Cesar agosto numero 15

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RIVISTA ONLINE 2016

N-15

Cultura Evoluzione Storia Archeologia e Arte Ricerca

Gioia Tauro (RC) 89013 RIVISTA ONLINE


Al Suono Delle Eolie

Al morir del suono delle Eolie Placa l’ira e dorme l’errante Odisseo. I Ciclopi dal Mongibello Lanciano incandescenti sassi, lapilli e sbuffano nubi nere, mentre le Sirene ammaliano i naviganti che osano varcare lo Stretto. Scilla e Cariddi Si guardano in cagnesco Nel tempo ,al pizzichìo delle Eolie, Omero canta, Vulcano e Stromboli chiamano il fratello Etna ed al risveglio trema Zancle e Rhegjon Soave tramonto al morir del suono delle Eolie! ROCCO GIUSEPPE TASSONE


INDICE - IL MULINO ZINDATO IN LOCALITÀ FOCOLIO NEL CUORE DELLA CALABRIA GRECA

- UNA CALABRIA E TANTI

“TOURISTI”: PERSONE E PERSONAGGI

- VIAGGIO NELLA CALABRIA GRECA

- L’EROE D’ALBANIA ALLA

GUIDA DI UN POPOLO EROICO

PARLANDO DI UOMINI DI CULTURANOVOTA’ DAL.... ...LIBRI-ITALIA CONCORSI EVENTI-CESAR


IL MULINO ZINDATO IN LOCALITÀ FOCOLIO NEL CUORE DELLA CALABRIA GRECA

Fig. 1 _ Fiumara dell’Amendolea

La fiumara dell’Amendolea nel cuore dell’Aspromonte greco è una delle fiumare più conosciute, grazie al suo patrimonio naturalistico, paesaggistico e storico. L’Amendolea nasce poco sotto la vetta di Montalto e come tutte le fiumare si presenta stretta e incamerata tra strette gole, burroni, grandi e piccoli isolotti rocciosi; le sue acque scorrono veloci in un alveo a forte pendenza che in prossimità di un percorso tortuoso forma cascate e laghetti, secondo la geomorfologia del territorio. Nel discendere verso valle per congiungersi con il mare Ionio, l’Amendolea bagna i territori di alcuni borghi nel cuoredell’Area Ellenofona. La sua corsa tumultuosa non ha solo modellato i territori circostanti ma ha portato anche vita sin dall’antichità, le popolazioni che abitarono questi luoghi impararono a coesistere con l’aspro territorio, la forte energia e la mutevolezza della stessa fiumara nei periodi di piena e di secca. Oggi risalire l’alveo dell’Amendolea è come addentrarsi in un mondo non contaminato dall’opera distruttrice dell’uomo, dove le forze della natura sono state più potenti e il tempo sembra si sia fermato. Risalendo l’alveo dal borgo di Amendolea verso monte in uno scenario surreale si possono scorgere non solo bellezze paesaggistiche ma anche i ruderi di antiche abitazioni, chiesette, frantoi e mulini ad acqua; quest’ultime strutture architettoniche, sorreggevano con i loro impianti idraulici l’economia di una società contadina, determinando uno sviluppo socio – economico per il territorio. Questi dispositivi trasformavano il movimento dell’acqua corrente in quello meccanico di un albero motore. I motori idraulici, i cui pezzi in parte, fino a qualche decennio fa, sono rimasti all’interno dei ruderi abbandonati dei vecchi frantoi e mulini, agli inizi del XX secolo erano ancora in funzione nella Valle dell’Amendolea nel cuore della Calabria greca, dove i cereali hanno rivestito un ruolo primario nella dieta alimentare della civiltà contadina presente. Nel Medioevo l’edificazione di un mulino era permessa solo al proprietario del corso d’acqua, solitamente un nobile, un ordine monastico e molto meno alle singole comunità, almeno fino al 1806, anno in cui, nel Regno delle Due Sicilie, cessò di esistere il feudalesimo. Dal 1814, non più soggetta a monopoli, , l’acqua della fiumara fu usata da 1


privati per impartire nuove mole. L’edificazione di tali impianti e la loro manutenzione favorirono un piccolo indotto, ad esempio durante i lavori di manutenzione erano coinvolti i muratori, falegnami, fabbri e scalpellini per produrre macine di pietra che a volte erano realizzate altrove e poi trasportate in loco. Nei primi decenni dell’Ottocento e per tutto il secolo numerosi opifici sarebbero sorti grazie all’incremento demografico e all’eversione della feudalità. Questi furono costruiti soprattutto nell’entroterra in zone abbandonate dalla pastorizia e facenti parte di ex demani feudali ed ecclesiastici, da adibire a nuove attività agricole e dove si svilupparono nuovi piccoli insediamenti abitativi. Nel 1869 con l’introduzione della tassa del macinato, moltissimi piccoli mulini chiusero per sempre. Il motivo non fu nell’aumento delle tasse di molitura ma nelle complicazioni tecniche e burocratiche che non potevano conciliarsi con una struttura che tirava avanti grazie alla propria semplicità di gestione. Tra i mulini che non furono chiusi, presenti ai margini dell’alveo dell’Amendolea, quello più antico è il “Mulino Zindato in località Focolio”, la sua costruzione risale ai primi decenni dell’Ottocento. La località Focolio oggi è nel territorio comunale di Roghudi ma nell’XI secolo era compresa nel territorio feudale di Bova, che nel XII sec. passo allo stato dell’Amendolea, per divenirne proprietà fino alla redistribuzione dei territori. Il “Mulino Zindato” si trovava in posizione strategica, in una vallata al centro dei colli che ospitano i borghi più importanti dell’Area Ellenofona, quali: Amendolea, Bova, Roghudi Vecchio, Ghorio, Rocca Forte del Greco, Gallicianò e Condofuri; e proprio da questi luoghi i loro abitanti si recavano a Focolio per macinare, percorrendo le numerose mulattiere che in questo luogo conducevano. Alcune di queste antiche mulattiere oggi non esistono più, poiché abbandonate ed erose nel tempo, mentre ancora sono percorribili quelle che conducono a Gallicianò e a Bova; la loro conservazione è attribuibile al passaggio dei pastori che ancora con i loro capi di bestiame le percorrono giornalmente dai colli fino all’alveo della fiumara dell’Amendolea.

Fig. 2 _ Individuazione in ortofoto del Mulino Zindato in località Focolio

L’antico Mulino Zindato fu danneggiato dall’alluvione del 1951; fu ripristinato ma in seguito ai danni causati dall’alluvione del 1972, fu definitivamente abbandonato. Gli eredi del mugnaio Zindato, da Focolio si trasferirono nei borghi dei territori circostanti. 2


La stessa energia delle acque dell’Amendolea che era fonte di ricchezza per la struttura produttiva fu causa di rovina e determinò per i loro proprietari un cambiamento nello stile di vita, grazie anche alla flessibilità per altre attività lavorative in altri contesti territoriali. La chiusura e il totale abbandono del mulino non sono attribuibili solo alla catastrofe naturale che interessò l’area. Infatti, negli anni Settanta, del Novecento, vi fu nel territorio dell’Aspromonte greco, un’evoluzione e trasformazione delle attività artigianali e industriali, conseguenti alla migrazione verso le coste e il nord Italia della popolazione, che interessò i piccoli insediamenti dell’entroterra; e derivanti dall’abbandono dell’attività agricola e dall’introduzione e l’impiego di nuovi macchinari, che operavano con altre fonti di energia, ottimizzando tempi e costi di produzione. I ruderi del Mulino Zindato in località Focolio, nel mezzo di una vegetazione mediterranea spontanea e selvaggia, ai bordi sud orientali della fiumara dell’Amendolea, oggi sono in stato di abbandono e cattiva conservazione, immersi nei detriti portati a valle dalla fiumara, lungo il suo percorso, e di quelli di piccoli smottamenti del terreno adiacente. Accanto al mulino le altre strutture architettoniche erano adibite a magazzini e ad abitazioni per la famiglia del mugnaio e dei suoi eredi, anch’esse oggi in stato di rudere, in abbandono e mal conservate.

Fig. 3 _ Mulino Zindato in località Focolio

Il fabbricato del mulino come alcune strutture architettoniche adiacenti erano ben costruite da maestranze locali, tanto che ancora oggi sono presenti: parte d’intonaco originario, porzioni murarie in muratura mista e una volta a botte ancora integra. Le tecniche costruttive adottate nell’edificazione garantivano la resistenza delle strutture architettoniche all’umidità e per quanto riguarda la costruzione del mulino, anche una buona resistenza alle vibrazioni continue prodotte dalle macine. Il funzionamento del mulino era strettamente legato alla realizzazione di una serie di opere atte a raccogliere e a regolare le acque. Grazie ad uno sbarramento, realizzato con pietrame o tronchi d’albero e spesso regolato da chiuse per aumentare, diminuire o fermare il flusso, l’acqua della fiumara era deviata in un canale che giungeva fino all’opificio per alimentare la ruota. Per una buona molitura occorrevano buone macine; quella inferiore era leggermente concava, la superiore leggermente convessa. 3


Il grano contenuto nella tramoggia era fatto calare nel foro al centro della macina superiore e da qui, grazie al movimento rotatorio, migrava verso la periferia delle pietre, dove era raccolto come farina. Le macine dovevano avere una superficie ruvida, per questo di roccia granitica, ed essere tagliate in un determinato modo, incidendo, con martello a punta la superficie interna e realizzando dei solchi spiraliformi con direzione centro – periferia e a svolgimento opposto nelle due macine. Il Mulino di Focolio era un impianto del tipo “greco”, costituito da un asse di legno verticale nella cui parte bassa vi era una serie di palette a cucchiaio, immerse nell’acqua. Esse erano fatte girare da un getto d’acqua a forte pressione, che si otteneva con cadute alte attraverso la “doccia”, compiendo una rotazione della ruota idraulica. La doccia è stata edificata con una muratura mista realizzata in pietrame, rocce granitiche e malta di calce idraulica, rivestita con intonaco di calce all’eterno e di quello di cocciopesto all’interno. Un’imboccatura più o meno stretta a seconda delle stagioni e del regime delle acque, provvedeva a dirigere con forza il getto d’acqua sui cucchiai, costringendo l’albero alla rotazione. Questo tipo di mulino era molto semplice, facile e poco costoso da mantenere e non prevedeva complicati ingranaggi da riparare quando usurati dall’attrito. Forniva piccoli quantitativi di energia ed aveva, quindi, un rendimento piuttosto modesto. La macina girava alla stessa velocità della ruota; e quindi macinava piccole quantità di grano a uso puramente locale. La ruota lignea era composta da una serie di pale montate sullo stesso asse della ruota, intagliate in modo da offrire al flusso d’acqua una superficie concava o leggermente obliqua per sfruttare al massimo la potenza del gettito.

Fig. 4 _ Mulino tipo “greco”: ricostruzione con spaccato assonometrico La scelta dell’impianto del tipo greco è stata determinata dal fatto che poteva funzionare anche con piccoli volumi d’acqua a flusso rapido ed era quindi adatto per le zone montane e per quelle prive di fiumi e torrenti di una certa consistenza. La ruota lignea ad asse verticale o a cucchiaio era alimentata da una piccola doccia di legno mentre un’imboccatura stretta, secondo le stagioni e del regime delle acque, badava a dirigere con forza il getto d’acqua sui cucchiai. Il mulino presentava due zone contraddistinte: quella umida della ruota, che altro non era il motore, e quella asciutta delle macine per la molitura. 4


Fig. 5 _ Impianto mulino del tipo Greco: ricostruzione in sezione La velocità di rotazione delle macine, era regolata, aumentando o diminuendo la superficie di contatto tra l’acqua e la ruota palmata, realizzata in ferro, mentre la forza centrifuga della rotazione espelleva il macinato verso l’esterno delle macine, che erano racchiuse in una sorta di “cassa” o in una specie di armadio, che avevano il compito di raccogliere il prodotto dopo della macinatura. Sopra le “macine” era posta la “tramoggia” che aveva il compito di immettere attraverso un foro ricavato nel solaio soprastante e attraverso un canale, il prodotto da macinare. Secondo le testimonianze storiche il lavoro era molto faticoso e complesso, tanto che richiedeva un rapporto diretto uomo – macina. S’interveniva continuamente, per mettere in funzione la macchina immettendo, attraverso la paratoia, l’acqua che andava così a colpire le pale; si doveva regolare la distanza tra le macine, per mezzo della temperatoia, in funzione del cereale da macinare e delle qualità richieste al prodotto; si doveva alimentare la macina introducendo il cereale nella tramoggia ed era necessario controllare il prodotto durante il processo di frantumazione per eliminare le impurità che potevano alterare la qualità della farina. All’occorrenza quando necessario si doveva intervenire autonomamente, senza la presenza di operai specializzati, alla manutenzione dell’impianto assicurando l’efficienza delle macine con lavori di rabbigliatura, che consistevano nel rifacimento dei solchi radiali presenti sulla superficie interna delle macine ed eseguendo interventi di falegnameria per riparazioni varie. Il lavoro all’interno del mulino era dunque duro tanto per gli uomini quanto per le donne della famiglia e si macinava sia di giorno sia di notte quando era necessario. Il mulino era un luogo dove si faticava molto, ma era anche il luogo che con la propria 5


produttività riusciva a mantenere e incrementare lo sviluppo socio – economico di un territorio, canale di scambi commerciali ma anche di quelli socio – culturali. Nei primi decenni del Novecento, sotto il Fascismo, il mugnaio, proprietario del mulino, non accettò la dura ed impopolare disciplina sui generi alimentari di prima necessità che venne imposta sia per controllare la produzione, il commercio ed il consumo dei generi alimentari stessi, sia per approvvigionare di vettovaglie le forze armate, dettate dal Regime. Infatti, fin dai primi mesi della Seconda guerra mondiale, la popolazione, specie quella dei ceti subalterni, che già precedentemente non godeva di una dieta sana ed equilibrata, fu costretta, a causa delle requisizioni e dei razionamenti, a ridurre ulteriormente il proprio desinare. Peggiorarono notevolmente le condizioni di salute determinate dalle possibilità e dalle abitudini inerenti alla nutrizione. Il mugnaio Zindato opponendosi alla regola che contingentava la produzione di farine, inizio a macinare clandestinamente, giorno e notte; un lavoro continuo, che era portato avanti da tutti i membri della famiglia con l’accortezza di non esser scoperti, perché la propria vita era importante ma aiutare la povera gente a non desinare, ammalarsi e a sopravvivere lo era ancora di più. (*)

NOTE:

Vincenza Triolo

(*) La risalita della fiumara dell’Amendolea fino alla località Focolio, il rilievo, le ricerche e lo studio del Mulino Zindato, è conseguenza della curiosità suscitata da mio nonno materno Antonio Zindato, un discendente del mugnaio, che quando ero bambina mi raccontava del tempo passato al mulino e del lavoro che praticavano nella struttura produttiva giorno e notte.

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UNA CALABRIA E TANTI “TOURISTI”: PERSONE E PERSONAGGI

La Calabria al tempo di Edward Lear, dalla seconda metà del Settecento e per l’intero Ottocento, rappresentò la metà di arrivo e allo stesso tempo l’oggetto di studio e di indagine di numerosi viaggiatori stranieri desiderosi di conoscere le bellezze artistico-culturali, storicoantropologiche e paesaggistiche di questa terra meravigliosa, aspra e forte, descritta nelle cronache europee del tempo come terra di briganti e di pericolo.Numerosi furono i viaggiatori, gli esploratori e gli scrittori che giunsero in questa terra luogo del mito e della bellezza, culla della Magna Grecia. Tuttavia la Calabria era stata metà dei primi viaggiatori stranieri ancor prima di Lear e Douglas. Infatti già i primi viaggiatori avevano cominciato a giungervi già dal XVI secolo e furono soprattutto francesi.

Il primo viandante ad aver raccontato in un’opera letteraria, la sua esperienza di viaggio in Calabria fu un anonimo di Orléans del Cinquecento il quale, oltre a raccontare il paesaggio e le testimonianze magnogreche, spiega come Tropea fosse un centro molto frequentato per via di un medico chirurgo particolarmente abile nella rinoplastica: non conosciamo con che strumenti e metodologie riuscisse a ricostruire i nasi dei suoi pazienti, ma a leggere questo resoconto pare avesse clienti in tutta Italia e la sua fama fosse grande anche Oltralpe. Da ciò è possibile dedurre che la Calabria non fosse proprio una landa desolata ed inospitale come talune cronache la descrivevano ma che sicuramente fosse una terra con una certa vitalità sociale. Dopo un secolo e mezzo di abbandono, furono gli illuministi a visitare nuovamente il Sud Italia, dandone spesso resoconti più mitici che naturalistici, quasi come se il viaggio in Calabria fosse prevalentemente un viaggio alla ricerca di sé. Tra loro ricordiamo Jean-Claude Richard abate di Saint-Non, che illustrò nel suo Voyage Pittoresque – Viaggio Pittoresco Sibari, Corigliano Calabro, Rocca Imperiale, Catanzaro, Scilla, Isola di Capo Rizzuto e Catanzaro, l’inglese Henry Swinburne, a cui dobbiamo una descrizione più dettagliata delle iniquità sociali ma anche l’intuizione di un utilizzo più efficace delle terre per le colture autoctone e delle spiagge per i bagnanti, Francois Lenormant che giunse in Italia nel 1866 con lo scopo di visitare e di studiare le antichità della Lucani e della Puglia. Nel 1879 Lenormant visitò la Calabria partendo da Taranto; nel 1882 attraversò la Basilicata partendo da Catanzaro con destinazione Napoli. I suoi viaggi nel sud Italia sono descritti nei suoi reportage di viaggio, À travers l’Apulie et la Lucanie – Attraverso la Puglia e la Lucania e La Grande Grèce – La Grande Grecia. Quest’ultima opera ne ispirò almeno altre due: Sulla riva dello Jonio di George Gissing e Old Calabria di Norman Douglas. Ecco le parole di Francois Lenormant in una sua descrizione del paesaggio intorno alla città dell’antica Ipponio, attuale Vibo Valentia: “Dal punto di vista pittoresco non vi è più bella passeggiata di quella del circuito della Ipponio greca. Nulla di più stupendo del contrasto dei due panorami di cui si gode, percorrendo le due creste, ovest e est, dell’altopiano. Da un lato vi è il mare che si estende a perdita d’occhio, e lo sguardo segue il litorale graziosamente arrotondato in emiciclo, al di là dei declivi che vi scendono coperti di giardini e sparsi di case bianche. Dall’altro lato, la rupe, che limita l’altopiano, è quasi a picco, e si distingue alla sua base, a 300 metri al di sotto del livello in cui ci troviamo, il villaggio di Stefanaconi, a partire dal quale comincia la pianura fortemente ondulata, attraversata da mille burroni, che ha al centro la valle del Mèsima col suo alveo profondo.” 7


Nel 1778 Dominique Vivant-Denon, scrittore, incisore, storico dell’arte ed egittologo giunse in Calabria con l’intento, anche in questo caso di scoprire le bellezze storico-artistiche della nostra regione. Nella sua opera egli offre una visione della Calabria che si discosta ancora una volta da quella presentata dalle cronache tradizionali del tempo; Denon ci presenta così una regione particolarmente bella ed affascinante dove montagne e pianure si alternano con le loro bellezze e le loro ricchezze, “una terra promessa vista dal deserto; un’immagine dell’età dell’oro, del paradiso terrestre’; ‘un giardino delle Esperidi dove tutto è piacevole quanto utile, abbondante quanto ammirevole’; e ‘...forse il paese dell’universo più bello, più ricco, più fertile e il più completo per ogni specie di produzione”. Attraverso un itinerario che ci consente di rivivere i paesi della Magna Grecia sino a Reggio per poi proseguire verso l’interno, sino a Morano, ci permette di scoprire una società ormai scomparsa e dei paesaggi in cui il passato sembra leggenda e la leggenda storia. Un viaggiatore particolarmente attento nella cura delle descrizioni è stato un altro personaggio e scrittore inglese, George Gissing con un’opera dal titolo originale By the Ionian Sea : Notes of a Ramble in Southern Italy – Sulla riva dello Ionio edita in prima edizione nel 1901 nella quale descrive il suo viaggio in Calabria compiuto nel 1897 anche lui come il Lenormant ricercando i luoghi nei quali fiorì la Magna Grecia. In quest’opera, il viaggio dell’autore inizia nella cittadina campana di Napoli da dove si imbarca per Paola. Giunto in Calabria fa tappa innanzitutto a Cosenza, attratto dalla leggenda di Alarico, poi si reca a Taranto in treno, ritorna in seguito in Calabria e a Crotone, l’odierna Crotone, ha un grave attacco di malaria. Qui conosce il medico Riccardo Sculco e la guardia civica, responsabile dei giardini pubblici Giulio Marino, a cui dedica belle pagine. Ancora convalescente, si reca a Catanzaro, una città di origine bizantina e quindi sulla carta poco interessante agli occhi di un classicista, dove la bellezza della natura e l’ospitalità degli abitanti facilitano il recupero della salute. Da Catanzaro si reca a Squillace, dove rende omaggio a Cassiodoro, e prosegue infine per Reggio di Calabria, nel cui museo archeologico Gissing trova traccia del passaggio di Lenormant. L’opera di Gissing dimostra, rispetto ad altre dello stesso genere e anche dello stesso periodo, un dato in più: la descrizione delle genti di Calabria, verso le quali il viaggiatore inglese dimostra simpatia, descrivendone con ammirazione la dignità e la gentilezza. Nell’opera costanti sono i riferimenti all’Italia meridionale post-unitaria, all’evidente decadenza del Sud rispetto agli splendori del passato, all’arroganza delle classi dirigenti, alla modernizzazione che stenta a decollare anche nella nostra regione. Un ruolo assolutamente di tutto rilievo nel contesto dei visitatori della nostra Regione, è sicuramente quello del tedesco Karl Witte il cui merito fu sicuramente quello di avere in modo determinante segnalato ed evidenziato l’esistenza di un’isola alloglotta greco-calabra avviando così un intenso dibattito storico-linguistico sull’esistenza di queste comunità e sulla lingua da loro parlata grazie anche all’individuazione e ad una prima diffusione di tre canti greco-calabri, riportati tutti alla luce da Witte, che sottolineavano l’importanza storica di questa parlata al contesto culturale europeo ancora per lo più sconosciuta. Nel 1821 infatti pubblicava sulla rivista Gesellshalter, un articolo nel quale annunciava alla comunità scientifica del tempo la sua scoperta relativa ad un Canto Bovese o greco-calabro che dir si voglia. Negli anni a seguire, il glottologo tedesco August Friedrich Pott pubblicava sulla rivista Philologus questo stesso canto con l’aggiunta di altri due la cui copia era stata fornita dallo stesso Witte. Da questo momento in poi l’interesse della comunità scientifica verso la lingua greco-calabra fu costantemente in crescita; se ne occuparono nel corso dei loro studi il Comparetti, il Morosi, il Pellegrini, il Karanastasis, il grande archeologo delle parole G.Rohlfs il cui merito principale fu quello di avere ridisegnato la storia linguistica della Calabria in generale e della Calabria greca in particolare. Circa venti anni dopo il Congresso di Vienna, nel 1835, lo scrittore e drammaturgo francese Alexandre Dumas giunse a visitare la Calabria. Nella nostra regione il viaggio di Dumas iniziò sotto falso nome e dopo avere visitato la Sicilia in compagnia del pittore Jadin e del cane Mylord. 8


Tra le tappe principali che sono ben descritte nella sua opera sicuramente meritano di essere ricordate Scilla, Pizzo, Maida, Cosenza, durante le quali Dumas non manca di annotare sul suo taccuino di viaggio, notizie storiche e fantastiche. Generalmente però, parlando di viaggiatori e di cronache e di diari di viaggio, il riferimento più comune che la critica storico-culturale ha portato avanti, è stato quello relativo a Norman Douglas, intellettuale britannico che giunse a visitare il Sud Italia nel 1907 raccontando nella sua opera Old Calabria – Vecchia Calabria pubblicata nel 1915 in Inghilterra e giunta in Italia solo nel 1962, le bellezze e gli affascinanti paesaggi di regioni come la Basilicata, la Puglia e la stessa Calabria.Norman Douglas infatti, appena giunto sul Massiccio del Pollino, ebbe “una visione di pace” perché “queste stupende montagne sembrano fondersi, al tramonto, in una nebbia di ametista”. Da qui poi si lasciò guidare dal suo “compagno”, il fiume Trionfo, sino alla Sila Greca, dove il “paesaggio assume bruscamente un tono epico”. Qualche ricordo dei suoi luoghi natii accompagna invece la visita di Douglas alla Sila Grande, un “venerando altipiano granitico”, perché “se non fosse per la mancanza dell’erica, qui il viaggiatore potrebbe credere di essere in Iscozia”. Le Serre Vibonesi appaiono a lui come “un tempo non eretto da mani umane” dai paesaggi magici ed incantevoli, ma è la descrizione della Sila Piccola quale “autentico ‘Urwald’, […] una foresta vergine mai sfiorata da mano umana” a rappresentare il punto di contatto con i tanti viaggiatori del passato. Dopo Normann Douglas a giungere in Calabria fu anche il belga Jules Destrée che pubblicò un’opera dal titolo “Impressioni di Viaggio – La Calabria” edita nel 1930 nella quale appare chiara la sua felicità e il modo stesso di come resta mirabilmente affascinato dai luoghi e dai paesaggi. L’occhio del viaggiatore belga coglie inoltre altri aspetti come per esempio il pascolo degli animali durante il suo passaggio nella Bovesia e la cura con cui i pastori trattano questi animali. Ecco le parole di Jules Destrée nel descrivere tale occasione: “Le mucche ed i buoi sono magnifici. Sono ben curati. Il loro pelo grigio è lucido. Non ho visto una solo bestia che avesse sui fianchi macchie di sterco. Le grandi corna orizzontali conferiscono loro una certa maestosità. Ho avuto l’occasione di vederne in gran numero, a Bova. Il mercato aveva luogo pietroso del torrente senz’acqua. Dal mare fino alla montagna era uno spettacolo mobile, nero e bianco, di uomini e di bestie, indaffarati e rumoreggianti sotto il sole”. Preciso è il riferimento di Destrée alla fiera di S. Pasquale che si teneva la terza domenica di Maggio sul greto dell’omonima fiumara e che vedeva parteciparvi agricoltori, pastori e bovari che giungevano da tutto il circondario e stando a quanto riportato dallo stesso autore belga anche da Napoli per vendere le loro svariate mercanzie. La descrizione del suo passaggio nelle terre dell’estremo lembo di Calabria è inoltre arricchito dalla descrizione dell’estrema cortesia degli abitanti dediti sempre all’accoglienza: “L’accoglienza riservataci a Bruzzano ha assunto proporzioni trionfali. Tutto il paese era raggruppato attorno all’auto e, quando scendemmo, con una serie di frasi lusinghiere ci dettero il benvenuto”. Nel pieno delle agitazioni del Regime Fascista 9


e nel corso degli eventi storici dello scoppio del Secondo conflitto mondiale, una giovane scrittrice di origine lombarda e attenta meridionalista, Maria Brandon Albini che in merito all’esperienza della sua visita in Calabria dice: “Il fatto stesso che la Calabria, grazie ai suoi rilievi montuosi, sia stata tagliata e salvata dalle invasioni venute dal Nord, ha permesso ad alcune minoranze di stabilirsi nel territorio e di restare isolate sino ai nostri giorni. Si tratta di comunità greche…che si sono annidate in cima alle montagne. Esse hanno mantenuto la loro lingua, i loro costumi, le loro cerimonie e le loro canzoni originali. Il sentimento dell’onore è molto vivo, l’ospitalità è sacra come al tempo di Omero”.

Saverio Verduci

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VIAGGIO NELLA CALABRIA GRECA

La terra di Calabria è un luogo mutevole, crocevia di popoli e culture; in un particolare punto del territorio poi, la penisola italiana incontra la Grecia e si fa Grecia in cultura, tradizioni ed anche lingua.Questo luogo è l’area grecanica, ampio territorio collocato tra il massiccio aspromontano ed il mare, concentrata sopratutto nella valle dell’Amendolea, da dove si diramano le fiumare di S. Pasquale, di Palizzi e Sidèroni e che costituiscono la Bovesia vera e propria. L’area grecanica si sviluppa principalmente nelle aree di cinque comuni: Bova, Roccaforte del Greco, Roghudi, Bova Marina e Condofuri ed ha un’ampiezza di circa 233 kmq. I residenti nella zona sono circa 14.000, ma il numero reale di residenti è assai minore e costantemente in calo a causa di emigrazioni e decessi non compensati da un adeguato ricambio generazionale.E’ proprio in queste terre che si è concentrato l’interesse dei viaggiatori della nostra rivista. Ecco il resoconto del loro viaggio breve nella Calabria greca, che li ha resi anche se per poco degli appassionati “greci di Calabria”. Scrivono i pellegrini nel diario di bordo: “Un breve viaggio in un’area della Calabria in cui il tempo, a tratti pare essersi fermato. Un’immersione in luoghi e terre in cui l’aria è intrisa della forte fragranza del bergamotto. Profumi di mare e agrumi, aspri profili di gole e montagne, sorrisi e saluti di gente cordiale e accogliente, paesini custoditi tra i costoni delle montagne, come tesori della terra; perle rinchiuse nel mare roccioso dell’Aspromonte. L’area grecanica è un luogo e tanti luoghi insieme. E’ un luogo di tempo, spazio e soprattutto memoria. Memoria e tradizioni. Ma soprattutto è ricchezza, valore, storia, cultura e costume. Inizia dal paesello di Bova Superiore detta Vua oppure I Chora (il paese), centro principale dell’area grecanica, la spedizione estiva dei viaggiatori di CESAR, da quel mucchietto di case saldamente ancorate a quelle altissime rocce piene di antichi segreti. Oggi il paesello conta solamente 1400 abitanti, sparsi nel borgo e nelle frazioni di Càvaddi, Cùppari, Agrappidà e Calojèro. L’aria è più frizzante lassù anche in Agosto. L’accoglienza della gente calorosa e sincera: <<Accomodatevi, da dove venite?>>, la garbata curiosità dei commercianti del luogo, i quali, orgogliosi, mostrano e consigliano di ammirare le bellezze della loro terra. <<Servitevi come se foste i padroni>>, la gentilezza della proprietaria di un piccolo bar di piazza esorta i viaggiatori. L’ospitalità da queste parti è sacra. Il piccolo gruppo parte dal basso, dalla piccola piazza con uno splendido affaccio sulla valle dopo la ripida salita. Prosegue dunque verso il cuore dell’antico borgo, all’interno del piccolo ma fornitissimo book shop di storia locale, rigurgitante di succosi libri di storia e cultura del luogo; il drappello si inoltra sempre più, gira e sale tra case, chiese, piazzette e fontanelle, sempre più lontano dal rumoroso 2016, 11


fino a sentire dall’alto delle rovine del castello normanno voci e rumori di tanti secoli prima, quando quel paesello era fresco e nuovo, pieno di vita contadina e popolare. All’altezza di 915 s.l. m, la vista è mozzafiato.Alle spalle i monti, sotto i piedi la valle, all’orizzonte il mare. “Miracoli di Calabria” vien da pensare. La discesa si conclude con la visita al Museo Paleontologico del paese, ed il gruppo di esploratori si ritrova proiettato ancor più indietro nel tempo: milioni e milioni di anni, mesozoico e cenozoico,un vortice di tempo pare aver risucchiato l’equipe grazie anche e soprattutto all’aiuto di una guida assai esperta. Il Museo Paleontologico di Bova, secondo unicamente a quello di Napoli, è divenuto nel tempo, crocevia di appassionati e studiosi di tutta Italia, i quali sempre più arricchiscono questo gioiello di cultura con donazioni di reperti. Basti pensare alle conchiglie preistoriche come il Cardium, rinvenuti presso Bovetto (RC), oppure i Clypeaster rinvenuti presso Cassaniti (VV) e Passo della Limina (RC), o ancora all’osso di balena rinvenuto in Aspromonte e alla costola di Dugongo imprigionata nella pietra di Lazzàro e così via. Tra le sale del museo il tempo diviene sempre più remoto, gli anni e i secoli non si contano più. Una volta che il gruppo di CESAR si divincola dalle spirali del tempo, è ora di tornare ad una gustosa realtà presente. La “Taverna di Bova” è pronta ad offrire un pasto abbondante fatto di delizie dal sapore ancestrale, prime tra tutte le “Lestopitte”, tradizionale piatto guarnito con frittura di peperoni e melanzane, saporito e fragrante, protagonista indiscusso di questa squisita tappa culinaria. Nel primo pomeriggio così i nostri visitatori si inoltrano nel Sentiero della Civiltà Contadina, viale contorto all’ombra del castello, viuzza che si inerpica giù fino alle viscere del borgo, costeggiata da macine, presse, strumenti e vasche narranti un’antica storia fatta di natura, profumi, sudore e lavoro. Una storia fatta di uomini e di terra. Ammirando ancora la splendida vista del paesaggio circostante, i pellegrini dell’area grecanica decidono di partire incuneandosi nelle impervie stradine polverose e rocciose ad altezze ammirevoli. Aggirano il colle su cui Bova sorge con l’unica compagnia di capre, mucche, cavalli e cani sparsi sui sentieri quali veri, naturali padroni del luogo.

Il viaggio prosegue nelle strette vie solitarie e sui vertiginosi tornanti che si susseguono fino alla Rocca del Drago (Rocca to Dragu) una mastodontica quanto bizzarra conformazione naturale, che alla vista appare come una grossa testa di rettile, impressionante nella sua rocciosa maestà, la quale nei secoli ha certamente alimentato la fantasia e i timori popolari e le paure dei più piccoli. Si narrava infatti, che sulle montagne vivesse un drago cieco. La creatura custodiva un tesoro favoloso ed era disposta a cederlo solamente a chi avesse superato una prova di vero coraggio, ossia sacrificare tre creature: un bambino maschio, un gatto nero ed un capretto nero. Per molto tempo gli abitanti del luogo non osarono mai tentare l’impresa, tutt’altro: nelle notti fredde e buie d’inverno e nelle giornate uggiose, tutti guardavano con timore alla Rocca. 12


Così accadde che un giorno nacque un bambino gravemente malformato. La levatrice lo consegnò a due uomini affinchè “se ne sbarazzassero”, ma, ricordandosi della leggenda nonché del tesoro, i due si recarono sul luogo presidiato dal Drago e recarono con loro le offerte necessarie al sacrificio.Una volta uccisi il gatto ed il capretto, al momento di sacrificare anche il bambino, giunse dalle gole rocciose dei monti un forte vento che gettò dalla rupe uno dei due uomini. Il secondo, sopravvissuto, scappò da quel luogo magico e visse fino alla sua morte, perseguitato dal demonio stesso.Poco distante dal luogo della leggenda, ecco le “Caldaie del latte”, forme ancor più strane di roccia chiara, tonde e numerose, le antiche fonti di sostentamento dei draghi del mito. La strada continua fino ad una breve depressione del terreno, dove un piccolo fiumiciattolo funge da casa a numerose rane e girini grazie alle sue acque basse. Ad accogliere il gruppo una piccola fonte a forma di raganella in pietra ed un’altra salita, ben più aspra. Un sentiero ed ecco apparire il vecchio cimitero di Roghudi Vecchio, chiuso e secolare custode di coloro che popolarono quella terra. Più avanti uno strano incontro interrompe il silenzio di quei monti, un piccolo furgone blu con due persone dentro. Due viaggiatori curiosi come la nostra equipe, diretti nel medesimo luogo. Il nido dei falchi, la pietrosa Roghudi o Richudi (che appunto significa “roccioso”). Eccola, infatti, pietraia inospitale, fatta di feroce bellezza e dolorosa desolazione. Eccola bella e abbandonata, la prescelta dal suo popolo e poi maledetta Roghudi. Maledetta dall’abbandono (il paese fu infatti evacuato in seguito a preoccupanti cedimenti del terreno provocati dall’alluvione. La popolazione si disperse successivamente nei paesi della costa), cittadella ritornata alla natura che la rivuole, violenta e inesorabile. Eccola inabissarsi nelle rocce secolari. Il profilo fiero, sfida il tempo e nulla teme, quel gruppo di case aggrappate alla pietra. Pare di pietra anch’essa, l’intera città, nel suo caparbio resistere alla tristezza del nulla. Sfida il cielo, le fiere notturne che di notte la dominano, sfida i paesi vicini, la altissima Roccaforte del Greco, la quale, seppur ancora abitata, non la eguaglia in fascino e rude bellezza.E’ sola e fiera Roghudi, senza più uomini, a difendere da sola i suoi oscuri segreti mentre le creature del mito sembrano aggirarsi ancora per i suoi monti. Le Anarade, creature femminili aventi zoccoli d’asino, che, nel passato erano temute dalle donne del luogo poiché attiravano le fanciulle al fiume e le uccidevano, per potersi poi accoppiare con gli uomini del paese, allungano ancora le loro inquietanti ombre dalla contrada Ghalipò, il luogo anticamente da loro infestato. Così Roghudi e’ preda della natura, è luogo fatale a metà tra incanto e terrore, tra commozione e angoscia. La vista dalle sue mura ammutolisce; nella sua chiesetta sgomento e quieta nostalgia di cose passate, mentre chi vede si chiede: <<Per te, quale futuro?>>. Luogo orgoglioso e disgraziato, fatto di roccia caparbia, di splendide viuzze e scoscesi strapiombi, Roghudi così ai viaggiatori lascia il suo sapore agrodolce e il suo richiamo strappa il gruppo dal presente e lo riporta al suo passato, vivo e palpitante di paese ancora vissuto. La città spezzata scompare così maestosa e chiusa nel suo eterno silenzio dietro i monti, mentre il cammino accidentato che risale il Tuccio attraversa Roccaforte del Greco detta Vuni (che significa montagna), 13


adagiata sul pendio di uno sperone roccioso, e poi via, rapidamente, tra valli e colli, strade semidistrutte e ben due incendi pronti a divorare ogni cosa. La marcia termina poi verso Marina di Condofuri da Condochòri (nome attribuito alla parte alta del borgo il cui significato è “vicino al paese”). La sua popolazione è divisa tra Condofuri Marina, Condofuri Superiore, Gallicianò, Amendolea -da Ammiddalìa (mandorleto)-, Grotta, San Carlo e le contrade di Lugarà, Lapsè, Mùccari, Carcara, Màgnani e S.Simio. Il viaggio si appresta a terminare in questo piccolo luogo conservante un mercatino carico di grecanici tesori, gioielli di bergamotto e legno, profumati olii e cibi e bevande, odorose bucce di odorosi frutti, obbligatori acquisti per i nostri avventurosi turisti, i quali, al termine dell’intensa giornata innalzano le loro piccole tende sulle pallide spiagge lambite dallo Ionio, unica musica assieme ai tuoni, unico bagliore assieme alla luce dei fulmini lontani, a tenere compagnia ai viaggiatori nella loro notte insonne”.

Marika Modaffari

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L’EROE D’ALBANIA ALLA GUIDA DI UN POPOLO EROICO

GIORGI KASTRIOTA SCANDENBERG NELLA STORIA ARBRESHE E NAZIONALE ALBANESE PRIMA E DURANTE LE IMMIGRAZIONI IN CALABRIA

-dott. Felice Delfino, in collaborazione con la dott.ssa Aldajna Kadi-

Un’aquila nera che domina la scena su un campo rosso e sventola al cielo trasmettendo intrinsecamente tutti quei valori che essa contiene. È la bandiera albanese, un vessillo issato dopo estenuanti lotte, sacrifici e sforzi profusi da una gente che indomita ha versato del sangue per il conseguimento del suo scopo: la libertà. Essere liberi fa parte costitutiva dell’ontologia albanese che proprio nell’autonomia e nella libertà vede nel suo processo di crescita e di sviluppo il sommo bene, un valore si raggiunto ma ancora oggi non esplicato pienamente nei suoi livelli più alti. La questione dell’attribuzione del Kosovo generante una diatriba infinita, una ferita lacerante, aperta e non facilmente cicatrizzabile, col limitrofo popolo serbo, seppur anacronisticamente e in ottica idealistica ha manifestato pesanti rivendicazioni socio-politiche con gravi ripercussioni interne. Tuttavia, quella del Kosovo rappresenta oggi solo una delle svariate problematiche che impegna attivamente l’intera nazione albanese alla risoluzione totale di quei malesseri che le impediscono di percorrere quella strada che ha come meta finale la totalità della libertà nel suo senso più lato. Eppure se andiamo a ritroso, nel tempo i concetti di autonomia e libertà sono stati all’atto pratico poco conosciuti dagli albanesi dell’epoca precedente il XIV secolo che hanno intravisto nell’elemento turco una voragine ostile che ha minacciato di risucchiare l’identità di un popolo. In questo clima di disarmante disagio morale e non solo instauratosi in molteplici locazioni del territorio nazionale dove l’Impero Ottomano nella sua opera espansionistica aveva inglobato non solo le terre dei dominanti ma anche provato a prevaricare le loro ideologie sottoponendoli all’egida dell’Islam coi suoi precetti coranici del profeta. Un uomo che incarna tutto ciò in cui gli albanesi hanno creduto e credono ancora oggi ha assunto il ruolo di guida e del modello dell’albanese ideale impegnandosi con costanza consentendo alla stessa bandiera albanese di sventolare oggi maestosa tra i cieli della capitale Tirana e di tutte le altre città shiptare. Quest’uomo non era un uomo comune, e il suo passato è indicativo del suo glorioso ed eroico futuro. 15


Anagraficamente era Giorji Kastriota Scandenberg della famiglia dei Kastriota, una generazione di principi e di gente di rango nobiliare che ha dispetto del suo “sangue blu” ha dato ascolta alla voce del popolo, una voce che gridava laconicamente giustizia contro i torti e i soprusi subiti nel tempo fomentati dai sultanati che collocavano gli albanesi in una posizione di estrema marginalità. Conosciamo meglio questo personaggio, gli aspetti salienti della sua esistenza, i suoi successi che lo hanno di diritto inserito tra i grandi della storia mondiale. Noi a volte lo conosciamo solo come Scandenberg ma questi è il suo soprannome che non a torto indicherà l’indole caratteriale dei suoi fasti di condottiero, è il combattente senza macchia e senza paura protagonista assoluto di romanzi ed intere opere letterarie e cavalleresche che esaltano ora la figura dell’eroe ora quella dell’anti-eroe che non si arrende ma che trascende i suoi limiti umani offrendo addirittura anche la vita per conseguire l’ideale in cui crede; la morte non porrà fine alla sua opera perché la sua grandezza non ne cancellerà mai le gesta. L’albero genealogico dei Kastriota viene piantato con Bernardo, il capostipite della famiglia, e da quel seme gettato in poi quest’albero si diramerà nelle sue principali ramificazioni. E, come gli uccelli trovano ristoro tra le fronde degli alberi dove nidificano, nell’albero dei Kastriota gli albanesi saranno al sicuro da ogni pericolo. Giorgi era il penultimo dei figli di Giovanni e della principessa macedone Tapalda e la sua vita incomincia nel 1405. Era una famiglia molto rispettata e numerosa che aveva attinto dal padre una diffusa coscienza improntata nel senso del dovere, del rispetto e nel servizio verso la patria. Sarà trasmessa anche a Giorji che la metabolizzerà e la farà sua anche in prospettiva pragmatica. Il clima familiare e l’istruzione saranno la formamentis di Giorji, un mix di intelligenza, tenacia, forza d’animo, vigore fisico, una persona completa insomma che vivrà di dedizione totale nel suo rapporto intimo d’amore e mai conflittuale con l’Albania. È proprio grazie a lui che lo Stato albanese inizia i suoi arbori, muove i suoi primi passi come un bimbo che potenzialmente sarà un uomo ma che nel suo iter di crescita biologica lo deve ancora divenire in atto con la maturazione individuale così l’unificazione del Regno d’Epiro e d’Albania grazie a Giorji Kastriota sarà l’incipit “ad potentiam” di uno Stato che “ad actu” sarà unitario ed unito anche nella lotta. Fondamentale nella sua maturazione personale fu il suo rapimento ad Adrianopoli (attuale Edirne, Turchia), la città che prende il nome dall’imperatore romano Adriano, famoso per il Vallum Adrianum che oggi divide il confine tra Scozia ed Inghilterra, e che è stato l’autore dei disordini in Palestina scaturendo la terza guerra giudaica (132-135 d.C.) per aver tentato di romanizzare la societas ebraica. La corte musulmana necessitava schiavi da sfruttare nelle diverse mansioni e i tre figli maschi dell’oppositore turco, il nobile shiptare Giovanni Kastriota, sono qui condotti con lo stato sociale servile. La loro sorte comune fino al rapimento sarà ben diversa all’arrivo nel centro del dominio turchi ed uno tre proietterà la sua esistenza verso una scelta monastica, sarà un monaco ortodosso molto attivo. La morte dell’eroe nazionale, albanese per eccellenza, grande condottiero, il più valoroso uomo di guerra e d’ingegno della storia shiptare, ha comportato una serie continua di flussi migratori dalle comunità disseminate lungo territorio dell’antica Albania tra cui la comunità di Cimuria e Morea (oggi Grecia) verso altre terre, in primis il Regno di Napoli. Dal XIV secolo al XVIII secolo, intere famiglie albanesi, al seguito degli epiroti cioè i generali dell’esercito, facenti capo ai loro superiori, tra cui si sono contraddistinti su tutti per tenacia, forza, valore, lo stesso Kastriota e Demetrio Reres, si sono stabilite in varie città e la Calabria è stata una meta privilegiata di questo gruppo etnico minoritario che ha “messo radici” sul territorio divenendo la realtà arbereshe, una realtà unica, inequivocabilmente gelosa delle proprie tradizioni che sono state custodite nel tempo, tramandate ancora oggi alla generazione attuale come un tesoro al quale anche un calabrese può attingere come punto di riferimento di una cultura diversa ma perfettamente innestatasi alla tradizione calabrese per essere un unicuum del cosentino, del catanzarese e del crotonese. Una tradizione che riveste anche importanza sacrale. La religione principalmente praticata nell’odierna Albania è l’Islam. L’islamizzazione albanese è stata avviata coi Turchi Ottomani, musulmani anch’essi, i quali, hanno imposto un dominio territoriale che si è esteso nel sacro e sul piano amministrativo attraverso una serie di legislazioni lungamente in vigore che ha soppiantato i testi legislativi negli ex domini di Bisanzio. Gli Arbershe prendono le distanze però dalle moschee e dai mussulmani essendo al contrario della massima parte degli Albanesi, cristiano-cattolici, conseguenza della conversione di Giorgio Kastriota ai precetti di Cristo, diventato cattolico insieme ai suoi sudditi, in virtù di quella egemonia culturale gramsciana mediante la quale i sovrani, i capi in genere,trasmettono 16


trasmettono i loro ideali e i loro valori al proprio popolo per controllarlo meglio, cosa che avvenne anche con gli Imperatore Costantino e Teodosio I, e la cristianizzazione dei romani ex pagani attraverso un processo di trasformazione delle strutture sacre imperiali che fa perno sugli Editti di Milano e di Tessalonica. Giorgio Kastriota diviene cattolico osservante anche difensore di quei valori, diviene l’atleta di Cristo – definizione conferitagli da Papa Callisto-e da vero atleta gareggia contro i rivali musulmani non solo alla conquista geografica di quelli che con lui saranno i Regni di Albania e d’Epiro, in prospettiva religiosa circoscrive quell’area cristianizzatisi difendendola dai continui attacchi proselitistici dell’Islam. La religione arbereshe che è viva, attiva nelle comunità di riferimento, è in continuità non con il processo evolutivo d’Albania che ormai , come ricordiamo, è quasi interamente musulmano, ma con quel filone di credenza cattolico sposato con fede, con grande devozione dal suo condottiero per antonomasia, vincitore di una estenuante lotta contro l’ostilità turca in circa venticinque anni di epici scontri via terreste, a volte via mare, che lo hanno elevato in qualità di stratega al pari di quei grandi uomini contribuenti coi loro successi militari a riempire pagine intere della storia mondiale, Caio Giulio Cesare, ma specialmente quell’Alessandro Magno figlio di Filippo il Macedone al quale Giorgio è stato accostato dal sultano turco, acquisendo il soprannome albanese di Scanderberg, traslitterazione dell’equivalente turco Ikender berg, è quel signore Alessandro che la memoria storica indirizza al ricordo di colui il quale ha realizzato le speranze di un popolo prigioniero incatenato dall’opera espansionistica turca, gli albanesi sono una gente che emancipatasi dalle nazioni che volevano imporre un’egemonia di potere sgradita, ha sempre sognato la libertà, un sogno che si chiama Albania. Questo sogno oggi è realtà concreta che deve però fare i conti con una serie di problematiche anche gravi e di non facile risoluzione come la mafia, corruzione delle autorità, la povertà, l’assenza dei diritti come la violenza subita dalle donne soprattutto in ambiente domestico. Per il governo degli Stati Uniti il problema dei diritti umani è proprio per gli albanesi una delle difficoltà eminenti e in virtù di ciò molti sono gli albanesi che preferiscono emigrare all’estero in cerca di maggiore fortuna. Il processo di liberazione, da queste problematiche, che attanagliano il Paese è già avviato da tempo. Tuttavia, questi ostacoli sembrano insormontabili. 17


. L’abanese in virtù di questa condizione decide di venire anche in Italia per questioni di varia tipologie: lavorative, familiari, o altri motivi. La scelta ricade spesso nella nostra “terra bella e fertile” la Calabria, come ricorda l’etimologia del nome bizantino. Qui, un uomo o una donna di lingua ship trovano fasce territoriali che li fanno sentire “come a casa”, luoghi per un albanese familiari e garanti di ospitalità sono numerosi paesi sparsi nella Provincia di Cosenza, Catanzaro e Crotone, terre donate in origine a queste comunità in qualità di “premio” perché il valore arbereshe emergendo ha consentito a questi uomini coraggiosi di contraddistinguersi nella salvaguardia di difesa dei confini del Regno e i sovrani aragonesi li hanno ampiamenti ripagati per il contributo offerto. La contesa dei baroni nel catanzarese e la battaglia di Corone diventano momenti topici del valore aggiunto offerto dagli gli albanesi di Calabria in queste battaglie. Le loro radici si affondano in un tempo lontano, secoli e escoli or sono gruppi etnici migrarono dalla loro terra natia per fattori diverse in cerca di fortuna in terre ospitali. Ecco che la Calabria definita da Corrado Alvaro creata da Dio offre quel riparo sicuro divenendo la culla di queste civiltà. Quelle Arbereshe è una realtà particolarmente ricca, una varietà linguistica dell’italo-albanese di Calabria sta nel fatto che tra un paese e l’altro che distano pochi Km la lingua può avere delle varianti terminologiche così come cambia leggermente la pronuncia, a motivo di un’eccellente eterogeneità linguistica. È una lingua particolare, lo si può notare sin da subito: nei cartelli stradali indicanti i paesi limitrofi che contengono scritte arbereshe. Vagare per paesi, contrade e città che sono custodi della cultura in questione, è una gioia per un albanese; è un paesaggio generalmente di pianura o di montagna conforme per taluni aspetti geologici alla Madre Padria da dove gli avi s’indirizzarono nei tanti territori meridionali verso zone prevalentemente montuose per trovare riparo e proprio l’ambiente isolato e circoscritto è stato garante della salvaguardia identitaria anche in campo linguistico perché quella arbereshe con tutti gli attuali comuni di residenza dei superstiti del viaggio dell’esodo a partire dai Kastriota, ha decretato un unicuum del patrimonio tradizionale e culturale calabrese, ancora oggi ben visibile nei balli tipici e nei canti caratteristici di un folklore diffuso in questa particolare etnia che parla nelle sue forme dialettali una lingua simile all’antico tosco, una variante dell’albanese. L’area molto vasta è, come dicevamo, circoscritta dalle montagne che incastonano come fa una conchiglia con una perla, una natura incontaminata, per l’abanese di Calabria si tratta di una vita semplice ma frenetica, un mondo da conoscere e da scoprire nella sua unicità riscontrabile anche nei suoi variegati aspetti enogastronomici: i piatti tradizionali e il buon vino affondano le loro radici in antiche ricette alcune delle quali presenti nei testi di impolverati ricettari scritti nella lingua di Scanderberg e dei suoi uomini. È una lingua che non è lo ship, è bene precisarlo, e, la lingua albanese deriva dall’antico illirico. Questa lingua è sopravvissuta al dilagare degli eventi, essendo in una area periferica, rispetto all’area centrale, l’Albania, in cui la lingua è nata e si è evoluta.

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Tra le montagne che hanno difeso l’arbreshe da stravolgimenti strutturali glossologici e fonetici, c’è la montagna del Pollino, che sovrasta u importante centro come Civita. Qui vi sono strutture urbane caratteristiche civili e religiose: dal museo civico di Civita, intitolato a quel Gennaro Blacco, l’illustre poeta garibaldino che, per ragioni politiche, viene gettato nei meandri del carcere borbonico di Santo Stefano fino alla morte e condivide il dramma della prigionia in compagnia dei Settembrini; l’itinerario di conoscenza può proseguire all’interno di ambienti che intrinsecamente richiamano gli animi alla spiritualità ad un misticismo sacrale, che pervade la sensibilità di chi osserva ad un forte senso di protezione: la Chiesa di Santa Maria Assunta che nel suo simbolismo tipico che rimanda alla diffusa nazionalità albanese, ha interni stilisticamente e artisticamente affascinanti: l’affresco del Cristo Pantocratore è suggestivo, incantevoli le iconostasi, i mosaici impreziosiscono un ambiente quasi ipnotico per il turista. Appena varcato il portico d’ingresso della struttura ecclesiale, il cui rito è bizantino, praticato già all’arrivo di questi esuli che, da elemento esterno, si sono poi integrati perfettamente in una simbiosi armonica, col resto della popolazione pur avendo il loro rito peculiare. L’Eparchia di Lungro è il punto di riferimento del culto arbereshe in Calabria e Piana degli Albanesi per quelli siciliani. Pur demograficamente, una minoranza, il numero degli abitanti arbereshe è esiguo rispetto ai calabresi d’origine, l’importanza della loro presenza è comunque tale che, la differenza di numero, seppur netta, non si percepisca in maniera eccessiva. È una presenza che desta comunque curiosità e pertanto va adeguatamente analizzata e studiata nei suoi gesti di quotidianità, anche nei suoi proverbi, nelle sue parole tradizionali che sono garanti di un maggiore approfondimento di questo eminente gruppo etnico minoritario. Esiste una frase che sintetizza come sia importante la lingua per un popolo: lo è ad esempio per un basco che si identifica nell’Euskara, lo è per un albanese che s’identifica nella lingua arbreshe: se la cultura di una terra muore con essa muore anche il popolo. La lingua è uno specchio che riflette l’essenza di una nazione; un valore non può essere trasmesso se non è comunicato, la lingua è la fonte di ogni valore. Per questo esistono nella Costituzione Italiana leggi di tutela per le minoranze storiche, in conformità all’art. 2- per preservare la loro lingua dal rischio dell’estinzione, tra queste realtà linguistiche c’è appunto l’albanese e, in Calabria, insieme all’occitano dei Valdesi e il Greco di Calabria rappresentano i tre tesori linguisticoculturali da difendere e divulgare preservarli da un possibile disinteresse e dall’ignoranza. Se privati della loro lingua, gli arbreshe, non sarebbero più una comunità, cesserebbero di esistere, ontologicamente, nel substrato sociale. È un concetto alto, ciò riassume una frase: essa riflette sull’importanza della salvaguardia identitaria, è frase che fa molto riflettere:

“Un popolo incatenatelo, spogliatelo, tappategli la bocca è sempre libero, toglietegli il lavoro, il passaporto, la tavola dove mangia, il letto dove dorme, è sempre ricco, un popolo diventa povero se lo privano della lingua che ha ereditato dagli antichi avi ed è perduto per sempre”.

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BIBLIOGRAFIA DEGLI ARTICOLI

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IL MULINO ZINDATO IN LOCALITÀ FOCOLIO NEL CUORE DELLA CALABRIA GRECA di -VINCENZA TRIOLO-

ALIBERTI G. (1969) Mulini, mugnai e problemi annonari in Italia dal 1860 al 1880, Giunti G. E., Barbera G., Firenze. BARATTI C. (1999), L’acqua che muove le ruote. Periodico di Est Sesia, n. 102-103. MEDICI F. (2003), Il vecchio mulino ad acqua in Calabria. La tecnica, la storia. Ed. Laruffa, Reggio Calabria. MORELLI R. (1984), Mulini ad acqua in Calabria, Cassa di Risparmi Calabria e Lucania, Cosenza. FONTI ICONOGRAFICHE:

Fig. 1: Archivio fotografico Vincenza Triolo, scatto agosto 2015 Fig. 2: https://www.google.it/maps, leggende e modifiche grafiche con Photoshop a cura di Vincenza Triolo Fig. 3: Archivio fotografico Vincenza Triolo, scatto agosto 2015 Fig. 4: Mulino tipo “greco”: ricostruzione con spaccato assonometrico, attraverso studi e disegno vettoriale riprodotto da Vincenza Triolo. Fig. 5: Impianto mulino tipo Greco: ricostruzione in sezione, attraverso studi e disegno vettoriale riprodotto da Vincenza Triolo.

UNA CALABRIA E TANTI “TOURISTI”: PERSONE E PERSONAGGI di - SAVERIO VERDUCI-

BRILLI A., Un paese di romantici briganti. Gli italiani nell’immaginario del Grand Tour. Il Mulino, 2003. MACRI’ G.F., Il tempo, il viaggio e lo spirito negli inediti di Edward Lear in Calabria. Laruffa Editore, 2012. RAFFAELE G., Sull’orlo dell’invisibile. Il sublime nella Calabria del Grand Tour. Laruffa Editore, 2015. TUSCANO F.D., Edward Lear e la Bovesia. Associazione Culturale Ellenofona “Paleo Cosmo” ediz. 2009. TUSCANO F.D., Il Grand Tour nella Calabria Estrema. Tra bellezza sublime e filoxenia di omericamemoria. Parco Culturale della Calabria Greca. Rubettino, 2016. VALENTE G., Dizionario dei luoghi della Calabria. Chiaravalle, 1973.

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LA FOTOGALLERY

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PARLANDO DI...

VINCENZA TRIOLO Nata a Reggio Calabria nel 1980, consegue nel 2014 la laurea in Scienze dell’architettura e nel 2012 la laurea in Storia e Conservazione dei Beni Architettonici e Ambientali nella Facoltà di Architettura di Reggio Calabria. Nel 2001 collabora, con l’incarico di esperto esterno, al progetto PON per il recupero e la valorizzazione del centro storico di Motta San Giovanni. Nel suo iter universitario partecipa a numerosi stage: Fortificazione di Santo Niceto, rilievo e analisi di degradi e dissesti, Archeologia e cantieri di restauro nella Sicilia centrale, Studio di edilizie di base del paese di Armo Gallina (RC). Rilievo e analisi dei degradi e dissesti di Palazzo Spinelli di Motta San Giovanni (RC). Nel 2013 collabora a progetti di ricerca con il Dipartimento PUA presso l’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria ed è stagista presso la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici delle provincie di Reggio Calabria e Vibo Valentia. Nel 2014 collabora con la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici delle provincie di Reggio Calabria e Vibo Valentia con la qualifica di esperto esterno all’attività di catalogazione relativa all’uso del sistema informatico per i Cantieri di Restauro SICaR del MIBACT e all’uso del sistema informatico per la catalogazione relativa all’uso del sistema informatico per i Beni Culturali SIGEC/WEB del MIBACT. Nello stesso anno pubblica il saggio dal titolo: Il Quartiere Praci di Motta San Giovanni (RC). Storia, architettura e conservazione: linee guida per il recupero e il ripopolamento con la GB Editoria; e scrive in diverse riviste online che si occupano di Architettura, Storia e Conservazione dei Beni Culturali.

MARIKA MODAFFARI Nasce il 12/12/1992 a Gioia Tauro (RC). Studentessa Universitaria presso l’unical di Cosenza, nella facoltà di Scienze dell’educazione. Autrice del romanzo “Lumina Noctis”, pubblicato nell’anno 2009. Attualmente collabora con la rivista CESAR in qualità di correttore bozze, ed all’interno dell’associazione culturale CESAR veste il ruolo di segretario. Collabora e redige un magazine trattante temi religiosi.

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PARLANDO DI...

SAVERIO VERDUCI ( Melito Porto Salvo, 1979 )Storico e giornalista divulgatore si è laureato in Lettere Moderne presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ Università degli Studi di Messina nel 2006 con una tesi di laurea dal titolo: “La Calabria nello spazio mediterraneo in epoca romana.Produzioni, rotte e commerci”. Nel 2007 ha conseguito presso la medesima facoltà il Perfezionamento post-laurea in storia e filologia: dall’antichità all’età moderna e contemporanea con una tesi dal titolo: “ I rapporti commerciali tra la Sicilia e le provincie orientali in epoca tardoantica”. Nel 2010 ha conseguito il Perfezionamento post-laurea in studi storico - religiosi e nel 2011 ha conseguito il Master di II Livello in Architettura e Archeologia della Citta Classica presso la Scuola di Alta Formazione in Architettura e Archeologia della Città Classica dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria con una tesi dal titolo “ Rhegion fra Atene e Dionisio I ”. Studioso di storia antica e medievale si occupa della valorizzazione della plurimillenaria storia del territorio reggino e segue con particolare interesse la ricostruzione delle vicende storiche relative al territorio di Leucopetra ( Lazzaro) dove egli vive.Nel 2012 è stato nominato membro della giuria Premio Letterario “ Metauros ” sez. A – Libro edito di storia locale e nel 2013 sempre per il medesimo premio ne è stato nominato presidente di giuria della stessa sezione. Collabora inoltre con l’Istituto Comprensivo Motta San Giovanni ormai da alcuni anni in qualità di esperto e referente storico per i vari progetti di ricerca storica sul territorio lazzarese e mottese.Attualmente collabora con le riviste Costaviolaonline.it per la quale cura le pagine di approfondimento storico, con il portale Grecanica. com - voci dalla Calabria greca, con il sito Lazzaroturistica.it per il quale cura le pagine di storia e di archeologia, e con la rivista di studi storici Cesar.

FELICE DELFINO Nato il 04 Ottobre del 1979 a Oppido Mamertina (Rc), ha conseguito nel 2009 il Magistero presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Mons. Zoccali” di Reggio Calabria. Ha insegnato per due anni religione e cultura storico-sociale presso la Do.Mi. di Villa San Giovanni ed ha collaborato con alcune riviste storico-culturali locali pubblicando articoli religiosi per la rivista dell’Associazione Mariana “Amici di Fatima” di Rosalì (Rc), ma anche articoli e saggi storici con alcune riviste cartacee e online tra cui costaviola online. Appassionato da anni alla storia ebraica ha preso parte a diversi convegni incentrati sugli ebrei reggini (nel 2011 al Palazzo della Provincia di Reggio Calabria, evento organizzato dalla Fi.da.pa di Rc, insieme con l’avv. Franco Arillotta e con lo storico Natale Zappalà; nel 2012 nella conferenza presso la sez.UNLA di Arghillà Gallico). Ha pubblicato nel 2013, con la casa editrice Disoblio di Bagnara Calabra, il libro “La presenza ebraica nella storia reggina”. Attualmente vive a Catona (Rc).

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UOMINI DI CULTURA Giuseppe Procopio Il 26 giugno 1959 a Melito Porto Salvo un grave incidente d’auto ha troncato la giovane esistenza del dott. Giuseppe Procopio, mentre nelle sue mansioni di Ispettore alle Antichità compiva un lungo giro di servizio nelle zone archeologiche del litorale ionico. È stato questo un grave lutto ed una immatura perdita non solo per la giovane famiglia che Egli si era da poco creato e che guidava con impareggiabile affetto e sollecitudine di padre, ma anche per l’Amministrazione Antichità e Belle Arti e per gli studiosi di archeologia : nel purtroppo breve ciclo della sua attività si era fatto notare ed apprezzare per ingegno e zelo nel lavoro, e per attaccamento al dovere, per serietà di ricerche e di intenti. Nato a Reggio Calabria il 30 novembre 1926, si era laureato in lettere presso l’Università di Messina col massimo dei voti e la lode nel giugno 1947. Nello stesso anno iniziò a lavorare presso la Soprintendenza alle Antichità della Calabria, dapprima con varie mansioni e poi dal 1956 come Ispettore di ruolo, specializzato in numismatica. Prese parte a parecchie campagne di scavo in Calabria, e con i Soprintendenti che ebbero la fortuna di annoverarLo tra i loro collaboratori diede la Sua opera sia nei vari e delicati uffici che quotidianamente gli erano affidati, sia in particolari compiti di cui Egli si addossò l’onere in maniera speciale. Tra questi ultimi occorre ricordare l’ordinamento del Medagliere del Museo Nazionale di Reggio Calabria e gli scavi delle anonime città bruzie localizzate a Castiglione di Paludi e a Pietrapaola. In tanto fervore di archeologo militante stava preparando le relazioni ufficiali delle sue scoperte e si accingeva a nuovi lavori quando la morte lo ha colto giovanissimo, come suole cogliere i soldati di prima linea, l’animo teso al compimento del proprio dovere.

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NOVOTA’ DAL...

FOSSA COMUNE NELLA ZONA PORTUALE DI ATENE

Un Team di archeologi operanti nell’area sud di Atene, precisamente nell’antica zona portuale di Palaio Faliro, hanno riportato alla luce una fossa comune composta da 80 scheletri; si pensa che i resti siano appartenuti ad un’armata di uomini guidati da Cilone che nel 632 a.C. cercarono di conquistare Atene ed instaurare una tirannide, come riportato in alcuni scritti di Tucidide ed Erodoto. Alcuni degli scheletri erano incatenati e le posizioni ai ceppi restano a testimoniare la brutta, e violenta, morte compiuta. Si tratta quindi di prigionieri passati per le armi.“Sono stati tutti uccisi, ma la sepoltura è avvenuta con rispetto”, l’archeologa che dirige le operazioni, è convinta che non si trattava di schiavi o sconosciuti seppelliti alla meglio. Il golpe fu tentato da Cilone, atleta vincitore delle Olimpiadi che occupò l’acropoli durante i giochi del 632 a.C. appunto, insieme ad altri compagni. Gli insorti vennero però circondati e caduti a causa della fame. Se la datazione dei resti confermasse l’ipotesi, la scoperta sarebbe davvero eccezionale.

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...LIBRI

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I ITALIA T A L I A

I I CONCORSI T T A A L L I I A A

Premio Amerino - Concorso Letterario per Racconti Brevi VII Edizione Donna, delicata forza di un fiore - concorso di poesia e fotografia I Edizione

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ThrinakĂŹa Concorso internazionale di scritture autobiografiche, biografiche e poetiche, dedicate alla Sicilia III Edizione La Ville Ouverte - Mediterranean Landscapes - OPEN CALL transnazionale per giovani artisti

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Premio ArtePollino 2016

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LA REDAZIONE Direttore Generale Leandra Maffei Saverio Antonio Modaffari Impostazione e Impaginazione grafica Leandra Maffei Direttore al Marketing e alla Pubblicità Leandra Maffei Pubbliche Relazioni Saverio Antonio Modafferi

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SAVERIO VERDUCI DAVIDE MASTROIANNI VINCENZA TRIOLO FELICE DELFINO CRISTINA VERSACI

Immagini e Multimedia Banca dati Correction Writing Marika Modaffari Davide Mastroianni Distribuzione su Piattaforma On-line

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I contenuti della rivista provengono dalla Banca Dati , piattaforma internazionale e ricerche dello scrittore .


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