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In giro per l'Europa, nostro malgrado

Del Boca, estremamente critico delle avventure coloniali italiane scrive: “(...) il nuovo viceré, Amedeo di Savoia Aosta, un personaggio che è esattamente l’opposto del maresciallo. Mentre Graziani è ignorante, impulsivo e spietato, il duca è colto, moderato e generalmente indulgente (...) alto, di aspetto molto gradevole, elegantissimo sia che indossi l’alta uniforme o la tuta da pilota, è dai suoi biografi presentato come il «principe sahariano», come un grande personaggio romantico, l’ultimo dopo Toselli”230. Anche Oriana Fallaci asserisce che "(...) lo scempio si placò solo dopo che il posto di viceré fu dato a un uomo civile, il duca d'Aosta"231 .

«Il viceré partì con l'incrociatore Duca degli Abruzzi ed io, con i bagagli al seguito, sul Conte di Biancamano da Genova. Sbarcati a Massaua dopo tre giorni di viaggio arrivammo ad Addis Abeba dove la situazione era tesa a seguito dell'attentato compiuto contro il generale Rodolfo Graziani. C'erano state delle azioni di repressione piuttosto dure. Ricordo che nel tragitto dall'aeroporto al palazzo reale (cioè il ghebì) vedemmo in piazza S. Giorgio quattro cadaveri ancora appesi alle forche. Il duca disse al suo aiutante di campo, colonello G.B. Volpini, poi morto sull'Amba Alagi: "Da domani queste cose non dovranno più succedere". Cambiò anche il modo di trattare con la popolazione locale: per prima cosa volle che ogni etiope avesse lo stesso rispetto dovuto ad un bianco e che non fosse più discriminato. Basti pensare che dopo appena sei mesi dal suo arrivo poteva recarsi tranquillamente dalla sua residenza, nel ghebì imperiale, all'ambasciata italiana accompagnato solo dai suoi ufficiali, senza bisogno di alcun tipo di scorta. La popolazione infatti, al suo passaggio si inchinava riconoscente per quanto aveva fatto in suo favore. In quel periodo feci numerosi viaggi in aereo col duca. Impiegavamo anche dieci ore di volo, con molti scali per effettuare il rifornimento; non si poteva decollare nelle ore calde della giornata perché i motori non potevano reggere a temperature così elevate. Una volta decollati si raggiungeva la quota prevista dal piano di volo e si

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230DEL BOCA (1992c) pag. 307. Pietro Toselli, lo ricordiamo, morì sull’Amba Alagi il 7 dicembre 1895. Alla vigilia della battaglia, nell’aria tersa e fredda della sera, affascinato dallo spettacolo magico d’illuminazione delle truppe nemiche, guardando il cielo pieno di stelle, canta con passione l’Ave Maria di Gounod (DEL BOCA, 1992a, pag. 592 e segg.). 231 Oriana Fallaci, Intervista con la storia, Rizzoli, 1974. Citato in BORRA (1985) pag. 64.

viaggiava ad una velocità di 380-400 km. Quegli aerei erano chiamati sorci verdi. Di ritorno in Africa dopo la licenza matrimoniale, giunsi a Massaua il 6 giugno 1940 con mia moglie e venni subito informato che ero stato richiamato alle armi e mi diedero le stellette da appuntare sulla divisa232. Ricordo che il 10 giugno, primo giorno di guerra, subimmo un violento bombardamento inglese e i nostri aerei vennero distrutti sull'aeroporto. Il modo di vivere era cambiato, si circolava con più circospezione ed era sconsigliato muoversi di notte. A parte qualche sporadica azione delle truppe italiane, esse subirono dagli inglesi gli attacchi più pesanti e col passare del tempo venne presa la decisione di lasciare Addis Abeba dichiarata città aperta».

Anche la moglie Hilde ha le sue avventure: «L'anno prima233 il duca d'Aosta era stato operato all'ospedale italiano gestito dalle Suore della Consolata. Mio marito assistette anche in quel periodo il duca e fu così che conobbe la madre superiora».

«Mi rivolsi così a lei - continua Achille - chiedendo se poteva ospitare mia moglie, cosa che avvenne fino al 1942, quando tutte le donne furono evacuate dagli inglesi».

Hilde: «Il viaggio fino a Berbera durò otto giorni. Poi ci imbarcarono su vari bastimenti italiani: Saturnia, Vulcania, Giulio Cesare e Duilio nonostante fossimo stati dissuasi durante il viaggio da altri prigionieri italiani sulla reale intenzione degli inglesi di rimpatriare tutta quella gente. Il viaggio durò circa due mesi causa il periplo dell'Africa234. In Italia si fece tappa a Napoli, Livorno ed infine Genova dove sbarcai. L'equipaggio era italiano però a bordo c'erano gli inglesi fino a Gibilterra. Rientrata in Italia venni a

232 Tutte le persone soggette alla giurisdizione militare italiana portano, dal 1871, come segno caratteristico sulla divisa militare le stellette a cinque punte: l'origine è incerta, però l'Italia risorgimentale veniva rappresentata come una stella luminosa che indica il cammino da percorrere o come una donna con la stella sul capo (BATTILA', 1993). 233 Amedeo subì un'operazione di appendicite trasformatasi in peritonite nell'aprile 1937.

Circa un anno dopo, in Italia, fu sottoposto ad un ulteriore, piccolo intervento (BORRA, 1985, pag. 127- 130). 234 Le cosidette navi bianche. Furono imbarcati 3.890 bambini, 4.518 donne e 968 uomini dal 12 al 24 maggio 1942 (DEL BOCA, 1992c, pag. 561). In totale, con tre convogli, saranno rimpatriati circa 30.000 italiani.

Montessoro presso i miei suoceri: era il 23 giugno 1942 e non avevo documenti. Ho atteso per due mesi il passaporto. I miei genitori nel frattempo si erano recati a vivere in Austria dove giunsi appena mi rilasciarono il passaporto e vi rimasi per quattro anni».

Achille: «Partimmo da Addis Abeba a piccole tappe passando attraverso Mai Ceu e viaggiando di notte. Eravamo 2.000 soldati nazionali più le truppe di colore; il viaggio durò circa dieci giorni e quando arrivammo sull'Amba Alagi la maggior parte delle truppe di colore aveva disertato235. I rifornimenti erano scarsi poiché quando attraversammo un ponte che univa due valli, passarono le vetture, i soldati e solo qualche camion della sussistenza, poi lo facero saltare. Eravamo sotto il fuoco nemico senza possibilità di difenderci: in un giorno contammo 3.000 cannonate236. Anche l'aviazione inglese ci era addosso con gli spitfire. Il duca ed io eravamo in una nicchia nella quale c'era il posto solo per due brandine; non eravamo con gli altri ufficiali. Davanti all'apertura della nicchia fu costruito un muro a secco in pietre per proteggerci dagli attacchi aerei237. Eravamo privi d'acqua238: vi era una sorgente ad alcune centinaia di metri che era tenuta costantemente sotto il tiro nemico. Morirono in molti nel tentativo di prelevare qualche litro d'acqua. I militari erano di vari corpi: bersaglieri, fanti, indigeni, ecc. Ogni volta che un fortino veniva conquistato dagli inglesi i superstiti arrivavano lì. Rimanemmo sull'Amba Alagi quindici giorni. Il 16 maggio vi fu la resa. Prima di arrivare a questa vi furono trattative con gli inglesi: da accordi presi

235 Il duca salì sull'Amba Alagi il 1° maggio (DEL BOCA, 1992c, pag. 481 in nota). All'inizio dell'assedio dispone di circa 7 mila uomini secondo DEL BOCA (1992c) pag. 487 e

BORRA (1985) pag. 194. 236 Il duca nel suo diario annota: «Calcolo che fino ad oggi avremo avuto sul groppone, in 18 giorni di battaglia, 30 mila colpi di cannone, tutti concentrati in pochi metri quadrati (...)».

Riportato in DEL BOCA (1992c) pag. 492. 237 «(...) in certi brevi tratti della cengia, dove è più larga, si costruiscono sul margine alcuni muretti a secco di pietre (ma anche le pietre scarseggiano) con un lavoro per lo più notturno (...)»: BORRA (1985) pag. 196. 238 Ricordiamo che l'Amba Alagi è alta 3.442 metri: quindi oltre alla mancanza di acqua gli assediati pativano di notte un freddo intenso. I resoconti del duca e del suo medico personale Edoardo Borra ne fanno preciso riferimento.

via radio, il generale Volpini, amico del duca da 30 anni e suo aiutante di campo, il maggiore Bruno e due carabinieri si recarono a trattare la resa con gli inglesi. Discesi dall'Amba Alagi giunsero in fondo alla valle, in quella che era considerata terra di nessuno, ma che in realtà era infestata dai predoni. Gli indigeni confabularono un poco con loro, li lasciarono passare, ma fatti appena venti metri li falciarono alle spalle. Noi vedemmo tutto con i binocoli239. Allora i nostri ufficiali si misero in contatto con gli inglesi per spiegare la fine che aveva fatto la nostra missione. Gli inglesi dissero di non sparare, che il giorno successivo avrebbero mandato i loro ufficiali per trattare la resa. Infatti la missione inglese partì il mattino seguente, ma fece la fine dei nostri. Allora il comando inglese inviò reparti armati che fecero terra bruciata in quel fondovalle, regno dei predoni. Fu così possibile trattare la resa che ci fu concessa con l'onore delle armi240. Prigioniero degli inglesi, il duca fu portato dapprima a Adi Ugri, già residenza del duca di Ancona suo cugino. Egli rifiutò un trattamento di favore e chiese di essere considerato come un qualsiasi altro ufficiale prigioniero. Ci trasferirorono così a Nairobi in Kenia. Dipendevamo dal campo 357 ed eravamo ospiti in una villa di una signora americana. In questi spostamenti col duca c'erano l'aiutante di campo, l'ufficiale di ordinanza, l'aiutante di volo, l'ufficiale di collegamento, il medico Borra, Gallini, Felloni e io. Il luogo dove si trovava questa casa non era salubre, essendo infestato da zanzare: la malaria era frequente. Il servizio di custodia o più che altro di sicurezza del duca, era costituito da un ufficiale inglese e da 24 soldati di colore. Al duca venne concesso di andare a Nairobi una volta alla settimana e di portare con sé a turno uno solo dei suoi ufficiali; l'unica condizione era di vestire in borghese. A Nairobi poteva fare piccole spese. Poteva disporre di 42 sterline la settimana che gli venivano date dagli inglesi

239 L'episodio è descritto minuziosamente in BORRA (1985) pag. 206. 240 Alle 9 del 19 maggio le truppe italiane, frazionate in scaglioni di trecento uomini, lasciano il forte Toselli e si avviano alla prigionia; la battaglia è costata agli italiani 1.300 morti e 1.600 feriti, cioé il 40 per cento delle forze impegnate. Al duca fu concessa la medaglia d'oro. DEL BOCA (1992c) pag. 494 e 495.

e a tutti noi disse: "Questi soldi li spenderò per tutti perché da oggi qui bolle una sola pentola: se c'è pasta, è pasta per tutti e se è riso, è riso per tutti". Il giorno prima di andare a Nairobi, faceva il giro dei suoi soldati chiedendo se avevano bisogno di indumenti, calze, maglie ecc. che poi consegnava alla sera appena arrivato. Per il resto della settimana viveva quasi in isolamento. Insegnava un po' di inglese ai suoi ufficiali o faceva, raramente, qualche partita a tennis. Era già molto malato e questa vita, soprattutto il clima, gli pesava enormemente. Io mi ammalai di malaria e fui ricoverato. Nel frattempo le condizioni del duca peggiorarono e fu portato all'ospedale militare e Gallini andò ad assisterlo. Fu poi trasferito in clinica. Intanto io fui dimesso e raggiunsi il duca. Gallini lo assisteva di notte, io di giorno. Lo accudivo, lo rasavo e gli leggevo qualche brano di libro. Era però sofferente, sudava in continuazione. Noi eravamo trattati molto bene: thé, pranzo, ecc. Il duca ogni tanto mi diceva: "Ce la faremo stavolta?" poiché io lo avevo assistito altre tre volte durante i suoi ricoveri in clinica in Italia. Gli inglesi vedendo che le condizioni del duca non miglioravano, anzi peggioravano di giorno in giorno, fecero giungere dal Cairo un professore e parlarono col dottore personale Borra, per avere informazioni circa il suo stato di salute prima di essere fatto prigioniero. Mandarono a prendere nell'archivio dell'ospedale italiano di Addis Abeba la sua cartella clinica con le lastre radiografiche e constatarono che il suo stato di salute era già precedentemente compromesso. Si stava purtroppo avvicinando la fine. Gli venne chiesto dagli inglesi se desiderava ancora vedere una volta sua moglie, ma lui non accettò per non essere diverso dagli altri prigionieri. Verso le due di notte Gallini notò un'alterazione del respiro, chiamò il dottore e poi venni chiamato anch'io al suo capezzale. Fu chiamato anche padre Boratto. Morì alle 3,15 del 3 marzo 1942. Il giorno prima era stato da lui il confessore e noi volevamo uscire dalla camera ma il duca ci disse di rimanere perché quel che aveva da dire a Dio potevamo sentirlo anche noi. Ci ritirammo così in un angolo della stanza241. Dopo la morte del duca la

241 Fu il duca stesso a volere presso di sè Campi e lo mandò a chiamare da Gallini: cfr

nostra vita cambiò. Al termine della cerimonia funebre, che avvenne due giorni dopo la sua scomparsa ed alla quale presenziammo tutti, ci venne fatto un altro discorso da un generale italiano, ben diverso da quello che ci aveva fatto il duca appena giunti alla casa di Nairobi. Rivolgendosi al cuoco il generale disse: "Da oggi non ci sarà più una sola pentola perché quel che mangia il duce non possono mangiarlo i suoi moschettieri". Il giorno dopo gli ufficiali del duca si rivolsero a noi tre (Felloni, Gallini e io) chiedendoci cosa avevamo intenzione di fare. Noi decidemmo di rimanere presso la fattoria in qualità di collaboratori e gli ufficiali chiesero ed ottennero di essere trasferiti in un altro campo di prigionia. Rientro in Italia il 26 marzo 1946 sbarcando a Napoli. Prima di toccare terra gli inglesi ci fanno spogliare, lavare e rivestire di nuovo. Ci portano alla caserma "Garibaldi" e ci fanno stendere sulla paglia che aveva già ospitato i prigionieri reduci dalla Francia. Risultato: siamo pieni di pidocchi, addio bagno e abiti puliti. Il giorno dopo la duchessa madre242 viene a sapere che siamo a Napoli e allora ci manda a prendere per portarci alla reggia di Capodimonte, sua residenza. Io conosco bene l'autista e gli faccio presente che ci troviamo in uno stato poco decoroso, carichi di pidocchi; lui allora telefona alla duchessa la quale gli risponde: "Anche se avessero la rogna li accoglierei ugualmente". Arrivati alla reggia ricevemmo un'accoglienza indimenticabile: ogni ben di Dio. In quel momento ho sentito il vero ritorno a casa mia, l'affetto era lo stesso. La duchessa mi ringraziò per quello che avevo fatto per suo figlio. Arrivai a Isola alle 5,30 e purtroppo non ricordo che giorno era: mi recai a casa di Gaetanin243 il quale mi informò di tutto quello che era successo. Sapevo di mio fratello Mario disperso in Russia, non sapevo niente della morte di mia madre. Appena me lo dissero cercai di raggiungere Montessoro per vedere mio padre. Mia moglie l'ho

BORRA (1985) pag. 249, in cui è ampiamente descritta l'ultima notte di Amedeo d'Aosta.

Achille Campi è anche citato in PETACCO (s.i.d.) vol. 2, pag. 471, SPERONI (1984) pag. 147, DEL BOCA (1992c) pag. 569. 242 Elena d'Orléans. 243 Gaetano Denegri.

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