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Il Fascicolo sanitario elettronico nell'esperienza italiana...
L’esclusione può trovare origine sia nel c.d. digital divide sia nelle digital inequalities23 .
La prima espressione si riferisce alle disomogeneità nelle possibilità di accesso alla Rete24 mentre la seconda, alle differenze nelle capacità individuali di utilizzo dei mezzi informatici25 .
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Entrambi i fenomeni, che vengono ricondotti alle disomogeneità in termini di reddito e di livello di istruzione – accompagnate ad ulteriori variabili, quali la dimensione del nucleo familiare, l’età, il sesso e la localizzazione26 – sono piuttosto diffusi in Italia, ove si registrano rilevanti differenze legate al luogo (Nord-Sud), all’età (giovani e anziani) e alla condizione occupazionale del soggetto27 .
23 La distinzione tra le due categorie è stata elaborata in prima battuta da P. Norris, Digital Divide: Civic Engagement, Information Poverty, and the Internet Worldwide, New York, Cambridge University press, 2001 ed è stata successivamente ripresa in Italia da L. Sartori, Il divario digitale. Internet e le nuove disuguaglianze sociali, Bologna, Il Mulino, 2006.
24 La nozione di digital divide si è molto evoluta nel corso degli anni. Questo aspetto è adeguatamente evidenziato da L. Sartori, Il divario digitale: l’accesso, cit., 684, la quale afferma che «[d]a una deinizione semplicistica e polare (haves [ossia, quelli che avevano l’accesso ai mezzi informatici] e have-nots [ossia, coloro che tale accesso non avevano]) si è giunti a considerare […] il digital divide come un fenomeno multidimensionale, che va oltre la mera mancanza di un PC connesso alla rete. Una delle posizioni più recenti suggerisce di interpretarlo come un continuum lungo il quale sono individuabili diverse gradazioni di grigio che vanno dalla mera esclusione dall’accesso alla dotazione di strumenti (hardware e software) di ultima generazione».
25 L’espressione digital inequalities e, soprattutto, la sua autonomia rispetto a quella di digital divide sono legate alla presa di coscienza che l’accesso alla Rete non risolve tutte le possibili disuguaglianze, potendo queste ultime ricomparire sotto forma di diverse capacità di impiego della tecnologia informatica. Sul punto, non è mancato chi, in ragione delle differenze tra le due nozioni, abbia proposto di autonomizzare lo studio di ciascuna di esse. In questo senso, P. Di Maggio, E. Hargittai, C. Celeste, S. Shafer, From the Digital Divide to Digital Inequality: Studying the Internet as Penetration Increases, Princeton University Center for Arts and Cultural Policy Studies, Working Paper, 29, Autunno, reperibile su www.princeton.edu/-artpol/workpap29.html.
26 In questi termini, A.M. Pinna, L’economia/“Digital Divide”, in Equilibri, 3, 2001, 219 ss. nonché L. Sartori, Il divario digitale, cit, 690.
27 Per un approfondimento sulla situazione italiana, si veda L. Sartori, Gli italiani e il ritardo tecnologico, in Il Mulino, 2011, 2, 340 ss.
L’accesso al Fse e la gestione dei dati in esso contenuti presuppongono, da parte dei pazienti, la disponibilità di strumenti informatici e la capacità di utilizzarli28. Possibilità di accesso omogenee e una diffusa capacità di utilizzo delle tecnologie informatiche sono presupposti necessari per evitare che il divario si traduca nell’esclusione di alcuni (presumibilmente, i più anziani, ossia coloro che hanno maggiore bisogno di prestazioni sanitarie) dalla fruizione dei servizi sanitari telematici, con pregiudizio per un uniforme grado di tutela del diritto alla salute.
Questa criticità deve essere affrontata attraverso politiche attive, rifuggendo l’idea che tali differenze possano appianarsi spontaneamente con il passare del tempo29 .
Con speciico riferimento all’uso del Fse, si ritiene che l’impegno verso la riduzione dei limiti all’accesso e delle disuguaglianze debba seguire le seguenti tre direttrici.
In primo luogo, è utile che l’architettura informatica dei sistemi di Fse sia costruita nel modo più semplice possibile; analogamente è fondamentale che l’interfaccia attraverso la quale si accede al Fse sia semplice e chiara.
In seconda battuta, sarebbe opportuno che le strutture sanitarie organizzassero degli incontri nei quali spiegare, in modo semplice ed intellegibile, i meccanismi di utilizzo del Fse, soprattutto alle persone a maggiore rischio di esclusione, come le più anziane.
Inine, proprio per la popolazione più anziana, potrebbe essere disciplinato l’istituto della delega, ad un familiare o un parente di iducia, del potere di accedere al proprio Fse. È evidente che, al ine di garantire un’eficacia tutela della riservatezza sui propri dati sanitari, occorre che la regolamentazione della delega sia approntata con molto rigore. Quest’ultima, infatti, genera una dissociazione tra l’identità della persona che effettua l’accesso e l’identità digitale rappresentata dalle credenziali, la quale non corrisponde a quella del delegato.
28 Più in generale, sul fatto che l’alfabetizzazione informatica costituisca precondizione per l’esercizio dei diritti digitali nei confronti della PA, si veda F. Cardarelli, Amministrazione digitale, trasparenza e principio di legalità, in Dir. Informazione e Informatica, 2015, 2, 241.
29 Su questo aspetto, si sono fronteggiate negli anni due diverse teorie. La teoria della normalizzazione afferma che il tempo risolve spontaneamente il divario poiché anche coloro che, sotto il proilo della digitalizzazione, sono rimasti indietro saranno capaci di colmare il ritardo. La teoria della stratiicazione, invece, sostiene che soltanto speciiche politiche volte a rimuovere gli ostacoli all’accesso possono evitare, appunto, la stratiicazione delle disuguaglianze, che non sono in alcun modo capaci di dissiparsi da sole. Sul punto, L. Sartori, Il divario digitale: l’accesso, cit., 692.
Il Fascicolo sanitario elettronico nell'esperienza italiana...
Per far fronte a tale criticità, potrebbero essere fornite delle credenziali ad hoc al delegato, immettendo le quali il sistema riconosca che l’accesso è effettuato dal delegato e veriichi l’esistenza di una delega valida ed eficace30 .
4.3. Il delicato ruolo delle Regioni
In conclusione della relazione, pare necessario soffermarsi sul problema dell’interoperabilità dei sistemi informatici31 .
Il richiamato D.L. n. 179/2012 ha afidato alle Regioni (e alle Province autonome) il compito di istituire il Fse; il D.P.C.M. n. 178/2015 ha speciicato, nel menzionato Disciplinare tecnico, alcuni aspetti, di natura, appunto, tecnica, volti a garantire l’interoperabilità, ossia la possibilità per i sanitari di accedere a Fse relativi a pazienti provenienti da altre Regioni.
Al di là di queste disposizioni adottate dal Governo, la concreta implementazione dei sistemi digitali è stata dunque lasciata alle Regioni.
Sul punto, nonostante sia stato previsto l’utilizzo del Sistema Pubblico di Connettività (SPC) quale mezzo di “comunicazione” tra le reti, è stato rilevato in senso critico come la fase della concreta messa in opera dei sistemi non sia stata accompagnata da un’assidua presenza degli organi centrali32, in funzione di coordinamento, pur presente in fase di elaborazione della normativa, e come questa circostanza abbia determinato un’evoluzione a «diverse velocità» nelle diverse aree d’Italia33 .
30 Sul tema della delega per i servizi di sanità elettronica – in particolare, per il Fse – e sulle criticità che essa presenta, P. Guarda, Fascicolo sanitario elettronico, cit., 201 ss.
31 In generale, sul tema dell’interoperabilità tra i sistemi informatici delle PPAA, si vede, a titolo esempliicativo, D. De Grazia, Informatizzazione e sempliicazione dell’attività amministrativa nel “nuovo” codice dell’amministrazione digitale, in Dir. Pubbl., 2011, 2, 643 ss.
32 Così, P. Coletti, L’innovazione digitale nella amministrazione pubblica: le azioni delle Regioni, in Amministrare, 2013, 3, 471.
33 Ivi, 472, il quale guarda alla sanità digitale come caso esempliicativo dell’a-
Nodi virtuali, legami informali: Internet alla ricerca di regole zione frammentata delle Regioni rispetto all’impiego delle applicazioni informatiche sul territorio nazionale.
In questo senso, si può ben comprendere l’importanza di un’azione di effettivo raccordo tra le varie Regioni34. Il gap tra diversi territori dello Stato, infatti, rischia non solo di accentuare le problematiche, già presenti, di digital divide e digital inequalities ma anche di introdurre elementi di discriminazione nella tutela di un diritto fondamentale, quale il diritto alla salute.
34 Così, ancora P. Coletti, cit., 479.
Dall’anomia alla comunità organizzata: le regole per la rete e la dificile ricerca della loro effettività
Antonello Soro
1. La società digitale: vantaggi e vulnerabilità
Le tecnologie digitali hanno cambiato il mondo, l’economia, il lavoro; hanno dilatato le nostre conoscenze, migliorando in modo indiscutibile il nostro modo di vivere la quotidianità, tanto che nessuno oggi sarebbe in grado di privarsene.
Siamo cittadini del pianeta connesso.
La dimensione digitale è progressivamente diventata l’ambiente – aperto e accessibile – cui afidiamo parti sempre più importanti della nostra esistenza, sia privata che pubblica.
Ma quella che, abbiamo nel tempo deinito come la rivoluzione digitale, ha anche messo in evidenza le contraddizioni che ineluttabilmente accompagnano ogni mutamento epocale.
Nella nuova dimensione immateriale della vita può apparire velleitario garantire una tutela effettiva dei diritti.
Le esperienze di questi anni hanno dimostrato l’esistenza di una sorveglianza di massa che spinge verso la società del controllo e che rimanda al potere indiscusso delle piattaforme digitali che, nel ricostruire tutte le tracce che disseminiamo in rete, ci espongono ogni giorno di più al minuzioso monitoraggio delle nostre preferenze, abitudini ed attività.
I problemi legati al tema della sicurezza, del potere avvolgente dei motori di ricerca, della fragilità degli utenti digitali, della progressione incontenibile di informazioni che riversiamo in rete, sono fonte di crescente inquietudine.
Nodi virtuali, legami informali: Internet alla ricerca di regole
E a rendere lo scenario ancora più complesso si aggiungono le diffuse preoccupazioni in merito alle potenzialità – non ancora del tutto esplorate – dei Big Data, alla concentrazione e delocalizzazione dei nostri dati nel Cloud, ai pericoli – sempre più concreti – dovuti alle violazioni informatiche dei sistemi o delle banche dati.
L’espansione delle nuove forme di comunicazione, il conine sempre più sottile tra dimensione materiale e immateriale, la sorveglianza diffusa possono erodere i nostri spazi di libertà: nel mondo digitale siamo più vulnerabili, più esposti e meno protetti dalle insidie anche perché, affascinati dalla novità e dall’apparente gratuità dei servizi che ci vengono offerti in cambio dei nostri dati, dei nostri proili, diventiamo sempre più spesso internauti imprudenti.
2. Come opporsi alla “dittatura dell’algoritmo”?
Si tratta di aspetti sui quali è indispensabile una matura rilessione. Penso che non dobbiamo rassegnarci alla possibile deriva cui la società digitale ci potrebbe esporre, che la vera sida del nostro tempo sia quella di trovare l’equilibrio per essere insieme liberi e connessi, responsabili dei nostri comportamenti e partecipi della nuova stagione di innovazione e cambiamento.
Dobbiamo passare dall’anomia alla comunità organizzata.
L’esigenza di elaborare una governance della rete sconta inevitabilmente la dificoltà di disciplinare in modo adeguato fenomeni che hanno dimensione globale, di individuare e promuovere regole condivise in ordinamenti (e quindi in contesti sociali, politici, istituzionali) profondamente diversi tra loro.
Su questa prospettiva pesano nuove tensioni che rimandano a temi controversi: ad esempio la disciplina dell’anonimato che esprime, forse più e meglio di ogni altra questione, il rapporto tra autorità e libertà’ tra diritti individuali ed esigenze collettive; tra ragion di Stato e Stato di diritto.
Né può essere sottovalutata la dificoltà delle istituzioni nazionali ad esercitare una qualche sovranità tecnologica rispetto al potere economico e politico che fa capo a pochi soggetti che, in ragione di questa conoscenza esclusiva sfruttano l’assenza di conini che caratterizza il mondo digitale e si presentano come unici interlocutori per affermare – se non imporre – soltanto le loro regole e i loro interessi prevalenti.
La chiamano “dittatura dell’algoritmo” ma forse non è proprio così.
D’altra parte lo scopo delle piattaforme digitali non è certamente quello di rendere il mondo della rete più o meno libero, più o meno civile quanto piuttosto quello di continuare ad offrire nuovi servizi e diffonderli nel mondo.
Questa consapevolezza dovrebbe spingere tutte le Istituzioni, governi e parlamenti a svolgere in modo attivo i propri compiti anche nella dimensione digitale, in quegli spazi che comunque sono “popolati” dai loro cittadini.
So bene che le soluzioni non sono sempre agevoli da ricercare, ma certamente la rilessione su questi temi costituisce una premessa ineludibile per dominare la complessità del nostro tempo.
L’idea di una rete ingovernabile, di uno spazio aterritoriale e anomico dove è possibile violare impunemente i diritti, comincia ad essere scalita da un processo che, per quanto lentamente, è destinato a dare nuova centralità alla persona, partendo dalla considerazione che la tutela dei diritti fondamentali non possa essere lasciata ad una sorta di autodichia dei monopolisti di Internet, che occorra garantire nella dimensione immateriale la stessa tutela accordata alle persone nella dimensione materiale.
3. La centralità dei diritti della persona
Alcuni recenti passaggi hanno in questi anni segnato in modo concreto e signiicativo questo lento cambiamento.
Le rivelazioni di Snowden da una parte e, dall’altra, una più generale conoscenza dell’attività degli OTT (compresi i loro legami con le agenzie governative…ultima Yahoo…) hanno rivelato le gigantesche operazioni di sorveglianza elettronica che è possibile realizzare attraverso l’uso spregiudicato delle tecnologie e, soprattutto, hanno reso visibile il conlitto tra diritti e poteri globali, tra rispetto della libertà e potere di chi vuole esercitare un controllo sulle persone senza limiti e senza frontiere.
L’allarme prodotto ha diffuso a livello globale una prima consapevolezza sul valore che il diritto alla protezione dei dati deve avere nella società digitale: strumento necessario per per opporsi alle spinte, sempre più forti, verso una società della sorveglianza, della classiicazione e selezione sociale. Per difendere la libertà.
In Europa, la giurisprudenza, prima ancora della politica, ha maturato sensibilità ed attenzione verso le questioni poste dalla società digitale.
La Corte di giustizia, con una sentenza del 2014, ha cancellato la direttiva dell’Unione europea sulla conservazione dei dati di trafico.
Una direttiva giustiicata con esigenze di sicurezza che violava la Carta dei diritti fondamentali per carenza delle garanzie minime necessarie ad impedire che un prezioso mezzo di ricerca della prova potesse degenerare in uno strumento di sorveglianza di massa.
Il principio che l’ingerenza nelle nostre vite digitali debba incontrare necessariamente dei limiti, la Corte lo ha affermato anche, e soprattutto, nei confronti delle piattaforme tecnologiche, a partire dalla nota sentenza sul diritto all’oblio.
Il semplice interesse economico, nel caso speciico quello del gestore di un motore di ricerca, non può giustiicare la compressione del diritto all’autodeterminazione della propria identità, il diritto ad essere dimenticati rispetto, appunto, alla indicizzazione totalizzante delle nostre vite.
La memoria collettiva di Internet, accumulando ogni nostra traccia, rischia infatti di renderci prigionieri del passato, di un dettaglio, di errori da cui è impossibile liberarsi reinventando la propria personalità libera dal peso del ricordo e dal controllo sociale di chiunque possa accedere alla rete.
L’impostazione di fondo è forse cambiata e i diritti fondamentali, sacriicati nel nome della sicurezza e dell’economia, devono assumere un ruolo prioritario quando si opera un bilanciamento con interessi di altra natura.
Un’ulteriore signiicativa affermazione del rafforzato panorama dei diritti è rappresentata anche dalla nota sentenza della Corte sul caso Shrems vs Facebook, che ha dichiarato invalido il cosiddetto Safe harbour – l’accordo che consentiva il trasferimento dei dati verso gli Stati Uniti – per l’insuficiente tutela dei dati dei cittadini europei dalla massiva ingerenza delle Agenzie governative.
4. Il nuovo quadro giuridico europeo
In tale mutato contesto si inserisce il nuovo Regolamento Ue in tema di protezione dei dati che – tra l’altro – stabilisce il vincolo del nostro ordinamento per i servizi offerti dai grandi attori dell’economia digitale, sottratti in passato alla giurisdizione delle autorità europee.
E lo stesso Regolamento, il cui principale obiettivo è quello di adeguare le norme alla luce dell’evoluzione tecnologica, punta anche, e soprattutto, a rafforzare le tutele degli utenti: dal nuovo diritto alla portabilità dei dati ai limiti più stringenti per le attività di proilazione; da una maggiore attenzione per i minori che navigano in rete a modalità più adeguate per esprimere in modo consapevole – ma eficiente – il proprio consenso o esercitare il diritto di opposizione anche nel web.
Sono passi signiicativi che dimostrano la possibilità per l’Europa di guidare un processo virtuoso, di essere un riferimento globale nella complessa costruzione del nuovo diritto nella società digitale.
D’altra parte sappiamo che solo quando l’Europa parla con un’unica voce può affrontare e vincere le grandi side che trascendono i conini di un singolo Paese.
Una di queste ineludibili side è costituita dalla possibilità di garantire anche nella rete dei presidi sicuri, perché non esiste libertà senza responsabilità.
5. Per un uso consapevole della rete
E la prima “comunità” nella quale è sempre più necessario promuovere il rispetto della persona ed i più elementari principi di tolleranza è proprio quella degli utenti, dei cosiddetti web users.
Nel complesso sistema di Internet, della rete che avvolge tutto e tutti, non possiamo infatti più sottovalutare la preoccupante deriva dei comportamenti di quegli utenti che utilizzano in modo distorto le nuove forme di comunicazione.
Gli utenti da soggetti passivi si sono trasformati in parte attiva quali produttori di contenuti di ogni genere.
E spesso riversano in rete questi contenuti, senza alcuna remora, anche quando sono delicati, anche quando sono suscettibili di pregiudicare la loro riservatezza e la loro dignità.
Per altro verso le piazze immateriali dei social network e dei blog, create per interloquire con gli “amici” possono essere utilizzate come canali in cui si propagano ingiurie, minacce, piccole o grandi vessazioni.
Spazi non circoscrivibili, privi di conini di tempo, in cui spesso sbiadisce sino ad annullarsi il conine di ciò che è lecito ed accettabile.
Facebook, Google, Twitter, che gestiscono le principali piattaforme attraverso le quali i nostri pensieri, le nostre opinioni e le storie che raccontiamo diventano accessibili al mondo intero, da luoghi di incontro spesso si trasformano in luoghi dello scontro, dove il disprezzo e l’insulto sono tollerati come libere manifestazioni di espressione piuttosto che considerati segnali di imbarbarimento.
Le nuove forme di comunicazione offerte dai social network per esprimere in tempo reale le proprie opinioni e condividere dati (foto, messaggi, video), hanno progressivamente moltiplicato la capacità di intrattenere relazioni interpersonali ma hanno, ad un tempo, reso possibile veicolare in forma virale e incontrollabile contenuti lesivi della dignità personale.
Parole e immagini che verranno cristallizzate nella rete per un tempo ininito.
Tragici e recenti episodi di cronaca hanno squarciato il velo di generale indifferenza rispetto a quelle forme espressive presenti nella rete, agli effetti spesso drammatici prodotti da comunicazioni improntate a cattiveria gratuita, violenza verbale, piacere della gogna: un cortocircuito del pensiero.
Una comunicazione pervasiva, fatta di commenti, video, parodie, foto, usati spesso con incredibile ferocia per irridere gli altri e con una sopraffazione pari all’impotenza della vittima.
Naturalmente il problema non è la rete ma l’uso che se ne fa.
È evidente che si tratti di comportamenti che Internet agevola in quanto indebolisce le remore morali e rende gli utenti – non solo i giovani – più sicuri, disinibiti e meno responsabili delle proprie azioni permettendo comportamenti aggressivi anche a coloro che nella vita reale non avrebbero il coraggio di compierli.
Comportamenti favoriti, spesso, dall’errata convinzione che Internet possa garantire l’anonimato, oppure che esistano servizi o sistemi in grado di cancellare automaticamente le immagini od i messaggi scambiati: in realtà in rete tutto può essere tracciato, conservato e riproposto nel tempo, con gravi conseguenze per i soggetti coinvolti.
6. L’etica del digitale
Ma la rete è e rimane comunque un semplice mezzo che ci permette di comunicare con forme innovative, non la causa di tutti i mali delle moderne società.
Dobbiamo piuttosto chiederci se esso non sia la spia, in realtà, di una profonda mutazione culturale dove la gogna “mediatica”, il desiderio sfrenato di esibizione, l’intolleranza rancorosa non siano diventati uno stile di vita comunemente accettato, una cultura largamente presente – prima ancora che nella rete – nella politica, nei giornali, nelle televisioni.
E proprio in ragione di queste considerazioni, e soprattutto delle peculiarità della rete e di una comunicazione virale con i suoi effetti espansivi, non sempre la strada corretta da percorrere è quella di tentare di colmare lacune legislative – spesso solo presunte – con interventi normativi che rischiano di non adattarsi al mondo digitale.
Come nel caso della legge sul Cyberbullismo – appena approvata alla Camera – che presenta non pochi proili di criticità a partire dalla dilatazione del campo di applicazione; per altro verso non bisogna enfatizzare le misure repressive, che scontano la possibilità di interventi inalizzati soltanto a “contenere” gli effetti lesivi di comunicazioni distorte o offensive.
Le side che dobbiamo allora affrontare sono davvero tante e ogni discussione intorno al tema della “governabilità” della rete – con particolare riguardo a quello riferito ai limiti necessari per contenere le distorsioni presenti nei social network – non può prescindere dalla ricerca di soluzioni capaci di assicurare, ove necessario, tutele che siano concrete.
Devono allora essere in primo luogo implementate procedure condivise con i gestori delle piattaforme digitali per consentire alle vittime di comportamenti lesivi di effettuare valide segnalazioni e alle autorità di velocizzare l’oscuramento di contenuti offensivi. Una strada che, da tempo, la nostra Autorità percorre, anche in via collaborativa, con l’obiettivo di rendere tali misure ancora più eficaci.
Le molte esperienze dimostrano, infatti, che il tempo di intervento delle Autorità e le risposte dei gestori delle piattaforme alle diverse istanze devono risultare decisamente brevi.
Anche in questa direzione, dobbiamo registrare qualche signiicativo passo avanti, come dimostra il recente Codice di condotta sottoscritto dagli operatori con la Commissione Ue in tema di incitamento all’odio online.
Sono solo i primi passi.
I grandi operatori della rete dovranno prendere atto che non può esserci antagonismo irriducibile tra esigenze del “mercato” e riconoscimento dei diritti; che la tecnologia da sola non sempre permette di risolvere problemi complessi con un semplice click.
Soltanto se matura una nuova coscienza, un’etica della società digitale, sarà possibile ripensare al valore della rete e conciliare lo sviluppo ed il progresso tecnologico con i sistemi giuridici e valoriali del nostro tempo.
Occorre un rinnovamento culturale per educare gli operatori, le istituzioni e, soprattutto, gli utenti ad avere un rapporto equilibrato con le tecnologie, promuovendo l’idea che la presenza continua in rete e la velocità di connessione senza limiti non sono necessariamente il presupposto di una maggiore libertà.
Nel mondo digitale occorre essere cittadini prima che semplici proili o utenti.
La precondizione per avere successo risiede in un forte investimento, da parte di tutte le istituzioni, in educazione civica alla società digitale.
Questa sessione, la cui attenzione è focalizzata principalmente sugli utenti che, con le loro condotte, popolano Internet ha l’obiettivo di una rilessione sui limiti e le opportunità della rete, ma anche sugli strumenti necessari per renderla una dimensione dei diritti e delle libertà.
Marco Bani
1. Il ruolo dell’Agenzia per l’Italia digitale: migliorare il design dei servizi per rispondere alle vulnerabilità del presente
L’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID), che opera sotto la Presidenza del Consiglio, ha da statuto il dificile compito contribuire alla diffusione dell’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, favorendo l’innovazione e la crescita economica.
Il Nuovo Codice dell’Amministrazione Digitale (GU del 14 settembre il d.lgs. 26 agosto 2016 n. 179) conferma il ruolo di AgID nella deinizione di regole tecniche e principi, nella stesura della strategia e nella sua declinazione all’interno del Piano triennale dei sistemi informativi della pubblica amministrazione.
Come si traducono queste attività dell’Agenzia nell’impegno per garantire uguaglianza, libertà e diritti? Riesce un’agenzia statale giovane, veramente operativa da pochi mesi, a incidere nella complicata e liquida società di oggi, con la pervasività degli strumenti digitali e delle nuove connessioni sociali che si sono create?
Il compito dell’Agenzia è proprio questo: evitare che il pubblico sia a corto di soluzioni, di strategie e di regole nell’affrontare le vulnerabilità del presente, incapace di sfruttare l’onda lunga della digitalizzazione della società e di metterla davvero al servizio dei cittadini e non di qualche esclusiva piattaforma o compagnia privata.
L’Agenzia non produce prodotti o servizi. Non serve a niente realizzare qualcosa se poi i processi non cambiano. Un servizio digitale che replica i processi analogici non può funzionare, così non cambia la burocrazia, anzi si aggiunge un altro strato inutile.
La missione dell’Agenzia è quindi quella di sempliicare la vita dei cittadini, delle imprese e delle pubbliche amministrazioni, trasformando il rapporto con la burocrazia, sfruttando e sostenendo politiche di innovazione, indicando i migliori strumenti ed evitare uno spreco di risorse, umane e inanziarie. Prendiamo ad esempio i servizi digitali. In Italia abbiamo un triste primato: secondo il DESI (Digital Economy and Society Index https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/desi il sistema di benchmark delle politiche digitali più utilizzato in Europa) siamo tra i paesi europei con la maggior offerta di servizi digitali ma anche quelli che li utilizzano di meno. Non c’è una singola causa, ma un insieme eterogeneo di ragioni: scarse competenze, scarsa connettività, scarsa comunicazione, ma anche scarsa qualità dei servizi stessi. Per qualità intendo l’esperienza nell’utilizzare il servizio, che non deve essere considerata un tema superluo, un accessorio inutile che grava sulle esigue inanze di un ente pubblico. Al contrario, è un nodo essenziale di un più vasto orizzonte, vitale alla democrazia, alla trasparenza, alla qualità delle nostre vite. Servizi pubblici semplici, comprensibili, lineari che fanno risparmiare tempo al cittadino, che ti guidano verso quello che vuoi ottenere nel minor tempo possibile, senza creare altre domande. Una migliore esperienza nel rapporto con le pubbliche amministrazioni non alimenta forse la iducia nelle nostre istituzioni, non incrementa la trasparenza dei processi burocratici, non ci fanno più felici per il tempo risparmiato da lunghe code e da inutili reclami?
La “bellezza” estetica diventa quindi etica, un ine morale da perseguire per il bene comune.
I servizi si migliorano tramite il design, una parola inglese che signiica progettare, a sua volta derivato dal latino proiectare, gettare avanti. Questo signiicato rende bene l’idea: quando si progetta un servizio si deiniscono nuovi sistemi di relazione tra diversi componenti, lo spazio di interazione e si inluenzano nuovi comportamenti. È un approccio interdisciplinare che raccorda l’esperienza di chi usa il servizio con le operazioni di gestione di chi lo eroga, mantenendo visione olistica e cura per il dettaglio.