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3. Strumenti giuridici attualmente vigenti
3.1. La diffusione di false notizie
La norma penale più idonea alla censura delle bufale è quella del reato contravvenzionale di diffusione di false notizie (art. 656 c.p.) su cui si è pronunciata tre volte la Corte Costituzionale, salvandone il contenuto (sent. 19/1962; sent. 199/1972.; sent. 210/1976.) e rideinendone la fattispecie in maniera costituzionalmente conforme. La Corte nella sent. 19/1962 ha inteso il reato diffusione di “notizie false, esagerate e tendenziose” come espressione di un’endiadi36: legittima è la censura solo di quelle notizie totalmente false o talmente alterate (nella tendenziosità della narrazione) da distorcere la verità dei fatti. Pertanto nella costruzione della Corte la fattispecie punibile sarebbe solo quella della diffusione di notizie false totalmente o parzialmente: «Infatti, qualora si addivenisse all’interpretazione per cui la notizia esagerata potrebbe non essere falsa e quella tendenziosa non lo sarebbe affatto, perché sarebbe una notizia vera presentata in modo tendenzioso, si costruirebbero limiti alla libertà di opinione decisamente contrastanti con l’ampiezza di previsione dell’art. 21 Cost.»37 .
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La fattispecie va interpretata dunque come legata esclusivamente alla diffusione di notizie false e non al commento (diritto di critica): le congetture, le interpretazioni e i commenti, ancorché fantasiosi in relazioni all’analisi di future conseguenze di fatti veri, non integrano il reato in oggetto38 come anche le valutazioni ideologiche tratte da fatti speciici tratteggiati in maniera generica39 o non ancora accertati40 .
36 Sulla ricostruzione della fattispecie come endiadi si è assistito, come denunciato dai giudici che sollevarono le altre due questioni di costituzionalità, a una disobbedienza della giurisprudenza ordinaria. Cfr. per la giurisprudenza che non riconosce l’unicità della fattispecie come imposto dalla Corte Costituzionale G. Masante, In tema di pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, in Giur. It., 1970, pt. 2, 151. Secondo alcuni questo sarebbe dovuto alla riscrittura della norma rispetto a come questa era applicata dai giudici ordinari. Bruti Liberati, cit., 126. La Corte Costituzionale ha però sempre riconfermato la natura dell’endiadi nelle successive sentenze.
37 E. Dinacci, Divulgazione di notizie false, in Treccani.it, 2014. Cfr. Alessandri, cit., 722. Questa interpretazione che sembra effettivamente quella più plausibile accomoderebbe anche i dubbi di P. Barile, La libertà di espressione del pensiero e le notizie false, esagerate e tendenziose, in Foro it., 1962, 1, 855.
Perché la notizia si coniguri come diritto di cronaca basta che sia presente la forma dubitativa e una veridicità minima, soprattutto ove la verità dell’informazione possa essere appurata solo mediante indagini di polizia41, analogamente anche fatti probabili/futuri di cui il giornalista abbia avuto notizia non possono integrare la fattispecie della diffusione di false notizie42. La stessa è punibile sia a titolo di dolo che di colpa, salvo errore inevitabile43 .
In questo modo la tutela dell’informazione è garantita e non si addiviene a indebite e pericolose opere di silencing. Tuttavia per la punibilità delle stesse, secondo la Corte Costituzionale, è necessaria l’idoneità delle notizie false a causare un turbamento dell’ordine pubblico44: la conigurazione è quindi quella di reato di pericolo concreto.
Cercando di conigurare tale reato in relazione alla fattispecie della bufala serve svolgere qualche considerazione: il carattere della diffusione è integrabile mediante lo strumento della rete Internet e dei social network, inoltre la punibilità a titolo di colpa renderebbe sanzionabile anche l’utente che impropriamente condivida la notizia, non veriicando l’attendibilità della sua fonte.
Altri proili tuttavia tendono a rendere inapplicabile il reato in oggetto. Il carattere di reato di pericolo concreto limiterebbe la sanzione penale alle sole bufale idonee a provocare – in una sorta di istigazione indiretta – un pericolo concreto per l’ordine pubblico45 ,
38 Trib. Meli sent. del 15/01/1980. Cass. pen. sent. del 11/1/1977.
39 Trib. Prato sent. del 20/05/1969.
40 Trib. Milano sent. del 10/04/1972.
41 G.i.p. Milano sent. del 16/05/2011.
42 Cass. pen. sent. del 11/01/1977.
43 Cass. pen. sent. del 9/04/1974.
44 Corte Cost. sent. 19/1962 e 199/1972. La giurisprudenza ordinaria si è divisa fra orientamenti fedeli alla costruzione del reato di pericolo concreto (Cass. pen. sent. n. 9475/1996; Trib. Roma, sent. del 15/10/1981) e orientamenti che ritengono suficiente il pericolo astratto (Cass. pen. sent. del 4/02/1976; Pret. Cagliari, 16/04/1969).
45 L’introduzione della fattispecie di reato di pericolo concreto sarebbe legata per con l’esclusione di tutte quelle non idonee a provocare una reazione immediata.
Il reato quindi risulta dificilmente applicabile alla fattispecie delle bufale e non sembra esser mai stato applicato in relazione alla diffusione online e sui social network. Serve peraltro evidenziare che anche qualora il reato fosse applicato, risulterebbe probabilmente ineficace dati i tempi processuali e l’irrisoria pena (l’arresto ino a tre mesi o l’ammenda ino a 309 euro).
3.2.
La diffamazione
Una norma sicuramente applicabile alle bufale online qualora colpiscano un soggetto individuato è quella del reato di diffamazione (art. 595 c.p.). La diffamazione è reato che protegge il bene giuridico onore, che è leso quando diffondendo il messaggio a più persone si attribuisce un fatto falso a un determinato soggetto.
Secondo giurisprudenza consolidata si prevede l’inquadramento di un’espressione come diritto di cronaca se: i) è rispettato il principio di verità, ossia vi è corrispondenza fra fatti narrati e fatti accaduti (salvo l’irrilevanza di fatti secondari46) o perlomeno vi è un controllo sulle fonti47, assumendo valenza l’errore scusabile; ii) vi è interesse pubblico (pertinenza) a conoscere la notizia (che per alcuni48 ricomprende il carattere veritiero della notizia in quanto non vi è interesse pubblico a conoscere una notizia falsa); iii) vi è continenza nella narrazione della notizia.
Oltre alla cronaca la diffamazione va anche distinta dal diritto di critica che «costituisce attività speculativa che non può pretendersi asettica e fedele riproposizione degli accadimenti reali»49, assumendo quindi un carattere valutativo più che informativo, stante comunque la necessità della verità dei fatti50 .
parte della dottrina alla costruzione dell’endiadi iniziale che non limitandosi alla legittima censura della menzogna pura e semplice richiederebbe l’aggiunta del parametro dell’ordine pubblico. Così P. Barile, La libertà di espressione, cit., 859.
46 Cass. pen. sent. n. 28258/2009.
47 Cass. pen. sent. n. 40415/2004.
48 Ex pluribus D. Chindemi, Diffamazione a mezzo stampa (Radio-Televisione-Internet), Milano, Giuffrè, 2006, 53.
49 Cass. pen. sent. n. 40408/2009.
50 Cass. pen. sent. n. 18262/2016.
Nodi virtuali, legami informali: Internet alla ricerca di regole
Il reato di diffamazione può essere integrato in forma aggravata (pubblicità) sia su Internet che su Facebook51: il reato quindi risulta non solo integrabile mediante siti Internet ma anche mediante social network, dato anche il carattere di viralità che una diffamazione su Facebook può raggiungere52. Il reato inoltre non solo potrebbe sanzionare i siti fabbrica, ma forse anche gli utenti che diffondano dolosamente mediante condivisione un contenuto diffamatorio53 .
Il reato risulterebbe dunque idoneo alla censura delle bufale che riguardino soggetti individuati, tuttavia ciò che lo rende poco eficace è la fattispecie di reato a querela. Un soggetto dovrebbe infatti avviare l’azione penale per censurare le false notizie diffuse da un sito Internet sulla propria persona.
A livello di prassi, comunque, non sembra che il reato abbia mai trovato concreta applicazione in relazione alle c.d. bufale.
Il reato di truffa (640 c.p.) non sembrerebbe idoneo (sussiste solo la dimensione economica di vantaggio per il sito di bufale) alla fattispecie in esame mancando sia la formazione di un rapporto patrimoniale, sia la dimensione del danno patrimoniale per il “truffato”. Il reato di abuso della credulità popolare (art. 661 c.p.) potrebbe essere teoricamente applicabile, benché legato a un turbamento dell’ordine pubblico. Il reato tuttavia è storicamente legato al contrasto alla ciarlataneria: nella prassi l’inquinamento dell’informazione è infatti stato punito mediante il reato di diffusione di false notizie54. Si può poi ricordare il reato di procurato pericolo (658 c.p.), che non sembra idoneo, perché al dato della notizia falsa si aggiunge la necessità che la stessa comporti presso le autorità pubbliche l’attivazione di misure.
51 Cass. pen. sent. n. 24431/2015; Cass. pen. sent. n. 16712/2014.
52 Cfr. Trib. Livorno sent. del 31/12/2012.
53 In passato la Cass. pen. sent. n. 1688/1998 ha ritenuto che si abbia diffamazione anche nel caso di ulteriore diffusione di notizia già pubblicata. In base a questi principi forse si potrebbe avere anche una – non auspicabile – sanzione della condivisone sui social di notizie diffamatorie.
54 Cfr. Bruti Liberati, cit., 138.
4. Conclusioni
Il dilemma sulla necessità della censura delle false notizie è ben espresso dal pretore di Recanati nella sent. 199/1972 della Corte Cost.: «non sembra al giudice a quo che le fondamenta dello Stato democratico repubblicano siano o possano essere mai minacciate dalla diffusione di qualsivoglia notizia. Credere nella democrazia si identiicherebbe al contrario, con il credere nella verità non abbisognevole di tutela penale».
La concezione espressa è molto simile a quella statunitense secondo cui il marketplace of ideas è sempre in grado di far trionfare la verità, ma non sembra tener conto del mondo di Internet e della diffusione di bufale sui social network.
Peraltro, se è stato ritenuto obiettivo sensibile e legittimo da parte del Legislatore la tutela del mercato contro false informazioni online55, perché non tutelare egualmente anche il mercato delle idee?
Considerato il rischio del chilling effect, la soluzione migliore potrebbe essere quella di applicare il reato di diffusione di false notizie ai siti-fabbrica (e a chiunque diffonda dolosamente notizie false)56: ovviamente servirebbe una rideinizione completa del reato in oggetto con sanzione adeguata e sganciamento dalla costruzione di reato di pericolo concreto.
In relazione al fenomeno della condivisione delle bufale sui social network – vero perno della questione – serve probabilmente fare un distinguo.
Per quanto riguarda il quivis de populo, che per errore scusabile o meno condivida le suddette notizie, la strada sembrerebbe dover essere estranea all’extrema ratio del diritto penale: anche l’uso di una semplice sanzione pecuniaria potrebbe essere foriero di gravi rischi di silencing. Quante persone nel dubbio di essere soggette anche solo a una ammenda si arrischierebbero a condividere una notizia non proveniente dai mass media tradizionali? Il pericolo è quello di perdere quell’importantissimo beneicio di pluralismo informativo e controinformazione che la rete è in grado di fornire.
55 Cfr. artt. 185 e 187-ter Tuif, il secondo conigurato come reato di pericolo astratto (Cass. pen. sent. n. 40393/2012).
56 In un senso non dissimile Barile che in relazione al reato del 656 cp prevedeva la necessità di sanzionare penalmente la diffusione di false notizie con dolo (al contrario di chi sia «ignario del falso») come abuso del diritto (P. Barile, La libertà di espressione, cit., 858).
Vista l’ineficacia degli attuali strumenti previsti da Facebook57 , il Legislatore italiano potrebbe imporre a livello nazionale ai social network – veriicata la falsità della notizia mediante accertamento giudiziale o segnalazione dell’ordine dei giornalisti – la proposizione di rettiiche delle bufale nella bacheca degli utenti che le abbiano condivise o vi abbiano messo “like”. Questo può avere effetto appunto sulla categoria “notizia” come fatto, qualora soprattutto vi siano fonti autorevoli riconosciute a sostegno della smentita (l’accertamento giudiziario, prestigiosi giornali bi-partisan etc.)58. In questo modo si rispetterebbe il principio che vuole la rettiica pubblicata nello stesso locus ove veniva a trovarsi la notizia falsa, si garantirebbe un’opportunità di debunking e non si arriverebbe ad alcuna forma di silencing. Inoltre ciò permetterebbe un binomio pubblico-privato che consentirebbe di evitare i problemi costituzionali della c.d. privatizzazione della censura59 .
Diverso atteggiamento dovrebbe invece valere per i professionisti dell’informazione su Facebook; l’accertamento dei fatti è imperativo deontologico, come previsto dall’art. 2 della l. 69/1963 che impone «il rispetto della verità sostanziale dei fatti»; non si può pensare a un’esimente nella diffusione – condivisione – di bufale per coloro che al contrario del privato cittadino svolgono il ruolo di informare come professione.
57 Gli algoritmi che sfavoriscono i siti bufale o Facebook Newswire non sembrano eficaci e non sono in grado di disincentivare la condivisione, né evitare la viralità né di fornire rettiica, dove addirittura non iniscono per promuovere le bufale nella sezione Trending, come avvenuto in Inghilterra. Cfr. C. Dewey, Il problema di Facebook con le notizie false, in ilpost.it, 15 ottobre 2016 (consultato 01.11.2016).
58 Quasi superluo rilevare l’importanza della «credibility of the source of the correction» (Sunstein, cit., 75). Nel nostro ordinamento tuttavia in relazione ai fatti falsi sembra potersi affermare una certa funzione dei siti di debunking, delle testate giornalistiche o dell’Ansa.
59 M. Bettoni, Proili giuridici della privatizzazione della censura, in Cib. Dir., 2011, 12, 363, 375. In particolare si veda in relazione ai problemi di censura legati ai social network la bibliograia in nota 27.
Cyberbullismo e responsabilità: Internet è veramente un mondo virtuale?
Riccardo Michele Colangelo
1. Introduzione
La possibilità di entrare in relazione con altri soggetti e di manifestare il proprio pensiero attraverso la Rete è indiscussa, notevole ed in continuo ampliamento, tenuto conto della sostanziale imprescindibilità dell’uso di dispositivi informatici connessi ad Internet1 .
Tra le tante caratterizzazioni di Internet, emerge sovente quella “virtuale”, la quale, seppur signiicativamente diffusa, risulta opinabile in quanto prescinde da quelle che sono unanimemente considerate quali caratteristiche tipiche della c.d. realtà virtuale2 . Infatti, sulla scorta delle nozioni fondamentali di informatica, può essere corretto parlare di realtà virtuale solamente laddove speciiche tecnologie consentano di simulare determinate condizioni ambientali, con un grado di accuratezza talvolta addirittura tale da permettere al soggetto, tramite determinati dispositivi, di immergervisi3 .
1 Si noti, in argomento, il concetto di “umanità mediale”, recentemente enucleato in F. Ceretti, M. Padula, Umanità mediale. Teoria sociale e prospettive educative, Pisa, ETS, 2016.
2 Per una breve illustrazione dell’utilizzo del termine “virtuale” nel linguaggio, anche giuridico, si rinvia a quanto recentemente affermato in R.M. Colangelo, Diritto all’oblio e corpo in Internet. Alcune problematiche della indicizzazione di immagini dimenticate, in Comunicazioni Sociali, 2016, 2, 225-234.
3 In ordine al richiamo alle nozioni di Informatica di base, si rimanda all’ultima versione di uno dei più aggiornati manuali in materia: D.P. Curtin, K. Foley,
Può risultare fuorviante assimilare Internet alla realtà virtuale, in quanto si inirebbe per considerare la Rete stessa come un “altro mondo”, scollegato da quello reale, del quale costituirebbe una mera imitazione, seppur curata nei dettagli graici ed in tutti gli elementi necessari per stabilire una sensibile verosimiglianza.
Inoltre, per quanto maggiormente interessa in questa sede, una siffatta caratterizzazione esercita un inlusso notevole sui naviganti e, signiicativamente, sui più giovani.
In un ambiente virtuale, “simulatore” di realtà, ogni declinazione del concetto di responsabilità andrebbe sostanzialmente svuotandosi, rendendo di fatto irrilevante o comunque impunibile qualsiasi condotta contra legem posta in essere nel corso della navigazione in Internet.
2. Il caso del cyberbullismo
È evidente la tendenza, nei giovanissimi (e non solo), a considerare la rete un “mondo virtuale”, aderendo, spesso senza un’adeguata consapevolezza, ai corollari di tale controverso accostamento.
Questa tendenza risulta spesso favorita anche dalla supericiale parvenza di anonimato che viene comunemente ritenuta caratterizzante il web e che alcuni social network – nello speciico quelli rivolti principalmente ad un pubblico di adolescenti – sembrano espressamente garantire ai propri utenti4 .
K. Sen, C. Morin, Informatica di base, a cura di A. Marengo e A. Pagano, Milano, McGraw-Hill Education, 2016, 15 e 68.
4 Faccio particolare riferimento al social network Ask.fm, il quale consente di porre domande in anonimo ad altri membri. Proprio sui rapporti tra cyberbullismo, anonimato e Ask.fm ho tenuto un intervento nell’ambito della tavola rotonda “Cyberbulli? No, grazie!” organizzata dalla città di Vigevano il 2 marzo 2016.
È notorio che la tendenziale tracciabilità delle attività illecite poste in essere online da un determinato soggetto è possibile grazie alla conoscenza dell’indirizzo IP. In argomento, si veda L. Lupària, G. Ziccardi, Investigazione penale e tecnologia informatica. L’accertamento del reato tra progresso scientiico e garanzie fondamentali, Milano, Giuffrè, 2007, nonché, con particolare riferimento alla manifestazione del pensiero in rete, M. Cavino, L. Conte, Il diritto pubblico e la sua economia, Santarcangelo di Romagna, Maggioli, 2014, 425. La rilevanza dell’indirizzo IP in ordine alla paternità di contenuti pubblicati in Internet è stata peraltro recentemente confermata da Cass., sez. V pen., sent. 29 ottobre 2015-29 febbraio 2016 n. 8275.
Va da sé che, anche nei social strutturati in modo tale che nessun nickname possa funzionalmente assurgere a protezione dell’effettiva identità del navigante, è riscontrabile una inconsueta deminutio degli ordinari freni inibitori, in ordine alla pubblicazione di contenuti di vario tipo, riguardanti non solo la propria esistenza, ma anche – e soprattutto – quella altrui5 .
Con particolare riguardo a soggetti non consapevoli che l’umanità mediale è «un contesto antropico a immaginazione ridotta»6, l’insostenibile connotazione virtuale della rete, unitamente alla promessa di anonimato, tende a costituire uno stimolo ad effettuare domande sconvenienti, a pubblicare espressioni dal contenuto chiaramente diffamatorio, ad istigare al suicidio, ovvero, più genericamente, a porre in essere condotte dalla potenziale rilevanza penalistica o, comunque, lesive dei diritti di terzi.
Molte di tali condotte, se poste in essere in un contesto di bullismo e perpetrate online, possono essere deinite atti di cyberbullismo.
Per comprendere meglio lo statuto ontologico del cyberbullismo, occorre anzitutto notare che «il termine bullismo non indica qualsiasi comportamento aggressivo o comunque gravemente scorretto nei confronti di uno o più compagni di scuola»7 .
Il fenomeno del bullismo, infatti, risulta caratterizzato, contemporaneamente, da «intenzionalità, persistenza, disequilibrio»8, laddove tale ultimo fattore evidenzia che:
«Il bullismo rappresenta […] un tipo di interazione che si realizza all’interno di un preciso con- testo relazionale, in cui è possibile individuare precise gerarchie e ruoli. È la manifestazione di un comportamento aggressivo che non viene semplicemente esercitato all’interno di sporadiche situazioni conlittuali […]»9 .
5 In argomento, si rimanda a F. Tonioni, Psicopatologia web-mediata: Dipendenza da internet e nuovi fenomeni dissociativi, Milano, Springer-Verlag Italia, 2013, 110, nonché a F. Ceretti, M. Padula, Umanità mediale. Teoria sociale e prospettive educative, cit., 32, ove Ceretti e Padula deiniscono il concetto di plusumanizzazione.
6 Così F. Ceretti, M. Padula, Umanità mediale. Teoria sociale e prospettive educative, cit., 25, ove si afferma altresì che «l’uomo mediale può prevedere solo marginalmente le ricadute di un suo post o di un suo tweet».
7 Così A. Guarino, R. Lancellotti, G. Serantoni, Bullismo. Aspetti giuridici, teorie psicologiche e tecniche di intervento, Milano, Franco Angeli, 2011, 13.
8 M.A. Zanetti, R. Renati, Lo sfondo teorico, in M.A. Zanetti (a cura di), L’alfabeto dei bulli. Prevenire le relazioni aggressive nella scuola, Trento, Erickson, 2007, 14.
Prima di approfondire l’attuale sforzo deinitorio che il legislatore italiano sta compiendo in materia di cyberbullismo, è opportuno sottolineare che una determinata condotta, anche qualora costituisca un atto di cyberbullismo, può risultare punibile in forza delle norme già vigenti, anche incriminatrici.
In tal senso, e con particolare riferimento ai reati di manifestazione del pensiero10, è addirittura la Corte di legittimità ad aver deinito «deprecabile esempio di cyberbullismo»11 una condotta diffamatoria posta in essere nell’ambito di un contesto relazionale scolastico, servendosi di un proilo creato ad hoc in un social network; ne è riprova un’ulteriore celebre pronuncia della Cassazione, inerente ad un episodio di bullismo videoripreso e postato online12 .
Si noti la validità, anche per gli atti di cyberbullismo – tra i quali vanno annoverati i due esempi sinteticamente riportati – della triplice caratterizzazione tipica degli atti di bullismo.
Inoltre, mentre il primo esempio può essere ascrivibile agli atti di cyberbullismo «proprio», il secondo costituisce sicuramente una forma di cyberbullismo «improprio»13 .
9 Ivi, 15.
10 In ordine alla piena applicabilità delle norme incriminatrici «cronologicamente precedenti all’avvento di Internet» a fatti commessi servendosi di dispositivi informatici connessi alla Rete, si rimanda a: S. Seminara, Internet (diritto penale), in Enciclopedia del Diritto – Annali VII, Milano, Giuffrè, 2014, 567-606.
11 Così Cass., sez. V pen., sent. 25 settembre 2013-9 ottobre 2013, 23010.
12 Cass., sez. III pen., sent. 17 dicembre 2013-3 febbraio 2014, 5107; si noti la differenza intercorrente con Cass., sez. III pen., sent. 4 febbraio 2016-26 febbraio 2016, 7882, ove il casus decisus contemplava la ripresa tramite smartphone delle vessazioni, ma a tale operazione non conseguiva la pubblicazione o condivisione delle stesse in rete, bensì la cancellazione dei ile dal dispositivo, al termine della visione dei ilmati da parte degli amici.
13 Tale bipartizione, di origine dottrinale, è stata recentemente riproposta da
Cyberbullismo e responsabilità...
Merita di essere sottolineato anche l’aspetto risarcitorio inerente al danno eziologicamente riconducibile a tali condotte, peraltro espressamente riconosciuto anche dalla giurisprudenza di merito14 .
3. Il più recente orientamento del legislatore in materia di cyberbullismo
Nell’ambito della XVII legislatura, sono state presentate numerose proposte e disegni di legge in materia, i quali evidenziano, de iure condendo, i problemi ed i limiti di plurime deinizioni di cyberbullismo15 .
Tra i vari atti parlamentari in materia, merita sicuramente una più attenta analisi il disegno di legge d’iniziativa dei senatori Elena Ferrara ed altri, il cui testo è stato approvato dal Senato il 20 maggio 2015 e modiicato dalla Camera il 20 settembre 201616 .
Alcuni spunti di confronto tra i due testi permetteranno di notare e comprendere meglio la recente volontà di ampliamento della nozione di cyberbullismo.
L. Frigeni, Bullismo e aspetti processuali, in A.L. Pennetta (a cura di), La responsabilità giuridica per atti di bullismo, Torino, Giappichelli, 2014, 137, ove si richiama un contributo di De Salvatore risalente non al 2013, bensì al 2012: F. De Salvatore, Bullismo e cyberbulling, dal reale al virtuale tra media e new media, in Minorigiustizia, 2012, 4, 94-101. È ridondante precisare che, sulla scorta di quanto premesso, in questa sede non si reputa corretto condividere i richiami operati alla dicotomia reale/virtuale.
14 Cfr. Trib. Teramo, sent. 16 gennaio 2012, 18, ove si conferma espressamente la conigurabilità di responsabilità in capo ai genitori per i fatti illeciti commessi dai igli minori capaci, ivi inclusi atti di cyberbullismo.
15 In ordine a talune delle questioni che scaturiscono dalle plurime deinizioni di cyberbullismo contenute in alcuni degli atti parlamentari della XVII legislatura, si rimanda al seguente contributo, di prossima pubblicazione: R.M. Colangelo, Navigazione online e rilessi penali. Spunti per i docenti, in A. Panzarasa (a cura di), Didatticaduepuntozero. Scenari di didattica digitale condivisa, Milano, Ledizioni, 2017.
16 D’ora in avanti, si farà riferimento al “precedente testo” ed al “nuovo testo”, intendendo rispettivamente la proposta di legge – Camera dei Deputati – n. 3139 (il cui testo è stato approvato dal Senato il 20 maggio 2015) e il disegno di legge – Senato della Repubblica – n. 1261-B, come approvato dalla Camera il 20 settembre 2016 ed attualmente all’esame del Senato.
In prima approssimazione, mentre il precedente testo recava «Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del cyberbullismo», quello attualmente all’esame del Senato reca «Disposizioni per la prevenzione ed il contrasto dei fenomeni del bullismo e del cyberbullismo».
All’accennata soppressione dell’espresso riferimento alla «tutela dei minori» fa eco la sostanziale riscrittura dell’art. 1 del precedente testo, il quale contemplava le sole condotte poste in essere «in danno di minorenni».
Si riscontra altresì un evidente ampliamento della materia disciplinanda, laddove, in luogo del primigenio riferimento al solo fenomeno del cyberbullismo, si è inteso disciplinare anche quello del bullismo.
Ciò trova chiaro riscontro nello sdoppiamento della deinizione riportata in apertura del nuovo testo.
È il fenomeno del bullismo ad essere deinito per primo dal nuovo testo, laddove l’art. 1, comma 2 statuisce che esso debba consistere, ai ini dell’emananda legge, in quanto segue:
«l’aggressione o la molestia reiterate, da parte di una singola persona o di un gruppo di persone, a danno di una o più vittime, idonee a provocare in esse sentimenti di ansia, di timore, di isolamento o di emarginazione, attraverso atti o comportamenti vessatori, pressioni o violenze isiche o psicologiche, istigazione al suicidio o all’autolesionismo, minacce o ricatti, furti o danneggiamenti, offese o derisioni per ragioni di lingua, etnia, religione, orientamento sessuale, aspetto isico, disabilità o altre condizioni personali e sociali della vittima».
Il seguente comma terzo dell’art. 1 riporta una deinizione per relationem del fenomeno del cyberbullismo, speciicando che:
«Ai ini della presente legge, con il termine «cyberbullismo» si intende qualunque comportamento o atto rientrante fra quelli indicati al comma 2 e perpetrato attraverso l’utilizzo di strumenti telematici o informatici».
Prescindendo da alcuni problematici richiami17, si noti che, nell’attuale deinizione, sono stati espunti i riferimenti diretti alle fattispecie penali della diffamazione e del furto d’identità, presenti nel testo precedentemente approvato dal Senato.
4. Il procedimento per oscuramento, rimozione o blocco
L’articolo 2, comma 1, prevede e disciplina un particolare procedimento per l’oscuramento, la rimozione o il blocco di determinati contenuti e, nello speciico, dispone quanto segue:
«Chiunque, anche minore di età, abbia subìto un atto di cyberbullismo, ovvero il genitore o il soggetto esercente la responsabilità genitoriale sul minore medesimo, può inoltrare al titolare del trattamento, al gestore del sito Internet o del social media, un’istanza per l’oscuramento, la rimozione, il blocco dei contenuti speciici rientranti nelle condotte di cyberbullismo, previa conservazione dei dati originali, anche qualora le condotte di cui all’articolo 1, comma 3, della presente legge, da identiicare espressamente tramite relativo URL (Uniform resource locator), non integrino le fattispecie previste dall’articolo 16718 del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, ovvero da altre norme incriminatrici».
17 Si noti l’inconferenza del richiamo alle «violenze isiche» (art. 1, comma 2) in quanto poste in essere «attraverso l’utilizzo di strumenti telematici o informatici» (art. 1, comma 3): tali condotte, sussumibili o meno in una determinata fattispecie penale, debbono comunque essere rivolte direttamente contro il corpo di una persona, nulla rilevando, in argomento, le nozioni di “corpo elettronico” ed afini, sinteticamente illustrate in: R.M. Colangelo, Diritto all’oblio e corpo in Internet. Alcune problematiche della indicizzazione di immagini dimenticate, cit., 227-229.
18 Si tratta del delitto di “trattamento illecito di dati”.
In luogo dell’attuale riferimento a «chiunque, anche minore di età», il testo approvato dal Senato prevedeva la legittimazione alla formulazione della istanza solamente in capo a «ciascun minore ultraquattordicenne»19 .
Si noti tale estensione dei soggetti legittimati, anche alla luce di una nozione di cyberbullismo che, come si è visto, risulta sensibilmente dilatata e svincolata da ogni riferimento al contesto scolastico o formativo.
Nel merito della procedura speciale, si intende imporre al gestore del sito di comunicare, nel termine di 24 ore20 dalla segnalazione, di avere assunto l’incarico, per poi, nelle successive 48 ore, provvedere all’oscuramento, rimozione o blocco21 .
Il raffronto tra il nuovo testo e quello precedente consente, inoltre, di apprezzare una signiicativa variazione in ordine all’oggetto dell’oscuramento, della rimozione o del blocco.
In tal senso, mentre, nel testo approvato dal Senato il 20 maggio 2015, l’istanza poteva avere ad oggetto «qualsiasi altro dato personale del minore, diffuso nella rete Internet», nel nuovo testo si riscontra – come risulta chiaramente dal disposto dell’art. 2, comma 1 – il più stringente riferimento ai soli «contenuti speciici rientranti nelle condotte di cyberbullismo».
Inoltre, si intende stabilire un termine molto ridotto, di sole 48 ore, afinché il Garante provveda ai sensi degli artt. 143 e 144 d.lgs. 196/2003, nei casi di inadempimento o impossibilità di identiicare il gestore del sito o il titolare del trattamento dei dati.
In argomento, è necessario tenere presenti le criticità, numerose e di non poco conto, che concernono la tutela dei dati personali nell’ambito della rete22 .
19 Così l’art. 2, comma 1, del precedente testo.
20 Si noti che il termine risultava dimezzato (12 ore), ex art. 2, comma 2, del testo precedentemente approvato dal Senato.
21 Così, in forma riassuntiva, l’art. 2, co. 2 del testo approvato dalla Camera dei Deputati.
22 Non essendo possibile soffermarsi su tale tematica, si rimanda all’approfondimento delle questioni enucleate nel recente saggio: P. Passaglia, Privacy e nuove tecnologie, un rapporto dificile. Il caso emblematico dei social media, tra regole generali e ricerca di una speciicità, in Consulta Online, 2016, 3, 332-348, consultabile all’URL: http://www.giurcost.org/studi/passaglia7.pdf