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Il concetto di “autonomia privata” ai tempi dei “Big Data”
Vincenzo Zeno-Zencovich
1. La punta di un iceberg
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Per cominciare, una metafora: si immagini che nel 1522, trent’anni dopo la scoperta dell’America, venisse redatta una carta del Nuovo Mondo, immaginando che essa lo rappresenti tutto. Si scoprirà solo nei decenni successivi l’immensità di quel continente e il pianeta non sarà più lo stesso.
Lo stesso può dirsi di un convegno che celebra, giustamente e degnamente, i trent’anni dall’avvio di Internet. L’impressione è che quel che conosciamo, o possiamo preigurare, rappresenti solo una minima parte di quanto scopriremo e cambierà la società.
Dunque una rilessione sulla “autonomia privata” si circonda di dubbi più che di certezze, prospettandosi l’ipotesi che essa sia – e diventerà sempre più – profondamente diversa.
Come il più delle volte avviene, il cambiamento è graduale, ma ad un certo punto esso si rende palese e lo si vede emergere con tutte le sue implicazioni.
Il punto di partenza è il “dato”, termine informatico espresso in forma binaria (una sequenza variabile di 0 e di 1). In origine questi dati (dalla data di un giorno ad un saldo contabile) sono contenuti nella memoria di un elaboratore all’interno del quale sono, appunto, elaborati. Sono esportabili attraverso un oggetto che ormai fa parte dell’archeologia informatica, il loppy disk, in grado di contenere meno dati di quanti ve ne siano contenuti oggi in una sola fotograia scattata con il nostro dispositivo mobile. Istituzioni pubbliche e grandi enti economici collegano gli elaboratori di cui dispongono raccogliendo i dati in un elaboratore centrale (altro termine archeo-
Nodi virtuali, legami informali: Internet alla ricerca di regole logico: “il cervellone”). Si tratta però di raccolte di dati omogenei, che dificilmente si rapportano ad altri, li integrano e ne sono integrati. Il punto di svolta è rappresentato, nei primi anni ’90, dalla interconnessione degli elaborati individuali alla rete di telecomunicazioni e alla ricerca, trasmissione, reperimento di dati attraverso il protocollo che ormai viene comunemente chiamato “Internet”. Ciascun elaboratore genera dati – sulla sua attività, su quanto reperisce ed eventualmente modiica – ridiffondendoli. All’inizio il fenomeno riguarda solo i terminali collocati in un ambiente domestico o lavorativo, “issi”, e dunque utilizzati solo quando ci si trova in quell’ambiente. Ma alla ine del secolo con l’avvento delle reti di telefonia mobili di c.d. terza generazione questo scambio e questa produzione di dati diventa costante, durante tutto l’arco della giornata, ubiquitaria.
Si arriva quindi a cercare di fornire una dimensione alla quantità di dati prodotta e, ovviamente, conservata: misura calcolabile in zettabyte, ovverosia 107: cioè mille miliardi di miliardi sarebbero i dati generati nel 2015 sulla sola rete Internet (e dunque mettendo da parte le altre reti che pure esistono).
Si tratta di un fenomeno in inarrestabile espansione, non solo perché queste moli si aggiungono a quelle precedenti ma anche perché i dati, se non “archiviati”, producono naturalmente altri dati. Ma vi è di più: con la diffusione delle procedure deinite come “Internet delle cose” (Internet of Things) per la produzione di dati non ci sarà più bisogno di un intervento umano, come avviene oggi con l’agente che usa un terminale. Saranno – sono già – gli oggetti a rilevare e comunicare costantemente dati senza alcun intervento umano: le autovetture sulla loro posizione, movimento, uso; le utenze energetiche sugli ambienti nei quali si trovano; gli elettrodomestici sul loro uso e contenuto; ino – così si prevede – ai semplici oggetti di consumo (ad es. un alimento con scadenza) che segnaleranno la loro posizione e condizione.
2. Cosa è il “sé” nel mondo dei “Big Data”?
Di fronte a questo universo, in costante espansione e dificilmente controllabile, qual è il senso di “autonomia”?
Non per arida esegesi conviene scindere il termine nei suoi due lemmi.
Il concetto di “autonomia privata” ai tempi dei “Big Data”
Cosa intendiamo per autos nel mondo dei “Big Data”? Fino ad ora abbiamo pensato ad un unico soggetto – una persona isica o giuridica – con una sola identità non solo in termini giuridici (anagraica, iscale ecc.) ma anche come arteice e controllore di questa identità. Già oggi possiamo dire che ciascuno ha una duplice identità, quella isica, collegata alla sua persona; e quella digitale composta da milioni di dati che lo riguardano e che costituiscono l’insieme dei dati su tutto quello che quel soggetto ha fatto sulla rete, anche in maniera del tutto passiva. Pensare di esercitare su tale vastità di dati una qualche forma di “autodeterminazione informatica” (in ipotesi utilizzando l’elefantiaco “Regolamento generale sui dati personali” di recente approvato dall’Unione Europea) costituisce un benevolo auto-inganno. Salvo rari casi i dati (ma quali? i c.d. metadati, cioè i dati che forniscono informazioni su altri dati, vi rientrano?) non sono rintracciabili e compattabili ma sono dispersi in quel che viene deinita la “datasfera”.
Mentre con riguardo alla identità isica, percepita e conosciuta da altri esseri umani, le vicende di ciascuno hanno un percorso temporale che va dalla nascita alla morte, la identità digitale è schiacciata sul presente: si è l’insieme di tutti i dati che riguardano il soggetto, in quel momento, senza alcuna rilevanza del “passato” che costituisce solo un altro dato la cui importanza sarà misurata attraverso un fattore T.
In un futuro assai vicino, a queste due identità, isica e digitale, se ne aggiungerà una terza, artiiciale, costituita dalla duplicazione, sempre più realistica, degli esseri umani con automi [robot] i quali sono in grado non solo di parlare e muoversi nello stesso modo del soggetto isico, ma soprattutto di svolgere ragionamenti coerenti con il soggetto duplicato e sostituitivi di sue scelte e manifestazioni di volontà. Si tratta solo di una delle tante applicazioni della c.d. intelligenza artiiciale, già ampiamente sperimentata e utilizzata in congegni molto soisticati (si pensi alle auto senza conducente).
Non è questa la sede per affrontare complesse questioni di riferibilità e di responsabilità. Quel che importa evidenziare è la pluralità di soggettività la quale altera profondamente la nozione, unica, di autonomia che ino ad ora si aveva.
3. Norme, regole e diritto nel mondo digitale
Se si sposta l’analisi sull’altro lemma, il nomos, il disorientamento si accresce. Chiaramente siamo tutti ben consapevoli da quando più di 15 anni fa Lawrence Lessig ha pubblicato il suo fortunato e preveggente volume, che nella società digitale “Code is law”. E questo lo sperimentiamo nella vita quotidiana in cui l’agire sulla rete è condizionato dal conformarsi a determinate regole issate nei “campi” che devono essere riempiti e la cui tassatività è stabilita non da una norma promanante da una autorità, ma da decisioni prese da tecnici informatici e da chi ritiene che quei dati sono necessari per la prestazione di un servizio.
Più le attività umane si spostano dalla realtà materiale alla rete, più constatiamo lo spostamento dei soggetti decisori verso persone dotate di competenze assai distanti da quelle ordinariamente richieste per la determinazione di regole, cioè conoscenze giuridiche. Tale migrazione è, come sempre, lenta, ma dà vita ad una nuova “classe” di detentori di un potere decisionale che inluenza tutta la società che deve conformarsi alle sue indicazioni. Una “classe” diversa non solo per formazione ma anche per una generale indifferenza nazionale (le soluzioni tecniche valgono quasi ovunque, a parità di tecnologia) e per la presenza di un linguaggio informatico e anglo-gergale comune.
Tutto questo era stato previsto. Ma la dimensione dei “Big Data” porta a conseguenze la cui portata dirompente è particolarmente evidente per il giurista.
Il giurista, da sempre, opera utilizzando principalmente due registri, che si tratti dei dieci comandamenti o le migliaia di articoli del Codice bavarese del 1756.
Il primo è deontico. La norma esprime un dover essere che precede qualsiasi inalismo e risponde a fattori assiologici, piccoli o grandi che siano (dal non ammazzare, al luogo di adempimento dell’obbligazione).
Il secondo registro è la natura prescrittiva della norma. Essa guarda al futuro e mira a indirizzare condotte future. Prescinde dall’esperienza pratica – tipica delle scienze sociali le quali non prescrivono, ma descrivono – anche se può (e sarebbe bene che fosse così) tenere conto del passato.
4. Il cambiamento epistemologico
Nel mondo dei “Big Data” cambia radicalmente la epistemologia, ovverosia il modo attraverso il quale si conosce il mondo. Innanzitutto conta quanto può essere contato, ovverosia misurato con una espressione numerica o algebrica. Ovviamente è dificile attribuire un numero, se non arbitrariamente, ai valori. In secondo luogo conta – conta di più – ciò che è prevalente e su tale prevalenza si fanno scelte e pianiicazioni. La tipizzazione dei comportamenti sociali si traduce in un formalismo digitale che prevede solo poche e numericamente signiicative opzioni.
Si passa dalla antichissima (Socrate e Platone) logica causale, che spiega i ragionamenti secondo una spiegazione passo-passo, ad una logica inferenziale (se A, è probabile B) basata sulle connessioni che vengono stabilite (talvolta in materia del tutto arbitraria: ad es. la correlazione fra risultati sportivi e quotazioni di borsa) interpretando la enorme mole dei dati.
Ma quel che colpisce di più il giurista e la sua attenzione verso la dimensione della autonomia, è che la logica inferenziale non è utilizzata solo per comprendere ciò che è avvenuto, ma anche e soprattutto in funzione predittiva. La c.d. predictive analytics diventa dunque lo strumento attraverso il quale vengono prese decisioni che riguardano la collettività (legislative, regolamentari) o l’individuo (orientamento al lavoro, indagini penali). Gli esempi più evidenti sono l’uso che già ora viene fatto di tali strumenti nelle procedure di scelta di assunzione di un lavoratore o di una lavoratrice. Oppure nella stipula di un contratto di assicurazione e a quali condizioni. Con il che alcuni principi che sono fra i capisaldi del diritto contemporaneo, quello di eguaglianza e di non discriminazione, sono messi in crisi, e si torna ad un conlitto, le cui radici vanno ben oltre la ilosoia e affondano nella religione, fra determinismo e libero arbitrio.
5. L’attualità del pensiero di Vittorio Frosini
Le rilessioni che precedono potrebbero apparire espressione di un nichilismo giuridico preconizzante la “ine del diritto” travolto dalla inarrestabile forza dei dati e degli algoritmi. Non è però così: il giurista, molto più di studiosi di altre branche, è in grado di comprende-
Nodi virtuali, legami informali: Internet alla ricerca di regole re alcune intime essenze dell’informatica. E questo non solo perché da oltre 50 anni (Cibernetica, diritto e società di Vittorio Frosini è del 1966), studia i rapporti fra diritto e informatica e dialoga con gli esperti della materia, ma perché da più di duemila anni il diritto segue e si sviluppa utilizzando la logica il cui percorso, lo sappiamo da tempo, può essere agevolmente formalizzato (e informatizzato). In secondo luogo, il diritto condivide con l’informatica una funzione performativa. La norma giuridica, come l’espressione di programmazione, punta a regolare un fenomeno, un agire. Lo fa avendo come principale destinatario gli esseri umani e la loro volontà. Con il che si torna al discorso sulla autonomia da cui si è partiti e al suo atteggiarsi nella contemporanea società digitale.