9 minute read

INTRODUZIONE

sofferenze di chi l'ha combattuta, lontano dagli estremi del reducismo ed individuando colpe e responsabilità; il tutto sorretto da una cornice che riunisce e colloca le esperienze degli Isolesi nel quadro generale.

Altro elemento da sottolineare è che questo lavoro è il frutto di una raccolta capillare di materiali che ha coinvolto buona parte del paese di Isola del Cantone creando, pressoché dal nulla, un ottimo "Archivio della memoria". Si è provveduto a mobilitare i reduci, le loro famiglie, i parenti dei caduti, molti di coloro che ancora custodivano nei propri archivi familiari lettere, diari, memorie, fogli matricolari, fotografie, ecc. L'archivio quindi ospita centinaia di fotografie e documenti cartacei (in originale o in copia) e decine di audiocassette con ore di registrazione. Si è così provveduto a salvare testimonianze che il corso degli anni avrebbe inevitabilmente cancellato e documenti e fotografie che sarebbero potuti andare distrutti.

Advertisement

Questi materiali, custoditi nel Centro Culturale di Isola del Cantone, costituiscono quindi una raccolta di notevole ampiezza che, insieme a questo libro, rappresenta una fonte preziosa di informazioni sulla vita di una comunità e della sua gente in questo secolo, che teme pochi confronti nella nostra regione ed anche oltre.

Irene Guerrini e Marco Pluviano (Archivio di Scrittura Popolare di Genova)

INTRODUZIONE

Perché ci siamo decisi a pubblicare queste pagine?

Avevamo iniziato la ricerca con lo scopo di allestire una mostra riguardante i soldati del nostro Comune e raccogliere i nomi dei caduti e dispersi in guerre dimenticate per poi apporre una lapide commemorativa in piazza Vittorio Veneto. Volevamo, in poche parole, accomunare tutti gli isolesi che hanno perso la vita in battaglie che non avevano certo voluto, vinte o perdute che fossero. Man mano che i reduci sfilavano nella nostra sede cominciammo a pensare, però, che non era giusto, verso di loro, verso chi non è tornato, tenere questi racconti soltanto per pochi membri del Centro. Ci è sembrato doveroso testimoniare, con i nostri limitati mezzi, l'epopea degli alpini isolesi in Russia, dei fanti e genieri sul Carso, dei marinai nel Mediterraneo, degli aviatori in ogni cielo di guerra1. E se le

1 La nostra ricerca si limita alla raccolta e al confronto storiografico soltanto delle testimonianze dirette, orali o scritte, di coloro che hanno vissuto questi avvenimenti.

Avremmo voluto fare di più, ma crediamo che il materiale raccolto sia abbastanza esemplare della tragedia comune vissuta anche da coloro che non ne hanno lasciato memoria. Il libro non vuol comunque essere una storia delle guerre combattute dagli italiani negli ultimi duecento anni, sia pure viste da un'angolazione particolare. Non vi si parla della guerra di Spagna, a cui non ci risulta abbiano partecipato isolesi, né abbiamo sollecitato testimonianze del "fronte interno" o sulle vittime civili che ogni conflitto ha comportato. All'epopea della Resistenza, complemento di molte storie narrate in questo libro, a cui contribuirono anche le generazioni più giovani non coinvolte nelle campagne di guerra, contiamo di dedicare in futuro uno studio specifico.

testimonianze sono solo per i conflitti recenti, le sensazioni che si provano a risentire i nostri reduci vanno estese anche alle guerre più lontane: cambiano i secoli, rimangono gli stessi cognomi, le stesse terre straniere, rimangono gli stessi problemi del soldato che milita con i francesi, con Vittorio Emanuele II o con Mussolini. Impreparazione, superficialità, burocrazia: tutti problemi a cui si rimediava con il sacrificio, l'abnegazione e soprattutto con l'eroismo dei soldati.

Come è stato scritto, l'Italia di Caporetto o di Custoza o di Adua “(...) è (...) l'Italia che, attraverso una sovrapposizione di successive irrazionalità messe in atto dalla sua classe dirigente (...) crea le condizioni favorevoli alla nascita di una sensazione individuale di scoramento interno, di frustrazione, di senso di inutilità delle proprie azioni, che si concreta nel rifiuto a contribuire all'alimentazione di una spiritualità nazionale (...) eppure l'Italia, fatta di tremila anni della più ricca storia del mondo, è un patrimonio, cui anche l'italiano inconsapevole istintivamente non rinuncia. E allora dalle Caporetto storiche scaturiscono delle sorprendenti rivincite, che si esplicano nelle forme più diverse: esse vanno dalla fioritura giolittiana alla difesa del Grappa e alla rinascita economica del secondo dopoguerra (...)”2 .

Questi nostri reduci differiscono enormemente, anche psicologicamente, tra di loro: chi ha combattuto nella Prima Guerra Mondiale è stato vezzeggiato e onorato e come tale si comporta; chi ha avuto la sventura di partecipare alle guerre del fascismo e di subire poi la prigionia, ha ritrovato una realtà sociale che parecchie volte gli ha voltato le spalle, quasi fosse correo degli errori e delle scelte altrui. Alla tragedia personale sui campi di battaglia si è aggiunto il mancato riconoscimento dei sacrifici sopportati ed allora il reduce si è trasformato in un silenzioso lavoratore che a volte non vuol neanche dire c'ero anch'io. A questo proposito citiamo parte di una lettera apparsa su un libro di Giulio Bedeschi3:

2 SILVESTRI (1984) pag. 273. 3 BEDESCHI (1983) pag. 8. La lettera è di Gianluca Lanteri di Verona.

(...) mi sono domandato come avrei potuto resistere io lassù, se solo il peso di un libro mi ha tanto impressionato; eppure anche "loro" avevano vent'anni (...) qui c'è il racconto della carne macchiata dal fuoco e che è ancora viva. E se vive il ricordo in ognuno dei reduci, come un patrimonio da conservare gelosamente, permetta che anch'io partecipi un po' e che serbi l'insegnamento umano e morale del comportamento di chi visse e di chi morì. Tra tante testimonianze non ho visto né una parola di vendetta né una di odio, ma solo tanta disperata volontà di sopravvivere; una fermezza, una energia, un orgoglio ed una umanità che dovrebbero essere un esempio per noi giovani. Come possiamo noi, con le nostre comodità e con i nostri capricci, non avere fiducia e speranza, quando tante ne hanno avute coloro che vagavano impotenti e sperduti in quei luoghi desolati e lontani da casa? A me quelle parole hanno dato un senso di impotente ribellione, soprattutto a pensare ciò che han provato coloro che sono tornati, allora e per tutti questi anni: sono stati dimenticati, alcuni hanno dovuto emigrare per sopravvivere, altri sono tornati alla dura e mesta vita delle loro montagne, in silenzio senza protestare con un'umiltà che avrebbe dovuto e dovrebbe scuotere e meravigliare la nostra classe politica.

Anche noi abbiamo provato le stesse impressioni intervistando i reduci; erano amici, a volte erano i nostri stessi padri, zii o nonni, ma nel sentirli in quest'occasione, insieme ad altri, ci accorgevamo che le parole udite in casa assumevano un sapore diverso: dall'avvenimento si passava a descrivere il sentimento. Ogni sera, la già lunga lista degli scomparsi aumentava, e per ognuno di loro c'era un aneddoto, un ricordo: i Bagnasco, i Repetto, i Molinari, i Cornero avrebbero potuto essere quelli che stavamo intervistando o quelli che non riusciremo mai più ad ascoltare, dispersi ormai in tutti i cimiteri d'Europa. Il caso aveva deciso in questo modo e in molti che sono tornati c'era persino un'ombra di perplessità nel chiedersi: perché io sì e gli altri no?

Lentamente anche i nomi sulla lapide in piazza Vittorio Veneto, quelli che ci sono della Prima Guerra Mondiale, e quelli che ci vorremmo mettere di tutte le altre, assumevano un volto: era simile a quello dei nostri padri, zii o nonni. E comparivano anche quelli dei deceduti senza un'uniforme o con l'uniforme dei vinti, di quelli inutilmente sacrificati sotto le bombe aeree o per la spagnola nel '18, di malinconia per il mancato rientro del figlio o di tubercolosi per gli stenti in trincea, per motivi che allora sembravano nobili e per altri

che lo apparivano meno, tutti quei morti insomma, dovuti a situazioni legate ad un conflitto che in prima persona certamente non avevano voluto. Quanti saranno? Non crediamo che si riusciranno a contare e nonostante tutta la buona volontà rimarranno sempre i veri militi ignoti.

Ma per molti dei reduci, scampati alla ritirata in Russia o alla prigionia in Germania, durante l'intervista c'era sempre un momento, che noi stessi vivevamo con commozione, quando tante cose rimosse ritornavano alla mente. Senz'altro non riusciremo a rendere merito, con questo scritto, di ciò che ci hanno raccontato, non solo a parole, ma anche con lo sguardo, i gesti, i silenzi. - Vegnì a fâve intervistà ? - Nu me ricordu ciù ninte! Sun vegiu ormai. 4

Eppure, nonostante la presenza del registratore, nonostante tutti quegli estranei, una volta seduti iniziavano a parlare con precisione, con padronanza, fino a ricordare date, luoghi e particolari. Possiamo scommettere che non hanno ingigantito o falsato episodi se non per ridurne l'importanza, per la paura di passare per spacconi o bugiardi5 . Per qualcuno era la prima volta, la prima occasione di vuotare il pesante fardello degli incubi, senza impressionare i figli o la moglie. Per tutti il pensiero ossessionante di quegli anni in caserma o in guerra era il ritorno in famiglia, al paese.

Ecco perché abbiamo voluto intitolare Verso casa questo contributo alla storia di Isola e dei suoi abitanti. La loro volontà è riassunta nelle parole di Bedeschi: “(...) Per noi che andavamo soltanto verso l'ovest, un indefinito e generico punto cardinale, poiché non possedevamo nessun altro punto di riferimento più razionale, per noi l'Italia era qualcosa di immensamente lontano, sapevamo che era a più di 3.000

4 - Venite a farvi intervistare? - Non mi ricordo più niente! Sono vecchio ormai. 5 Uno dei primi intervistati (Vittorio Delorenzi) lo trovammo negli elenchi delle decorazioni concesse durante la campagna a cui partecipò. Era riuscito con una forcina da capelli ad aggiustare, in un momento particolarmente delicato per il suo reparto, una radio da campagna. Gli chiedemmo, dopo l'incontro, come mai non ci aveva riferito tale episodio e la relativa onorificenza: si schermì dicendo che era cosa da niente.

chilometri di distanza; ma pure, «Italia» era quella forza che ci ha dato modo di sopravvivere, essa concentrava nel suo nome l'essenza delle nostre vite; in questo pensiero di patria noi concentravamo il ricordo del volto di nostra madre, di nostro padre (...) il ricordo del nostro cielo azzurro (...)”6 .

Ci sembra interessante segnalare inoltre che la quasi totalità delle interviste si è svolta in dialetto e nella sede del Centro. I reduci a volte avevano i loro Fogli Matricolari per agevolarsi nel ricordo delle date e dei luoghi di guerra, molte volte andavano a memoria e se la sono sempre cavata benissimo. Da parte nostra c'era l'impegno di non mettere l'intervistato a disagio, cercavamo solo di tenere il colloquio su dei binari prefissati (chi avevano incontrato di Isola, il nome dei caduti che ricordavano, il primo giorno a militare, ecc.). Alcuni sono ritornati più volte per specificare meglio fatti e date o semplicemente per accompagnare altri reduci.

E' ovvio che tra il racconto orale e la trascrizione si perdono le gestualità, il tono, le pause, certe inflessioni dialettali; chi riporta il dialogo su carta si avvale di una punteggiatura che non è quella originale: vi è quindi un filtro che impedisce allo scritto di essere fedele in tutto all'intervista. Abbiamo cercato di fare del nostro meglio per rendere meno marcata questa differenza, anche se siamo coscienti che è impossibile eliminarla.

Non possiamo chiaramente escludere errori di nomi, tempi e luoghi nel testo: la massima parte sono senz'altro dovuti alla nostra iniziale inesperienza di intervistatori e ce ne scusiamo con gli interessati. Ci siamo trovati in difficoltà poi per quanto riguarda gli elenchi delle vittime della Prima e Seconda Guerra Mondiale: quelli ufficiali, ad esempio, omettevano nomi che noi invece sentivamo dai reduci. Probabilmente la macchina burocratica inseriva solo chi era nato nel Comune o vi risiedeva ufficialmente; decidemmo però di elencare chiunque avesse abitato nel nostro paese, perché come ha scritto Giovanni Meriana: “(...) il paese di Isola assorbe tutti i gruppi, li fa

6 DE LAUGIER-BEDESCHI (1980) pag. 234.

This article is from: