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Un episodio poco conosciuto (di Stefano Denegri
from VERSO CASA
alimentazione, ed è interessante notare come nelle nostre interviste in nessuna occasione si menzionano i "nazisti" ma solo i "tedeschi".
Sentiamo i nostri reduci: Giovanni Bertuccio, dopo la Russia va in licenza, poi «sono rientrato al corpo a Laion vicino a Chiusa d'Isarco dove mi prende l'8 settembre: c'è stata battaglia poi gli ufficiali ci dicono di dare le armi. Se non ce le avessero fatte posare non finivamo in Germania. I tedeschi ci hanno messo nel greto del torrente e ci hanno portato a Bressanone. In treno a Brema e a piedi a Bremerword: eravamo incolonnati e i civili ci gridavano: "Traditori!". Era un campo di concentramento dove erano morti 30.000 russi di tifo petecchiale. In quel momento saremo stati in 60.000. Si mangiava solo alle 20,30: rape secche, due etti di pane e un cucchiaio di marmellata. Il console italiano veniva alla mattina per convincerci a combattere con i tedeschi. Sulla schiena c'era IMI (militari internati). Quelli che si sono arruolati per la Repubblica di Salò, appena arrivati in Italia sono scappati con i partigiani. Un giorno è arrivato un ingegnere che cercava falegnami, mi sono offerto e ci hanno portato ad Amburgo. Con uno di Varese siamo andati a fare case prefabbricate. Il tedesco per cui lavoravamo era un civile ed il primo giorno ci ha dato venti litri di minestrone che, in due, abbiamo mangiato tutto! Lui pensava che l'avessimo nascosto. Il giorno dopo due pani da un chilo e mezzo e di nuovo il minestrone, ma non siamo più riusciti a mangiarlo tutto. Ci siamo stati fino ai primi di maggio del '45. Intorno ad Amburgo avevano fatto un fosso anticarro ma gli americani quando sono arrivati vi hanno buttato dentro dei carri armati e ci sono passati sopra come un ponte. La sera che sono arrivati ci siamo messi le nostre divise lacere e l'abbiamo aspettati sul portone della fabbrica. Buttavano sigarette dai carri armati. Quanti carri armati! Allora ci hanno spostato in campi di raccolta e di noi si è interessata la Croce Rossa. Siamo rientrati in treno fino a Pescantina e in pulmann fino ad Alessandria. Arrivo a Isola il 5 agosto 1945 e salgo a Montessoro a piedi. Sulla Ciappa ho visto la strada tutta bianca: era siccità quell'anno».
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Bertuccio non è l'unico che dopo Francia, Albania e Russia è costretto anche a subire i campi di prigionia in Germania: Giovanni Argenta dopo la licenza è a Bressanone. L'8 settembre ha il turno di
guardia e lo catturano i tedeschi: «Sono diventato 48 kg: ma io non stavo tanto male perchè ero un contadino! Sono ritornato al Piazzo il 24 agosto del 1945».
Stesso calvario per Francesco Desirello: «Licenza e ritorno al Brennero: l'8 settembre 1943 ci radunano e ci catturano i tedeschi. A piedi fino ad Innsbruck, poi ad Amburgo, campo di Onensten. Indi Stettino in una grossa fabbrica di benzina sintetica. Ho camminato di nuovo fino a Magdeburg, lì c'era l'Elba navigabile. Nella notte tra il 1° ed il 2 di maggio sono arrivati gli americani. Tra di loro c'erano un mucchio di oriundi. Siamo stati anche con gli inglesi: da mangiare poco e insipido. In Germania ho fatto due anni giusti: all'8 mi han preso e all'8 son tornato a casa. Sono sceso ad Arquata, c'era il capostazione Balbi e mi dice: "Prenda quel treno, è il primo che passa da Isola", perchè era successo uno scontro in stazione dove erano morti molti inglesi. Scendo a Isola, c'era mio fratello e la Carla di Pietrabissara e si mettono a gridare: "Ghe u Ninni, ghe u Ninni!" 386 . Erano tre anni che non mi vedevano. Mio padre, che era cantoniere, ha sentito le grida e per vedermi è passato sotto il treno fermo».
Ma ecco la testimonianza di Gian Luigi Ferretto, un altro del "Pieve di Teco": «L'8 settembre ascoltiamo Badoglio. C'erano quattro tedeschi e hanno sparato qualche colpo di mortaio. Poi la tromba ha suonato di gettare le armi che si andava a casa. Tino e Gianni sono riusciti a scappare. Io sono stato catturato e portato a Bressanone. Il 13 settembre ero già a Bremerword dove sono rimasto sino al 24, poi ad Amburgo al campo XB. Ero in magazzino-lager. Avevamo poco da coprirci: per avere un po' di sollievo di notte ci scoprivamo per qualche minuto, poi rimettevamo le coperte e questo ci dava una piccola sensazione di sollievo. Andavamo volentieri a spalare macerie per cercare nei rifiuti qualcosa da mangiare. Alla sera zuppa di rape, qualche patata, margarina e un pane grosso da dividere in cinque. Il taglio delle fette era un rito. Al mattino ci davano una brodaglia di orzo. Stavano più bene quelli che facevano nettezza urbana. Dalla gente eravamo considerati dei traditori e la Croce Rossa non l'abbiamo
386 - C'è Ninni, c'è Ninni!
vista perché non eravamo considerati prigionieri di guerra ma IMI (Internati Militari Italiani). Siamo stati liberati il 9 maggio 1945 dagli inglesi. Anch'io son passato da Pescantina a Verona per la contumacia e sono finalmente a Isola il 6 agosto. I miei erano stati avvertiti del mio arrivo da dei genovesi che erano riusciti a venire giù prima. So che in Germania c'erano anche Battistin Tavella, Mino Bartolomeo di Vobbietta e Vittorio Giacopello387. Di quel periodo mi ricordo un pensiero ossessionante: la voglia di mangiare un pomodoro».
Anche Ninni Mignone, catturato pure lui al Brennero, finirà internato in Germania. In Albania avevamo lasciato G.B. (Fransiscu) Rivara:
«L'8 settembre i tedeschi ci hanno portato in Macedonia e con 14 giorni di tradotta (Romania, Bulgaria e Vienna) in Germania. Ai pali del telegrafo impiccavano i partigiani: dal treno era una visione...» (la commozione, ancora adesso lo blocca e solo dopo un po' riesce a continuare) «...a Brema nel lager per 8 mesi: era un campo sperimentale, volevano farci combattere per loro. Quindi ad Amburgo e di nuovo a Brema. Io facevo il calzolaio e mi sono salvato dagli appelli al gelo e alla pioggia perché lavoravo fino a notte. C'era infatti un carabiniere dell'Alto Adige che parlava più austriaco che italiano: "Uber388, non è che abbiano bisogno di calzolai?". "Spettare sergente, spettare, chiedere un po'".
Lasciavo passare gli altri perchè eravamo incollati per cinque. Rimasi l'ultimo. "Ufficiale ha detto di cercare tre calzolai e tre sarti".
Per otto giorni non avemmo niente, mentre quelli che andavano a spostare macerie portavano sempre qualcosa: le donne tedesche nella spazzatura ci mettevano il pane per i prigionieri. Alla sera si mangiava rape e acqua e una mattonella di pane in sedici. Una fame terribile, avevo una penna e l'ho gettata ad un bambino in cambio di torsoli di cavolo. All'appello alla sera, se trovavano qualcosa che poteva essere
387 Apparteneva al III battaglione del 41° rgt ftr, divisione "Modena" e partecipò alla campagna in Grecia. 388 Probabilmente Hubert.
stato preso fuori dal campo addosso a qualcuno, lo spogliavano nudo e, d'inverno, lo bagnavano con l'acqua. Io ero capo baracca e dissi a quelli che lavoravano con me: "Non andiamo più a mangiare alla sera in baracca!".
Era troppo pericoloso fare l'appello. Infatti una sera per una mancanza commessa da un internato che non conoscevo, ci obbligavano a fare "Illin Auff", su e giù sdraiati lunghi nel fango, e davano baionettate alla cieca nel sedere. Basta! Era il colmo. All'indomani alle dieci di sera eravamo ancora a lavorare e passa Uber con un ufficiale: "Come mai non siete ancora andati a mangiare?". "Ma non vedi quanto lavoro c'è, la gente è senza scarpe!". "Da domani sera" dice l'ufficiale "una marmitta di patate solo per voialtri!". Avevamo una stufa grossa e lui aggiunge: "E non lasciare mai mancare carbone". Verso le 23 andavamo a dormire quando la burrasca dell'appello era finita. Le patate che avanzavano le portavamo agli altri in baracca. Hanno accettato di venire a combattere in Italia con i tedeschi solo quelli che erano ammalati e non ce la facevano più. A Brema in magazzino non ci mancavano nè il pane nè le sigarette. Alla liberazione ho preso il treno fino a Linz, poi il camion fino ad Innsbruck e al Brennero. Il 24 giugno del '45 sono sceso al Guasone».
Gerolamo Semino, classe 1923, l'8 settembre era a Venezia su un cacciatorpediniere: escono in mare ma ad Ancona sono attaccati da aerei tedeschi e costretti a tornare indietro. Catturati e inviati in Germania con i «vagoni ferroviari che si vedono nei film» a Francoforte sul Meno. In una stazione del Brennero lascia una lettera ad un prete perché la invii alla famiglia: da allora sino al ritorno non sapranno più nulla. Torna a casa cinque mesi dopo la fine della guerra e arriva in treno a Ronco, poi prosegue a piedi; a Creverina incontra la figlia di Repetto il ferroviere (abitava nel casello della galleria) che corre ad avvisarne la famiglia.
Luigi Rivara dopo le traversie del bombardamento a Roma finisce la licenza e se ne torna a Sitia, sull'isola di Creta:
«Nel frattempo scoppia l'armistizio ed ha inizio la parte peggiore di questa avventura. Con un intero reparto di fanteria, comandato da un giovane capitano, mi sposto in montagna, zona di Kandras, a sud di Sitia dove hanno inizio le prime schermaglie con i tedeschi. Era con me un altro giovane ufficiale del genio, l'ingegner Mileno Navone, valoroso come pochi ne ho conosciuti, e con lui provvedevamo nei villaggi della zona al vitto della nostra malconcia truppa. Durante una di queste trasferte, accadde l'imprevisto. Una grossa pattuglia di tedeschi sopraffece i nostri amici e, dopo uno scambio di raffiche di fucili mitragliatori li fece prigionieri. I soldati furono avviati alla prigionia, ma gli ufficiali, in numero di 8 vennero sommariamente giudicati e il giorno dopo fucilati in una località presso Sitia, di nome Petràs, all'altra estremità della baia. Morirono coraggiosamente, dopo aver scavato essi stessi le loro fosse. Uno di loro, un ragazzo di Napoli, si chiamava Chiaia, aveva una bella voce e cantava spesso canzoni napoletane. Morì falciato dai nemici, cantando "voglio morire così, col sole in fronte!". Così mi raccontò un greco. Cominciò allora la vita randagia per me e il mio amico Mileno. Vivevamo di elemosina: un po' di pane e dell'uva secca che a Creta abbondava, e abbonda tutt'ora; ogni tanto un po' di olio di oliva, prodotto dell'isola. Io debbo molta gratitudine a questi greci che ci ebbero come nemici occupanti per anni e poi nei momenti difficili ci aiutarono fraternamente. La nostra miseria era infinita: laceri, sporchi, senza scarpe, vestiti di stracci, con le barbe lunghe, aspettavamo la fine di quella orrenda avventura con determinazione. Non mancarono i momenti di suspence. Una volta ci trovavamo in un monastero a sudest di Sitia, di nome Agios Toploù. Ci stavano dando qualcosa da mangiare, quando con un calcio si apre la porta ed entra una pattuglia di tedeschi, armati fino ai denti. Anche noi eravamo armati, ma assai più sommariamente: Mileno portava una pistola di ordinanza completamente in vista al di sotto della lacera giubba. Ma quando il buon Dio vuole salvarti, tutto si aggiusta per il meglio. I tedeschi non videro; noi parlavamo greco, avevamo le barbe lunghe e l'aspetto miserando dei pastori locali. Una donna entrò ed annunciò ai tedeschi di aver preparato una zuppa calda per loro. Appena l'ultimo uscì dalla
stanza, ci buttammo a capofitto giù per la montagna. E ci salvammo ancora una volta. Ricordo bene quei posti, come potrei dimenticarli? Ogni sentiero, ogni casa isolata e tutti quei paesini. Quelli in riva al mare erano proibiti: "Sperre zone". Chiunque venisse trovato lì veniva passato per le armi. Ricordo bene il monastero di Mony Kapsà, nella fascia costiera sud, a circa 8 miglia da Jerapetra. Molto suggestivo; quasi interamente scavato nella roccia, a picco sul mare. Là in una grotta vicina, rimanemmo nascosti per diversi giorni, finché dovemmo sloggiare su invito dei buoni frati: stavano arrivando i tedeschi. Le avventure erano all'ordine del giorno. La nostra era una vita di stenti: mangiavamo poco e quando ne avevamo; dormivamo all'aperto o nelle grotte che in quella parte dell'isola sono fortunatamente molte. Fummo catturati in aprile o maggio, da una pattuglia di italiani che avevano aderito alla Repubblica di Salò. Erano, naturalmente, in camicia nera e armati con armi tedesche. Parlavano molto e ostentavano la loro fede fascista. Non vedevamo italiani da molto tempo, ma loro non ci piacquero, specialmente per la loro aria di burbanza guerresca che pareva così fuori luogo in una situazione di guerra sicuramente già perduta. Questi italiani fascisti ci consegnarono ai tedeschi unitamente ad altri ufficiali italiani catturati nello stesso periodo. Eravamo in 8 e, in due giorni di viaggio, un po' a piedi, un po' con camions arrivammo al villaggio di Agià, non lontano da Kanià (La Canea, antica colonia veneziana). Là ci rinchiusero in un orrendo carcere che in tempo di pace era stato un carcere civile. Eravamo tutti chiusi in una cella. Sulla porta vi era una scritta: "Otto ufficiali italiani in attesa di giudizio per tradimento". Giusto: avevamo tradito il Duce e l'alleanza con i "camerati tedeschi". Dal loro punto di vista era corretto. La vita, se così si può chiamare, in carcere durò circa un mese. Ogni giorno nel cortile in basso, veniva fucilato qualcuno, con il lugubre cerimoniale in uso a quell'epoca nell'esercito tedesco. Noi eravamo affidati alle cure di un sottufficiale italiano ex guardia di finanza, oriundo di Brescia, di nome Rosi. Questo sciagurato si vantava di avere scortato al plotone di esecuzione diversi greci e italiani. Non so come sia proseguita la sua esistenza da allora.
Una notte vengono a prenderci: un sottufficiale tedesco in pieno assetto di combattimento con elemetto, cinturone, mitra a tracolla, ci dà una sigaretta e ci invita a metterci in fila. Pensammo che era arrivata la nostra ora, benchè l'orario non fosse quello normale per le fucilazioni. Ci portano invece con un camion, ammanettati, nel porto di Kanià. Lì ci imbarcano in coperta su una piccola nave già colma di deportati greci che erano chiusi nella stiva. La nave che fortunatamente pescava poco, fu silurata e mancata per due volte. Arrivammo al Pireo la mattina dopo e fummo avviati, a piedi, ad una nuova orribile prigione: il carcere di Averoff. Ancora terribili esperienze: il carcere di Agià alla Canea, era un luogo di villeggiatura in confronto. Fucilazioni e maltrattamenti in continuità. Dopo diversi giorni fummo caricati su un vagone merci con un po' di paglia sul fondo. Questa volta eravamo in 12. Attraversammo la Grecia, la Macedonia e tutta la Jugoslavia, poi parte dell'Austria e dell'Ungheria fino al campo di concentramento di Küstrin, al confine tra la Polonia e la Germania. Di questo periodo ricordo una scena che mi restò impressa. In una stazione della Germania orientale - io mi trovavo alloggiato, come d'abitudine, nel solito vagone bestiame - c'era sulla banchina un soldato tedesco, biondo, alto, magro, equipaggiato con zaino, maschera antigas, cinturone ed il suo lungo fucile a spall'arm. Il viso denunciava la disperazione, almeno così mi parve. Abbracciata a lui col viso sconvolto dal pianto una ragazza, anch'essa alta, allampanata, vestita di poveri indumenti. Forse lui partiva per il fronte russo. Nella mia memoria quella scena rimase impressa come "immagine di una guerra". In quei giorni l'Armata Rossa stava sfondando in Polonia. Conseguentemente venimmo presto reimbarcati su una tradotta che in un paio di settimane ci condusse al campo XB di Sandbostel tra Brema ed Hannover. Passammo anche un paio di giorni abbondanti nel parco ferroviario a Berlino, sotto continuo allucinante bombardamento aereo: di notte gli inglesi e di giorno gli americani. Ricordo l'ingresso del campo: vi era una scritta sopra l'architrave della porta (in legno e filo spinato): "Arbeit macht frei", ovvero "Il lavoro rende liberi"; era propaganda per l'avviamento ai campi di lavoro. ma a me suonava come: "Lasciate ogni speranza o voi che entrate". Infatti