, op. cit., p. 31.

278 Ivi.

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Sempre a proposito del mercato dei diritti audiovisivi sportivi Morelli identifica,279 oltre al mercato rilevante come sopra esposto (costituito da un venditore ed un contraente), anche un piano del mercato merceologico, in base al quale s’individuano i prodotti e servizi tra loro concorrenti e “sostituibili”. In questo senso eventi calcistici come ad esempio il campionato di Serie A o la UEFA Champions League, per via del loro appeal televisivo e per il numero elevato di spettatori che riescono a garantire, possono costituire un mercato a sé perché appaiono non sostituibili con un’altra competizione sportiva agli occhi del tifoso/spettatore. Questi tipi di appuntamenti riescono, dunque, a fidelizzare una larga fetta di pubblico e sembrano così in grado di spostare un largo numero di abbonati ai canali pay-tv, così come a livello audience, nel più classico twosided market attivato tramite la raccolta pubblicitaria. I diritti di sfruttamento di questo tipo di competizioni non possono dunque essere pensati come sostituibili con i diritti di sfruttamento di altre competizioni sportive che non siano calcistiche. Un terzo piano del mercato dei diritti audiovisivi sportivi è individuato su base geografica. Infatti, affinché questo sistema dei diritti audiovisivi funzioni, esso dipende fortemente dall’esclusività geografica di questi stessi diritti di sfruttamento. Proprio in quest’ultimo piano si sono consumate le più recenti diatribe tra detentori dei diritti ed utenti/fruitori, così come attraverso lo sviluppo dello streaming online che è, per sua stessa natura, potenzialmente fruibile senza limiti geografici. A tal scopo si può citare il cosiddetto “caso Murphy”280 che ha –solo parzialmente – sancito la libertànella vendita, utilizzo ed importazione, tra i diversi paesi dell’UE, di strumenti di decodifica quali decoder e schede per le partite trasmesse su segnale criptato. E ancora, più in generale, si possono citare le politiche di geoblocking attuate dalle piattaforme digitali che distribuiscono contenuti sportivi online, anchee soprattutto in streaming. Inquest’ottica, il recente accordo281 tra Parlamento europeo, Commissione europea e Stati membri circa la possibilità di usufruire dei servizi in streaming in tutto il territorio europeo senza limiti

279 E. Morelli, op. cit., pp. 52 ss.

280 R. Boyle, op. cit., pp. 363-366;SaraGobbato,“Dirittiesclusividiradiodiffusione:Ms Murphybattela Football Association Premier League”, Media & Laws, 05/10/2011, http://www.medialaws.eu/diritti-esclusivi-diradiodiffusione-ms-murphy-batte-la-football-association-premier-league/ (consultato il 31/05/2018).

281 Commessione Europea, “Mercato unico digitale: i negoziatori dell'UE concordano nuove norme che consentono agli europei di poter utilizzare i servizi di contenuti online in un altro paese dell'UE”, Comunicato Stampa, 07/02/2017, http://europa.eu/rapid/press-release_IP-17-225_it.htm (consultato il 31/05/2018).

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territoriali di geoblocking procede certamente nella direzione del Digital Single Market proposto per gli Stati dell’UE. Allo stesso tempo la “portabilità” dei contenuti in streaming riguarderà soltanto un arco di tempo limitato, non consentendo il cosiddetto “mercato degli abbonamenti streaming” tra paesi dell’UE.

Ferrero mostra282, infatti, come lo stesso mercato audiovisivo sportivo sia oggi sempre più influenzato:

• dalla fruizione dei contenuti audiovisivi sul Web, ed in particolare attraverso app per dispositivi mobile;

• dalla continua ascesa di nuovi player quali le piattaforme digitali OTT che si situano in posizione di rivalità/convivenza con i tradizionali attori del comparto televisivo, anche nella riproposizione di dirette ed avvenimenti sportivi;

• ed infine dalle mutate forme di fruizione che gli stessi OTT attivano, quali ad esempio la visione di contenuti on demand nei tempi e modi scelti dall’utente della piattaforma, favorendo un accesso alla partita ed alle competizioni in tempi personalizzati dall’utente.

In questo senso, Boyle evidenzia come: «the issue of live Internet streaming of content has also been a growing factor for right holders».283 Gli operatori televisivi sono spinti ad entrare in maniera sempre più decisa nello sviluppo di piattaforme di distribuzione di contenuti sportivi in streaming, dato l’alto potenziale di quest’ultimo settore. In questo modo la “battaglia” per i diritti audiovisivi sportivi inizia a farsi man mano più agguerrita anche sul nuovo campo delle piattaforme di distribuzione online di eventi sportivi live e on demand, con i tradizionali operatori televisivi che competono con i nuovi player OTT stand-alone. Anche le leghe e federazioni calcistiche hanno recepito il nuovo potenziale dato dallo sfruttamento e distribuzione di contenuti sportivi online, ampliando ed implementando la vendita di pacchetti ad hoc, come è il caso del “pacchetto C” presente nel bando di assegnazione dei diritti audiovisivi sportivi per la

282 MassimoFerrero,“Dirittisportivieconcorrenza–Unbinomio piùagevoleinfuturo?”, inSaraGobbato, Oreste Pollicino(acuradi), Eventi sportivi e diritti audiovisivi: le esclusive tra concorrenza e regolazione, Aracne, Roma, 2014, pp. 51-54.

283 R. Boyle, op. cit., p. 361.

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Serie A nel triennio 2018-21, pacchetto che appunto prevede la distribuzione e sfruttamento online ed instreaming deidiritti audiovisivi della suddetta competizione.284

3.3 Streaming calcio “pirata”

Per certi versi, la situazione sul piano dell’offerta calcistica online ed in streaming va sempre più “istituzionalizzandosi” grazie anche a diversi fattori concomitanti:

• sviluppo del modello di fruizione online e streaming su molteplici device quali smartphone, pc e tablet, oltre ai dispositivi di visione del contenuto online sulla TV come ad esempio Chromecast e le Smart TV in generale;

• aumento di valore, a fronte di una maggiore domanda, dei diritti di sfruttamento online da parte delle Leghe e Federazioni calcistiche per la distribuzione ed offerta dei contenuti sportivi disponibili in streaming da assegnare ai tradizionali operatori tv o a nuovi player OTT stand-alone, spesso assegnati attraverso “pacchetti ad hoc”;

• conseguente incremento dei portali e dirette streaming da parte dei tradizionali broadcaster in una posizione di rivalità/coesistenza con le nuove piattaforme digitali OTT stand-alone, specializzate sempre più nella distribuzione di eventi sportivi online.

Allo stesso tempo, il consumo “pirata” ed informale sia degli highlights di una partita di calcio, sia della diretta vera e propria, continua ad essere una pratica piuttosto diffusa. Prova empirica è l’elevato numero di siti web e portali che distribuiscono contenuto sportivo “non autorizzato”. Un articolo apparso su The Atlantic285 evidenzia proprio come la diffusione dello streaming “pirata” per le partite di calcio sia fortemente correlato al tifo per una determinata squadra di calcio ed alla condivisione dal basso tra appassionati, in un meccanismo in cui la componente informale di “reputazione” e quella del tifo si rafforzano a vicenda. Ciò è dovuto principalmente – come visto nel

284 Redazione Calcio & Finanza, “La Serie A alla sfida dei diritti sul web: ecco chi punta sul calcio in streaming”, Calcio & Finanza, 08/01/2018, http://www.calcioefinanza.it/2018/01/08/diritti-tv-serie-sul-web-pacchetto-cportabilita/ (consultato il 31/05/2018).

285 Terrance F. Ross, “Soccer’s Unsolvable Piracy Problem”, The Atlantic, 21/11/2014, https://www.theatlantic.com/entertainment/archive/2014/11/soccers-unsolvable-piracyproblem/383021/?single_page=true (consultato il 31/05/2018).

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paragrafo precedente – alla dispersione delle esclusive dei contenuti calcistici definiti premium tra diversi player televisivi, così come alla difficoltà di accesso rispetto ad una determinata località geografica non servita dall’offerta di quel determinato campionato o partita, e infine ugualmente importante è la gratuità di accesso al contenuto sportivo reso disponibile attraverso pratiche di “scambio” e condivisione tra tifosi ed appassionati. Lo streaming non autorizzato delle partite di calcio ha spesso la prerogativa di essere fruito live, ovvero nello stesso momento in cui si svolge l’evento sportivo, attraverso un investimento economico “informale” che il più delle volte si basa sulla componente del tifo e dell’aggregazione sociale. Uno dei punti di forzadella diretta sportiva è proprio rappresentato dall’imprevedibilità degli sviluppi della competizione, quest’ultima vissuta contemporaneamente da più spettatori/tifosi (cfr. par. 2.2). Da ciò ne consegue la rapida deperibilità di valore – sia informativo che economico – dello stesso contenuto calcistico, con una conseguente maggiore stretta dei detentori dei diritti sul contenuto live rispetto agli highlights on demand caricati dagli utenti in modo non autorizzato.

3.3.1 Highlights on demand

Il prodotto calcistico fruibile on demand è spesso costituito dagli highlights di una partita, dalle interviste dei giocatori nei pre e post gara, dalle conferenze stampa della squadra di calcio così come tutti quegli avvenimenti a latere della competizione e che coinvolgono le squadre di calcio. Il loro valore e numero di visualizzazioni decresce rapidamente all’aumentare del tempo trascorso prima e dopo la partita di calcio. Come mostrato da James Meese e Aneta Podkalicka,286 una serie di portali dalla struttura e dal web-design piuttosto professionale si propongono di recuperare questi contenuti nel mare magnum dell’offerta dispersa dei contenuti sportivi, configurandosi come una “zona grigia” semi-legale molto simile ai già citati cyberlocker e siti d’indicizzazione (cfr. par. 1.5). Fra questi si può citare il sito Footytube, il quale cerca di aggregare ed intercettare tutta una serie di contenuti sportivi sparsi sul web o registrati dai canali paytv. Footytube in questo caso cerca di accontentare una nicchia piuttosto ristretta di

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286 James Meese, Aneta Podkalicka, “Circumvention, media sport and the fragmentation of video culture”, in R. Lobato, J. Meese, op. cit., pp. 74-85.

appassionati e tifosi, la cosiddetta “coda lunga”. La qualità dei video è spesso bassa e –data la sua capacità di perlustrare il Web a livello globale – presenta il più delle volte una telecronaca in lingua straniera alla partita. Comune è infatti il secondary broadcast come ad esempio il broacasting di una tv latinoamericana o russa per una partita di Serie A, metodo attraverso cui si aggira l’eventualità d’intervento dei maggiori player detentori dei diritti – come è il caso di Sky, ad esempio – per quanto riguarda la grafica, il logo e l’“impacchettamento” del prodotto televisivo In questo modo viene a crearsi un vero e proprio archivio degli highlights, consultabile anche a distanza di mesi o anni dalla partita in questione. I maggiori “contenitori” degli highlights on demand rimangono comunque le piattaforme di video sharing, fra cui spicca ovviamente YouTube. Anche in questo caso YouTube adotta la già citata strategia “a due facce”: da un lato incentiva la condivisione di video e contenuti da parte di utenti/tifosi, ma allo stesso tempo attua quel «local control» in grado di accontentare sia i detentori di diritti (attraverso strumenti quali il Content ID), sia lo sfruttamento di dinamiche legate all’analisi dei dati e preferenze degli utenti. Anche in questo caso, il numero di visualizzazioni risulta decisamente ridotto rispetto alle dirette delle competizioni, che ovviamente rappresentano il core business su cui s’incentrano i diritti audiovisivi sportivi.

Un elemento ulteriore e piuttosto originale è rappresentato da brevissimi highlights caricati sulla piattaforma social Vine. Anche in questo caso si può riprendere il concetto di «ephemeral media» già esposto in precedenza (cfr. par. 1.4) per meglio descrivere la brevissima ed effimera durata di questo tipo di contenuti. Nel corso dei Mondiali di calcio del 2014 in Brasile, ad esempio, sono nati una miriade di micro-blog su Vine dove utenti e tifosi postavano brevi frammenti di sei secondi di highlights quasi in diretta rispetto alla stessa partita, spesso registrati dal televisore attraverso la funzione di replay e poi ripresi grazie alla fotocamera dello smartphone.287

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287 R. Boyle, op. cit., p. 371.

3.3.2 Live-streaming

Il live-streaming di contenuti sportivi non autorizzati – ed in particolare calcistici – si dipana in una costellazione di portali, siti Web e blog estremamente variegato e spesso resiliente al blocco o chiusura da parte dei detentori di diritti. Come evidenziato nell’intervista a Ben Nicholson di IMGMedia – già citata nel saggio diBoyle288 – spesso appare più conveniente e veloce, per chi detiene i diritti di sfruttamento, appropriarsi dei contenuti trasmessi in streaming e sfruttare gli introiti pubblicitari dai banner dei siti “pirata” piuttosto che avviare tutte le procedure per la chiusura o oscuramento di quest’ultimi. I portali in questione si comportano spesso come un aggregatore di link (indexing site) che rimanda ad altri siti dove effettivamente avviene il broadcast “pirata” e live della partita. Si va dai molto noti siti come Rojadirecta e Redstream ad altri microblog quasi sconosciuti.

L’accesso e la fruibilità del live streaming cosiddetto “pirata” risulta spesso molto difficoltosa e di difficile fruibilità a causa della presenza di una miriade di pop-up, banner pubblicitari, qualità dello streaming più o meno scarsa, audio assente o telecronaca straniera. Inoltre, la “vita” di ogni link può essere molto breve e durare giusto qualche minuto prima che questo scompaia, sia soppresso o più semplicemente possa crashare a causa di troppi utenti collegati al link. Proprio in riferimento alla negoziazione tra il tifoso/utente e la fruibilità/qualità spesso problematica ed incerta dei siti live streaming pirata, Florian Hoof289 applica il concetto economico di «digital lemon». Questo concetto è stato utilizzato originariamente da George A. Akerlof290 per descrivere l’incertezza del mercato delle auto usate. L’acquisto di un’auto usata – in base alle informazioni parziali di cui dispone l’acquirente – può infatti rivelarsi un affare ma può anche trasformarsi in un cosiddetto lemon, ovvero un prodotto che è sovrastimato per via di difetti tenuti nascosti. Nel caso del live streaming delle partite di calcio “pirata”, l’utente si trova nella stessa dinamica d’incertezza riguardo alla qualità, accesso e localizzazione dei link per lo streaming, così da trasformarsi in costi di tempo

288 Ibidem, p. 370-71.

289 Florian Hoof, “Live sports, piracy and uncertainty: understanding illegal streaming aggregation platforms”, in R. Lobato, J. Meese, op. cit., pp. 86-92.

290 George A. Akerlof, “The Market for ‘Lemons’: Quality Uncertainty and the Market Mechanism”, The Quarterly Journal of Economics, vol. 84, n. 3, agosto 1970, pp. 488-500.

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e ricerca per l’utente/fruitore. Inoltre, l’idea di lemon ben si presta al broadcasting dello sport proprio per la sua insita caratteristica di liveness. Infatti, a differenza del download pirata di film, serie tv o musica, la maggior parte del valore della partita di calcio risiede proprio nella sua fruibilità in diretta. Viceversa, la visione della partita registrata e a risultato già noto perde molto del suo potere attrattivo. In questo senso, un link di live streaming difettoso o di scarsa qualità aumenta estremamente il rischio, da parte dell’utente, di fallire nell’intento di fruire della partita in diretta, rendendo così l’incertezza del “mercato” del live streaming pirata molto vicina a quella del già citato «digital lemon».

Proprio per sopperire a questa possibilità, i portali di streaming pirata spesso offrono la possibilità di accedere ad un vasto range di link per lo stesso evento. A seconda del portale e del tipo di competizione, si possono infatti contare anche più di dieci link per la stessa partita. Ognuno di questi link ovviamente offre una diversa qualità di video streaming, un differente audio per la telecronaca ed una “vita” che può coprire l’intero corso della partita o soltanto qualche frammento, prima che lo stesso link sia oscurato.

È chiaro inoltre come la “qualità” del link per il live streaming sia incerta ed imprevedibile fino all’accesso e fruizione dello stesso link da parte dell’utente. Lo stesso Hoof291 individua una serie di elementi che rendono la fruizione di una partita di calcio in streaming “rischiosa” ed incerta (digital lemon, per l’appunto):

• cercabilità (ovvero la difficoltà nel rintracciare il portale di live streaming “pirata” o attraverso link che vengono resi noti sui social network);

• accessibilità (se l’accesso avviene attraverso il browser, app per dispositivi mobile o software dedicati);

• qualità del suono e dell’immagine (risoluzione dell’immagine, qualità dei pacchetti video in streaming e lingua della telecronaca);

• stabilità ed affidabilità (interruzione dello streaming a causa dell’intervento dei detentori dei diritti, problemi tecnici e di banda larga);

• pericoli di sicurezza (causati da malware e virus mentre si utilizzano piattaforme di streaming illegale).

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291 F. Hoof, op. cit., p. 91.

In questo senso il potenziale utente di live streaming “pirata” deve valutare i costi di tempo e ricerca per un link dalla qualità accettabile e piuttosto stabile in rapporto alla caratteristica live di una partita di calcio che perde sempre più il suo valore man mano che trascorre il tempo. Così facendo l’utente/tifoso “negozia” il proprio tempo ed una scarsa user-experience per fruire di un evento ubiquo (basta una connessione internet) che si svolge in un arco di tempo ben preciso e a cui altrimenti non potrebbe accedere per ragioni di prezzo (oneroso abbonamento ad una o più pay-tv) o territoriali. Il consumo informale del calcio in streaming diventa così una risposta alla crescente dispersione degli eventi sportivi su diverse piattaforme e broadcaster (i quali puntano all’esclusiva sugli stessi), al geoblocking imposto dai nuovi player OTT ed alla mancata copertura dell’evento sportivo da parte dei brodcaster nazionali. A tutto ciò si aggiunge il particolare statuto dell’utente/tifoso che può essere assimilato, per certi versi, a quello del fan di una serie tv o di un universo narrativo, comprese tutte le dinamiche di partecipazione e scambio reputazionale già introdotte in precedenza (cfr. par. 1.5).

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CONCLUSIONE

(La palla è mia. Telco e tech-firm alla conquista dello streaming)

Lo studio qui condotto ha evidenziato come l’aspetto non autorizzato ed informale del consumo streaming attraverso siti d’indicizzazione e cyberlocker abbia svolto il ruolo d’incubatore di pratiche poi apprese ed “istituzionalizzate” dai nuovi player dell’audiovisivo, in primis i nuovi SVOD quali Netflix e piattaforme di videosharing gratuite come è il caso di YouTube. Un esempio su tutti è il fenomeno del binge watching, modalità di visione continuitiva di una serie televisiva nata negli spazi informali di consumo divergente e poi istituzionalizzata attraverso un percorso di legittimazione istituzionale proprio grazie agli OTT stand-alone. In particolare, in una realtà mediale sempre più dominata dall’abbondanza di contenuti, a fare la differenza e creare nuovo vantaggio competitivo sono dinamiche legate all’user-experience, ovvero all’esperienza di fruizione, ricerca e consumo del contenuto attraverso cataloghi facilmente accessibili ed ubiqui. Le nuove realtà dei media vengono così a costituirsi come veri e propriecosistemi in gradod’inglobare sia gliaspetti di produzione chequelli di consumo, in un rapporto di reciproco scambio e negoziazione dove vengono intereressati più attori in un complesso multi-sided market

Un’altra traiettoria derivata dalla pirateria è l’aspetto per così dire “globale” del contenuto, il quale è reso disponibile su canali non autorizzati anche attraverso pratiche di aggiramento del geoblocking proprio in risposta ad un’esclusività locale e temporale

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data dalle tradizionali finestre di sfruttamento. I nuovi player, recependo questa tendenza e la facile disponibilità di contenuto digitale non autorizzato, si presentano come portatori di tendenze distributive globali e slegate da uno sfruttamento temporale, rendendo disponibile il proprio contenuto streaming nelle modalità anytime/anywhere e all-at-once. Allo stesso tempo, continuano ad essere presenti processi di “controllo locale” sui contenuti attraverso la creazione dicataloghi differenti da Paese a Paese (vedi Netflix) oppure attraverso il meccanismo di geoblocking dell’intera piattaforma streaming OTT (vedi Hulu per l’Italia) o ancora limitatamente ad alcuni contenuti che godono di un’esclusività territoriale (vedi YouTube ed i portali catch-up dei tradizionali broadcaster, ad esempio).

Nel comparto più propriamente televisivo, queste nuove tendenze introdotte dagli OTT di video streaming convivono e coesistono con i tradizionali modelli della televisione per così dire “lineare”, quali il palinsensto e la diretta, quest’ultima intesa come uno specifico televisivo via via più strategico in quanto spesso legata all’esclusività di un avvenimento da esperire hic et nunc. Anche l’accesso in streaming on demand di contenuto televisivo nella modalità catch-up su piattaforme istituzionali si configura spesso all’interno di una dinamica legata al palinsesto ed alle abitudini di fruizione proprie degli spettatori.

Le serie TV – sebbene rappresentino meglio di qualsiasi altro contenuto mediale il nuovo consumo on demand e personalizzato soprattutto attraverso la pratica del binge watching – mostrano segni di continuità proprio grazie ai particolari revival di show trasmessi dai broadcaster tradizionali.

Ad aver sempre più peso specifico sono inoltre i concetti di brand e social, entrambi in parte dervivanti dalle pratiche di reputazione ed interazione nate e sviluppare soprattutto all’interno degli interstizi informali di condivisione ed accesso ai contenuti. Il brand, infatti, lega e fidelizza il pubblico al proprio canale TV così da “marchiare” i propri contenuti altrimenti dispersi nel mare magnum dell’offerta digitale, in un rapporto di reciproco scambio reputazionale tra pratiche di consumo “a valle” e di produzione “a monte”. L’aspetto social delle nuove TV consente poi quel processo d’interazione e partecipazione che è la linfa vitale di quelle comunità fandom nate spesso su paesaggi non autorizzati e a margine della produzione istituzionale.

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Infine, si è visto come la pratica dello streaming pirata di una cosiddetta killer application per le TV italiane, ovvero la diretta di eventi calcistici, sia il risultato di una negoziazione economica informale tra:

• bassa user-experience e rapida deperibilità del contenuto live nei siti pirata, a fronte di una disponibilità gratuita;

• barriere d’accesso date dall’esclusività geografica e locale dei contenuti e dalla disperisione degli stessi contenuti premium su differenti canali pay e piattaforme televisive.

A conferma del valore sempre più strategico ed onersoso dell’evento calcistico sia per il comparto mediale che per le federazioni è stata evidenziata la cosiddetta “battaglia” per accaparrarsi i diritti di esclusiva sulle immagini di una data competizione sportiva. Il difficile ingresso (quantomeno in Italia) di nuove piattaforme streaming stand-alone, alla stregua di Netflix per le serie tv, conferma il forte ruolo di gatekeeper svolto ancora una volta dai tradizionali brodcaster, gli unici almeno in Italia a possedere ancora vaste properties, know-how e bacino d’utenza tali da soddisfare un prodotto televisivo così importante ed in grado di spostare gli equilibri fra un comparto mediale e l’altro. Se si torna all’aspetto già evidenziato nell’introduzione di questo lavoro – ovvero la stretta ed indispensabile connessione tra video streaming ed internet – nelle prospettive future di sviluppo dello streaming in tutto il suo spettro (in)formale uno dei temi che acquisirà via via più valore ed importanza sarà sicuramente il dibatitto sulla net neutrality e l’ingresso delle grandi cable company nel comparto mediale

La net neutrality è stata introdotta per la prima volta dallo studioso Tim Wu292 ed è intesa come un principio di design generale circa la struttura del Web. Nella pratica, la traduzione di questo principio implica il fatto che i gestori di rete (ISP) non possano creare delle «corsie di velocità preferenziale» per alcuni pacchetti dati, piuttosto che altri. In altre parole, la net neutrality sott’intende l’idea che sul Web il flusso dei contenuti e dei pacchetti dati dovrebbero essere trattati tutti allo stesso modo.

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292 Tim Wu, “Network Neutrality, Broadband Discrimination”, Journal of Telecommunications and High Technology Law, n. 2, 2003.

Nel dicembre 2017293 la Federal Communications Commission (FCC) ha approvato una misura che, di fatto, può mettere fine alla net neutrality nel mercato audiovisivo attualmente più evoluto, ovvero gli USA. Se questa misura verrà confermata in futuro, la velocità e priorità del flusso dati su Internet potrà essere decisa dalla contrattazione fra le grandi telco ed i content provider che producono e distribuiscono contenuti su Internet, quali ad esempio Netflix. In questo modo è piuttosto verosimile che compagnie telefoniche come Comcast, AT&T e Verizone (da sempre in opposizione alla net neutrality) potranno privilegiare certe piattaforme Web e determinati flussi dati di video streaming, dietro pagamento di un cospicuo compenso da parte delle suddette piattaforme. Quest’ultime potranno così usufruire di “corsie preferenziali” a scapito di altre piccole aziende che non potranno pagare il servizio. In un recente articolo apparso sull’Atlantic,294 lo studioso Larry Downes fa notare come le stesse aziende che fino a qualche anno fa difendevano strenuamente la net neutrality, adesso appaiono più restie ad intervenire nel dibattito pubblico. Un caso paradigmatico può essere rappresentato proprio da Netflix. Se l’azienda di Reed Hastings, nel 2014, si presentava ancora come la paladina della net neutrality, 295 a distanza di qualche anno e con il ripresentarsi della questione, lo stesso Reed Hastings ha affermato296 che il dibattitto sulla net neutrality non è più così importante per Netflix, poiché oramai la piattaforma OTT è abbastanza grande ed influente da ottenere qualsiasi tipo di accordo commerciale con gli ISP. Ciò che si può interpretare in filigrana da queste parole –sottolinea ancora Downes – è come questi colossi del Web abbiano ormai la forza e l’influenza per dominare il mercato e il flusso dei contenuti (ed in particolare lo streaming video) su Internet. Anzi, appare evidente che accordi circa corsie preferenziali

293 Pierangelo Soldavini, “Addio alla Net Neutrality: come potrebbe cambiare internet per gli utenti”, Il Sole 24 Ore, 15/12/2017, http://www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2017-12-15/comprendere-net-neutrality-e-perche-eimportante-noi-093818.shtml?uuid=AEFdrsSD (consultato il 31/05/2018).

294 Joe Pinsker, “Where Were Netflix and Google in the Net-Neutrality Fight?”, The Atlantic, 20/12/2017, https://www.theatlantic.com/business/archive/2017/12/netflix-google-net-neutrality/548768/ (consultato il 31/05/2018).

295 Reed Hastings, “Internet Tolls And The Case For Strong Net Neutrality”, Netflix Blog, 20/03/2014

https://media.netflix.com/en/company-blog/internet-tolls-and-the-case-for-strong-net-neutrality (consultato il 31/05/2018).

296 Tony Romm, “Netlfix CEO: Net Neutrality is no longer our ‘primary battle’”, Recode, 31/05/2017

https://www.recode.net/2017/5/31/15720268/netflix-ceo-reed-hastings-net-neutrality-open-internet (consultato il 31/05/2018).

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per certi contenuti e per piattaforme OTT con grande capacità economica possano andare a tutto vantaggio delle attuali aziende che dominano l’offerta streaming. Così le grandi telco americane – sia attraverso la futura creazione di corsie di velocità premium per il video streaming e sia attraverso integrazioni oblique nel comparto dei media al fine di creare immensi conglomerati – acquisiranno un ruolo sempre più strategico nella produzione e distribuzione di contenuto audiovisivo. Recenti rumor297 circa le acquisizioni degli asset multimediali Fox da parte della conglomerata Comcast (già proprietaria di Xfinity, NBC, Universal e Telemundo, fra gli altri) confermano proprio questa tendenza già citata da Schwarz come «accumulo corporativo» (cfr. par. 1.3).

Di fronte a questa spinta sempre più “istituzionale” nel campo dell’offerta audiovisiva e con l’ingresso di strutture fortemente integrate obliquamente, le piattaforme SVOD appaiono dei nuovi, fragili, attori lì dove il ruolo di gatekeeper e struttura “forte” è ancora una volta svolto dai giganti quali Google e Amazon, proprietari rispettivamente dei server dove “girano” i brani di Spotify e le serie tv di Netflix. Lo stesso si può dire a proposito delle grandi compagnie telefoniche le quali sono proprietarie, a loro volta, dei cavi e della tecnologia di delivery della rete Internet. Senza trascurare poi le grandi tech-firm come Apple, le quali posseggono la tecnologia, i device e più in generale gli “schermi” dove è possibile fruire di contenuti mediali in streaming. Lo stesso video streaming – che per molto tempo ha rappresentato il luogo di pratiche di consumo divergenti e quello d’incubatore informale di nuove forme di partecipazione e fruizione di contenuto mediale – diventa il territorio di “conquista” di nuovi player in grado di trarre vantaggio competitivo da queste pratiche, come è il caso degli OTT stand-alone. Al tempo stesso, quest’ultimi appaiono stretti nella morsa dei veri “proprietari”, ovvero di chi quei cavi, quei server e quegli schermi li gestisce, possiede e rende possibile la visione in streaming dell’ultima serie tv sul portale Netflix tanto quanto della partita di calcio su portali pirata e non autorizzati.

297 Redazione Il Sole 24 Ore, “Comcast prepara contro-offerta cash per gli asset multimediali Fox”, Il Sole 24 Ore, 08/05/2018, http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2018-05-08/comcast-prepara-contro-offertacash-gli-asset-multimediali-fox-091850.shtml?uuid=AECdWjkE (consultato il 31/05/2018).

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