24 minute read

Presentazione dell’iniziativa

Paolo Passaglia

Nodi virtuali, legami informali. Il titolo del nostro incontro richiede, probabilmente, una qualche spiegazione, anche se in realtà per tratteggiarla è suficiente attingere al serbatoio di concetti divenuti di uso tanto comune da potersi ormai bollare come banali. Sarebbe improprio, del resto, ambire ad accreditare come originale l’ideazione di questo incontro, che pare piuttosto il risultato della commistione tra una celebrazione ed una interrogazione, una celebrazione in parte indebita ed una interrogazione per certi versi smarrita.

Advertisement

Una componente di celebrazione, se così si può dire, era forse inevitabile, come attestato dallo stesso sottotitolo che è stato inserito, e che in effetti richiama due ricorrenze importanti, i trent’anni dell’Internet ed i venticinque anni del web in Italia, due ricorrenze che danno il segno dell’avvenuto passaggio della prima generazione in cui l’umanità si è confrontata con la rete. Il fatto è che la celebrazione troverebbe piena cittadinanza in un consesso di informatici, dove il progresso tecnologico spettacolare cui si è assistito, e che all’Internet di oggi ha portato, potrebbe essere adeguatamente analizzato e misurato nella sua grandezza.

In un convegno di giuristi, o comunque di scienziati sociali, la celebrazione suona, invece, come indebita. Ciò per almeno due motivi. Il primo è troppo evidente per essere taciuto, ma anche per essere enfatizzato, e cioè l’insuficienza delle competenze tecnico-scientiiche dei presenti – o almeno di parte dei presenti – per dare un quadro a tutto tondo del signiicato dell’avvento della rete. Il secondo, più pregnante, è che, in particolare per i giuristi, non c’è in realtà molto da celebrare, se non forse il crollo di antichi feticci, per riprendere l’espressione coniata, a tutt’altro proposito, da Paolo Barile. Più che da celebrare, c’è da interrogarsi, semmai. Di originale, in questo, sarebbe dificile trovare alcunché, visto che sono ormai anni, anzi lustri, che alcuni dei più grandi giuristi contemporanei, italiani (e siamo onorati di averne qui una rappresentanza più che qualiicata) e stranieri, si interrogano sull’impatto che la rete ha avuto ed ha sul diritto. Ma il fatto che questo interrogarsi, ancora, non sia venuto meno è il segno più tangibile di quella sensazione di smarrimento che colpisce chi si trova a dover reimpostare, o comunque a dover rivisitare criticamente, alcuni dei postulati, alcuni degli assiomi su cui ha ediicato la propria conoscenza della disciplina di studio.

Probabilmente risiede proprio in questo la vera ragione che ci ha spinti ad organizzare questo incontro: di fronte alle dificoltà, che – presumo – molti dei presenti avvertono, nell’irreggimentare in categorie «rassicuranti» fenomeni tanto nuovi quanto sfuggenti, si è ritenuto che il proporre una compartecipazione, una condivisione di esperienze e di rilessioni potesse essere un modo per stimolare la ricerca, se non altro attraverso il confronto con punti di vista diversi dai propri.

Se questa è, allo stesso tempo, l’occasio e la ratio di fondo del convegno, resta da spiegare – e tentare di giustiicare – la struttura che per esso è stata pensata.

All’uopo, conviene forse partire dai termini che sono stati utilizzati nel titolo.

Nodi virtuali. Il riferimento è, come è chiaro, ai nodi della rete, ma anche a quei nodi metaforici su cui la rilessione giuridica si arresta, per poi – auspicabilmente – svilupparsi. Avremmo potuto individuare arbitrariamente alcuni di questi nodi, ma la scelta è stata quella di chiedere agli interventori di proporne, in piena autonomia, limitandosi gli organizzatori a registrare e – al più – a catalogare le sollecitazioni pervenute. La catalogazione non doveva servire solo a ini logistici; e così non è stato: dall’insieme degli abstracts che sono giunti è emersa in maniera sempre più nitida l’esistenza di relazioni entropiche. D’altra parte, se la rete è un caos ordinato, non può stupire che tutte le rilessioni che da essa traggono linfa iniscano per trovare punti di contatto, una matrice comune, un terreno di dialogo. In quest’ottica, l’ideale sarebbe stato quello di procedere con un’unica sessione plenaria. Il numero di contributi che sono pervenuti – del quale, ovviamente, non possiamo che essere lieti, se non onorati – ha reso, tuttavia, indispensabile la strutturazione dell’analisi dei nodi all’interno di panels. Panels luidi, delimitati essenzial- mente – recte, orientativamente – in relazione al loro concentrarsi sulla dimensione individuale (panel A) o su quella sociale (panel B) oppure sulla interazione tra individui e pubblici poteri (panel C). Gli argomenti trattati sono molti; anche per questo, i coordinatori dei panels sono stati e saranno chiamati ad un’opera quasi maieutica in relazione all’individuazione di quel terreno comune cui facevo accenno poc’anzi.

Legami informali. Anche al riguardo si è cavalcata largamente l’onda dell’ovvietà. Quei legami, quei rapporti interpersonali – che il diritto è chiamato a regolare e, allo stesso tempo, è reputato idoneo a farlo (specie nella lettura che del concetto di diritto viene data nella tradizione continentale) – si de-formalizzano, si de-strutturano, nella rete, al punto che gli arnesi classici dello strumentario del giurista appaiono ora arrugginiti ora – più di frequente – semplicemente inadeguati. Ed allora diventa irrinunciabile l’apertura di nuovi sentieri di ricerca, in cui la componente giuridica è – persino per il giurista – solo una di quelle da cui si deve attingere. L’eterogeneità della provenienza culturale dei relatori della prima sessione vuole essere una testimonianza, non esplicativa, ma solo evocativa, una illustrazione in forma di sineddoche di quanto i vecchi steccati non abbiano più ragione di esistere, si tratti di quelli interni alla scienza giuridica – dove il clivage tra pubblico e privato va sempre più offuscandosi – oppure di quelli che si frappongono tra la scienza giuridica e le altre scienze sociali (ma non solo). Questi steccati sono, in effetti, destinati a dissolversi per il semplice fatto che è soltanto attraverso il loro superamento che si può quanto meno aspirare a dar conto della realtà che si è venuta strutturando nella rete, con la rete ed intorno alla rete.

La ricerca in questo campo ha in sé – per dirla in modo certo molto enfatico, ma forse blandamente indicativo – qualcosa di drammatico, che si manifesta nel cronico affanno di chi deve cercare di inquadrare fenomeni che sfuggono ad un inquadramento, di chi deve normare fenomeni che sfuggono alla normazione (perlomeno nelle forme tradizionali). Ciò perché, mentre ancora vanno ricercandosi o, nel migliore dei casi, vanno sedimentandosi le nuove categorie cui il giurista può far riferimento nell’approcciarsi all’universo-Internet, questo stesso universo ha un bisogno costante di regole, di modelli di comportamento, di una formalizzazione – almeno a livello embrionale – di quei legami informali.

Il bisogno si avverte per ciascuno dei nodi che, nati con e nella rete, da virtuali che appaiono prima facie non tardano a mostrare la loro concretezza. O la loro urgente concretizzazione.

Alla non compiuta concettualizzazione del «diritto della rete» (l’espressione – a questo punto spero che sia chiaro – è una mera contrazione, peraltro chiaramente scorretta, del richiamo all’insieme delle regole e dei modelli di comportamento validi e/o eficaci nella e per la rete) fa da contrappunto l’esigenza operativa di non lasciare la rete abbandonata all’anomia. In questo contesto si sviluppano quelle «regole» che governano la rete oggi, non da oggi ma forse da sempre.

Tenendo conto di questa tensione, inisce per imporsi una impostazione della ricerca che si muova in termini descrittivi, più che ricostruttivi, di un «sistema». In questo si manifesta, tra l’altro, il più marcato allontanamento rispetto alla tradizione giuridica di impronta razionalistica di cui l’Illuminismo ha permeato il modello di civil law: quell’affanno cronico che viene dall’impossibilità di ordinare un fenomeno troppo luido, perché troppo dinamico, sfocia nell’alternativa tra, per un verso, l’arrendevolezza di fronte allo iato che divide teoria e prassi e, per l’altro, l’opzione senza iningimenti in favore di un approccio di stampo empirista, veicolato dall’accettazione di ciò che esiste, senza però rinunciare a pretenderne la collocazione all’interno di una cornice generale, segnata dal rispetto di alcuni capisaldi irrefragabili. Altrimenti detto, il modello diviene, in un certo qual modo, quello dettato dall’accettazione compiuta del concetto di autonomia, modulato soltanto per il tramite dell’imposizione del rispetto di taluni principi cardine. Qualcosa di molto vicino all’approccio anglosassone al fenomeno giuridico, che condiziona il «diritto della rete» non solo (e probabilmente non tanto) sotto il proilo dei contenuti, ma anche (e soprattutto) sotto quello della ilosoia ispiratrice delle norme (scil., lato sensu intese).

La terza sessione di questo incontro, nella sua strutturazione, si è ispirata proprio a questo approccio, cercando di individuare alcuni possibili punti cardinali da cui rintracciare empiricamente quel tessuto connettivo che fa da base ad una comunità, dandole un senso, dandole forma; dandole, cioè, quel minimum di organizzazione che permetta, da un lato, di rifuggire da uno stato anomico in cui ad imperare è la legge del più forte e, dall’altro, di rendere assiologicamente accettabile, alla luce delle categorie – non tanto tradizionali, ma ideologicamente imprescindibili, un fenomeno conformatosi per via largamente alluvionale come è quello della rete. Perché se, con ogni probabilità, per il diritto della rete, non è più tempo di seguire l’insegnamento di Voltaire, che invitava a bruciare le vecchie leggi per farne inalmente di buone, è tuttavia indispensabile – e sempre più urgente – il rimettere al centro, puntellandoli, i principi conformativi dello stato costituzionale di diritto. Principi la cui vocazione universalistica non può ammettere una lacuna che copra proprio il veicolo principe dell’universalizzazione del XXI secolo. È un po’ come se, per la comunità transnazionale, si trattasse di redigere, con quei principi, un nuovo contratto sociale, un contratto sociale virtuale.

Osservazioni sparse su nodi, legami e regole su Internet Pasquale Costanzo

1. Premessa

La collocazione dell’incontro di studio nell’ambito dell’Internet Festival 2016 mi sembra particolarmente indovinata, considerata la tematica generale della manifestazione, che verte sui nodi e sui legami dei “tessuti digitali”, che metaforicamente tengono assieme la rete. Non c’è, infatti, qualcosa come la nozione di ordinamento giuridico capace di rinviare anch’essa all’idea di una rete di principi e di prescrizioni dotati della vocazione a regolare l’agire umano.

D’altro canto lo sviluppo stesso del diritto e del pensiero giuridico, oltreché delle relazioni sociali e dello stesso assetto politico-istituzionale, è inestricabilmente legato al progresso della scienza e della tecnica. In epoca moderna, basti pensare alle spinte che sono provenute dalla rivoluzione industriale, dal progresso dei trasporti o dallo sfruttamento di nuove forme di energia. E poi dallo sviluppo delle tecniche comunicative ino all’attuale società dell’informazione ormai ineluttabilmente contraddistinta dalla presenza possente e persino ingombrante del ciberspazio.

E per restare in tema di metafore, proprio il ciberspazio ne rappresenta una di grande presa psicologica volta com’è a designare un fenomeno sì “spaziale”, ma svincolato da ogni connotazione territoriale.

Caratteristiche che non sono sfuggite alla Corte Suprema degli Stati Uniti quando, nell’ormai famoso caso Reno c. ACLU del 1997, riconobbe che Internet è un mezzo unico e totalmente nuovo per comunicare attraverso il mondo intero, o al Tribunale costituzionale tedesco quando, nella decisione del 9 ottobre 2001, ha ragionato di un Neu- land per riferirsi alla rete, terminologia che sarà ripresa dalla cancelliera Merkel in una conferenza stampa tenuta con Obama del 2013 (Internet è un territorio nuovo per noi, ma naturalmente anche per i nemici del nostro ordine costituzionale democratico, che possono individuare nuove strade per mettere in pericolo i nostri modi di vita).

Anche per questi motivi, dunque, i giuristi si sono interrogati per tempo sugli effetti dell’imbricazione tra queste due trame: quella territoriale del diritto e quella virtuale della rete, la prima delle quali è costantemente messa in tensione dalla seconda, risoluta come appare a non consentire lacune di regolazione (a questo ine convergono non solo le norme, ma anche le varie giurisprudenze), mentre l’altra, refrattaria in gran parte agli stilemi di una regolazione tradizionale, reclama dagli ordinamenti (ed uso il plurale non a caso), per il ruolo centrale che ha ormai assunto su scala planetaria, un’attenzione mirata e speciica, smentendo coloro che amano ragionare di una neutralità del diritto rispetto ad Internet.

2. Quali regole per la rete

Il mio intendimento è qui dunque rilettere con voi sulle regole o meglio sulla consistenza delle regole che presiedono alla realtà di Internet (del loro tenore daranno invece ampiamente conto, sotto diverse angolazioni, gli interventi di questi due giorni).

Certo è che il rapporto tra regole e rete è parso e continua ad apparire talvolta controverso: andandosi dall’idea di una vera e propria anomia ontologica per il ciberspazio alla ritenuta non idoneità delle regole ordinarie per questo stesso fenomeno.

Si tratta, peraltro, di prospettive legate soprattutto a visioni lato sensu politiche della rete, ma che, almeno nella loro versione più radicale, paiono scontrarsi con la realtà e con le esigenze stesse di chi naviga in Internet.

La realtà appunto è data incontestabilmente da un itto intreccio di regolazioni, che si rivela dunque l’unica prospettiva con la quale sembra corretto e costruttivo da un punto di vista squisitamente giuridico confrontarsi.

3. La ilosoia hacker

Per chiarire meglio il mio pensiero, vorrei partire da uno slogan ricorrente da quando Internet esiste così come oggi lo conosciamo: ossia “libera rete in libero Stato”.

Lo slogan vorrebbe signiicare che le due realtà, quella isica e quella digitale, costituiscono due mondi separati e che nessuno di essi dovrebbe interferire sull’altro.

In altri termini, le regole dettate per i comportamenti quotidiani di noi tutti dalle leggi dello Stato non dovrebbero riguardare i comportamenti che noi teniamo nella nostra “seconda identità” di soggetti del mondo virtuale di Internet. Il che sarebbe quanto affermare l’assoluta autonomia della rete dalle regole comuni, in nome di una pratica sovranità dei suoi protagonisti. Così per fare un esempio tra i più vistosi, la repulsa delle regole “esterne” ha riguardato il diritto d’autore, la cui tutela è stata interpretata come un ostacolo alla libertà di movimento dei naviganti.

Di qui, il sorgere di una vera e propria “ilosoia” hacker.

Uso qui il termine hacker nell’accezione ormai invalsa in quanto la parola è stata inizialmente utilizzata per designare i componenti del primo gruppo di giovani ricercatori di università americane abili nello smanettare con la rete.

Attualmente, infatti, il termine designa qualcuno capace di intromettersi in un computer in maniera abusiva da non confondere invece con la “pratica” cracker, che, come rileva Manuel Castells, sarebbe invece mossa non da intenzioni anarchiche e libertarie, ma criminali.

Quest’ultima distinzione, alla quale, si badi bene, tengono gli stessi hacker, può forse meglio comprendersi, ricordando che appartengono al mondo dell’hackeraggio movimenti come Anonymous, sotto la cui etichetta si raccolgono i membri della comunità online che agiscono anonimamente spesso per difendere la libertà di espressione.

4. La “lex americana”

Ma cosa c’entrano gli hacker con il nostro discorso sulle regole?

C’entrano perché comunque anche il più abile e trasgressivo dei pirati informatici deve conoscere e tenere nel debito conto quelle che sono le regole fondamentali del funzionamento della rete. Sono queste le regole che fanno operare e progredire la rete e la cui inosservanza condannerebbe al silenzio chiunque avesse intenzione di navigare.

Ma chi è in grado di scrivere queste regole, che potremmo chiamare di “primo livello”? Per rispondere a questa domanda occorre avere in mente la storia stessa di Internet, delle sue origini e delle sue trasformazioni.

Si tratta, tuttavia, di una vicenda più che nota, che non mette conto di rievocare ancora, se non, appunto, per dire che, dal punto di vista del funzionamento di base, la rete è rimasta e rimane ancora per il momento unita grazie alla gestione centralizzata degli standard di interconnessione e del sistema DNS dei nomi a dominio, tutti compiti, però demandati all’ente di diritto americano ICANN, governata da una struttura in cui siedono rappresentanti governativi, di organizzazioni tecniche e di imprese private.

Ovviamente tutto ciò riuscirebbe incomprensibile se non si avesse presente che le regole di smistamento del trafico su Internet operano sui c.d. server radice, capaci di rispondere alle richieste DNS dell’Internet mondiale collocati quasi tutti in territorio americano, da cui si diparte la dorsale, il backbone che assicura il collegamento alla rete (per vero un debutto di democratizzazione in materia si è avuto allocando qualcuno di questi server fuori dal territorio americano).

Quanto appena detto porta, però, a rilettere su due aspetti fondamentali.

Il primo riguarda la supposta internazionalità della rete. Anche se indubbiamente Internet pervade tutti i Paesi, le regole che presiedono al funzionamento della rete non hanno infatti il carattere che normalmente si attribuisce al diritto internazionale. D’altro canto, se il diritto internazionale può intendersi come l’insieme delle regole giuridiche che disciplinano paritariamente i rapporti tra Stati e tutti i soggetti cui è riconosciuta una soggettività giuridica internazionale, il sistema di regole che regge il funzionamento Internet non promana tutto dal consenso o dalla consuetudine internazionale. E ciò accade proprio nei rami alti del sistema dove le regole basiche di funzionamento della rete sono ricomprese solo nella lex americana.

James Boyle uno studioso scozzese della proprietà intellettuale e uno degli ideatori dei cd Creative Commons ha espresso forte disagio

Osservazioni sparse su nodi, legami e regole su Internet di fronte a questo fenomeno di appropriazione dei beneici di Internet che ha paragonato al movimento inglese di privatizzazione dei beni fondiari comuni avvenuto nel XVII secolo.

Un’altra radicale critica direttamente nei confronti di ICANN è stata formulata da John Perry Barlow, saggista americano e noto difensore delle libertà digitali, che ha accusato l’agenzia americana di mancanza di credibilità etica per il fatto di non dover rispondere ad alcuno e di logica centralizzatrice.

In altri termini, se da un lato Internet ha rivoluzionato le telecomunicazioni internazionali, dall’altro il suo sviluppo si è avuto in assenza di soggetti intergovernativi, come avrebbero potuto essere ad esempio l’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni, e senza generare norme di diritto internazionale, come risultano invece essere le ITRs (International Telecommunication Regulations).

Il secondo aspetto concerne la speciale normatività della rete che è prodotta e promana da un’organizzazione tecnica in grado di controllare in maniera “sovrana” il ciberspazio e di regolare l’agire dei suoi abitanti e inanco di accertarne l’identità.

Di qui, in dal momento in cui è iniziata l’esplosione del fenomeno Internet, come strumento di comunicazione globale, di innovazione e volano del commercio internazionale, l’apertura di una battaglia sulla natura dei regolatori, ponendosi con sempre maggiore forza il problema di sottrarre il controllo della rete agli americani, quanto meno tagliando il cordone ombelicale tra il governo USA e ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers), l’ente su cui, a partire dagli ultimi anni della presidenza Clinton (1998), si sono addensati fondamentali incarichi di gestione della rete (occorre ricordare che tentativi in questa direzione sono stati esperiti anche in sede ONU ai Forum mondiali di Ginevra del 2003 e di Tunisi del 2005).

Benché l’espressione possa suscitare perplessità, siamo dunque di fronte ad un diritto che deinirei a connotazione imperiale, ma che per qualche aspetto potrebbe sembrare persino imperialista.

Trattiene però dal pervenire a questa radicale conclusione il fatto che la lex americana che sorregge la rete ha riguardato sinora solo l’impalcatura tecnica della rete e sporadicamente (o mai programmaticamente) i contenuti (tra le eccezioni, e non è senza interesse ricordarlo, il blocco del sito Wikileaks fondato da Julian Assange).

Quindi un imperialismo tecnologico e non ideologico teso ad impor-

Nodi virtuali, legami informali: Internet alla ricerca di regole re principi politici e sociali. Occorre infatti riconoscere che, fermo restando lo stretto legame tra ICANN e governo USA, la crescita della rete è avvenuta con un’ingerenza minima e discreta da parte di Washington.

Del resto, la libertà ideologica che caratterizza la rete si inquadra in una cornice di democrazia liberale e in una struttura economica capitalista, tanto è vero che essa si converte per i Paesi che la pensano diversamente in un ostacolo che si vorrebbe eliminare o almeno circoscrivere magari attraverso una governance della rete a più attori mondiali: ed è quello che da tempo stanno tentando di fare, ad es., Russia e Cina nei periodici incontri dell’Organizzazione Mondiale delle Telecomunicazioni.

Così che la strenua opposizione degli Stati Uniti al cambiamento inisce spesso per trovare giustiicazione anche nell’intendimento di non offrire copertura legale internazionale a misure di sicurezza che potrebbero violare i diritti umani.

Comunque sia non hanno ancora raccolto l’unanime consenso le modiiche proposte all’originaria regolazione del 1988 in occasione della Conferenza Mondiale sulle telecomunicazioni (UIT) al ine di rendere applicabili anche ad Internet e alla sua governance le nuove regole generali e in primo luogo la proposta di portare la governance di Internet all’interno dei processi intergovernativi e del diritto internazionale.

L’opzione statunitense è andata anzi in tutt’altra direzione rispetto a quella di immettere i singoli Stati nel governo della rete, scegliendosi invece la dismissione del Dipartimento del Commercio americano dal controllo di ICANN: e infatti dovrebbe essere abbastanza noto che il 1° ottobre 2016, l’amministrazione Obama ha compiuto questo storico passo indietro, sia pure pressato anche dalla necessità di decidere la questione prima delle elezioni presidenziali e quindi prima di un’eventuale vittoria di Donald Trump. Col risultato abbastanza scontato di suscitare le reazioni del candidato repubblicano, mentre, se non ha avuto corso il tentativo d’ingresso degli altri Stati nell’affare, può almeno pensarsi che questa prima presa di distanza americana possa esser stata di loro gradimento.

Si capisce, del resto, perché in un tale quadro gli ordinamenti più sensibili al problema assumano un atteggiamento difensivo, tentando di costruire delle trincee giuridiche contro temuti fenomeni di colonizzazione dall’esterno.

Esemplare in tal senso il caso del Brasile, che non rientra certo tra i Paesi iscritti nella lista dei nemici di Internet. La sua battaglia, soprattutto dopo la vicenda Wikileaks, è, da un lato, quella di scalzare il predominio americano sulla rete in nome della parità di tutti i soggetti interessati; e, dall’altro, di spianare la strada all’affermazione dei principi cardine della libertà di accesso ad Internet, della libertà di espressione, della tutela della privacy e della neutralità della rete. Questa battaglia, anche se non è stata chiaramente ancora vinta, ha però già prodotto in Brasile la fondamentale legge del 23 aprile 2015, recante il Marco civil da Internet, il cui duplice obiettivo è quello di proteggere le libertà fondamentali dei cittadini brasiliani e nello stesso tempo sviluppare una strategia di resistenza alle major statunitensi ritenute le teste di ariete della sovranità e della sorveglianza di massa americane.

5. Le International Telecommunication Regulations

Comunque sia, se è in terra americana che è allocato il livello massimo di normatività tecnica della rete, non si potrebbe però dire che l’infrastruttura globale appartenga agli Stati Uniti, per la semplice circostanza che anche come rete Internet è in realtà una sorta di metafora: non esiste infatti una rete unica, ma uno sterminato insieme di reti collegate tra loro, estremamente diverse che riescono ad interconnettersi e a dialogare grazie, come si è già ricordato, a determinati programmi o protocolli. Del resto, è per questa sua capacità di integrare operativamente in sé qualsiasi rete preesistente, che Internet viene spesso deinita come la rete delle reti.

In questo senso, la gestione in concreto delle singole reti telecomunicative resta appannaggio degli Stati che hanno i mezzi per esercitarvi il loro controllo.

Ciò nonostante, sembrerebbe poco sensato ragionare di fenomeni comunicativi circoscritti dentro le frontiere nazionali, attesa la vocazione di tali fenomeni a tracimare oltre queste frontiere sicché anche in questo caso, come per Internet, l’obiettivo di una comunicazione eficiente resta agevolato solo se sorretto da un adeguato livello di standardizzazione delle regole tecniche. Tuttavia a differenza delle già accennate regole di primo livello, nel caso dell’architettura tecnica delle reti di telecomunicazione, siamo in presenza di un alto tasso di internazionalità del settore, mentre anche sul piano politico si è posta la necessità di determinare regole condivise per la gestione e la fornitura di servizi di telecomunicazione internazionali.

Il riferimento è, all’evidenza al già citato accordo sulla liberalizzazione delle telecomunicazioni internazionali (ITRs, International Telecommunication Regulations) irmato nel 1988 in Australia, oggi ratiicato da 190 Paesi, e agli accordi successivi, ultimo quello sottoscritto a Dubai. Ma si è già detto delle dificoltà di implementazione di tali regole mediante la presa in carico di Internet, sicché, per quanto di ragione, Internet come infrastruttura globale risulta regolata a livello internazionale solo in misura modesta ed indiretta da quell’accordo; dove è, se mai, l’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni a fondare le sue strategie sui progressi realizzati nell’ambito della governance d’Internet.

6. “…to roast the pig”

Il discorso condotto ino a questo punto permette anche di abbordare il tema cruciale del ruolo dello Stato nel mondo di Internet.

Infatti, ferma restando la competenza regolatrice, mai contraddetta in linea di principio dello Stato circa i comportamenti tenuti in rete dai soggetti operanti nell’ambito territoriale sottoposto alla sua sovranità, il paradigma normativo tecnico ne istituisce però la misura della reale eficacia, a livello sia eteroregolativo (la governance di Internet), sia autoregolativo (il contesto internazionale).

Anzi, si comprende ancora così perché la battaglia per la sovranità statale su Internet sia ormai data per persa sul terreno tradizionale e venga invece combattuta su quello della normatività tecnica a monte e a valle dei comportamenti degli utenti.

A monte: si è accennato alla ilosoia assiologicamente neutra dell’impalcatura tecnica della rete e della conseguente pratica assenza di regole a favore di un’illimitata libertà di espressione. Filosoia non a caso sposata dalla più alta giurisdizione della culla della rete nella già ricordata sentenza della Corte Suprema Reno v. ACLU, che ha dichiarato l’incostituzionalità del Titolo V del Communications Decency Act, volto a regolamentare Internet e a vietare i contenuti indecenti e osceni sulla rete particolarmente nei confronti dei minori, ma reputato violare il Primo Emendamento che protegge la

Osservazioni sparse su nodi, legami e regole su Internet libertà di parola: la Corte ha riconosciuto in Internet uno strumento comunicativo straordinario imprevisto ed imprevedibile, per cui proibire a chiunque di postare contenuti offensivi su Internet per proteggere i minori sarebbe come “burn the global village to roast the pig”.

A valle: si è rivelato l’unico fronte dove poter intervenire tecnicamente per prevenire o reprimere i comportamenti illegali o comunque sgraditi al potere statale. Per cui, tanto per fare solo alcuni esempi, si va dalla gestione in regime di monopolio della fornitura di accesso alla rete, in modo da poter alla bisogna isolare con un colpo solo la rete telecomunicativa dal backbone verso Internet (ad esempio, nel 2011 a seguito delle proteste di piazza Tahrir, il governo egiziano ha tagliato le connessioni dell’Egitto con il resto di Internet. Questo è stato possibile perché i collegamenti dell’Egitto verso il mondo esterno sono controllati da poche grandi aziende) alla soppressione dei siti mediante il iltraggio da parte dei gestori dei server DNS delle richieste ai siti che si vogliono rendere irraggiungibili (ed anzi tali richieste possono essere catalogate per agevolare la persecuzione dei mittenti).

O, ancora, ai fornitori di connettività può essere imposta la cancellazione dei dati residenti sui loro server o chiesto ai motori di ricerca di depurare i risultati delle ricerche lavorando su parole chiave: è quest’ultimo il caso della collaborazione di Google con le autorità cinesi, di poi cessata a seguito delle aspre critiche suscitate (ora sono i cinesi a fare essi stessi il iltraggio ed è per questo che risulterebbe meno eficace …).

7. La neutralità tecnica

Tornando alla normatività tecnica della rete, può ricordarsi come essa sia all’origine di scelte fondamentali della relativa disciplina giuridica.

E ciò è avvenuto nel momento stesso in cui si è posto mano all’inclusione anche di Internet nella regolazione dello spettro comunicativo, specie a motivo della sua capacità di trasmettere la voce e le immagini. La presa d’atto, da parte del diritto, del fenomeno della convergenza al digitale può, com’è noto, farsi risalire al Telecommunication Act irmato da Bill Clinton nel 1996, che, per quanto ci

Nodi virtuali, legami informali: Internet alla ricerca di regole riguarda, ha anche anticipato soluzioni per Internet che hanno poi attraversato l’Atlantico come l’immunità dei provider per i contenuti di terzi sui propri servizi o l’inserimento dell’accesso alle reti nel fondo di inanziamento del servizio universale.

Ma in quegli stessi anni la problematica della rete intercettava negli Stati Uniti un’altra questione di vitale importanza, ossia quella della neutralità della rete medesima. Il punto è bene espresso da Al Gore nel 1994: «Come possiamo garantire che la neonata Internet permetterà a tutti di competere per la fornitura di qualsiasi servizio a tutti gli utenti che lo desiderano? Come possiamo garantire che questo nuovo mercato raggiunga tutta la nazione? Come possiamo garantire che Internet mantenga l’enorme promessa di formazione, crescita economica e creazione di posti di lavoro?».

È dunque sulla base del principio di neutralità che i fornitori di connettività e gli altri operatori della rete devono occuparsi di trasportare le comunicazioni degli utenti ino a destinazione senza discriminarle, ossia senza privilegiare o al contrario iltrare (rallentare) alcune applicazioni o alcuni contenuti in base a certe convenienze.

Si capisce allora perché tra i sostenitori della neutralità della rete vi siano soprattutto i difensori dei consumatori (che dovrebbero pagare di più per navigare ad una buona velocità) e le organizzazioni per i diritti umani (che temono per l’esercizio eficace della libertà d’informazione).

La neutralità della rete – si sostiene – è dunque uno dei principi fondamentali di Internet ed è necessaria sia per la sua libertà sia per il suo buon funzionamento tecnico ed economico.

Comunque sia non è senza rilievo che la questione della neutralità trasmissiva abbia costretto a mettere in chiaro le posizioni di certi attori mondiali circa il ricorso a questa normatività tecnica: lo stesso presidente Obama ha dovuto metterci la faccia, schierandosi alla ine a favore del principio di neutralità delle reti che forniscono accesso a Internet, ma anche servizi telefonici e trasmissioni televisive.

In seno all’Unione europea, la battaglia non è stata meno aspra che negli Stati Uniti, chiamandosi addirittura in causa il rispetto dell’art. 11 della Carta di Nizza relativo alla libertà d’informazione.

La vicenda, com’è noto, sembra essersi per il momento conclusa nell’agosto 2016 allorché, nelle linea guida del BEREC (Body of Eu-

Osservazioni sparse su nodi, legami e regole su Internet ropean Regulators for Electronic Communications), che riunisce i regolatori nazionali europea nel campo delle comunicazioni elettroniche, il principio di neutralità è stato chiaramente affermato scartandosi il rischio che secondo le compagnie di telecomunicazioni correrebbe la loro libertà d’impresa. Per cui, ad es., oggi, in base al punto 36 alle ricordate linee guida, si potrà dare gratuitamente l’accesso a certi servizi, ma non a un determinato operatore di questi stessi servizi.

8. Una Costituzione per la rete?

Mi sono attardato su questa questione perché mi pare particolarmente espressiva della situazione che sto tentando, forse un po’ confusamente, di delineare. Ossia che l’architettura stessa della rete risponde ad un ordine normativo di carattere tecnico, ma, come nella questione della neutralità, è vulnerabile rispetto a forme di manipolazione politica, sociale ed etica. La vicenda è, inoltre, esemplare di due diverse concezioni della rete: quella propensa a vedervi un insieme di opportunità tecnologiche per incrementare la ricchezza e quella fondata sul convincimento che si sia in presenza di uno spazio imprevedibile per l’esercizio delle libertà individuali e lo sviluppo della socialità. Ma tutto ciò rinvia al più generale problema se esista o sia possibile una legalità in Internet basata su una qualche scala di valori.

Purtroppo, il problema della normatività della rete non sembra vicino ad essere risolto tanto appare complesso un sistema che incrocia questioni tecniche, pulsioni economiciste e spinte assiologiche; e forse è anche improbabile che possa esserlo per una strada unica e una volta per sempre. E non è solo una questione di concorrenza di fonti di regolazione, coregolazione e autoregolazione, ma anche di livelli normativi plurimi a partire dal singolo navigante che, con il suo ingresso in rete, in certo modo realizza il suo precario e mobile ordine normativo.

E fors’anche l’idea di rinvenire una Costituzione di Internet espressiva di regole riguardanti il comportamento, la cultura e l’economia appartiene all’utopia, pur non dovendosi rinunciare a far salire le regole concernenti i contenuti circolanti in rete portandole al massimo livello di universalizzazione possibile.

Un’avvisaglia di un simile trend può forse scorgersi in una serie di atti quali le numerose dichiarazioni internazionali emesse in seno a diverse conferenze ed organizzazioni internazionali particolarmente sulle dimensioni etiche della società dell’informazione, che però non superano al momento il livello della c.d. soft law.

A parte i problemi di ordine politico generali, il problema di fondo, come può agevolmente intuirsi, è la stessa qualiicazione della natura di Internet per cui in modo meno metaforico del termine cyberspazio, si è ragionato talvolta, ad es., di “bene pubblico internazionale”, o di “bene comune dell’umanità”, ecc., cercando magari analogie con la situazione dell’alto mare o dello spazio extraatmosferico. Laddove, però, come è stato rilevato, non è tanto un problema di sfruttamento di un bene materiale, ma della libertà delle persone.

In questo senso, mi è parsa molto più persuasiva la deinizione fornitane dall’Unesco come servizio pubblico internazionale nel Progetto di codice etico per la società dell’informazione approvato il 30 marzo 2010.

Questo progetto, purtroppo e salvo errore, perdutosi nei meandri dei rinvii da una sessione all’altra dei vari organismi, presenta spiccate caratteristiche per candidarsi a testo costituzionale nel cyberspazio. Già la sua struttura era particolarmente suggestiva, articolandosi in Principi, Diritti e Libertà (e, al di sotto questa seconda etichetta, in Uguaglianza, Libertà di espressione, Tutela della riservatezza, Libertà di riunione e di associazione, Libertà di utilizzo della tecnologia a scopi creativi e Democrazia elettronica), quindi Responsabilità, a cui fanno capo Sicurezza, Legalità, Proprietà intellettuale e Responsabilità dei fornitori di servizi.

Comunque sia, l’idea di servizio pubblico internazionale mi sembrerebbe particolarmente utile anche per uscire dalle secche della discussione circa la conigurabilità o meno dell’accesso ad Internet nei termini di un diritto e circa l’utilità reale che tale problematica sia affrontata “autarchicamente” sia pure in carte nazionali di valore costituzionale.

In proposito, sono e resto dell’opinione che l’opinione di un diritto di accesso, costituzionalmente tutelato, ad Internet, di per se stesso e in se stesso considerato, abbia al momento fragili appigli nel tessuto normativo della Carta fondamentale, potendo, al più, valere, come una “metafora felice” di una serie di situazioni eterogenee e

Osservazioni sparse su nodi, legami e regole su Internet strumentali, queste sì, di valore costituzionale e irrefragabilmente idonee a signiicare la prosperità del connubio tra Costituzione e Internet. E tanto basta, a mio modo di vedere, per mettere l’accesso ad Internet al riparo da tentazioni limitative o repressive.

Più che di un diritto sembra lecito ragionare di una libertà costituzionalmente guarentigiata di accesso alla rete, intesa, se proprio si vuole, come “diritto” a che non siano frapposti ostacoli arbitrari al suo esercizio diversi dai condizionamenti derivanti dalla isionomia giuridica del mezzo.

E ciò nonostante le belle parole dedicate all’argomento dalla c.d. Carta dei diritti in Internet licenziata il 14 luglio 2016 (data fatidica il 14 luglio!) dalla speciale commissione di esperti insediata dalla presidente della Camera Boldrini a seguito della consultazione pubblica, delle audizioni svolte.

La Carta, però, ahimè, pur interessante da leggere perché riepilogativa di questioni di essenziale interesse per chi naviga in rete, è, oltretutto, priva (ma abbiamo visto che forse non poteva essere diversamente) di qualsiasi valore giuridico, restando una sorta di manifesto di intenti.

9. A mo’ di conclusione

Vorrei pertanto concludere con una rilessione presa in prestito da un ilosofo del diritto, secondo cui apparirebbe sempre più netto il paradosso in base al quale «la questione della normatività» della rete si accompagna alla certezza che non possiamo più conigurarla nella sua esigenza obiettiva, ma solo come il segno di una impossibilità radicale di appropriarci dei fondamenti normativi di pratiche comunicative in cui siamo chiamati sempre più ad identiicarci.

This article is from: