11 minute read

XI. BIBLIOGRAFIA

Next Article
X. CONCLUSIONE

X. CONCLUSIONE

della base italiana e ci fa il solito discorso: "O con i tedeschi o in Germania". Sono andato in Germania via Parigi-Amburgo-Colonia in un campo di Konisvord. Anni massacranti: a mezzogiorno si mangiava solo se si lavorava per qualcuno che aveva una zuppa da scaldare lo stomaco. Alla sera 2 etti di pane, 10 grammi di margarina e un litro di zuppa. Nessuno di Isola. Ci liberano il 12 aprile 1945 ma non ritorno subito in Italia. Ci tengono lì e allora facciamo un torneo di calcio con inglesi e tedeschi, ma avevamo voglia di vedere la nostra famiglia, altro che calcio! Al ritorno al Brennero ho visto Disma Rivara che cercava suo figlio, anche lui prigioniero. Sul Pò bisognava fare il ponte a piedi e c'è Aldo Mora a lavorare per la ricostruzione e che mi ha dato notizie dei miei: "Stanno bene, sono invecchiati un po' come me e te!". Arrivo a Isola il 12 settembre e vedo mio fratello Piero che è del '27, poi Enzo Camposaragna e mio padre che a ogni treno mi aspettava. Non sono andato subito a casa ma nello Scrivia, che allora era pulito, e mi sono tolto gli abiti con i pidocchi».

La relazione di Stefano (Nucci) Punta è altrettanto interessante per quanto riguarda il periodo della prigionia. Anche per lui, dopo il periodo di presidio a Prevesa, l'8 settembre porta nuovi, tragici avvenimenti: «...euforia e canti di gioia per tutti noi illusi ormai di tornare a casa, senonché il comandante del campo, capitano Luigi Cavanna, subito pensò di raddoppiare il corpo di guardia (ero quella sera capoposto) con il compito di piantonare con due uomini ognuna, le 4 batterie antiaeree a canna puntata a difesa del porto in mano ai tedeschi. Arrivarono dopo due giorni i tedeschi e ci scollegarono e ci disarmarono. Solo la divisione "Acqui", da poco giunta di rincalzo al presidio e dislocata sull'isola di S. Maura oppose resistenza e fu decimata e massacrata sul posto compreso il Ponzoletti di Creverina che ci vedemmo qualche giorno prima. Questo lo facemmo però dietro ordine dei nostri superiori allorché portatici tutti in un esteso uliveto dove, prima gli Ufficiali e poi noi della truppa, accatastammo le armi. Sino a che eravamo armati avevamo la nostra dignità, ma appena disarmati, uno spintone, o magari un calcio là dove finisce la schiena, raggruppati come pecore, e dopo qualche giorno, avviati per la lunga

Advertisement

marcia. Ci fecero marciare fino a Florina392, più di 400 km a tappe forzate di 40 km al giorno con poco mangiare. Chi cadeva e non ce la faceva più lo annientavano per lasciarlo poi al bordo della strada. Su rustici zatteroni risalimmo il Danubio fino a Vienna dove rinchiusi alla rinfusa in carri ferroviari arrivammo al campo di concentramento di Ebeisler. Qui rasati i capelli ci stampavano sulle ginocchia e sulla schiena della divisa con biacca bianca due grosse lettere K-G che voleva dire "Prigioniero di guerra". Avevo come numero di matricola il 4174. Ci dicevano: "Dovete dimenticare di avere una famiglia, di trasmettere e ricevere notizie da casa. Qua si lavora e si ubbedisce in silenzio". Destinazione? A gruppi chi al lavoro nei campi o a sgombrare macerie dei bombardamenti, o in fabbrica a fare carri armati. Andai a Linz nella vastissima fabbrica di carri armati con la definizione di "Eisenverche OberDonau" che vuol dire "Lavorazione in ferro dell'Alto Danubio" di proprietà di Hermann Goering. Ero trapanista, io che non avevo mai maneggiato detta macchina e vedermi vicino ad un grosso trapano di marca Raboma con 60 cm di colonna e un banco di 3x3, ed un braccio di 3 metri tempestato di pulsanti con spessori da forare fino a 15 cm. In primo tempo mi misero in coppia con un tedesco reduce sinistrato dalla guerra. Dopo di che da solo, coi pezzi tracciati e con l'aiuto dei disegni. Se sbagliavo mi accusavano di sabotaggio. Ricordo come 4 russi li tenessero appesi impiccati perchè sabotatori. Ogni pezzo veniva contrassegnato con un bollino inciso col nostro numero personale: ben presto scoprivano perché il carro armato che giungeva in linea si sfasciava. Orario di lavoro dalle 6 alle 6, una settimana di giorno e una di notte. Quindici minuti di pausa alle 9 o alle 18 per bere orzo freddo e amaro e 45 minuti per andarsi a prendere, muniti di una tessera a bollini, alla cucina di fabbrica con la gavetta, quel mestolo di brodaglia fatta con rape bianche e carote, senza pasta, ed un mestolo di rape rosse o crauti sconditi. L'alloggio consisteva in una baracca di legno "lager n° 22" con lavatoi e gabinetti fuori, occupata da 20 persone con letti a castello. Colazione? Un filone di pane nero di circa un chilo da dividere in 20, un cubetto di

392 Nel Nord della Grecia, al confine con l'ex Jugoslavia.

margarina ed un cucchiaio di prugne bollite e questo doveva bastare per tutto il giorno con un po' di orzo amaro. E questo fu solo per quando ci passarono IMI, che voleva dire Italiani Militari Internati, quantoché disposizioni di Ginevra e la Croce Rossa, non permettevano al prigioniero di guerra di lavorare in materiale bellico. Ci tolsero la sentinella e ci diedero una cartolina da timbrare come i civili, all'inizio e alla fine del lavoro. Potemmo comunicare a casa con biglietti censurati. Discreta la vita in fabbrica con aria condizionata ma questo fino a che cominciarono i bombardamenti e ci riparavamo in rifugi che erano camminamenti fatti a forma di greca. Una volta fu colpito il rifugio dove mi trovavo ma morirono solo quelli che si trovavano in quel tratto, compreso il nostro tenente medico. Il 4 maggio 1945 arrivarono gli americani: ci lasciarono liberi per quattro giorni e noi andavamo nei silos a vedere se c'era qualche patata da cuocere sotto alla brace non avendo altri mezzi. Dopodiché ci rinchiusero nuovamente nel lager e lì attendere quel tanto agognato giorno che caricati in tradotta e via Tirolo, Brennero giungere in Italia. Costì ad attenderci c'era la Commissione Pontificia col compito di formare delle colonne e portarci a destinazione. Ma figurarsi che confusione regnava! Con una colonna americana giunsi a Milano che era buio. Partii con il primo treno, noncurante di fare il biglietto, d'altronde non avevo soldi. Finalmente giunsi a Isola. Non sò come non mi sia gettato giù dal treno e come lei non sia svenuta allorché passando nel tratto, che distanzia Isola da Giretta, vidi mia Mamma che ne tornava dal portare il mangiare a mio Papà che lavorava nella vigna di Scagnetto. Fu un urlo unico mio e suo, che commosse tutta la vettura. Era il 21 giugno 1945 ore 13 e potei baciare il suolo natio di Isola. Ed in quell'ora finiva per me ogni incubo, reduce prima della vita militare, della Guerra, del fronte occidentale, del fronte Greco Albanese, del presidio in Grecia e della Prigionia. Finivano così i miei giorni più tristi dell'età più bella, come lo incisi con la punta del coltello sulla mia gavetta, mia fida compagna per tanti anni, che conservo ancora gelosamente. Chiedo scusa se mi dilungai un po' troppo nei miei 7 anni 6 mesi e 3 gg.ni, molte cose tralasciai. Ripeto però che il suddetto

in sintesi corrisponde alla più pura verità, non caricato di fantasia, ma semmai tante cose tralasciate. Grazie».

Questo grazie l'abbiamo sentito tante volte dai nostri intervistati e per altrettante volte non sapevamo che rispondere grazie a voi ! E' inutile nascondere che questa umiltà ci commuoveva e i rumori di guerra per un attimo lasciavano il posto ad un silenzio che riportava alle tradizioni, fortunatamente non guerresche, della nostra gente.

G.B. (Battistin) Tavella venne arruolato nel 2° rgt genio e incorporato nella "Modena". Partì il 9 gennaio del '37 e ritornò, escluso un piccolo intervallo, il 22 giugno del 1945: «Da "permanente" ho fatto 18 mesi, poi sono stato richiamato e mi hanno mandato in zona di guerra ai confini con la Francia. In seguito con la 5a compagnia genio sono stato per circa due mesi nei dintorni di Imperia e successivamente a Bari per essere imbarcato sulla motonave Piemonte con destinazione Valona (Albania). Lo sbarco è avvenuto sotto il bombardamento di aerei inglesi ed immediatamente siamo stati avviati al fronte a piedi. Dopo due ritirate sotto il gelo, la mia compagnia si stabiliva a Lekdushai (residenza di caccia del Re Zoko393 d'Albania). Finalmente a primavera l'avanzata fino a Ianina (Grecia). L'8 settembre i tedeschi mi catturano e faccio 180 km a piedi ed in camion, finché con i soliti vagoni ferroviari mi portano in Germania. Era un campo di tende che si chiamava Ital-lager IV da dove mi hanno smistato ad uno stabilimento chimico a Loina Welk: 12 ore di lavoro al giorno. Io facevo analisi chimiche sull'etere e sul propano che serviva agli aerei affinché non gelassero le ali. Quando sono tornato a casa ricordo solo che ero uno dei primi: chiunque incontravo mi abbracciava, finché ho visto mia madre...».

La prigionia, comunque, non significa necessariamente Germania. Precedentemente all'8 settembre molti isolesi furono catturati dagli inglesi e inviati in campi di concentramento di mezzo mondo: Angelo Cabella, marinaio furiere catturato a Massaua, va addirittura in Sud Africa al Zonderwater Camp e da lì in Inghilterra. Durante una marcia

393 Zogu I o Zog.

di trasferimento nel deserto, una scheggia di shrapnel che si era conficcata in una scarpa («scarpe buone, da sbarco» ricorda), gli provoca un'infezione. Un boero lo carica sulla jeep e lo porta al campo di Otumlo salvandogli la vita: «In seguito l'ho cercato per ringraziarlo, avrebbe potuto lasciarmi morire come tanti altri, ma non l'ho mai più rivisto».

Al Zonderwater Camp, tra migliaia di prigionieri, qualcuno riesce a costruire una radio con cui sentire le notizie dal mondo. Gli inglesi se ne accorgono e mettono in atto tutti i mezzi per scoprire l'apparecchio: minaccie, lusinghe, punizioni, perquisizioni non portano a niente. Vengono addirittura smantellate le tende e con lunghi bastoni ispezionato tutto il terreno sabbioso per cercare di trovare l'eventuale nascondiglio. Niente da fare. Il comandante inglese, esasperato, fa delle concessioni agli italiani purché rivelino il mistero: la radio, costruita con mezzi veramente primitivi, ma perfettamente funzionante, ermeticamente chiusa in una scatola, era nascosta nel pentolone al centro del campo, immersa nell'acqua, ed il cuoco, quando arrivavano delle guardie fingeva di accendere il fuoco...

Anche Gian Riccardo (Gianni) Boccazzi, marito di Franca Punta, marinaio marconista a Massaua, passa il periodo di prigionia al Zonderwater Camp. I figli custodiscono ancora un giornalino "Settimanale dei P.d.G; n° 33" del Natale 1942, dattiloscritto e disegnato in assoluta clandestinità all'interno della tendopoli. Gianni riuscì fortunosamente a portarlo in Italia evitando le perquisizioni degli inglesi: in esso vi sono i disegni e le vignette dei prigionieri che tentavano di scacciare la malinconia con un po' di umorismo. Se ne deduce una vita di campo attiva, tesa a migliorare non solo materialmente le esigenze dei prigionieri. Si crea così una biblioteca, un complesso corale che non poteva non chiamarsi V.E.R.D.I., una società sportiva "Sorci Verdi" che pubblica addirittura il rendiconto finanziario trimestrale. Le squadre del torneo calcistico erano Juventus, Savoia, Pro Patria, Tevere, Vittoria e Folgore. Ma la parte senz'altro più letta sarà stata quella del proibitissimo Bollettino di Guerra Italiano: nel 1942 c'era ancora la speranza di tornare presto a casa.

Nello stesso campo viene portato Mario Re394, caporale di sanità in fanteria: «Abitavo a Genova, in via Balbi, quando il 10 marzo 1940 sono stato arruolato all'Ospedale Militare della Chiappella dove tutto era brutto, tetro. L'istruzione alle armi l'ho fatta a Sanremo al 90° fanteria e dopo venti giorni potevo scegliere se ritornare a Genova o andare a Roma nel battaglione olimpico: ero campione ligure di pugilato. Ho sempre fatto sport, mi sono esibito anche davanti a Mussolini, alla palestra Caccialupi alle Grazie; ero insieme a Nizzola, il padre del lottatore, alla Giacobini che era una schermitrice. Comunque ho scelto Sturla, aggregato al 42°, ma stavo in caserma solo alla domenica sera. Lavoravo addirittura dalla "Vedova Romanengo" come pasticcere. Quando ci hanno vestiti, siamo entrati in una stanza dove in terra c'erano i mucchi di pantaloni, camicie, mutande e ci hanno detto di scambiarceli finché non andavano bene: niente calze, solo pezze da piedi e come elmetto quello francese della prima guerra.

Mi ricordo che quando usciva il 42° la bandiera era avvolta in una custodia e portavamo i guanti a causa di una punizione subita dal reggimento nella prima guerra mondiale395. Alfiere era Paolo Castagnino (da partigiano si chiamerà Saetta) con cui avevo fatto un campionato a Bergamo. Allo scoppio della guerra ero nervoso, arrabbiato, mi mandano a Pieve di Teco dove si forma il 211° ospedaletto da campo (O.C.). Mi imbarco sulla Sauro a Napoli che è scortata da due cacciatorpediniere, l'Aretusa e il Carabiniere, dove sono due miei futuri cognati. Sbarco a Bengasi il primo d'agosto del '40 e dopo 25 o 28 giorni sono a Tobruch. Lì bombardamenti e campi minati, in uno ci dormiamo addirittura. Pagnotte con la sabbia, dissenteria ma anche giri in quei posti che avevamo visto solo al cinema: scopro che gli arabi vestono in lana d'estate e seta d'inverno. Niente palme e un deserto che ti mangia le scarpe. A Derna, che è la Venezia libica, bellissima, poi a Bardia fino ad ottobre. L'O.C. era di 6

394 Suocero di Alberto Chiama. 395 Non abbiamo notizia di un simile fatto: può essere comunque che tale comportamento sia nella tradizione del 42° rgt ftr.

This article is from: