Riv. Imprese n. II Giugno 2015

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Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali

Bimestrale

di divulgazione

giuridica ed economica. II° numero

15 Giugno 2015

Numero II/2015 Numero redatto con la collaborazione di: Lenzi Paolo Broker di Assicurazioni Srl Via Riva Reno 29/c – 40122 Bologna mail: info@lenzibroker.it www.lenzibroker.it


Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali Bimestrale di Divulgazione giuridica ed economica Autori Vari – AA.VV.

Riv. Depositata presso il Trib. di Bologna in data 08/04/2015. Autorizzazione n. 8380

Proprietario e Direttore: Avv. Francesco De Sanzuane Sede redazionale: Via Borghi Mamo 1 – 40137 - Bologna Contatti e Info: http://www.rivistadelleimprese.it inforivistadelleimprese@gmail.com info@rivistadelleimprese.it

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Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali – Giu. 2015


SOMMARIO Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali ISSN 2421-2830

Editoriale

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In attesa del quando finirà “ufficiale”, le imprese continuano ad essere il motore della ripresa “dell’oggi” contro la crisi Francesco De Sanzuane

Nuove Tecnologie

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“STAMPA 3D. Una rivoluzione che cambierà il mondo?” a cura di Antonio Zama, Filodiritto Editore, 2014. Introduzione di Francesco Pignatelli

Diritto Bancario

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Brevissime note sul dies a quo del termine di conservazione degli estratti conto bancari: rari nantes in gurgite vasto di Marco Rossi

Informatica giuridica - Cyber Risk

Direttore responsabile Francesco De Sanzuane

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Cyber Threat & Risk Mitigation: strategie di gestione del rischio digitale di G.Serafini e L.Bassini

Autori Letizia Bassini, Mara Chilosi, Francesco De Sanzuane, Marco Garavini, Loreno Magni, Francesco Pignatelli, Marco Rossi, Giuseppe Serafini.

Diritto del Lavoro e delle Rel. Industriali

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Sfruttare al meglio I nuovi (ed i vecchi) incentivi: un equilibrio fra opportunità e programmazione di Marco Garavini

Diritto Internazionale e dell’Unione Europea

Segreteria di Redazione Via Borghi Mamo 1 40137 – Bologna

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Il recupero dei crediti in Europa. La Direttiva 2011/7/UE: uno strumento ancora poco conosciuto, ma fonte di diritti irrinunciabili di Francesco De Sanzuane

Diritto Ambientale. Resp. d’Impresa 231/01

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L’approccio per l’adozione o l’aggiornamento del modello per i reati ambientali di Mara Chilosi

Rubrica. Il professionista risponde.

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“Acquistare all’asta” intervista all’avvocato Loreno Magni

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Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali

Bimestrale

di divulgazione

giuridica ed economica. II° numero

15 Giugno 2015

Numero II/2015 Numero redatto con la collaborazione di: Lenzi Paolo Broker di Assicurazioni Srl Via Riva Reno 29/c – 40122 Bologna mail: info@lenzibroker.it www.lenzibroker.it

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Editoriale In attesa del quando finirà “ufficiale”, le imprese continuano ad essere il motore della ripresa “dell’oggi” contro la crisi. Non v’è dubbio che la crisi economica e finanziaria in cui versiamo ha imposto al tessuto imprenditoriale non solo un pesante fardello di natura monetaria, ma pretende ancora oggi, a quasi undici anni di distanza dalle prime denunzie di cedimento del sistema dovute alla crisi dei purtroppo rinomati “sub prime” statunitensi, riflessioni profonde e coerenti su quali strumenti adottare per permettere che la ripresa, in questi giorni nuovamente auspicata con toni quasi confortanti, sebbene pur troppo retorici ed ottimistici anche quando provenienti da agenzie o fonti amministrative di prestigio, possa essere effettiva e sostanziale per quella che resta ed sempre sarà la parte più importante, l’economia reale. Va infatti considerata la qualità dell’imprenditore nostrano, che per tradizione è abituato a muoversi autonomamente, anche quando di dimensioni più sostenute, in un mare di altre imprese di medie dimensioni abituate a risolvere le questioni che le affliggono “facendo” quotidianamente, e non attendendo tempi migliori. Ma la mancanza di quella ricchezza circolante che è, da sempre, il volano necessario e imprescindibile per qualsiasi attività economica, richiede sforzi sempre più intensi che non ormai non possono essere più compiuti solo attingendo alle ormai stremate risorse interne, che spesso non hanno né l’estradizione scientifica, né il tempo, di aggiornare i propri metodi. E certamente, la mera previsione di una ripresa, non ben identificata nel come e nel quando, non hanno alcun effetto balsamico per le aziende che vivono ora le difficoltà, anche solo nel reperire le informazioni più idonee alle loro necessità impellenti. La capacità di fare, quindi, non sempre è accompagnata dalla possibilità di trarre da tali difficoltà gli elementi capaci a far comprenderne gli effetti e le conseguenze sull’impresa e, senza dubbio, i proclami dei giornali non risolvono i problemi. Per chi fa impresa, infatti, il primo aiuto dovrebbe attenere all’individuazione delle risorse disponibili, puntando alla loro ottimizzazione per poi dedicarsi allo studio del mercato, del suo funzionamento e delle sue regole. Soddisfare queste necessità e proporre, per quanto perfettibile, uno strumento di divulgazione e approfondimento quale il presente, che accolga dissertazione pratiche e consigli in merito ai temi che interessano le azienda, è la ragione che ha spinto alla fondazione della nostra rivista, che vi invitiamo alla lettura, nella consapevolezza che l’Impresa, Grande, Media o Piccole che sia, proprio perché vive sul territorio, svolge anche un importante ruolo di integrazione sociale e di crescita culturale che, a ben vedere, ne ha assicurato nel tempo il successo e che non deve essere disperso, pur dovendosi adattare velocemente alla nuova metodologia di fare impresa nel mercato globale.

Francesco De Sanzuane 4

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Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali

Bimestrale

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giuridica ed economica. I° numero

Giugno 2015

Nuove Tecnologie

“STAMPA 3D. Una rivoluzione che cambierà il mondo?” a cura di Antonio Zama, Filodiritto Editore, 2014. Introduzione di .“Vivere una rivoluzione”

Francesco Pignatelli

Non capita tanto spesso di essere immersi in una rivoluzione dei processi produttivi e di potersene rendere conto con i propri occhi. Nei decenni recenti qualcosa del genere è accaduto solo con la dif- fusione progressiva dei personal computer, che a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta hanno profondamente mutato il modo di lavorare e poi di vivere – specie ora che di fatto il computer davvero personal è lo smartphone che portiamo in tasca – per milioni di persone. Gli anni Dieci di questo secolo sono segnati da una profonda rivoluzione nella distribuzione della capacità produttiva, che progressivamente si sposta dalla fabbrica tradizionale con le sue linee di montaggio a strutture più piccole ed elastiche, delocalizzate e addirittura talvolta virtuali, grazie alla potenza delle connessioni digitali. Il fattore scatenante di tutto questo è la diffusione delle tecniche di produzione additiva: è il cosiddetto Additive Manufacturing, che quasi sempre viene identificato con la stampa 3D. Questa diffusione, unita alla nascita di software di progettazione e design sempre più semplici da usare e persino gratuiti, sta già permettendo

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Due tecniche a confronto: SLS (Selective Laser Sintering) e FDM (Fused Deposition Modeling).

a piccole aziende e a singoli imprenditori di avviare processi produttivi estremamente elastici proprio perché slegati dai vincoli tradizionali della catena di montaggio e della produzione di massa. È già possibile oggi gestire produzioni di piccoli lotti di oggetti, al limite anche singoli pezzi realizzati on demand. A costi contenuti e una volta impensabili, usando stampanti 3D proprie o, più efficacemente per ora, servizi di stampa 3D conto terzi che producono gli oggetti in pochi giorni e li consegnano in tutto il mondo altrettanto velocemente. Anche negli ambiti più tradizionali l’<Additive Manufacturing> sta trovando largo impiego uscendo da quello che negli ultimi anni è stato il suo uso più tipico, ossia la prototipazione rapida. La stampa 3D per mette infatti di realizzare oggetti con forme che sarebbero impossibili da ottenere mediante il classico stampaggio a pressione di plastiche o metalli fusi, come anche consente di costruire come blocchi unici oggetti che di norma nascono dall’assemblaggio di più componenti, con implicazioni ovvie e importanti per quanto riguarda la robustezza complessiva degli oggetti stessi. Per capire meglio tutte queste implicazioni, però, conviene esaminare la stampa 3D da un punto di vista più tecnico. “Strato per strato” La stampa 3D è una tecnica di tipo additivo perché gli oggetti vengono realizzati progressivamente strato per strato, a differenza di altre tecniche cosiddette sottrattive perché arrivano al prodotto finale eliminando materiale da un blocco di partenza, come accade ad esempio per il tornio. Sintetizzando esemplificando molto, l’oggetto da stampare viene progettato con un software di CAD o modellazione tridimensionale, poi viene suddiviso virtualmente in “fette” orizzontali di spessore ben inferiore al millimetro. Questa scomposizione in strati sottilissimi viene opportunamente convertita in un file di dati comprensibili per una stampante 3D, che provvede a realizzare i singoli strati uno per uno. Dato che ognuno di essi è generato usando materiale plastico o metallico portato ad alta temperatura, ogni singolo strato si fonde automaticamente con quelli sottostanti man mano che viene completato. Oggi questo modello generico di lavoro si declina essenzialmente in due tecniche: il SLS (Selective Laser Sintering) e il FDM (Fused Deposition Modeling). Nel primo sistema un raggio laser opportunamente pilotato colpisce uno strato di polvere, plastica o metallica, finissima: nel punto colpito dal raggio la polvere si fonde e costituisce un punto (solido) corrispondente al punto virtuale del singolo strato dell’oggetto progettato. Completato uno strato dell’oggetto si depone un nuovo strato di polvere e il raggio laser “disegna” lo strato successivo dell’oggetto, e così via fino all’ultimo. Liberato della polvere in eccesso, a questo punto il nostro oggetto è pronto. Il FDM è una tecnica molto più economica che ricorda il funzionamento di una classica stampante a getto d’inchiostro per documenti cartacei. Stavolta a tracciare i punti degli strati di un oggetto è una testina di stampa – in gergo tecnico un estrusore – che deposita piccolissime gocce di materiale plastico fuso (che entra nell’estrusore sotto forma di filamento proveniente da una vera e propria bobina). Anche in questo caso ogni goccia si fonde con le sue vicine per l’alta temperatura a cui è depositata.

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Da queste descrizioni un (bel) po’ riduttive – i dettagli tecnici sottostanti sono molti di più ma vanno oltre l’ambito di queste pagine si cominciano a intuire le principali differenze tra i due sistemi. Il laser sintering, o sinterizzazione, garantisce un’alta precisione di tracciamento e permette di utilizzare qualsiasi materiale che possa essere in qualche modo ridotto in polveri “laserabili”. Con la sinterizzazione si producono oggetti tanto in materiali plastici quanto in leghe metalliche, con una precisione e un’efficacia tali che lo stesso ente spaziale americano, la NASA, usa questa forma di manufacturing additivo per alcuni componenti dei propulsori dei vettori spaziali di nuova generazione. In campo medicale, per fare un altro esempio immediato, si usa già da tempo la sinterizzazione di polimeri plastici sensibili fotosensibili, usando un raggio ultravioletto invece di un laser, per la produzione di protesi dentarie. Dal canto loro le stampanti a deposizione di materiale plastico fuso pagano il fatto che un estrusore non sarà mai veloce e preciso quanto un raggio laser: sono quindi molto più lente e assai meno precise. Anche la scelta dei materiali da usare è più limitata, perché quasi sempre è ridotta all’ABS, una plastica molto diffusa e di derivazione petrolio, e al PLA, una plastica di derivazione vegetale e per questo biodegradabile. L’asso nella manica – vincente quando si tratta di applicazioni di fascia (relativamente) bassa – delle stampanti a deposizione è il costo: se una unità in sintering ha un cartellino del prezzo nell’ordine dei 100-150mila euro – e da qui a salire – una stampante FDM è un oggetto volendo anche “personal”, da 1.500-2.000 euro per i prodotti commerciali più noti a 500-600 per chi ha le competenze e la passione di assemblarne una a mano partendo dai componenti di un progetto open source. Basteranno questi prezzi a portare una stampante 3D su ogni scrivania? Probabilmente no, perché nella gran parte dei casi non ce ne sarà bisogno. Da un lato i principali servizi di stampa 3D (ad esempio, tra gli altri, Shapeways, i.Materialise, Ponoko) stanno abbassando i loro costi e semplificando le loro procedure, in modo che utenti mediamente tecnici possano stampare ad alta qualità i loro oggetti senza investire in macchinari. Dall’altro lato cresce costantemente il numero dei Fablab presenti sul territorio: sono centri aperti al pubblico che possono acquistare stampanti di fascia anche media e metterle a disposizione dei visitatori, in una logica di condivisione delle risorse che ben si adatta alle nuove logiche di produzione decentrata e che permette di ammortizzare i costi d’acquisto delle stampanti “distribuendoli” nel tempo e su un gran numero di utenti. Per un verso o per un altro, quindi, man mano che il concetto stesso di stampa 3D e gli strumenti software a essa necessari raggiungeranno un pubblico più ampio, saranno anche già disponibili i centri stampa, fisicamente vicini o lontani poco importa, per produrre oggetti. Acquistare una stampante 3D “personal” sarà sempre più economico e semplice per gli appassionati, ma mai obbligatorio per il grande pubblico, così come oggi non è obbligatorio ad esempio portarsi in casa una stampante in grado di stampare le nostre fotografie in grande formato a elevata qualità: chi vuole può certamente farlo per passione, gli altri hanno a disposizione vari servizi di stampa fotografica ad hoc.

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Francesco Pignatelli è un giornalista professionista milanese, che si occupa di digital manufacturing da alcuni anni. In precedenza ha collaborato con le principali testate italiane del settore informatico, dal 1995 in poi. L’intera pubblicazione è disponibile sul sito di Filodiritto Ed.

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Brevissime note sul dies a quo del termine di conservazione degli estratti conto bancari: rari nantes in gurgite vasto di Marco Rossi

Premessa. L’emistichio dell’Eneide citato nel titolo è molto generoso nell’indicare quanti si sono interessati di stabilire il dies a quo del termine di conservazione degli estratti conto da parte delle banche. Definire, infatti, ‘rari’ i giuristi che se ne sono occupati rappresenterebbe un’esagerazione posto che – a quanto mi consta – solo un giurista lo ha fatto funditus: Dolmetta (1). L’analisi dolmettiana dell’individuazione dell’effettivo dies a quo del termine di conservazione degli estratti conto costituisce vero e proprio hapax legomenon giuridico.

Diritto Bancario

La giurisprudenza – di merito e di legittimità – non aiuta affatto a risolvere (ma direi, neppure a impostare, quantomeno correttamente) il problema, anzi essa confonde, alla charlon, le variegate sfaccettature da cui esso può essere analizzato. Eppure si tratta di questione la cui corretta soluzione potrebbe avere – a voler essere prosaici – conseguenze economiche indirette molto rilevanti. La questione è ricorrente: un cliente intende far causa alla propria banca e, quindi, le richiede stragiudizialmente (2) – il più delle volte citando l’articolo 119, comma 4, del Testo unico bancario (Tub) – la consegna di copia del contratto originario di conto corrente (e di apertura di credito) nonché copia di tutti gli estratti conto, dall’inizio del rapporto sino alla sua estinzione. La banca risponde usualmente consegnando il contratto originario (anche se stipulato più di 10 anni prima della richiesta) ma nega la consegna degli estratti conto precedenti al decennio, osservando che l’articolo 119, comma 4 del Tub impone alla banca di conservare gli estratti conto solo per 10 anni. Richiesta (del cliente) e risposta (della banca) non mi sembrano corrette ma prima di offrire la mia proposta di soluzione al problema è doveroso quantomeno impostarlo a sistema. I documenti bancari richiedibili: impostazione del problema. Il cliente può aver interesse a richiedere alla banca la consegna di tre categorie distinte di documenti: i contratti, la documentazione inerente a singole operazioni (si pensi alla fotocopia di un assegno incassato o alla copia di una distinta di un versamento o di un bonifico) e, infine, gli estratti conto. Ogni richiesta di documento mi pare abbia il proprio specifico correlato positivo che la giustifica; questa è, almeno, la tesi che intendo qui difendere. L’obbligo di consegna del contratto da parte della banca è previsto espressamente dall’articolo 117, comma 1, Tub («I contratti 8

La documentazione bancaria : diritto ad ottenerla e obblighi di consegna da parte della Banca. Art. 119, comma 4 del Testo Unico Bancario TUB.

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sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti»). La legge speciale nulla dice sul termine di conservazione. Per la documentazione inerente a singole operazioni il riferimento normativo è l’articolo 119, comma 4 Tub («Il cliente, colui che gli succede a qualunque titolo e colui che subentra nell’amministrazione dei suoi beni hanno diritto di ottenere, a proprie spese, entro un congruo termine e comunque non oltre novanta giorni, copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni. Al cliente possono essere addebitati solo i costi di produzione di tale documentazione»). Per gli estratti conto, invece, le norme da prendere in considerazione sono due: l’articolo 119, comma 2, Tub («Per i rapporti regolati in conto corrente l'estratto conto è inviato al cliente con periodicità annuale o, a scelta del cliente, con periodicità semestrale, trimestrale o mensile») e l’articolo 2220 del Codice civile, rubricato Conservazione delle scritture contabili («Le scritture devono essere conservate per dieci anni dalla data dell'ultima registrazione»). In questo modo, il problema mi sembra – almeno – posto. Il diritto a ottenere copia del contratto. L’articolo 117, comma 1 Tub prevede l’obbligo della banca, nel momento in cui le parti stipulano per iscritto il contratto, di consegnarne una copia al cliente. Se il cliente dovesse richiedere una nuova copia alla banca (o dovesse richiedere alla banca la consegna della proposta dallo stesso sottoscritta, in quanto in possesso solamente dell’accettazione sottoscritta dalla controparte), la banca non potrebbe rifiutarsi di consegnarla trincerandosi dietro al decorso del termine decennale dalla stipulazione, previsto dall’articolo 119, comma 4, Tub. Va osservato, infatti, che detta norma si riferisce alla documentazione riguardante singole operazioni mentre il contratto è fenomeno giuridico a monte delle singole operazioni, che possono essere considerate atti esecutivi del contratto di conto corrente. Che il termine decennale previsto dall’articolo 119, comma 4 Tub non si applichi al contratto di conto corrente è stato riconosciuto anche dalla giurisprudenza (Corte d’Appello di Milano, 22 maggio 2012, n. 1796 – Pres. Tarantola; Rel. Raineri) (3), la quale è condivisibile laddove ricorda che: «il contratto di conto corrente bancario, per sua stessa natura, costituisce la fonte della disciplina dei rapporti obbligatori fra le parti e, come tale, non può essere distrutto decorso il termine di dieci anni dalla sua sottoscrizione, qualora i diritti da esso nascenti non si siano prescritti». La Corte esclude – e anche qui la condivido – che l’articolo 119, comma 4, Tub si applichi al contratto. Smetto di seguirla, invece, 9

quando essa afferma che detta norma si riferirebbe alle scritture contabili; ma il lettore dovrà avere pazienza ancora un po’ per capirne le ragioni, perché prima vanno tirate le fila del discorso sul contratto. Se il rapporto di conto corrente non è ancora cessato, non è neppure iniziato a decorrere il termine prescrizionale del diritto a ottenere copia del contratto, che quindi la banca non può distruggere. Fra l’altro, se così facesse (ed è osservazione tanto banale quanto decisiva), essa si esporrebbe alla certa conclusione della nullità del contratto stesso in base all’articolo 117, comma 3 Tub e – osserva perspicuamente Dolmetta – alla violazione della clausola generale dell’agire bancario della ‘sana e prudente’ gestione (articolo 5 Tub) (4). Se, invece, il rapporto è concluso è evidente che da lì inizia a maturare il termine, decorso il quale cessa l’obbligo di conservazione, che non può di certo essere illimitato nel tempo. Un riscontro empirico di quanto sostenuto deriva dall’abitudine (generale) delle banche di consegnare le copie dei contratti anche se stipulati oltre dieci anni prima della richiesta e ciò si spiega con il fatto che, in questo modo, le banche tutelano sé stesse dall’eccezione di nullità del contratto per difetto di forma scritta e, più in generale, dall’eccezione di mancanza di accordo sulle condizioni economiche applicate al rapporto. Il problema si sposta dall’an al quantum. Su quest’ultimo aspetto, la soluzione più scontata mi sembrerebbe essere quella dell’applicazione del termine ordinario di prescrizione (10 anni) se è vero, come sottolinea Dolmetta (5), che l’obbligo di conservazione si debba spalmare – a protezione del cliente, estraneo all’attività imprenditoriale della banca, e quindi soggetto protetto dall’obbligo di conservazione in capo alla banca (6) – «lungo l’asse temporale del potenziale bisogno di uso del documento». In altre parole, la banca deve conservare l’originale del contratto almeno per dieci anni dalla chiusura del rapporto ovverosia fintanto che il cliente può esercitare il proprio diritto redibitorio (articolo 2033 del Codice civile). Qualche giurista talebano (e io con lui) potrebbe osservare incidentalmente che, accolto il principio generale (id est tenere copia del contratto fintantoché il cliente se ne può servire), la conseguenza potrebbe essere, almeno in ipotesi, l’allungamento del termine di conservazione a seguito dell’applicazione del principio di cui all’articolo 2947, comma 3 del Codice civile (7), che prevede per l’azione di risarcimento del danno l’applicazione del termine di prescrizione penale eventualmente più lungo di quello quinquennale civile. Il diritto a ottenere copia delle singole operazioni. Può capitare che il cliente abbia necessità di verificare, per esempio, chi abbia apposto la firma

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su un assegno depositato anni prima e che quindi ne debba chiedere copia alla banca. In questo caso, ha tempo per farlo dieci anni dal giorno del deposito dell’assegno: lo dice il comma 4 dell’articolo 119 Tub laddove cita la copia di documenti inerente a singole operazioni; siamo nel campo delle Selbstverständlichkeiten (delle cose ovvie) e non voglio quindi sviluppare oltre l’osservazione né parlare con il tono di chi sa e quindi de hoc satis. Se l’applicabilità del comma 4 alle singole operazioni bancarie è indubbia, la cosa che può lasciare perplessi è che tutti – a eccezione di Dolmetta – e da sempre, abbiano ritenuto naturale estendere l’applicazione del comma 4 in esame alla documentazione contabile, ovverosia, per evitare cineserie, agli estratti di conto corrente. Il successo ha arriso alla teoria, ma è stato più un successo vasto che profondo in quanto esso si basa su un fenomeno di psittacismo giuridico. A questo fenomeno pare non sottrarsi nessuno: la giurisprudenza, la dottrina, l’Arbitro bancario e finanziario (Abf), le difese delle banche e, cosa strana, le difese della clientela bancaria. Occorre a questo punto resistere alla forza di gravità del vecchio modo di pensare e offrirne un nuovo e alternativo. Il diritto a ottenere copia degli estratti conto. Vorrei introdurre nel campo visivo del lettore una norma (generale e quindi meno sexy di quella speciale) contenuta nel nostro Codice civile: il comma 1 dell’articolo 2220, che impone all’imprenditore di conservare le scritture contabili per dieci anni dalla data dell’ultima registrazione. Come ho già detto, i più – forse a causa di una similitudine di termini decennali – sono disposti a sostenere che l’articolo 2220, comma 1 del Codice civile – norma generale – imponga a tutti gli imprenditori lo stesso obbligo specifico che il comma 4 dell’articolo 119 Tub (norma speciale) impone agli istituti di credito. Questa è la tesi mainstream ma a me verrebbe da dire das ist mir wurst; sono convinto, infatti, che i modi comuni di In caso di liti relative a contratti conclusi per il suo intervento, l’Agente può essere convenuto e/o agire in giudizio in Turchia per conto del suo preponente estero.

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pensare diventino ingannatori quando li si trasformino in qualcosa di così ovvio da non permettere la riflessione su di essi. Come ho già detto, non sono l’unico a pensarlo. Sul punto, Dolmetta, con un salto gestaltico contenuto – come di sua abitudine – in una nota di un suo recente lavoro (8), scrive: «il fatto che il dies a quo del decennio muova dal compimento dell’operazione esclude a priori ogni eventuale collegamento tra il detto termine e quello di conservazione delle scritture contabili ex art. 2220 c.c. (posto che quest’ultimo corre […] dal momento in cui il libro contabile è stato completato)». Il principio sembra accolto implicitamente anche da Abf, Collegio di Milano, 28 febbraio 2013, n. 1175 (Pres. Gambaro; Est. Rondinone) quando, a fronte di una richiesta di consegna di estratti conto ultra-decennali da parte di una cliente, «rileva che, avendosi riguardo a rapporti estinti da più di dieci anni, ai sensi dell’arti. 2220 c.c. è giustificato che la banca non conservi più copia degli stessi». Se mi facessi bastare questi due “supporti” potrei essere accusato, non senza qualche ragione, di citare ciò che più mi fa comodo perché devo porre le mie connessioni con l’arbitraria necessità del procedere artistico e non come si dovrebbe procedere nell’indagine scientifica. E’ quindi necessario un ragionamento argomentato. Alcuni difensori di banca negano che l’articolo 2220 del Codice civile sia applicabile alla banca, trattandosi – a dir loro – di norma generale riferita agli imprenditori. Alexandre Kojéve avrebbe detto che questo è il tentativo di un prestigiatore di credere alla magia attraverso i propri trucchi. Basti leggere l’articolo 2195, comma 1, numero 4) del Codice civile, che stabilisce che sono soggetti all’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese anche gli imprenditori che esercitano attività bancaria. Altri sostengono che gli estratti conto non sarebbero scritture contabili e questa mi sembra eccezione molto interessante a cui dedicherò attenzione infra. Secondo costoro, le scritture contabili sarebbero solo quelle indicate nel comma 1 dell’articolo 2214 del Codice civile: il libro giornale e il libro inventari. Tale tesi (almeno così come motivata) dimentica che l’articolo 2214 ha anche un secondo comma che impone all’imprenditore di tenere (e l’articolo 2220 di conservare) anche le “altre” scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa (9). Gli estratti conto potrebbero quindi essere considerati scritture contabili “altre” rispetto alla scritture contabili classiche delle banche e di ciò si potrebbe trovare conferma nella semplice lettura dell’articolo 50 Tub che, per l’emissione di un decreto ingiuntivo a favore di un istituto di credito, richiede che questo depositi un estratto conto certificato conforme alle scritture contabili da uno dei dirigenti della banca. Superato tale ostacolo all’applicabilità dell’articolo 2220 del Codice civile agli estratti conto, residua quello di stabilire il momento dal quale inizia a decorrere il termine di 10 anni dopo il quale le banche si possono legittimamente liberare degli stessi. Qui soccorre l’articolo 12 delle Preleggi che impone Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali – Giu. 2015


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un’interpretazione letterale/lessicale della norma applicata, la quale, nel nostro caso, indica precisamente quale sia il dies a quo: l’ultima registrazione. Nel caso di un estratto di conto corrente, l’ultima registrazione è quella con cui si da atto della chiusura del conto con saldo a zero: o perché il cliente ha prelevato le somme presenti sul conto o perché ha pagato il saldo negativo esistente o perché vi è stato il passaggio a sofferenza della posizione (in quest’ultimo caso il saldo negativo verrebbe imputato a debito di un altro conto cd. “di sofferenza”). La conclusione che si trae da tale lettura è che le banche devono conservare gli estratti conto per almeno 10 anni dalla cessazione del rapporto. Tale conclusione mi sembra supportata da tre ulteriori considerazioni. La prima: nell’ipotesi in cui la banca chiudesse il conto con un saldo negativo per il cliente (con corrispondente credito per la stessa) questa sarebbe onerata, in base all’articolo 2697 del Codice civile, di produrre in giudizio tutti gli estratti conto, dall’inizio del rapporto – anche se antecedente al decennio – sino alla sua estinzione. Lo sostiene anche l’orientamento consolidato della Cassazione (da ultimo Cass., 18 settembre 2014, 19696; Cass., 2 agosto 2013, n. 18541; Cass., 26 gennaio 2011, 1842), secondo cui «la "ratio" posta a fondamento dell'obbligo di conservazione delle scritture contabili per un decennio va individuata nell'esigenza di assicurare una più penetrante tutela dei terzi estranei all'attività imprenditoriale, rispetto ad un'eventuale posizione creditoria da essi fatta valere ovvero ad una contestazione sollevata, circostanza da cui discende che un eventuale inadempimento al riguardo da parte dell'istituto di credito potrebbe eventualmente rilevare, a favore della controparte, sotto il profilo della violazione dell'art. 1375 c.c. Il fatto dunque che sia previsto l'obbligo di conservazione delle dette scritture per un periodo di tempo limitato significa soltanto che l'imprenditore (nella specie la banca) non può essere chiamato a rispondere sotto alcun profilo della mancata conservazione delle dette scritture per un periodo più ampio, ma non può certamente comportare che l'inesistenza del detto obbligo per il decorso del tempo possa determinare una condizione di favore rispetto ad una posizione creditoria prospettata, sollevandolo dall'onere di dare piena dimostrazione del credito vantato». Se la banca non producesse tutti gli estratti conto ma In caso di liti relative a contratti conclusi per il suo intervento, l’Agente può essere convenuto e/o agire in giudizio in Turchia per conto del suo preponente estero.

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solo quelli dell’ultimo decennio e il primo estratto portasse un saldo negativo per il cliente, l’istituto si vedrebbe azzerato il saldo (sul punto Cass., 25 novembre 2010, n. 23974: «La banca non ha provato per le ragioni dianzi esposte che alla data dell'1.1.1993, cui si riferisce il primo estratto-conto riportato in giudizio, il credito riportato in detto estratto conto e conclusivo dell'andamento dei conti per gli anni pregressi fosse quello effettivo in ragione della più volte citata nullità delle clausole sugli interessi. Del tutto correttamente pertanto la Corte d'appello ha azzerato le dette risultanze in quanto non provate e disposto che il calcolo dei rapporti di dare ed avere venisse calcolato dal CTU a partire dalla detta data del 1993 partendo da zero»). Ora mi sembra ovvio che, anche soltanto correre il rischio di non poter provare in giudizio un proprio credito o di vederlo decurtato rispetto al reale, non può costituire comportamento bancario sano e prudente, come richiesto al bonus argentarius dall’articolo 5 Tub. Se quindi la banca, nel proprio interesse, deve conservare gli estratti conto per dieci anni dalla chiusura del conto, mi sembra che questo non possa che valere, a maggior ragione tenuto conto della ratio dell’obbligo di conservazione, a tutela della clientela. La seconda (intimamente collegata a quanto appena detto): il ragionamento appena fatto mi sembra possa trovare un supporto positivo nella norma (articolo 1374 del Codice civile) secondo cui il contratto obbliga le parti, non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo legge, o in mancanza, secondo gli usi o l’equità. Mi sembra equo che la banca conservi le scritture contabili per (almeno) dieci anni dopo la chiusura del rapporto in quanto entro questo lasso temporale non solo lei può chiedere il pagamento al cliente del saldo ma anche il cliente può sollevare nei confronti della banca contestazioni e qualora questi abbia già pagato avanzare anche domande di ripetizione dell’indebito (articolo 2033 del Codice civile). La terza (generalizzazione della seconda): al di là dell’obbligo di legge (mi riferisco ovviamente all’articolo 2220 del Codice civile e non all’articolo 119 Tub), il generale principio di buona fede (articolo 1375 del Codice civile) impone alla banca di conservare le scritture contabili finché esiste un interesse informativo in capo al cliente della banca e quindi io dico, almeno per 10 anni, dall’ultima registrazione, id est dalla chiusura del conto. D'altronde, come ricorda la Cassazione (Cass., 27 settembre 2001, n. 12093), il rapporto banca – cliente «è fondato sul principio di buona fede, che è clausola generale di interpretazione e di esecuzione del contratto e fonte di integrazione della regolamentazione negoziale, ai sensi degli artt. 1366, 1375, 1374 c.c.; sicché, al di là del disposto dell'art. 119 legge bancaria, il diritto sostanziale di cui trattasi viene a trovare riscontro nel dovere di solidarietà,

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ormai costituzionalizzato (art. 2 Cost.), concorrendo la buona fede alla "conformazione di tale regolamentazione in senso ampliativo restrittivo, rispetto alla fisionomia apparente, per modo che l'ossequio alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale"». Il riferimento che la Cassazione fa all’articolo 119 Tub è da intendersi riferito al secondo comma, posto che la banca, nel rifiutare la consegna degli estratti conto, sosteneva di averli già consegnati in base al comma 2 dell’articolo 119 Tub. E se gli estratti conto non fossero scritture contabili? In ultimo vorrei approfondire l’eccezione che si potrebbe sollevare in ordine alla natura giuridica degli estratti conto: si potrebbe, infatti, anche non credere che questi siano scritture contabili “altre”, come ho sopra sostenuto. Così, per esempio, la pensa la Cassazione (Cass., 21 luglio 2009, n. 16971), che esclude che esse siano scritture contabili ai sensi degli articoli 2214 – 2217 del Codice civile. Per amor di approfondimento scientifico, prendiamo per accettabile tale conclusione: gli estratti conto non sono scritture contabili e quindi la banca non è tenuta, in riferimento a essi, a rispettare l’articolo 2220 del Codice civile. S’impone, a questo punto, la ricostruzione della loro “alternativa” natura. Il punto d’inizio di questo ragionamento alternativo è, a mio avviso, l’esatta qualificazione del rapporto giuridico intercorrente tra banca e cliente quando la prima esegue operazioni bancarie in conto corrente. A questo fine soccorre l’articolo 1856 del Codice civile, il quale specifica che «La banca risponde secondo le regole del mandato»; insomma la banca è mandataria (aggiungerei: professionale) del cliente/mandante In caso di liti relative a contratti conclusi per il suo intervento, l’Agente può essere convenuto e/o agire in giudizio in Turchia per conto del suo preponente estero.

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(ex multis: Cass., 7 agosto 2009, n. 18107; Cass., 31 ottobre 2008, n. 26314, Cass., 8 agosto 2003, n. 11961). Se la banca è mandataria allora è tenuta al rendiconto nei confronti del cliente ai sensi dell’articolo 1713 del Codice civile, dovendogli rendicontare le operazioni, attive e passive, compiute per suo conto. Sul termine entro cui il cliente può pretendere dalla banca il rendiconto la legge tace ma è convinzione condivisa da dottrina (Luminoso) e giurisprudenza (Cass., 16 novembre 1967, n. 2754) che tale termine sia quello ordinario decennale di cui all’articolo 2946 del Codice civile. Sul punto non credo che vi possano essere contestazioni e la pochezza della giurisprudenza rinvenibile ne è indice. Residuerebbe da determinare il momento dal quale decorre il termine di prescrizione del diritto del cliente a ottenere il rendiconto della banca, ma alla soluzione di tale problema soccorre la giurisprudenza di legittimità, la quale ribadisce che, poiché il mandato è un rapporto giuridico unitario anche se articolato in più atti esecutivi (Cass. 9 aprile 1984, n. 2262; Cass., 14 maggio 2005, n. 1590) , il dies a quo è quello della conclusione del mandato (Cass., 22 agosto 1985, n. 4480), ovverosia, nel nostro caso, dalla chiusura del conto corrente. Conclusioni. La tesi che ho qui esposto mi sembra abbia un merito: quello di trattare in modo differente situazioni differenti, soprattutto nell’ottica della banca. La banca è soggetto altamente professionale e quindi è fisiologico richiederle un comportamento improntato a prudenza anche nella conservazione della documentazione, che – osservo per inciso – è quasi sempre dalla stessa interamente prodotta (si pensi ai contratti e agli estratti conto mentre per la documentazione inerente a singole operazioni le cose stanno diversamente). Non va neppure ignorato che, giustamente, i costi della produzione documentale (sia quella originaria sia quella richiesta nuovamente dal cliente) sono a carico della clientela e quindi essa è potenzialmente a costo zero per la banca. La giustificazione del trattamento giuridico diverso suggerito sopra si fonda anche sulla minore quantità di documentazione contrattuale (si potrebbe trattare di un solo contratto) e contabile (normalmente 4 estratti conto all’anno) rispetto a quella di singole operazioni, se solo si pensa che un estratto conto può contenere la registrazione di decine o centinaia di operazioni nel trimestre. In ultimo – e qui sta forse la ragione principale per il trattamento differenziato – l’interprete non può non osservare che se è vero che è dalla “cessazione del rapporto/compimento dell’atto” che decorre il termine per il cliente per far valere i propri diritti, allora non si può che giungere alla conclusione che per i contratti e per gli estratti conto (che descrivono contabilmente l’andamento del rapporto contrattuale) la “cessazione del rapporto” coincide con la chiusura del conto corrente mentre per le singole operazioni il “compimento dell’atto” coincide con l’esecuzione dell’operazione. E’ probabile che, per il futuro, l’avanzamento delle tecnologie di conservazione elettronica dei documenti ma soprattutto la tesi del saldo zero (che costituisce una specie di pena civile) possa spingere le banche a rivedere il proprio atteggiamento nei confronti della conservazione degli estratti conto.

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NOTE (1) DOLMETTA [A. A.], Sui depositi bancari a vista: tra prescrizione, arricchimento e doveri di avviso (con annessa appendice di decisioni dell’ABF), in IlCaso.it, n. 304/2012; ID., Funzione di provvista del credito vs funzione di «custodia» nel contratto bancario di raccolta a vista. Da un’idea di Niccolò Salanitro, in Banca borsa tit. cred., 2013, I, 7 ss; DOLMETTA [A.A], MALVAGNA [U.], Vicinanza della prova in materia di contenzioso bancario. Spunti (I. il saldo zero), in Riv. dir. banc., dirittobancario.it, 15, 2014. In modo più approfondito in DOLMETTA [A. A.], Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, Bologna, 2013, 107 – 109. (2) La Cassazione ha riconosciuto che il diritto a ottenere copia della documentazione bancaria è un diritto autonomo e prescinde dall’utilizzo che il richiedente ne voglia fare. Sul punto mi limito a citare Cass., 19 ottobre 1999, n. 11733 «Il diritto del cliente di ottenere dall'istituto bancario la consegna di copia della documentazione relativa alle operazioni dell'ultimo decennio, previsto dal comma 4 dell'art. 119 del D.lgs. n. 385 del 1993, si configura come un diritto sostanziale la cui tutela è riconosciuta come situazione giuridica "finale" e non strumentale, onde per il suo riconoscimento non assume alcun rilievo l'utilizzazione che il cliente intende fare della documentazione, una volta ottenuta la e deve escludersi, in particolare, che tale utilizzazione debba essere necessariamente funzionale all'esercizio di diritti inerenti il rapporto contrattuale corrente con l'istituto di credito (ben potendo, ad esempio, essere finalizzata a far emergere un illecito, anche non civilistico, di un terzo soggetto o di un dipendente della banca). Nel caso di fallimento del cliente il suddetto diritto si trasmette al curatore, posto che questi subentra - ai sensi dell'art. 31 l. fall.- nell'amministrazione del patrimonio del fallito sotto la direzione del giudice delegato e considerato che detto diritto è una componente di quel patrimonio. In ragione della natura "finale" del diritto in questione, l'istituto bancario, richiesto dal curatore della consegna della copia della documentazione, non può rifiutarla adducendo l'intenzione del curatore di utilizzare la documentazione in funzione dell'esercizio di eventuali azioni revocatorie e nemmeno può pretendere che, a seguito di esercizio da parte del curatore in sede giudiziale del diritto alla consegna, la sentenza che riconosca tale diritto escluda quella utilizzazione. (La S.C. ha anche osservato che lo scioglimento automatico, ex art. 78 l. fall., del contratto di conto corrente - cui nella specie si correlava il diritto alla consegna della copia della documentazione - non toglie che il diritto ex art. 119 citato, configurandosi anche dopo la cessazione del rapporto, si trasmetta al curatore)». Nel medesimo senso la giurisprudenza di merito: Tribunale di Torino, 12 aprile 2010 – Est. Germano, su www.ilcaso.it. (3) Rinvenibile su www.ilcaso.it. (4) DOLMETTA [A. A.], Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, cit., 47. E’ utile riportare per esteso il pensiero dell’Autore «Ora, a me pare che, a seguire la regola di protezione, l’obbligo di conservazione delle scritture contabili – che il codice detta nella prospettiva «interna» dei doveri di impresa – venga sul piano contrattuale a vestire i panni nobili degli obblighi di protezione, spalmandosi lungo l’asse temporale del potenziale bisogno di uso del documento contabile. E nel contempo risponde, altresì, al canone della sana e prudente gestione di cui all’art. 5 TUB. In effetti, pare agevole osservare, in proposito, come non possa essere corretto agire d’impresa quello di disfarsi della documentazione contrattuale relativa ai contratti e rapporti che tuttora risultano in essere (salvo solo il fortuito). Chi può pensare sia agire corretto quello di un’impresa che, concesso un muto trentennale, venga – passato il primo decennio – a distruggere tutta la documentazione che è tesa ad assicurarle, anche in via processuale, il rientro del credito?». (5) DOLMETTA [A. A.], Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, cit., 47. (6) Sulla funzione protettiva di terzi dell’obbligo di conservazione della documentazione bancaria si veda Cass., Sez. I, 26 gennaio 2011, n. 1842. (7) Prescrizione del diritto al risarcimento del danno Il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato. Per il risarcimento del danno prodotto dalla circolazione dei veicoli di ogni specie il diritto si prescrive in due anni. In ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all'azione civile. Tuttavia, se il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione o è intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio penale, il diritto al risarcimento del danno si prescrive nei termini indicati dai primi due commi, con decorrenza dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile. (8) DOLMETTA [A. A.], Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, cit., nt. 68, 108. Dolmetta è uno dei pochi Autori che dice cose interessanti e innovative nelle note. (9) Per esempi di applicazione di tale norma si vedano l'art. 55, n. 3, L. 20 marzo 1913, n. 272, sull'ordinamento delle borse di commercio, l'art. 90, secondo comma, R.D. 4 agosto 1913, n. 1068, di approvazione del regolamento per l'esecuzione della suddetta legge; la L. 10 giugno 1978, n. 295 in materia di assicurazione contro i danni e la L. 22 ottobre 1986, n. 742, in materia di assicurazioni private sulla vita.

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Il diritto a ottenere copia della documentazione bancaria è un diritto autonomo e prescinde dall’utilizzo che il richiedente ne voglia fare. Cass. 19 ottobre 1999, n. 11733

Avvocato esperto di diritto bancario e finanziario, managing partner dello studio RR&P, Marco Rossi è Direttore responsabile di “Giurimetrica. Rivista di Diritto, Banca e Finanza”, autore di numerosi articoli, approfondimenti e pubblicazioni. È presidente del comitato scientifico di Alma Iura, Centro per la Formazione e gli Studi Giuridici Bancari e Finanziari di Verona (www.almaiura.it) che ha gentilmente concesso la pubblicazione del presente articolo

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Cyber Threat & Risk Mitigation: strategie di gestione del rischio digitale. di Giuseppe Serafini e Letizia Bassini Cyber Threat1 & Risk Mitigation: strategie di gestione del rischio digitale. Il tema della pianificazione di soluzioni e strategie di mitigazione del rischio digitale, che si caratterizza per esprimere, da uno specifico ambito visuale, quello del c.d. Risk Management, un contesto multidisciplinare, nel quale collocare, una serie di tematiche, tra loro interrelate, al pari di quanto è trasversale l'informatica, nelle attività imprenditoriali e non solo, nel nostro tempo, può essere considerato, ad avviso di chi scrive, da almeno due punti di vista tra di loro interdipendenti. Il primo, basato su di un approccio tecnico-normativo alla materia, con ciò facendosi riferimento, in senso ampio, a quella specifica normazione, che definiremo ad adesione volontaria, ma sempre più importante nella vita quotidiana delle imprese2, posta in essere, con efficacia variabile da una serie di enti, sovranazionali e non (ad esempio gli standard PCI DSS3 - NIST 800-30, NIST 800-39 - ISO/IEC 27001:2013), il secondo, invece, è quello implicato dalla normazione, questa volta, vincolante ex lege, vigente in materia di digitalizzazione dei beni e dei rapporti relativi agli asset aziendali. Con l'espressione digitalizzazione dei beni e dei rapporti, che ci sembra opportuno chiarire, in quanto cardine, secondo chi scrive, della comprensione dei fenomeni economico-giuridici che si intendono esaminare nelle pagine che seguono, ci si riferisce a quel fenomeno, derivato dal più generale fenomeno della c.d. convergenza digitale, per il quale, lo strumento elettronico di elaborazione, cessa di avere una funzione meramente ancillare rispetto alla costituzione, modificazione od estinzione di determinate situazioni giuridiche soggettive, per assurgere al ruolo di vero e proprio elemento costitutivo della situazione giuridica soggettiva stessa. Per fare degli esempi di immediata comprensione, si pensi, da un lato, sotto il profilo della digitalizzazione dei rapporti, al fatto che, con l'introduzione, normativa e tecnologica, delle procedure che afferiscono al c.d. processo civile telematico (P.C.T.), lo stesso esercizio dello jus postulandi, tipico dello svolgimento della professione forense, é del tutto condizionato alla disponibilità di determinati strumenti tecnologici (firma digitale, redattore atti e casella di posta elettronica certificata) e, dall'altro, sotto il profilo della digitalizzazione e dei beni, al fatto che, ormai la stessa creazione di valore (nel senso di “cosa” suscettibile di valutazione economica) avviene, nell'ambito delle c.d. criptomonete, bitcoin4 su tutte, esclusivamente grazie ad elaborazione di specifiche stringhe crittografiche da parte di strumenti elettronici di elaborazione a ciò preposti.

“convergenza digitale” lo strumento elettronico di elaborazione assurge al ruolo di vero e proprio elemento costitutivo della situazione giuridica soggettiva

Informatica Giuridica Cyber Risk

Logiche conseguenze dell'assetto sin qui delineato, appaiono quindi essere, dal punto di vista di chi scrive, le due osservazioni 14

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che seguono, e cioè: in primo luogo, che gli strumenti elettronici di elaborazione possono essere, sia oggetto passivo di una condotta illecita, sia strumenti attraverso la quale essa è realizzata e, in quest'ultimo caso, possono essere impiegati, sia per commettere c.d. illeciti comuni, sia per commettere i crimini c.d. informatici ed in secondo luogo che, in considerazione del fatto che, sempre piú spesso, la “prova” di un fatto é contenuta in un sistema elettronico di elaborazione in forma di “registrazione” di circostanze relative alla sua verificazione, vi é, l'esigenza, per finalitá di, certezza dei rapporti, dimostrazione di adempimento a norme di legge, prevenzione, accertamento di reati e punizione dei colpevoli, da una parte, di generare ed individuare tali registrazioni e, dall'atra, di acquisire, analizzare, conservare e presentare dette registrazioni ad un giudice, in forma di “elementi di prova o prove”5.

(a). - può dirsi adottato ed efficacemente attuato, con riferimento alla commissione di reati (presupposto) informatici, un modello organizzativo di gestione e controllo che sia del tutto estraneo a standard di gestione di sistema della sicurezza delle informazioni? e (b). - Come si dovrà procedere, quindi, per prevenire accertare e documentare la violazione del modello organizzativo da parte di uno dei soggetti indicati dalla legge, se la condotta del “reato presupposto”, realizzata dall'autore del crimine, si esprime attraverso strumenti elettronici di elaborazione o integra gli estremi di un reato informatico?

Per semplificare molto, il concetto che sopra si è declinato, può rincorrersi alla seguente formulazione, la sicurezza, come sopra descritta, di un sistema di gestione delle informazioni aziendale, conduce alla possibilità del loro impiego Diventa a questo punto evidente, la molteplice (utilizzabilità processuale, per usare un’ espressione valenza delle disposizioni attinta dal lessico processualnormative, nella accezione più penalistico, oltre ogni ampia del termine, in materia "si comprende agevolmente, allora, ragionevole dubbio) in termini di sicurezza delle informazioni, come e perché, una appropriata di prova (per tale via quindi intesa questa come la scienza policy di gestione del rischio contempli sicurezza è uguale a prova6); che, attraverso la tre diverse operazioni su di un rischio ciò perché un sistema configurazione di specifiche individuato vale a dire, la mitigazione informativo sicuro, restituirà soluzioni fisiche logiche ed del rischio, l'eliminazione del rischio ed evidenze (digitali) disponibili, organizzative ha l'obiettivo di infine, ma non per ultimo, il riservate ed integre. generare informazioni riservate, trasferimento del rischio” integre e disponibili. Se ciò è vero, allora, la gestione della sicurezza dei sistemi informatici In altre parole, sembra coerente con quanto deve essere pensata, non tanto e non solo, in specificato da ultimo, da un lato, che è un’ottica meramente tecnica, come troppo fondamentale, proteggere i propri asset informativi spesso avviene, demandando le relative attività dall'operato di terzi, e, dall'altro, che è altrettanto esclusivamente all'area c.d. IT, ad esempio, delle fondamentale, in una logica pro attiva, di gestione realtà aziendali, specialmente di medie del proprio patrimonio informativo, che, dal dimensioni, ma, complessivamente, in una medesimo, promanino contenuti (i.e. evidenze, che dimensione trasversale ai processi aziendali, che possano divenire prove all'occorrenza) pienamente implichi una partecipazione, pro quota, insieme a e legittimamente utilizzabili a dimostrare, in primo questa, dell'area legale, dell'area risorse umane e luogo, la conformità dell'organizzazione con norme che non prescinda, ma anzi si fondi, su un imperative, in secondo luogo, l'adempimento appropriato è consapevole Commitment della dell'organizzazione stessa a vincoli contrattuali ed direzione aziendale. infine, ma non per ultimo, in terzo luogo, sia l'estraneità dell'organizzazione ad illeciti, sia le Occorre, ora, per centrare il punto di questo modalità, attraverso cui detti illeciti siano stati contributo, introdurre due ulteriori specifiche perpetrati, invece, in danno della organizzazione definizioni utili a comprendere esattamente la stessa. Un ambito molto rilevante ed attuale ove nozione di Cyber Threat (o Minaccia Cibernetica)7, trovano puntuale applicazione le considerazioni quella di rischio e quella di gestione del rischio sopra svolte, é rappresentato, in particolare, con (Risk Management8): se da un punto di vista riferimento specifico al tema dei c.d. Computer generale, facendo riferimento a quella Crime, dall'art. 24 bis del D.Lgs. 231/2001 in materia normazione ad adesione volontaria cui sopra si è di responsabilitá amministrativa degli enti. fatto cenno, possiamo definire il rischio come l'effetto dell'incertezza sul raggiungimento di un Ebbene, con riferimento a questa norma, nel obiettivo9, esiste nel nostro ordinamento un primo contesto sin qui descritto, ci sembrerebbe corretto dato normativo, questa volta di normazione un approccio che muova dalla analisi delle cogente, che può fornirci indicazioni più puntuali seguenti questioni: su quello che, con specifico riguardo un sistema

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informativo, che elabora dati personali, possiamo ritenere sia un rischio. In tal senso, l'articolo 31 del Codice in materia di protezione dei dati personali, dopo avere, nella sua prima parte, costruito, in termini di custodia e controllo, il dovere di sicurezza che incombe sul Titolare del trattamento, e che in determinate condizioni è assistito da pesanti sanzioni amministrative e nei casi più gravi da sanzioni penali, elenca espressamente quali siano i “rischi” dai quali il titolare deve proteggere i dati stessi, individuando, segnatamente: la distruzione o la perdita, l'accesso non autorizzato, il trattamento non consentito o non conforme con le finalità della raccolta10.

sinteticamente, un metodo matematico per la soluzione di un problema, ma, la circostanza che gli algoritmi che stanno alla base di un programma per elaboratore, siano pensati e sviluppati da esseri umani, prima di essere interpretati e codificati in un determinato linguaggio di programmazione, espone, transitivamente, all'imperfezione, gli stessi programmi;11 in altre parole, dal punto di vista della sicurezza informatica, alla suscettibilità ad essere impiegati in modo difforme, anche solo parzialmente, da quello per il quale erano stati progettati. Se è vero ciò che precede, ed è vero, occorre anche precisare che, se da una parte gli stessi autori dei software, possono intervenire e di fatto intervengono, modificando ed aggiornando i loro programmi, dall'altra, per converso, le organizzazioni criminali che operano nell'ambito dei c.d. Cyber Crime, quotidianamente rinvengono, nuove vulnerabilità, che sfruttano a loro vantaggio e che in ipotesi, per essere state scoperte in un ipotetico adesso, non sono ancora state oggetto di “riparazione” da parte del produttore di quel determinato software.

Naturalmente, la tipizzazione legale sopra indicata, di quali possano essere i rischi in grado di affliggere i dati personali (siano essi contenuti o meno in un sistema elettronico), può essere declinata e correlata, da un punto di vista della elaborazione elettronica, e della sicurezza informatica, in particolare, in altrettante, specifiche, fonti di rischio "sicurezza delle informazioni, intesa che si concretizzano in questa come la scienza che, altrettante minacce in attraverso la configurazione di grado di avere effetti specifiche soluzioni fisiche logiche ed negativi sul patrimonio organizzative ha l'obiettivo di informativo di una generare informazioni riservate, organizzazione.

integre e

Rilevano, evidentemente, a tale stregua, tanto per fare degli esempi, i virus informatici ed i malware, le più recenti forme di ransomware, ma anche, sotto altro profilo, erronee configurazioni di dispositivi di protezione del perimetro informatico di una organizzazione, o, peggio ancora, vulnerabilità tecniche specifiche derivanti dal mancato aggiornamento dei programmi in dotazione. A questo punto, un chiarimento “filosofico” sembra opportuno, per parametrare, con il canone del progresso tecnico e tecnologico (così come è espressamente previsto nella prima parte dell'art. 31 del citato codice privacy), il concetto di vulnerabilità, che ad avviso di chi scrive, rileva primariamente nella comprensione delle strategie aziendali di prevenzione del rischio che possono essere attuate; l'osservazione da svolgere, brevemente, per comprendere la ragione del fatto che è indispensabile pensare alla sicurezza informatica, in termini di processo e non di prodotto, attiene, sostanzialmente, alle modalità di svolgimento, dell'attività umana, la programmazione, di realizzazione di un programma per elaboratore (o software). Quest'ultima, come è noto, si basa sulla formulazione e sullo sviluppo di un algoritmo, 16

Ciò chiarito, si comprende agevolmente, allora, come e perché, una appropriata policy di gestione del rischio contempli tre diverse operazioni su un rischio individuato vale a dire, la mitigazione del rischio, disponibili” l'eliminazione del rischio ed infine, ma non per ultimo, il trasferimento del rischio, per esempio, tramite affidamento in oustourcing del processo cui quel determinato rischio afferisce o, per altra via, stipulando apposite coperture assicurative12 di contenimento. Quanto precisato da ultimo, in materia di trasferimento di un determinato rischio mediante stipulazione di apposita copertura assicurativa, in realtà, a ben vedere, introduce un nuovo parametro nella metodologia applicabile di gestione del rischio, nel senso che, come è noto, il più delle volte, la stessa operatività di determinate coperture assicurative, implica, il soddisfacimento, anche nel tempo, di determinati requisiti, questa volta contrattualmente imposti, in mancanza dei quali, il rischio, pure trasferito, sulla carta, dovrà essere nuovamente gestito, direttamente, dall'organizzazione, ma, questa

“il concetto di vulnerabilità rileva primariamente nella comprensione delle strategie aziendali di prevenzione del rischio che possono essere attuate”

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volta, a posteriori, in forma di danno. Con ciò, si vuol dire che, non solo il soddisfacimento di specifici requisiti contrattuali (veri e propri presupposti a questo punto), in un tempo T1, determinerà la possibilità di accedere o meno allo strumento assicurativo prescelto, al fine di un efficace azione di trasferimento del rischio, ma anche che, la circostanza che i requisiti individuati a termini di polizza, debbano sussistere, spesso in un logica formale di documentazione, in un tempo T2, implica, di fatto, la necessità di strutturare una vera e propria policy di gestione della sicurezza delle informazioni il cui criterio (o requisito) è contenuto, anche, nelle specifiche prescrizioni contrattualizzate dal soggetto che assicura l'evento. Conclusioni La pervasiva molteplicità dei c.d. Cyber Risks che vanno dalla perdita dei dati, al blocco dell’attività lavorativa di un’azienda, al danno a terzi o a quello reputazionale, solo per citarne sommariamente alcuni, inducono gli operatori, in questa fase, più che mai, ad interrogarsi su quale sia attualmente il ruolo dell’industria assicurativa in questo ambito, portando ad esaminare le nozioni di Cyber Risk, e di gestione del rischio in riferimento alle quali, in primis, devono intervenire delle apposite strategie aziendali. In questo senso, una comunicazione appropriata ed una fattiva collaborazione, anche tra le stesse aziende, per creare un mercato assicurativo più consapevole ed avveduto (risk awareness) potrebbero essere un’importante soluzione.

“PCI-DSS (Payment Card Industry – Data Security Standard) standard di sicurezza per operazioni che implicano, la memorizzazione o la trasmissione di dati relativi a pagamenti con carte di credito

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NOTE (1) Cfr. Verizon Data Breach Investigation Report 2015. - 79.790 incidenti, 2.122 data breaches confermati, in 61 paesi del mondo, con una predominanza di casi (i due terzi) localizzati negli USA, sono questi i numeri su cui si basa l’analisi del Data Breach Investigations Report (DBIR) di Verizon per il 2015, undicesima versione appena pubblicata del più noto studio del settore della cybersecurity, basato sul contributo informativo di oltre 70 organizzazioni tra service providers, società di IR/forensic, Computer Security Information Response Teams internazionali, enti governativi e ora anche numerosi player della security industry. (2) In base a quanto prescritto dalla Circ. (AgID) Agenzia per l’Italia Digitale, N. 65 del 10 aprile 2014, Modalità per l’accreditamento e la vigilanza sui soggetti pubblici e privati che svolgono attività di conservazione dei documenti informatici di cui all'articolo 44-bis, comma 1, del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, (in G.U. n. 89 del 16 aprile 2014), la facoltà di poter erogare, in favore della Pubblica Amministrazione prestazioni di archiviazione documentale, rilevanti ai fini delle vigenti disposizioni di legge in materia di archiviazione sostitutiva é condizionata al possesso, da parte del fornitore, di apposita certificazione UNI EN ISO 27001:2013. (3) PCI-DSS (Payment Card Industry – Data Security Standard) é lo standard di sicurezza cui occorre attenersi, con diversi livelli di intensità, sulla base di specifiche previsioni contrattuali, di volta in volta stipulate tra i soggetti coinvolti nelle relative attività, ogni volta che vengono effettuate operazioni che implicano, la memorizzazione (anche temporanea) ovvero la trasmissione d specifici dati relativi a pagamenti effettuati con carte di credito. (4) Amplius in “Il bitcoin entra nell'età dell'oro: nasce la criptovaluta garantita da riserve aurifere”. P. Soldavini in Il Sole 24 ore del 07.05.2014 in www.ilsole24ore.com, sito consultato e verificato in data 22 maggio 2015. (5) In questo contesto, si é affermata tra le discipline processuali, di maggiore rilevanza, la digital forensics o informatica forense, definita come segue: ““The use of scientifically derived and proven methods toward the preservation, collection, validation, identification, analysis, interpretation, documentation and presentation of digital evidence derived from digital sources for the purpose of facilitating or furthering the reconstruction of events found to be criminal, or helping to anticipate unauthorized actions shown to be disruptive to planned operations”. DFRWS (Digital Forensics Research Conference) TECHNICAL REPORT: ”A Road Map for Digital Forensic ” Cfr. anche: ISO/IEC 27001:2013 - Annex A control A.16.1.7 Collection of evidence: “The organization shall define and apply procedures for the identification, collection, acquisition and preservation of information, which can serve as evidence; ISO/IEC 27037:2012 - Information technology - Security techniques - Guidelines for identification, collection, acquisition and preservation of digital evidence; PCI DSS V. 3.0. Req. A.1.4 Enable processes to provide for timely forensic investigation in the

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event of a compromise to any hosted merchant or service provider. (6) F. Cajani - Il vaglio dibattimentale della digital evidence - In Archivio Penale, settembre-dicembre 2013 fascicolo 3 anno LXV. Pag. 837-852. “In tale contesto, le previsioni di misure volte a salvaguardare la genuinità della digital evidence all’atto della sua acquisizione (ma anche, nell’intera catena di conservazione del reperto, prima e dopo la sua analisi) ripropongono alcuni quesiti che erano già stati sollevati in passato, allorché il P.M. non le avesse indicate nei suoi decreti (di perquisizione/ispezione) e/o la P.G. le avesse omesse ovvero esse fossero state, in ogni caso, erroneamente adottate”. (7) Cfr. I. Nai Fovino - Valutazione della sicurezza delle infrastrutture critiche, definizioni e metodologia. In: “La comunicazione, Note Recensioni & Notizie Pubblicazione dell’Istituto Superiore delle Comunicazioni e delle Tecnologie dell'Informazione, Anno 2013 Vol. LIX - “Una minaccia, come indicato nell’“Internet RFC Glossary of Terms” viene definita come un potenziale per la violazione della sicurezza, che esiste in quanto c’è circostanza, capacità, azione o evento che potrebbe fare una breccia nelle misure di sicurezza e causare danno. Una vulnerabilità, per definizione è una debolezza del sistema sotto analisi, sia essa infrastrutturale, legata a processi, politiche, controlli ecc. Come diretta conseguenza, un attacco può essere definito come l’intero processo messo in atto da un agente di minaccia per attaccare un sistema con successo, sfruttando una o più vulnerabilità dello stesso. Infine, come definito nell’ISO/IEC 17799:2000, il rischio è definito come la probabilità che un attacco/incidente accada (quando una minaccia viene attualizzata dalla combinazione di vulnerabilità ed attacchi) moltiplicato per il danno potenziale causato.” in http://www.isticom.it sito consultato e verificato in data 21.05.2015. (8) Cfr. NIST Special Publication 800-39 Managing Information Security Risk Organization, Mission, and Information System View. Pag. 6. “Risk management is a comprehensive process that requires organizations to: (i) frame risk (i.e., establish the context for risk-based decisions); (ii) assess risk; (iii) respond to risk once determined; and (iv) monitor risk on an on going basis using effective organizational communications and a feedback loop for continuous improvement in the risk-related activities of organizations”. In www.nist.org. Sito consultato e verificato in data 22.05.2015 (9) ISO/IEC 27000:2014(en) - Information technology - Security techniques Information security management systems - Overview and vocabulary Terms and Definition. Note 6 - Information security risk is associated with the potential that threats (2.83) will exploit vulnerabilities (2.89) of an information asset or group of information assets and thereby cause harm to an organization. In www.iso.org - Sito consultato e verificato in data 21.05.2015 (10) In tal senso Cfr. Risoluzione legislativa del Parlamento Europeo del 12 marzo 2014 sulla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio concernente la tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali e la libera circolazione di tali dati (regolamento generale sulla protezione dei dati) (COM(2012)0011 – C70025/2012 – 2012/0011(COD)) Emendamento 118 - Proposta di regolamento. Articolo 23 - Protezione fin dalla progettazione e protezione di default. Al momento di determinare le finalità e i mezzi del trattamento e all' atto del trattamento stesso, l'eventuale responsabile del trattamento e incaricato del trattamento , tenuto conto dell'evoluzione tecnica, delle migliori prassi internazionali e dei rischi rappresentati dal trattamento dei dati , mette in atto misure e procedure tecniche e organizzative adeguate e proporzionate, in modo tale che il trattamento sia conforme al presente regolamento e assicuri la tutela dei diritti dell'interessato, con particolare riguardo ai principi di cui all'articolo 5 . (11) Non a caso, laddove un programma per elaboratore debba essere impiegato, in infrastrutture critiche o, per esempio, per l'esecuzione di operazioni pagamento a mezzo carta di credito esso deve essere sottoposto, sin dalla sua progettazione, a rigidi test della sua sicurezza intrinseca. Cfr. PA-DSS (Payment Application Data Security Standard).. (12) Amplius in: “Cyber resilience. The cyber risk challenge and the role of insurance. December 2014” - “Insuring cyber risk comes with a myriad of challenges – continually shifting threats, sparse loss data, multi-layered levels of interconnectivity – the list goes on. In order to be able to assess which policies may be triggered under different cyber attack scenarios, the CRO needs to create a strong and well-designed risk management framework. This will help organisations make sense of the cyber risk they have assumed and actively discuss, manage and monitor this risk, while providing assurance and expertise to clients”. In http://www.thecroforum.org/publications/best-practices-in-riskmanagement/ sito consultato e verificato il 22.05.2015.

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Giuseppe Serafini, avvocato, BSI -

ISO/IEC 27001:2013 Lead Auditor; Master Privacy Officer; Perfezionato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano in Digital Forenscis, Cloud & Data Protection. Già docente di Informatica Giuridica presso la Scuola di Specializzazione in Professioni Legali di Perugia, L. Migliorini e collaboratore della cattedra di Informatica Giuridica della Facoltà di Giurisprudenza di Perugia; Relatore ed autore di numerose pubblicazioni in materia di Sicurezza delle Informazioni e Diritto delle nuove Tecnologie. Associato Cloud Security Alliance Italy Chapter e Digital Forensics Alumni.

Letiza

Bassini, è dottoressa in Giurisprudenza ed è iscritta nel registro dei praticanti Avvocati dell'Ordine Forense di Perugia.

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Sfruttare al meglio i nuovi (ed I vecchi) incentivi: un equlibrio fra opportunità e programmazione. di: Marco Garavini

Da tempo, a mio parere, il reale aiuto alle imprese non può limitarsi ad una mera ricostruzione delle fattispecie legali e degli eventuali limiti di queste, ma deve sostanziarsi in un pieno e convinto aiuto anche nella scelta degli strumenti da utilizzare e della corretta metodologia applicative da seguire. In questo senso, la rubrica che oggi inizia ha l’ambizione di non limitarsi ad essere fonte di mera segnalazione delle possibili fattispecie a disposizione, bensì strumento idoneo per trovare assieme suggerimenti e soluzioni fattive, che possano generare vantaggi all’impresa che, in sintesi, inevitabilmente, divengono vantaggi per tutti.

Leage di stabilità 2015 “Bonus 8060”

Diritto del Lavoro e delle relazioni Industriali

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In questo senso oggi iniziamo questo percorso parlando dei nuovi incentivi ed in particolare della possibile sinergia fra l’incentivo alla assunzione previsto dalla legge di stabilità 2015 (che chiameremo per semplicità Bonus 8060) e l’emanando contratto a tutele crescenti e delle eventuali correlazioni fra i vari diversi istituti giuridici al fine di provare a trovare e costruire una sinergia che ci permetta di sfruttare al massimo i possibili vantaggi. Bonus 8060 cosa è come funziona? Per fini di incremento occupazionale, come noto, con il comma 118 e ss della Legge di Stabilità 2015 è stato introdotto un incentivo generale per le assunzioni a tempo indeterminato perfezionate nel corso dell’anno 2015 da parte dei datori di lavoro privati. Segnatamente l’incentivo in parola si sostanzia in una sgravio contributivo pari al massimo di 8060 € per ogni anno e per complessivi 36 mesi dalla data di assunzione del Lavoratore. L’unica condizione che pone la norma citata è che il lavoratore assunto non abbia nei 6 mesi precedenti goduto di un contratto a tempo indeterminato ed inoltre l’unico limite è che la assunzione dovrà essere perfezionata nell’anno corrente 2015 in quanto tale Bonus è previsto, ad oggi, solo per le assunzioni effettuate in tale range temporale. Si noti che il Bonus 8060 è poi particolarmente fruibile in quanto non sottostà alle

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regolamentazione del “de minimis” e non prevede per la concreta irrogazione la verifica dell’incremento occupazionale netto, entrambe regolamentazioni che hanno di fatto spesso reso sostanzialmente inutilizzabili gli incentivi spot, numerosi e scarsamente coordinati che si sono affollati nel passato. Rimangono comunque ferme le condizioni di fruibilità previste dall’art. 1 commi 1175 e 1176 della c.d. Legge Fornero (L. 296/2006) e segnatamente: a. Regolare assolvimento degli obblighi contributivi previdenziali nonché assenza di violazione delle norme fondamentali a tutela delle condizioni di lavoro; b. Rispetto degli accordi e dei contratti collettivi nazionali (oltre che degli accordi di secondo livello ove esistano e siano stati sottoscritti).

Pertanto il potenziale massimo del suddetto incentivo ideato come decontribuzione sarà di 24.180 € nel triennio; tuttavia l’incentivo in parola sarà particolarmente efficace per i livelli intermedi, e segnatamente per il contratto metalmeccanico fra il 4° ed il 5° livello, ma ovviamente il ragionamento è facilmente applicabile a tutti i contratti di settore .

Ora ben si comprende come tale incentivo risulti sempre vantaggioso ma lo stesso potrà poi risultare particolarmente enfatizzato quanto più le categorie di assunzione siano ben pensate al fine di massimizzare l’utilizzo del suddetto incentivo; il che si ovviamente si riverbera in maniera decisa anche sul costo orario della prestazioni dei lavoratori dando notevoli vantaggi in termini di produttività oraria. Ciò può aiutarci ad elaborare una pragmatica e conveniente strategia assuntiva e conseguentemente di Rimangono comunque ricerca del personale ferme le condizioni di mirata. Si noti bene, in fruibilità previste dall’art. questo senso, che tale incentivo potrà sommarsi 1 commi 1175 e 1176 con l’incentivo economico da quello della c.d. Legge Fornero (differente contributivo che è (L. 296/2006) ovviamente incompatibile con il Bonus 8060 in parola) della mobilità.

Al fine di avvicinarci al concreto funzionamento del Bonus in parola si deve evidenziare come lo sgravio in parola non possa superare il montante contributivo previsto e versato per il lavoratore. Da ciò ne consegue che l’incentivo risulta annullare completamente il montante contributivo solo per i livelli più bassi dei contratti collettivi.

Prendendo a riferimento il CCNL dei metalmeccanici il montante contributivo sarà completamente abbattuto sino alla IV categoria mentre oltre la V categoria si dovrà provvedere al residuo pagamento dei contributi detratta la quota annuale dell’incentivo come si esplica nella seguente tabella:

Come i lettori sicuramente sapranno l’incentivo economico della mobilità è rappresentato dal 50% della indennità di mobilità residua di cui avrebbe goduto il lavoratore ove non fosse assunto. Del suddetto 50% gode l’imprenditore che assume il lavoratore proveniente dalla mobilità (ad esempio nel caso in cui un lavoratore che ha diritto a 24 mesi di mobilità sia assunto al 13° mese di mobilità l’imprenditore che assume avrà diritto al 50% della indennità di mobilità per i restanti 11 mesi di cui avrebbe goduto il

Tab.I - BONUS 8060 ANNI DI GODIMENTO Anno Anno Anno 20

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LIVELLI – CCNL Metalmeccanico 3° € 7.077,18 € 14.154,36 € 21.231,54

4° € 7.383,18 € 14.766,36 € 22.149,54

5° € 8.060,00 € 16.120,00 € 24.180,00

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lavoratore ove non fosse stato assunto). Pertanto, la soluzione diviene ancora più vantaggiosa, in quanto è possibile l’utilizzo di tali incentivi in via di sommatoria. Il consiglio, pertanto, per utilizzare in modo corretto tali occasioni, è provvedere ad una veloce, ma attenta, pianificazione delle stabilizzazioni e della assunzioni, al fine di intercettare il più possibile la massimizzazione dell’incentivo. A tal proposito qui ci si permette un piccolo esempio, ed un suggerimento, che potrà aiutare a sviluppare una ragionamento di complessiva massimizzazione del profitto che possono offrire tatticamente gli incentivi in parola. Poniamo che ci interessi un lavoratore che è entrato in mobilità da soli tre mesi e che tale lavoratore precedentemente godesse di un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Come potremo massimizzare tale assunzione ai fini di risparmio? Il suggerimento potrebbe essere assumere lo stesso con un contratto di soli tre mesi a termine (oggi tra l’altro come sapranno i nostri lettori assolutamente privo di motivazione ed assai flessibile) pertanto al termine del contratto il nostro lavoratore avrà maturato il requisito dei sei mesi di tempo senza godere di un contratto a tempo indeterminato. Lo stesso lavoratore nel frattempo potrà sospendere la mobilità. Al termine lo stesso potrà essere stabilizzato e il datore di lavoro, rimanendo nel range temporale del 2015 potrà sia godere del Bonus “8060” che dell’incentivo economico. Ma vi è di più ….. dal 07.03.2015 i lavoratori neo assunti non godranno più dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori ma ricadranno nella nuova normativa del c.d. Contratto a Tutele Crescenti, il che come vedremo enfatizza ulteriormente gli effetti degli incentivi alla assunzione ivi suggeriti. Ma prima vediamo in cosa consiste tale nuova fattispecie complessa.

“Il Contratto a Tutele Crescenti non è un contratto ma al contrario una diversa modalità di tutela del lavoratore da un eventuale licenziamento illegittimo con applicazione di un nuovo corpus normativo introdotto sulla base della Legge Delega 183 del 2015 (c.d. Jobs Act) e segnatamente con il D. Lgs. n. 23 del 2015”.

Contratto a Tutele Crescenti: cosa è? Scherzando con alcuni colleghi ed amici ho sottotitolato in un breve seminario aziendale da me tenuto sul contratto a Tutele Crescenti con la frase “il contratto che non è un contratto”. Ed infatti in questo senso è necessario sgombrare immediatamente il campo da un possibile e spiacevole equivoco. Il contratto a tutele crescenti non è un contratto, ma al contrario una diversa modalità di tutela del lavoratore da un eventuale licenziamento illegittimo con applicazione di un nuovo corpus normativo introdotto sulla base della Legge delega 183 del 2015 (c.d. Jobs Act) e segnatamente con il D. Lgs. n. 23 del 2015. Per ciò che concerne i datori di lavoro, la normativa in parola si applica a coloro che superano la soglia prevista dall’art. 18 ottavo e nono comma, ossia coloro che alla data di entrata in vigore del presente decreto occupano più di 15 dipendenti. La normativa verrà altresì applicata anche ai lavoratori che, anche successivamente alla data 21

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di entrata in vigore del decreto 07.03.2015 superino la suddetta soglia. Si noti bene che in tale secondo caso troverà applicazione la normativa di cui al D. Lgs. n. 23 del 2015, anche ai dipendenti assunti precedentemente alla data del 07.03.2015 8 (art. 1, comma 3, D. Lgs. 23/2015 ). Per ciò che concerne i lavoratori tale corpus normativo va a sostituire integralmente l’art. 18 dello Statuto, per coloro che risulteranno assunti dalla data del 07.03.2015 in poi (salvo come detto per le i datori di lavoro che superino la soglia dei 15 assunti successivamente alla data del 07.03.2105). Ciò significa, e deve tenersi ben presente, che per gli assunti precedentemente a tale data spartiacque rimarranno vigenti le precedenti norme e che pertanto in capo al medesimo datore di lavoro ruoteranno due diversi tipi di lavoratori con due differenti tutele. La normativa in parola supera in via definitiva la c.d. reintegra salvo i seguenti limitati casi (art. 2 D. Lgs. 23 del 2015): 1. In caso di licenziamento discriminatorio; 2. In caso di nullità del licenziamento; 3. In caso di licenziamento orale; 4. Insussistenza del fatto (in caso di licenziamento disciplinare).

23 del 2015). Segnatamente è previsto che il lavoratore maturi una indennità crescente pari a due mensilità di risarcimento per ogni anno di anzianità maturata con un minimo di 4 mensilità a prescindere dalla anzianità e con un massimo di 24 mensilità. Nella seguente tabella II siamo ad illustrare analiticamente la maturazione della tutela in funzione della anzianità: Tab.II PROGRESSIONE MATURAZIONE TUTELA ANZIANITA' Anno 1 Anno 2 Anno 3 Anno 4 Anno 5 Anno 6 Anno 7 Anno 8 Anno 9 Anno 10 Anno 11 Anno 12

INDENNITA' 4 Mensilità 4 Mensilità 6 Mensilità 8 Mensilità 10 Mensilità 12 Mensilità 14 Mensilità 16 Mensilità 18 Mensilità 20 Mensilità 22 Mensilità 24 Mensilità

E’ necessario concentrarsi sulla scansione temporale in quanto non è inutile sottolineare come il lavoratore maturerà la tutela massima in un range temporale di 12 anni di anzianità che dovrà essere necessariamente maturata a Fuori dai precedenti casi elencati peraltro, carico del medesimo datore di lavoro. Altresì senza entrare nel merito, ciò significa che di difficile verificabilità e/o particolarmente per i comunque che vedono “la normativa in parola supera primi anni l’eventuale come presupposto dei licenziamento del in via generale la disciplina gravi errori di gestione e/o lavoratore sarà in ogni della reintegra nel posto di di impostazione del caso di contenuta licenziamento (eventi lavoro e riduce in maniera rischiosità economica assai rari se il datore di decisa la indennità monetaria anche ove il lavoro è correttamente licenziamento in parola spettante al lavoratore” assistito da un esperto di dovesse presentare diritto del lavoro) la aspetti di illegittimità normativa in parola ovviamente ciò deve essere in ogni caso supera in via generale la disciplina della sventato. Pertanto è corretto considerare il c.d. reintegra nel posto di lavoro e riduce in contratto a tutele crescenti come una tutela maniera decisa la indennità monetaria depotenziata del lavoratore dagli effetti di un spettante al lavoratore nel caso in cui sia licenziamento illegittimo accertata la non ricorrenza degli estremi del licenziamento per giustificato motivo Il contratto a tutele crescenti non deve poi oggettivo o per giusta causa, in poche parole passare inosservato anche in termini di in nel caso in cui il giudice accerti la conseguenze organizzativo-gestionali, anche in illegittimità del licenziamento (art. 3 - D. Lgs. n. previsione di una riduzione future del 22

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personale. Qui, ad esempio, prendendo in considerazione il licenziamento collettivo non si può non osservare che le risorse a minor intensità di tutela saranno quelle fatalmente con meno anzianità aziendale. Questo ci deve spingere, ad avere una maniacale attenzione in termini organizzativi nell’ordine delle mansioni e dei reparti, avendo sempre presente di tenere le coese PROGRESSIONE ANZIANITA' Anno 1 Anno 2 Anno 3 Anno 4 Anno 5 Anno 6 Anno 7 Anno 8 Anno 9 Anno 10 Anno 11 Anno 12

INDENNITA' 4 Mensilità 4 Mensilità 6 Mensilità 8 Mensilità 10 Mensilità 12 Mensilità 14 Mensilità 16 Mensilità 18 Mensilità 20 Mensilità 22 Mensilità 24 Mensilità

le risorse con minore anzianità aziendale e con applicazione del jobs act in maniera da ottenere le migliori economicità in caso si renda indispensabile una riduzione del personale negli anni futuri. Pertanto si dovrà avere e conservare nel tempo una perfetta conoscenza della tipologia del personale che si impiega in azienda e segnatamente del regime di tutela al quale quest’ultimo si iscrive.

Tab. III VALORIZZAZIONE RETRIBUTIVA 3° € 7.148,84 € 7.148,84 € 10.723,25 € 14.297,67 € 17.872,09 € 21.446,51 € 25.020,92 € 28.595,34 € 32.169,76 € 35.744,18 € 39.318,59 € 42.893,01

4° € 7.457,76 € 7.457,76 € 11.186,64 € 14.915,52 € 18.644,40 € 22.373,28 € 26.102,16 € 29.831,04 € 33.559,92 € 37.288,80 € 41.017,68 € 44.746,56

5° € 7.987,01 € 7.987,01 € 11.980,51 € 15.974,01 € 19.967,51 € 23.961,02 € 27.954,52 € 31.948,02 € 35.941,52 € 39.935,03 € 43.928,53 € 47.922,03

BONUS 8060 3° € 7.077,18 € 14.154,36 € 21.231,54 € 21.231,54 € 21.231,54 € 21.231,54 € 21.231,54 € 21.231,54 € 21.231,54 € 21.231,54 € 21.231,54 € 21.231,54

4° € 7.383,18 € 14.766,36 € 22.149,54 € 22.149,54 € 22.149,54 € 22.149,54 € 22.149,54 € 22.149,54 € 22.149,54 € 22.149,54 € 22.149,54 € 22.149,54

5° € 8.060,00 € 16.120,00 € 24.180,00 € 24.180,00 € 24.180,00 € 24.180,00 € 24.180,00 € 24.180,00 € 24.180,00 € 24.180,00 € 24.180,00 € 24.180,00

La corretta sintesi. A questo punto è fondamentale comprendere come la corretta sintesi ed applicazione dei due istituti presi in considerazione potrà ,ad esempio, rendere assolutamente neutro il licenziamento, con una assoluta flessibilizzazione in uscita delle risorse, rendendo da un lato più fruibile il contratto a tempo indeterminato e dall’altro, ove ben costruito e gestito, assolutamente più sicuro sia in termini assoluti che in termini economici l’eventuale licenziamento della risorsa. Sempre prendendo come riferimento il CCNL dei metalmeccanici, non si può non notare come fatalmente la sintesi fra la fruizione a pieno del Bonus 8060 e la tutela depotenziata del c.d. Contratto a Tutele Crescenti rende il licenziamento non solo neutro, ma persino conveniente a livello economico sino al sesto anno di anzianità prendendo a riferimento il 3° il 4° ed il 5° livello del citato CCNL come esemplificato nella precedente tabella (tab. III): In conclusione, è necessario non perdere l’occasione offerta dagli strumenti odierni non solo in termini di mero risparmio, che potremmo definire “stocastico” su eventuali assunzioni, ma ove se ne presenti la concreta utilità ed opportunità cercare di generare una corretta sinergia fra tutti gli strumenti contrattuali vecchi e particolarmente nuovi ad oggi vigenti nel ns. sistema. Un sistema sempre meno sistematico e dove pertanto è necessario andarsi a ricercare la soluzione più funzionale ai nostri scopi. Marco Garavini: Laureato in Legge, Abilitato alla professione forense, dal 2001 inizia a lavorare quale legale in studi sindacali, affrontando tutti gli aspetti della materia giuslavoristica. Dal 2007 presta la propria opera “In House”, occupandosi dei principali settori propri delle funzione Hard HR. 23

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Il recupero dei crediti in Europa. La Direttiva 2011/7/UE: uno strumento ancora poco conosciuto, ma fonte di diritti irrinunciabili di Francesco De Sanzuane .

La Direttiva 2011/7/UE “è portatrice di scopi e finalità di importanza centrale per qualsiasi impresa, intese ad aumentarne le tutele avverso i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali tra imprese ed anche tra di esse e le pubbliche amministrazioni”

Diritto Internazionale e dell’Unione Europea

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La Direttiva 2011/7/UE( 1 ), emanata in data 16 febbraio 2011 e recepita dal nostro legislatore inaspettatamente nei tempi previsti, ovvero entro la scadenza del 16 marzo 2013, è portatrice di scopi e finalità di importanza centrale per qualsiasi impresa, intese ad aumentarne le tutele avverso i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali tra imprese ed anche tra di esse e le pubbliche amministrazioni. Come noto, infatti, con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 267 del 15 novembre 2012 del decreto legislativo 9 novembre 2012, n.192, il Governo ha esercitato la delega conferita dal Parlamento all’incirca un anno prima con l’emanazione della legge “Statuto delle imprese” (L.180/2011) e disposto l’integrale recepimento della sopra citata direttiva. L’estensione del periodo di efficacia della nuova normativa all’interno del nostro ordinamento non è dunque particolarmente esteso, tuttavia, come potremo verificare nel corso dell’attuale dissertazione, alcune conclusioni possono già essere tratte, ma poche sono le note positive se e quando dobbiamo considerare gli obblighi che la normativa pone nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni(2). D’altro canto, il preciso obbligo posto in capo alle pubbliche amministrazioni dei Paesi facenti parte l’Unione di provvedere ai pagamenti nei confronti dei soggetti privati loro creditori entro, e non oltre, un termine massimo di 60 giorni dal momento in cui il credito è maturato – dotando dunque l’intera area comunitaria di un termine comune in precedenza assente - pur essendo novità di assoluta importanza, difficilmente avrebbe potuto essere accolta agevolmente da amministrazioni in costante debito di liquidità e, tra queste, rientra certamente la Pubblica Amministrazione italiana. La Direttiva 2011/7/UE si occupa dunque di svariati aspetti di eterogenea attrattività e, in questa sede, proveremo ad analizzare la sua influenza sui testi contrattuali che siamo soliti redigere e sottoscrivere, sotto lo specifico aspetto del termine dovuto per il pagamento e del momento dal quale far decorrere gli interessi moratori. Tornando quindi al dato normativo, la più recente direttiva completa, sostituendola nella sostanza per buona parte, la regolamentazione di cui alla precedente direttiva 2000/35/CE, attuata in Italia con D.Lgs. 231/2002 anch’essa rivolta a disciplinare le transazioni commerciali tra imprese o tra imprese e pubbliche amministrazioni e, dunque, a qualsiasi fornitura di merci o prestazione di servizi rese dietro al pagamento del prezzo stabilito.

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Quest’ultima Direttiva non si occupava, tuttavia, di armonizzare i termini di pagamento, né di stabilire termini perentori che, dunque, non rimanevano meramente ordinatori e “potenzialmente” senza effetti, il che ne ha limitato fortemente l’efficacia. Ciononostante, il testo ha comunque avuto il pregio di introdurre un primo testo comunitario in materia e di aver affermato nell’ordinamento comunitario un principio di diritto importantissimo in materia di interessi di mora: esso ha infatti stabilito, con felice formulazione tecnica, che qualsiasi creditori ha pieno diritto di esigere, in caso di mancato pagamento, interessi maggiorati senza necessità di un precedente sollecito o di una specifica richiesta in tal senso. “Art. 3, comma 1, lettera c): il creditore ha diritto agli interessi di mora se :i) ha adempiuto agli obblighi contrattuali e di legge; e ii) non ha ricevuto nei termini l'importo dovuto, a meno che il ritardo non sia imputabile al debitore”. Ma come ci si deve comportare nel caso, non raro, in cui i termini, ovvero la data o il periodo di pagamento, non sono stati inseriti nel contratto? Quel che è certo è che, come appena argomentato, gli interessi di mora sono senza dubbio dovuti, ma trascorso il termine di trenta giorni il dies a quo cambia a seconda della rappresentazione nel concreto dei casi che di seguito si elencano e che si riferiscono: (1) alla data di ricevimento della fattura o della equivalente richiesta di pagamento; (2) al ricevimento delle merci o prestazione dei servizi se (i) la fattura o la richiesta di pagamento è anticipata rispetto alla consegna delle merci o alla prestazione dei servizi o se (ii) la data di ricevimento di tali documenti non è certa; (3) accettazione o verifica di conformità delle merci o dei servizi prevista per legge o per contratto, se il debitore riceve la fattura anteriormente alla data di tale accettazione o verifica di conformità. Si tratta, è bene precisarlo, di termini che possono comunque essere modificati dalle parti, in ossequio alle esigenze del momento, e che quindi potrebbero prevedere periodi più lunghi e clausole più articolate, ma in ogni caso costituiscono una riferimento fondamentale per qualsiasi estensore di testi contrattuali che vorrà, dunque, inserire nel contratto il riferimento alla Direttiva in parola – meglio alla nuova Direttiva 2011/7/UE che l’ha succeduta - per fornire alla parte assistita la massima copertura possibile. D’altro canto, è possibile ritenere che la formulazione di una clausola che faccia riferimento alla regola scandita dalla Direttiva, pur prospettando termini più lunghi o modifiche al testo europeo, ne potrà sempre trarre protezione e, nel caso la clausola “nuova” dovesse risultare illegittima o 25

inapplicabile, il riferimento alla Direttiva porterebbe alla sua applicazione senza particolari questioni. La più recente Direttiva ha fatto dunque sua questa nuova regola che trova, altresì, la propria “legittimazione” e ragion d’essere in una serie di considerazioni e petizioni di principio assolutamente condivisibili e ragionevoli inserite nelle premesse del testo. In esse si legge infatti: “Nelle transazioni commerciali tra operatori economici o tra operatori economici e amministrazioni pubbliche molti pagamenti sono effettuati più tardi rispetto a quanto concordato nel contratto o stabilito nelle condizioni generali che regolano gli scambi. Sebbene le merci siano fornite e i servizi prestati, molte delle relative fatture sono pagate ben oltre il termine stabilito. Tali ritardi di pagamento influiscono negativamente sulla liquidità e complicano la gestione finanziaria delle imprese. Essi compromettono anche la loro competitività e redditività quando il creditore deve ricorrere ad un finanziamento esterno a causa di ritardi nei pagamenti. Il rischio di tali effetti negativi aumenta considerevolmente nei periodi di recessione economica, quando l’accesso al finanziamento diventa più difficile”.

“Art. 3, comma 1, lettera c): il creditore ha diritto agli interessi di mora se :i) ha adempiuto agli obblighi contrattuali e di legge; e ii) non ha ricevuto nei termini l'importo dovuto, a meno che il ritardo non sia imputabile al debitore”.

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Siamo dunque di fronte ad un importante tassello che va ad inserirsi nella sempre più nutrita schiera di interventi di natura comunitaria volta a proteggere il regolare andamento del mercato nei confini del mercato europeo. D’altro canto, il ricorso alla giustizia nei casi di ritardi di pagamento è già agevolato dal regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, dal regolamento (CE) n. 805/2004 (3) del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, che istituisce il titolo esecutivo europeo per i crediti non contestati, dal regolamento (CE) n. 1896/2006(4) del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, che istituisce un procedimento europeo d’ingiunzione di pagamento, e dal regolamento (CE) n. 861/2007(5) del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 luglio 2007, che istituisce un procedimento europeo per le controversie di modesta entità. Non sempre, tuttavia, nel nostro paese si è fatto buon uso di tali regolamenti che faticano ad entrare nei favori degli esperti del nostro diritto. La Direttiva 2011/7/UE, dunque, è intervenuta per “ammodernare” il sistema normativo e migliorare l’attuale situazione di insolvenza che, colpa la crisi economica che purtroppo caratterizza il periodo storico attuale, è caratterizzata da ritardi non solo dovuti ad oggettive difficoltà economica, ma in buona parte figli delle “abitudini” che gli operatori stanno colpevolmente assumendo.

imprese e per quelli tra pubbliche amministrazioni e imprese e purtroppo, nulla di particolarmente “nuovo” è detto in merito al primo gruppo, ovvero quello costituito dalle transazioni commerciali tra imprese,

In questa ipotesi, infatti, la direttiva si limita ad affermare che è auspicabile che i termini di pagamento pattuiti contrattualmente tra le imprese non superino generalmente 60 giorni e che eventuali termini più lunghi pattuiti non risultino gravemente iniqui per il creditore. E, dunque, nessun vero e proprio obbligo, ma solo una indicazione di massima che non introduco, purtroppo, un termine di pagamento perentorio o armonizzato nell’UE. La rinuncia ad imporre regole “comuni” è rivelata nelle premesse del testo, nelle quali ci si limita ad auspicare che le imprese pattuiscano termini di pagamento non superiori a 60 giorni e che eventuali termini più lunghi pattuiti “ci possono essere circostanze in cui le imprese richiedono periodi di pagamento più lunghi, ad esempio quando le imprese intendono concedere credito commerciale ai propri clienti. Si dovrebbe quindi mantenere la possibilità per le parti di concordare espressamente pe riodi di pagamento superiori a sessanta giorni di calendario, a condizione, tuttavia, che tale proroga non sia “… si dovrebbe quindi gravemente iniqua per il mantenere la possibilità per le creditore (6).

parti di concordare espressamente pe riodi di pagamento superiori a sessanta giorni di calendario, a condizione, tuttavia, che tale proroga non sia gravemente iniqua per il creditore” … .

Il tentativo del legislatore Europeo è dunque quello di portare giovamento al sistema dei pagamenti ovviando, per quanto possibile, ad una vera e propria pratica di ritardare i pagamenti dovuti, pratica che risulta essere più efficace in ambito europeo, dove ancora oggi sono evidenti ed influenti le distanze che dividono i Paesi dell’Unione. Tuttavia, l’impianto giuridico in parola si differenzia a seconda che si tratti in materia di transazioni commerciali tra imprese ovvero di transazione commerciali tra imprese e pubblica amministrazione.

D’altra parte, non risulta attualmente possibile imporre alle legislazioni nazionali l’introduzione di un tal tipo di norma (termini di pagamento perentori ed armonizzati), che entrerebbe in immediato contrasto con numerosi principi e norme di applicazione necessaria, proprie di ciascun ordinamenti giuridico locale. Tuttavia, il legislatore comunitario ha dimostrato grande inclinazione e volontà al problema, centrale invero per l’intera area comunitaria, e ha introdotto, nell’articolo 7, importanti precisazioni(7). Se, infatti, le imprese restano libere di determinare contrattualmente i termini di pagamento e la misura degli interessi di mora nelle loro transazioni commerciali, qualsiasi clausola o prassi contrattuale che ne escludesse l’applicazione risulterebbe immediatamente invalida e, pertanto, impugnabile per inefficacia secondo quando sostenuto dalla nostra prevalente dottrina (8) in quanto gravemente iniqua per il creditore (9).

Rapporti tra imprese: termini di pagamento, interessi di mora e interessi legali. La disciplina risulta essere differenziata per i pagamenti nelle transazioni commerciali tra

Ma quali sono i criteri da utilizzare per individuare la clausola o la prassi invalida, perché gravemente iniqua per il creditore, e, dunque, inefficace? Certamente l’esclusione dell’applicazione degli

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interessi di mora appena sopra ricordato, ma tenendo conto di tutte le circostanze, anche un “(…) a) qualsiasi grave scostamento dalla corretta prassi commerciale, in contrasto con il principio della buona fede e della correttezza; b) la natura del prodotto o del servizio; e c) se il debitore abbia qualche motivo oggettivo per derogare al tasso d’interesse di mora legale.”(10) Inoltre, potranno essere dichiarate gravemente inique, e di conseguenza invalide come sopra chiarito, quelle clausole o prassi che si discostino dall’applicazione dei tassi legali di interessi di mora senza un motivo obiettivo a favore del debitore (art. 7, comma 1, lett. a) b) e c). Rapporti tra imprese e PA: termini di pagamento, interessi di mora e interessi legali. Tutt’altra capienza, invece, ha l’intervento in parola quando passiamo ad analizzare le norme dedicate alle transazioni tra imprese e pubbliche amministrazioni. In questa ipotesi, infatti, è stato introdotto un vero e proprio sistema ammortizzato dei termini di pagamento, applicabile in tutti i Paesi dell’Unione. Ciò è stato possibile in quanto i diritti dei privati nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni sono fondamentalmente uguali, della stessa intensità, così come sullo stesso piano, sostanziale e giuridico, stanno le Amministrazioni quando si trovano ad interpretare al parte del debitore. È Stato dunque introdotto un termine massimo, perentorio e non derogabile, di 30 giorni di calendario(11), che gli Stati possono estendere a 60 nel caso in cui la Pubblica Amministrazione sia soggetta, come impresa pubblica, ai requisiti di trasparenza di cui alla direttiva 2006/111/CE della Commissione, del 16 novembre 2006, relativa alla trasparenza delle relazioni finanziarie, ovvero quando si tratti di enti pubblici che forniscono assistenza sanitaria e che siano stati debitamente riconosciuti a tal fine (art. 4, comma 4).

“il ritardato pagamento nelle transazioni tra imprese e pubbliche amministrazioni darà diritto, senza necessità di un sollecito, a un interesse legale di mora; (…) ma a condizione che l’impresa che vanta il credito abbia perfettamente adempiuto al contratto e che il ritardo nel pagamento sia imputabile alla pubblica amministrazione debitrice”

Il ritardato pagamento nelle transazioni tra imprese e pubbliche amministrazioni darà diritto, senza necessità di un sollecito, a un interesse legale di mora corrispondente al tasso d’interesse applicato dalla Banca centrale europea alle sue più recenti operazioni di rifinanziamento principali, il primo giorno lavorativo del semestre di riferimento, maggiorato di almeno 8 punti percentuali. Ciò è previsto nell’articolo 2, al punto 6, ma a condizione che l’impresa che vanta il credito abbia perfettamente adempiuto al contratto e che il ritardo nel pagamento sia imputabile alla pubblica amministrazione debitrice (12). Comune ad entrambe le ipotesi, ovvero quando si tratti di transazione commerciali tra imprese e tra queste e Pubblica Amministrazione, la nuova 27

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direttiva porta una novità rispetto alla precedente 2000/35/CE. Ora, infatti, è previsto che l’impresa creditrice ha diritto non solo alla corresponsione a proprio favore degli interessi id mora, ma anche risarcimento delle spese di recupero sostenute – il minimo forfetario è indicato in quaranta euro – ma è sempre fatto salvo il maggior costo sostenuto nel caso in cui sia stato necessario affidare incarichi a ad avvocati o società di recupero crediti. A questo proposito, è importante sottolineare che il più citato articolo 7, al suo terzo comma, dispone che devono presumersi presumono gravemente inique – e pertanto invalide – le clausole e le prassi che escludano il risarcimento di tali spese (13).

Risarcimento delle spese di recupero.

“ (…)articolo 7, al suo terzo comma, dispone che devono presumersi presumono gravemente inique – e pertanto invalide – le clausole e le prassi che escludano il risarcimento di tali spese(…)”

La determinazione di termini perentori di pagamento rivolto alla Pubblica Amministrazione pare essere uno dei tanti “inviti” che il legislatore europeo sta inviando ai Governi dei singoli Stati. La volontà di sensibilizzazione è testimoniata anche dalle ulteriori raccomandazioni rivolte agli Stati membri, ed invero anche alla Commissione europea, che dovranno assicurare adeguata pubblicità alla Direttiva e avranno altresì l’onere di incoraggiare la diffusione della cultura di pagamento rapido. A questo scopo, ed in questo caso non si tratta più di mere raccomandazioni contenute nelle premesse della Direttiva, i “considerando”, ma di una vera e propria disposizione normativa, la nuova direttiva prevede che al creditore sia offerta tutela non solo avverso clausole o prassi inique volte ad allungare il periodo di pagamento e ad escludere o limitare gli interessi di mora o il risarcimento delle spese di recupero del credito sia consolidata, ma che ciò avvenga anche per il tramite, o meglio con l’intervento, delle associazioni di categoria delle imprese - articolo 7, comma 5 (14) con l’introduzione di una clausola che pare dotare tali associazioni di poteri estesi e idonei a proteggere gli interessi diffusi dei propri associati e, dunque, tanto da ammettere, sul piano teorico, l’ammissibilità di class action promosse da enti collettivi rappresentativi di imprese. Di notevole interesse è anche l’articolo 9 della Direttiva(15) che, in soluzione di continuità con la precedente, ha conservato la disposizione che prevede come, nell’ambito del territorio Europeo, i creditori possano far valere la clausola di riserva di proprietà – patto di riservato dominio - da essi pattuita contrattualmente e, dunque, tutelarsi sino al momento del pagamento intero del credito maturato. La disposizione, di buon senso, richiama quanto ritengo dovrebbe sempre essere previsto in sede di redazione di un contratto di vendita, soprattutto in caso in cui lo stesso sia fonte regolamentare tra parti di diversa provenienza geografica. Prevedendo questa ipotesi, in caso di inadempimento, il venditore non è obbligato alla risoluzione del contratto, ma potrà richiedere il regolare pagamento delle rate mancanti e agire esecutivamente sui beni del compratore e sul bene

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stesso oggetto del riservato dominio. Pur afferendo tradizionalmente ai contratti di vendita a rate, il patto di riservato dominio è senza dubbio efficace anche nel caso di pagamenti differiti e, pertanto, corretta e condivisibile è l’impostazione fatta propria dalla Direttiva in commento.

NOTE

( 1 ) DIRETTIVA 2011/7/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 febbraio 2011 relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. (2) Riccardo de Caria. “L'Italia e il mancato rispetto della direttiva 2011/7/UE”; 5 Febbraio 2014; http://www.centroeinaudi.it/agendaliberale/articoli/3736-l-italia-e-il-mancato-rispetto-delladirettiva-2011-7-ue.html. Sito verificato il 15 giugno 2015. (3) Regolamento (CE) n. 805/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 aprile 2004, che istituisce il titolo esecutivo europeo per i crediti non contestati (4) Regolamento (CE) N. 1896/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 che istituisce un procedimento europeo d'ingiunzione di pagamento. (5) Regolamento (CE) n. 861/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 luglio 2007 che istituisce un procedimento europeo per le controversie di modesta entità. (6) DIRETTIVA 2011/7/UE. Considerando n. 13. (7) T. Pasquino, "D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 come modificato dal d.lg.9 novembre 2012, n. 192 in attuazione della Direttiva 2011/7/UE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali : commento all'art. 7" in Delle Obbligazioni. Artt. 1277-1320. Leggi collegate , Torino: UTET Giuridica, 2013, p. 682-691. (8) Bianca, Diritto Civile, 3, Il Contratto, 613 ss. ; Rodotà, I saggi, Il codice civile e il processo costituente europeo, in Riv. Crit. Dir. Priv., 2005 I, 98 e ss.; (9) DIRETTIVA 2011/7/UE , art. 7, comma 2: “(…) una clausola contrattuale o una prassi che escluda l’applicazione di interessi di mora è considerata gravemente iniqua.” (10) DIRETTIVA 2011/7/UE , art. 7, comma 1, lett. a) b) e c). (11) DIRETTIVA 2011/7/UE , art. 4, comma 3 (12) Art. 4, comma 1 “Il creditore ha adempiuto agli obblighi contrattuali e di legge; e il creditore non ha ricevuto nei termini l’importo dovuto e il ritardo è imputabile al debitore”. (13) T. Pasquino, op.cit.. (14) I mezzi di cui al paragrafo 4 comprendono disposizioni che consentono che organizzazioni ufficialmente riconosciute per la rappresentanza delle imprese o titolari di un legittimo interesse a rappresentare le imprese agiscano a norma della legislazione nazionale applicabile dinanzi alle autorità giurisdizionali o agli organi amministrativi competenti qualora le clausole contrattuali o le prassi siano gravemente inique ai sensi del paragrafo 1, in modo che possano ricorrere a mezzi appropriati ed efficaci per impedire il ricorso continuo a tali clausole (15) Articolo 9 (Riserva di proprietà). “Gli Stati membri dispongono, in conformità delle disposizioni nazionali applicabili secondo il diritto internazionale privato, che il venditore conservi il diritto di proprietà sulle merci fintanto che non siano state pagate totalmente, qualora sia stata esplicitamente concordata una clausola di riserva di proprietà tra l’acquirente e il venditore prima della consegna delle merci”.

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Avvocato, docente e seminarista, esperto in Diritto internazionale e dei Contratti, Francesco De Sanzuane è Direttore responsabile di “Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali” ed autore di numerosi articoli, approfondimenti e pubblicazioni. .

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“231 e ambiente. Spunti operativi e casistica” a cura di Mara Chilosi, Filodiritto Editore, 2013

Decreto legislativo 7 luglio 2011, n. 121. Introduzione fattispecie ambientali di reato.

Diritto Ambientale e Resp. penale degli Enti 231/01

CAPITOLO IV: L’approccio per l’adozione o l’aggiornamento del modello per i reati ambientali: standardizzazione versus customizzazione (prima parte) di Mara Chiosi Generalità. È stato efficacemente osservato dai primi commentatori del decreto legislativo 7 luglio 2011, n. 121(1) che l’introduzione delle fattispecie ambientali nel “catalogo” dei “reati-presupposto” della responsabilità da reato degli enti ha determinato il definitivo ingresso della disciplina dettata dal decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 nella “fisiologia” dell’impresa (ingresso già avviato dall’inserimento, nel “catalogo”, dei reati colposi di omicidio e lesioni personali gravi e gravissime con violazione delle norme antinfortunistiche) e, conseguentemente, l’adozione di strumenti di compliance anche da parte delle piccole e medie imprese, in precedenza ancora restie, soprattutto se di impostazione “padronale” e non “manageriale”, a dotarsi di un “modello di organizzazione, gestione e controllo” Le peculiarità dei reati ambientali da considerare nell’implementazione del modello 231 I reati ambientali presentano marcati tratti di peculiarità, se confrontati con gli altri “reati-presupposto”, finanche rispetto a quelli di omicidio e lesioni personali gravi e gravissime con violazione delle norme antinfortunistiche, con i quali pure non mancano affinità e aspetti di contiguità. Certamente l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, tanto sul diritto sostanziale, quanto sulla disciplina della responsabilità da reato degli enti nel settore della salute e sicurezza sul lavoro, rappresenta un importante riferimento anche per chi intende approcciarsi al tema della prevenzione dei reati ambientali e in questo stesso volume non possono per- ciò mancare richiami ad essa. Comuni sono infatti le riflessioni in ordine, ad esempio, alla centralità del principio di effettività nella applicazione ed interpretazione delle norme sostanziali; alla ammissibilità ed efficacia della delega di funzioni (aspetto fondamentale nell’ambito dei “modelli 231”); alle norme tecniche ed alla loro rilevanza rispetto all’accertamento della sussistenza della colpa (della persona fisica, così come della persona giuridica); alla configurabilità di un “interesse” o “vantaggio” dell’ente rispetto alla commissione del reato-presupposto; alla necessità o meno, ai fini della “tenuta” del modello 231, di “misure” che possano essere “eluse solo fraudolentemente” (oltre che alla compatibilità di misure siffatte con la natura colposa dei reati in questione); alla possibile responsabilità penale dei membri dell’organismo di vigilanza rispetto al reato-presupposto in caso di omessa o insufficiente vigilanza sull’osservanza del modello 231. (continua)

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Nondimeno, le fattispecie di cui all’art. 25undecies del decreto legislativo n. 231 del 2001 ed i reati ambientali in generale richiedono un approccio specifico e non “appiattito” su quello adottato in materia di salute e sicurezza sul lavoro, che tenga conto delle loro peculiarità (trattasi per lo più di reati di condotta, di natura prevalentemente contravvenzionale, suscettibili per la maggior parte di essere estinti mediante oblazione, costruiti sul modello di pericolo astratto, consistenti in violazioni formali o comunque connesse ad adempimenti di natura amministrativa, spesso previsti da “norme penali in bianco”, apparentemente “comuni” eppure sostanzialmente “propri”, permeati da un elevato livello di tecnicismo (2), ma soprattutto che consideri il “formante giurisprudenziale” (3), che, nel settore ambientale, costituisce sempre più una nuova fonte del diritto e dal quale, pertanto, non può certamente prescindersi nella implementazione (o nell’aggiornamento) del modello 231 per la prevenzione dei reati ambientali.

(preventivi e successivi), non strettamente limitati alla gestione operativa degli aspetti ambientali, nell’ambito di processi ed attività generalmente non considerati “sensibili” rispetto agli illeciti di cui si sta trattando (come ad es. la gestione degli aspetti finanziari, degli investimenti, delle operazioni societarie e commerciali).

Gli effetti dell’introduzione della responsabilità dell’ente derivante da reati ambientali. La responsabilità dell’ente derivante da reati ambientali inclusi nel “catalogo” del decreto legislativo n. 231 del 2001 si configura, coerentemente e proporzionalmente con le pene stabilite a carico delle persone fisiche, in maniera tutto sommato abbastanza blanda anche a carico della persona giuridica: soltanto per le fattispecie più gravi, che appaiono suscettibili di mettere effettivamente a rischio l’ambiente, sono previste sanzioni interdittive (comunque limitate a periodi brevi); per le altre, che sono la maggior parte, la sanzione è soltanto pecuniaria e ciò determina, da un lato, una limitazione dei poteri cautelari tipici della (…) necessità di effettuare una Il possibile concorso tra reati 231, dall’altro “mappatura dei rischi” trasversale disciplina ambientali ed altri reati del un’ampia possibilità di ricorrere e di adottare, anche nella “catalogo 231” al procedimento per decreto. “parte speciale” del modello 231 Questo Ulteriore aspetto da procedimento dedicata ai reati ambientali considerare è che i reati (frequentemente adottato previsti dalla legislazione “controlli” preventivi e successivi), anche a carico delle persone ambientale (primo fra tutti il fisiche) comporta rilevanti non strettamente limitati alla decreto legislativo 3 aprile “sconti” di pena, ma anche – gestione operativa degli aspetti 2006, n. quale “effetto collaterale” – ambientali (…) 152, Norme in materia una notevole compressione(10) ambientale, e tutte le altre dello strumento del “modello norme settoriali) spesso riparatore”, che invece, rispetto vengono contestati in concorso con altre ad altri reati, ha rappresentato il vero viatico fattispecie di reato, previste dal codice penale o (“cavallo di troia” o “testa d’ariete”, dipende dai da discipline speciali, che a propria volta possono punti di vista) della compliance aziendale nelle o meno determinare la responsabilità imprese italiane. amministrativa ai sensi del decreto legislativo n. 231 Va peraltro osservato che, stante il principio del 2001 (con sanzioni generalmente più pesanti a dell’autonomia della responsabilità dell’ente(11), carico dell’ente e dunque con la possibilità di l’introduzione degli illeciti ambientali nel “catalogo 231” ha adottare le misure cautelari previ- ste dal decreto): contribuito notevolmente (o meglio, stante la lentezza reati associativi (4) e di criminalità organizzata, della magistratura ad applicare il decreto legislativo n. 231 falsi, truffa aggravata ai danni della P.A. (5), del 2001, potrebbe contribuire notevolmente) ad corruzione e concussione (6), reati informatici (7), incrementare il livello di tutela dell’ambiente nel nostro disastri, danneggiamenti, riciclaggio ecc. (8); per Paese, posto che l’eventuale estinzione del reato non considerare poi l’evenienza che (mediante oblazione o per prescrizione) non incide sulla problematiche ambientali possano esse stesse responsabilità dell’ente, che può comunque essere rappresentare il presupposto per la commissione di accertata a prescindere dalla condanna della persona altri reati, come l’ipotesi dell’inquinamento che fisica. Per questa ragione è necessario che le imprese possa determinare un pericolo per la salute dei destinino adeguate risorse alla prevenzione dei reati lavoratori o il caso in cui “passività ambientali”, ambientali, adottando il modello previsto dal decreto sottostimate o addirittura occultate, possano legislativo n. 231 del 2001. costituire l’oggetto di false comunicazioni sociali(9). Il modello 231 “su misura”. L’importanza della Questo comporta la necessità di effettuare una “mappatura” dei rischi “mappatura dei rischi” trasversale e di adottare, È diffusa ormai la consapevolezza che il modello 231 anche nella “parte speciale” del modello 231 debba essere realizzato “su misura” della singola dedicata ai reati ambientali, “controlli” impresa, debba essere cioè “personalizzato” per 31

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ciascuna diversa organizzazione. Ciò è tanto più vero per la prevenzione dei reati ambientali, posto che essi vengono commessi, generalmente, nell’attività operativa dell’impresa, con modalità che, all’atto pratico, possono essere assai eterogenee e disparate. Diverse fattispecie, inoltre, possono addirittura non applicarsi a seconda del tipo di attività svolta dall’ente, delle dimensioni dello stesso, delle emissioni provocate o delle sostanze impiegate nel processo produttivo (si pensi, ad esempio, a quanto accade in materia autorizzazione integrata ambientale, SISTRI, scarichi idrici, emissioni atmosferiche). Una simile opera di “customizzazione” (volendo utilizzare un brutto, quanto comune anglismo) si realizza, peraltro, non già nella individuazione delle misure di prevenzione dei reati (o “protocolli” o “controlli” che dir si voglia), quanto piuttosto nella “mappatura” dei rischi, ossia in quella complessa operazione di individuazione dei rischi di commissione dei reati, in cui, per ciascun reato o gruppo di reati, si va ad inda- gare quale soggetto in quale processo aziendale o attività può realizzare o contribuire a realizzare, anche in maniera soltanto prodromica, quale illecito(12), indicando, anche alla luce della “storia dell’ente”, le possibili modalità attuative, seppur in forma esemplificativa. Una volta individuati i rischi, le funzioni ed i processi (o attività) su cui intervenire, le misure possono (ed anzi debbono), pur nella necessità di una selezione mirata e coerente con gli esiti della mappatura dei rischi, corrispondere a “standard” o comunque a requisiti e principi ricavabili dalla normativa di settore, da fonti istituzionali, da linee guida di associazioni di categoria, da norme tecniche e best practices (13), dalle “migliori tecniche disponibili” nel settore di riferimento, da benchmarking (14). Soltanto una simile impostazione può portare, nel tempo, anche attraverso l’applicazione giurisprudenziale (15), a definire l’orizzonte del “dovuto” e del “richiedibile”, in senso oggettivo, che il management di qualsiasi impresa necessita di intravedere per poter consapevolmente assumere le proprie scelte strategiche ed i connessi rischi imprenditoriali (con decisione che sarà oggetto di sindacato del giudice qualora le persone coinvolte nell’attività d’impresa commettano reati nell’interesse o a vantaggio dell’ente). La prevenzione dei reati ambientali attraverso l’adozione di “standard” tecnici ed organizzativi. Il rapporto con i sistemi di gestione ambientale conformi alla norma UNI EN ISO 14001 o al regolamento EMAS Alla luce delle considerazioni che precedono, è evidente che i sistemi di gestione ambientale adottati conformemente alla norma UNI EN ISO 14001 o al regolamento EMAS(16) o ad altri schemi volontari costituiscano un rilevante elemento di facilitazione nell’adozione del modello 231. Ciò 32

anche in ragione della complessità e dell’elevato grado di dettaglio degli adempimenti previsti dal diritto sostanziale dell’ambiente, la cui violazione fa sorgere il reato-presupposto della responsabilità da reato dell’ente e che, in assenza di procedure operative (siano esse inserite o meno in un sistema di gestione ambientale certificato o conforme ad uno standard), debbono essere disciplinati direttamente nell’ambito dei protocolli del modello, con la conseguenza di una inappropriata “provvedimentalizzazione” degli stessi(17). Questo non significa, tuttavia, che il modello 231 possa, per la prevenzione dei reati ambientali, esaurirsi nel sistema di gestione ambientale, coincidendo con esso: tutt’al più tale sovrapposizione può realizzarsi relativamente all’azione dei “sottoposti” (18), dato che, ai sensi dell’art. 7 del decreto legislativo n. 231 del 2001, rispetto ad essi sussistono unicamente «obblighi di direzione o vigilanza», da attuarsi attraverso l’adozione di un modello che «prevede, in relazione alla natura e alla dimensione dell’organizzazione nonché al tipo di attività svolta, misure idonee a garantire lo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge e a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio», nonché «una verifica periodica e l’eventuale modifica dello stesso quando sono scoperte significative violazioni delle prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell’organizzazione o nell’attività»; si tratta, è evidente, di caratteristiche certamente integrate da un sistema di gestione ambientale conforme alla norma UNI EN ISO 14001 o al regolamento EMAS. Diversamente, per quanto concerne i soggetti in posizione apicale(19), il modello deve rispondere a requisiti più stringenti, poiché l’art. 6 del decreto legislativo n. 231 del 2001 prevede che, per andare esente da responsabilità rispetto al reato commesso nel proprio interesse o vantaggio(20), l’ente debba dimostrare: a. di aver adottato il modello e di aver affidato il compito di vigilare sulla osservanza dello stesso e di curarne l’aggiornamento ad un organismo (cosiddetto organismo di vigilanza) dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; b. che il reato è stato commesso attraverso la “fraudolenta elusione” del modello(21) da parte del soggetto apicale; c. che non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo. È evidente dunque che, rispetto al “tradizionale” sistema di gestione ambientale, debbano essere compiute azioni ulteriori, consistenti (quantomeno) nella nomina dell’organismo di vigilanza e nella adozione di un sistema disciplinare. In base alla mia esperienza professionale, quasi sempre è necessario anche procedere alla individuazione di controlli specifici rispetto all’azione dei soggetti in posizione apicale e nell’ambito – come si è detto – di attività e processi non direttamente

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coinvolti nella gestione operativa del-le problematiche ambientali. Così come i modelli 231 definiti, per la prevenzione dei reati colposi di omicidio e lesioni gravi e gravissime con violazione delle norme antinfortunistiche, secondo il BS OHSAS 18001 o la linea guida UNI INAIL si presumono conformi ai requisiti di legge (soltanto) «per le parti corrispondenti»(22) (v. art. 30, comma 5 decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81(23)), così i sistemi di gestione ambientale dovranno essere opportunamente integrati per completare l’organizzazione dell’ente in chiave preventiva, pur potendone costituire (se adottati in modo “qualitativo”) un’ottima base applicativa, spendibile anche in sede giudiziale. A tale proposito, se da un lato è vero che il decreto legislativo n. 121 del 2011 non ha espressamente previsto una “presunzione relativa” di conformità ai requisiti di legge dei modelli definiti secondo la norma UNI EN ISO 14001 o il Regolamento EMAS, dall’altro non mancano argomenti per affermare – pur senza pretendere, in assenza di una espressa previsione normativa al riguardo, l’inversione dell’onere della prova rispetto all’idoneità del modello – che detti riferimenti corrispondono alle “migliori tecniche disponibili” e che, pertanto, nessun rimprovero può essere mosso, in termini organizzativi, all’ente che si sia dotato di un sistema di gestione ambientale ad essi conforme e lo abbia poi effettivamente osservato (con accertamento da compiersi nell’ambito del procedimento penale). Appare inoltre evidente come il sistema di gestione ambientale possa agevolare la difesa dell’ente anche soltanto in termini probatori, posto che gli standard richiedono la registrazione di piani, attività, verifiche e controlli. Perché la norma UNI EN ISO 14001 e il regolamento EMAS possono essere considerati “migliori tecniche disponibili” o comunque essere assunti quali best practices di riferimento La definizione di “migliori tecniche disponibili” contenuta nell’art. 5, comma 1, lettera l-ter) del decreto legislativo n. 152 del 2006(24) include – conformemente alla disciplina europea(25) – nel concetto di “tecnica” non solo la “tecnologia”, ma anche «le modalità di progettazione, costruzione, manutenzione, esercizio e chiusura dell’impianto», ossia le “misure organizzative” che, unitamente a quelle “tecniche” in senso stretto, possono essere adottate per contenere in modo efficace un impatto ambientale. Ciò è stato confermato anche dall’European IPPC Bureau nel documento recante lo “Standard texts used in BREFs” (26), ossia nello standard di riferimento per la stesura dei BREFs (“BAT reference documents”) relativi a ciascun settore di riferimento, nel quale ampio spazio è dedicato agli ERM (“Environmental Management Systems”) quali “tecniche” da prendere sempre in considerazione nella determinazione delle BAT in ragione della loro idoneità a determinare un impatto positivo sull’ambiente nell’ambito delle attività industriali in cui sono adottate, ed essere quindi funzionali al perseguimento degli obiettivi della direttiva 2008/1(27). Non mancano inoltre alcune pronunce giurisprudenziali, in cui, sotto il profilo probatorio, si è data rilevanza alle procedure aziendali adottate, specialmente riguardo ad incidenti e malfunzionamenti che abbiano determinato danni a terzi o all’ambiente(28). Del resto, lo stesso legislatore, quando attribuisce benefici alle imprese che si sia- no dotate di sistemi di gestione ambientale certificati (in termini economici oppure anche di semplificazione burocratica(29)), riconosce che simili strumenti siano in grado di determinare una riduzione del rischio ambientale, ampiamente considerato, associato all’esercizio dell’attività NOTE

“Migliori Tecniche Disponibili” Art. 5, comma 1, lettera l-ter) del decreto legislativo n. 152 del 2006 Concetto di “tecnica”, non solo “tecnologia”, comprensivo anche di «(…) modalità di progettazione, costruzione, manutenzione, esercizio e chiusura (…)»,

(1) L’espressione è stata utilizzata da C. Ruga Riva in diverse occasioni di dibattito. (2) Per approfondimenti sulla tutela penale dell’ambiente si veda l’ampia dottrina sul tema, fra cui: R. Bajno, Ambiente (tutela dell’) nel diritto penale, in Digesto discipline penali, I, Utet, Torino, 1987,115; A.L. Vergine, Ambiente nel diritto penale (tutela dell’), in Digesto discipline penali, App., IX, Utet, Torino, 1995, 757; P. D’Agostrino-R. Salomone (a cura di), La tutela dell’ambiente. Profili penali e sanzionatori, in a. Di amato (diretto da), Trattato di diritto penale dell’impresa, vol. XI, Cedam,

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Padova, 2011; F. Giunta (a cura di), Codice commentato dei reati e degli illeciti ambientali, Cedam, Padova, 2005; P. Fimiani, La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2011; L. Ramacci, Manuale di diritto penale dell’ambiente, Cedam, Padova, 2009; G. De Santis, Diritto penale dell’ambiente. Un’ipotesi sistematica, Giuffrè, Milano, 2012; C. Ruga Riva, Diritto penale dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2011. (3) Per acute considerazioni di carattere più generale sul ruolo assunto dal giudice nella creazione del diritto v. F. Galgano, La globalizzazione nello specchio del diritto, Il Mulino, Bologna, 2005, 115 ss. (4) V. Cassazione penale, Sezione Terza, 20 aprile 2011, n. 15657 (pronuncia nota soprattutto perché con essa la Cassazione ha affermato l’applicabilità del decreto legislativo n. 231 del 2001 ad un’impresa individuale operante nel settore dei rifiuti, applicabilità negata, invece, da Cassazione penale, Sezione Quarta, 23 luglio 2012, n. 30085). (5) V. Cassazione penale, Sezione Quarta, 5 luglio 2012, n. 26188. In dottrina v. L. Prati, La gestione illecita dei rifiuti e la “truffa ambientale”, in Rivista giuridica dell’ambiente, 2003, 6, 1055. (6) V. Cassazione penale, Sezione Seconda, 10 gennaio 2011, n. 234 (pronuncia nota soprattutto perché con essa la Cassazione ha affermato che la Autorità d’ambito costituita da enti pubblici territoriali nella forma di società per azioni con compiti di svolgere, secondo criteri di economicità, le funzioni in materia di raccolta e smaltimento dei rifiuti, è soggetta alla normativa in materia di responsabilità da reato degli enti). (7) Rispetto ai reati informatici, il rischio sarà notevolmente incrementato a seguito dell’avvio a regime (se mai esso avverrà) del SISTRI – Sistema informatico della tracciabilità dei rifiuti. (8) Sul tema v. A. Ardituro, Le tecniche investigative ed i protocolli di indagine in materia ambientale ed i rapporti con la criminalità organizzata, relazione al Tirocinio e formazione professionale del Consiglio Superiore della Magistratura, nona commissione, incontro di studio del 25-27 marzo 2009. (9) Si tenga conto, a tale proposito, che, secondo l’art. 2428 codice civile (come riformato dal decreto legislativo 2 febbraio 2007, n. 32),riguardante la Relazione sulla gestione, «[1] Il bilancio deve essere corredato da una relazione degli amministratori contenente un’analisi fedele, equilibrata ed esauriente della situazione della società e dell’andamento e del risultato della gestione, nel suo complesso e nei vari settori in cui essa ha operato, anche attraverso imprese controllate, con particolare riguardo ai costi, ai ricavi e agli investimenti, nonché una descrizione dei principali rischi e incertezze cui la società è esposta. [2] L’analisi di cui al comma 1 è coerente con l’entità e la complessità degli affari della società e contiene, nella misura necessaria alla comprensione della situazione della società e dell’andamento e del risultato della sua gestione, gli indicatori di risultato finanziario e, se del caso, quelli non finanziari pertinenti all’attività specifica della società, comprese le informazioni attinenti all’ambiente e al personale. L’analisi contiene, ove opportuno, riferimento agli importi riportati nel bilancio e chiarimenti aggiuntivi (…)». Sul punto si consideri il Principio contabile 19 – I Fondi per rischi e oneri, il trattamento di fine rapporto di lavoro subordinato, i debiti elaborato dall’Organismo italiano di contabilità, secondo cui: «Nel caso in cui un’impresa per effetto di proprie attività causi danni all’ambiente ed al territorio ed in tal senso debba sostenere oneri per il disinquinamento od il ripristino, accantona tali oneri in un apposito fondo del passivo di stato patrimoniale». Il principio contabile 19 è in corso di aggiornamento, con procedura attualmente in fase di consultazione; il nuovo documento, pubblicato sul sito www.fondazioneoic.eu, prevede, relativamente ai “Fondi recupero ambientale” che: «110. Il fondo recupero ambientale è iscritto a copertura dei costi che la società stima di sostenere per danni cagionati all’ambiente, inseguito a contenziosi per violazione di norme o regolamenti in materia ambientale, ivi incluse di norme sulla sicurezza nei cantieri e negli ambienti di lavoro. 111. Una società nel caso in cui sia tenuta a sostenere oneri per il disinquinamento od il ripristino, accantona tali oneri in un apposito fondo del passivo di stato patrimoniale. 112. I relativi oneri sono valutati sulla base dei costi che si presume di sostenere in relazione alla situazione esistente, tenendo anche conto degli eventuali sviluppi tecnici e legislativi futuri, di cui si ha conoscenza alla data di bilancio. 113. Il sostenimento dei costi indicati si presume ragionevolmente certo quando la violazione delle norme abbia già dato luogo a provvedimenti amministrativi o procedimenti giudiziari, salvi i casi in cui le contestazioni si ritengano infondate o il relativo esito negativo è ritenuto improbabile. Un esempio di fattispecie che richiede l’iscrizione graduale ad un fondo recupero ambientale è quello relativo all’utilizzo delle discariche.114. Le società che utilizzano discariche sono tenute, ai sensi delle convenzioni siglate con gli enti concedenti o delle autorizzazioni amministrative e/o commissariali ottenute, al ripristino delle condizioni iniziali dei terreni utilizzati. Sorge, pertanto, per la società una obbligazione per recupero ambientale. 115. Ciò

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art. 2428 c.c. «[1] Il bilancio deve essere corredato da una relazione degli amministratori contenente un’analisi fedele, equilibrata ed esauriente della situazione della società e dell’andamento e del risultato della gestione, nel suo complesso e nei vari settori in cui essa ha operato, anche attraverso imprese controllate, con particolare riguardo ai costi, ai ricavi e agli investimenti, nonché una descrizione dei principali rischi e incertezze cui la società è esposta» (…)

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comporta oneri di ripristino (ricopertura con terreno, piantumazione, monitoraggio delle formazioni di gas, smaltimento percolato, analisi ambientali e altri oneri di chiusura e post-gestione delle discariche) che interessano l’economia dell’azienda anche svariati anni dopo l’esaurimento della capacità di contenimento della discarica. 116. Gli oneri complessivi stimati per il ripristino del suolo ambientale su cui insiste la discarica devono essere imputati per competenza a tutti gli esercizi nei quali è avvenuto lo smaltimento dei rifiuti. 117. Gli accantonamenti annui che saranno nel tempo iscritti al fondo recupero ambientale sono rapportati ai quantitativi complessivi smaltiti rispetto alla capacità totale della discarica, tenendo anche conto delle eventuali verifiche e stime effettuate dalle Autorità competenti» (10) Salvo mettere in atto le condotte riparatorie in fase molto preliminare, anche al fine di eventualmente stimolare, una volta adottato o adeguato il modello, l’emissione di un decreto penale di condanna. Va infatti considerato che il presupposto per l’emissione del decreto penale di condanna è che il PM, sulla base di una valutazione in concreto, ritenga applicabile la sola pena pecuniaria. Il ricorso a tale procedimento, pertanto, è possibile anche per i reati che legittimano l’applicazione della sanzione interdittiva, laddove questa non appaia, in relazione allo specifico caso, applicabile (ad es. in presenza di condotte riparatorie di cui all’art. 17 o in assenza dei requisiti di cui all’art. 13). (11) Sull’autonomia della responsabilità dell’ente rispetto a quella della persona fisica v., recentemente, Cassazione penale, Sezione Quinta, 9 maggio 2013, n. 20060. (12) La legge prevede, in particolare, che «(…) in relazione all’estensione dei poteri delegati e al rischio di commissione dei reati, i modelli di cui alla lettera a), del comma 1, devono rispondere alle seguenti esigenze: a) individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati (…)» (art. 6, comma 2, lett. a) decreto legislativo n. 231 del 2001). (13) Un esempio di best practice è fornito dalla Guida alla selezione dei fornitori di servizi analitici redatta dalla Direzione Centrale Tecnico-Scientifica in collaborazione con il Gruppo Serchim (Servizi Ambientali per l’industria Chimica) di Federchimica – Confindustria, con il dichiarato obiettivo di «fornire alcune indispensabili indicazioni per effettuare una corretta selezione dei fornitori e un corretto acquisto delle analisi, nonché un preciso controllo dei risultati». Gli Autori del documento, nella presentazione, precisano che esso è stato redatto tenendo in considerazione ed avendo a riferimento la disciplina della responsabilità da reato degli enti, al fine di indicare, come Associazione di categoria, «alle società committenti una serie di criteri, volti ad assicurarsi il controllo della qualità dei dati, senza trascurare l’ottimizzazione dei costi», posto che «i risultati della analisi di laboratorio rivestono fondamentale importanza per le imprese, in quanto non solo le analisi sono comprese negli obblighi di legge (tra cui il D.lgs. 152/06 e il D.lgs. 81/08) ma servono anche ad orientare una serie di scelte e decisioni, talvolta di rilevante impatto economico (ad esempio: influiscono sulla scelta delle più idonee tecnologie di bonifica di un sito contaminato e dello smaltimento dei rifiuti; e, inoltre, nella realizzazione degli impianti di abbattimento degli inquinanti emessi in atmosfera, dei sistemi di aspirazione localizzata negli ambienti di lavoro, ecc.)». Con particolare riferimento al decreto legislativo n. 231 del 2001, la Guida rileva che «il D.Lgs. 121 del 7 luglio 2011 ha inserito alcuni reati ambientali tra i reati “presupposto”. Tra questi, ai fini della nostra guida, rilevano in particolare i seguenti: a. lo scarico di acque reflue industriali contenenti le sostanze pericolose oltre i limiti di concentrazione consentiti; b. la violazione degli obblighi di bonifica, in conformità al progetto approvato dall’autorità competente; c. l’utilizzo del certificato di analisi dei rifiuti falso, o contenente false indicazioni sulla loro natura, composizione e caratteristiche chimico-fisiche; d. il superamento dei valori limite di emissione in atmosfera che determina anche il superamento dei valori limite di qualità dell’aria previsti dalla vigente normativa (illeciti previsti dal D.Lgs. 152/2006). Le imprese che hanno adottato Modelli di Organizzazione e Gestione ai sensi del D.Lgs. 231/2001 dovranno quindi valutare se aggiornarli alla luce di queste nuove fattispecie di reati. In tale quadro normativo, assume sempre maggior rilevanza l’affidabilità dei dati analitici, relativi alle matrici ambientali. In merito, si evidenzia che il rischio di disporre di dati non scientificamente difendibili deriva da questi fattori: la mancanza di adeguate specifiche contrattuali sulle modalità di consegna dei risultati, che devono essere corredati dalla documentazione relativa alla loro tracciabilità; la pattuizione di prezzi non congrui rispetto ai requisiti di gara, la mancanza di controlli sulla qualità dei dati, una volta ricevuti». (14) Sul tema sia consentito rinviare a m. Chilosi, La responsabilità amministrativa delle imprese per la sicurezza, in Ambiente&Sicurezza, 2011, 30 ss., in cui si è già osservato,

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“In tale quadro normativo, assume sempre maggior rilevanza l’affidabilità dei dati analitici, relativi alle matrici ambientali”

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relativamente all’adozione del modello 231 per la prevenzione dei reati di omicidio colposo e lesioni gravi e gravissime colpose con violazione delle norme antinfortunistiche, come «affinché il modello possa essere efficace e, quindi, consentire all’ente, in caso di imputazione, di evitare di incorrere in responsabilità, occorre che esso venga realizzato tenendo conto della specifica realtà aziendale e delle peculiarità che la contraddistinguono. In altre parole, pur riconosciuta la validità e la imprescindibilità degli standard che possono essere presi a riferimento per “misurare” la propria organizzazione (quali i citati standard OHSAS 18001 e UNI INAIL o le Linee Guida Confindustria e ANCE), non esiste un “modello assoluto” che possa essere considerato ugualmente efficace per più realtà aziendali. Così come ogni datore di lavoro deve effettuare la valutazione dei rischi relativa alla propria impresa, allo stesso modo ogni ente deve costruire il modello che meglio si addice alla propria organizzazione. Si tratta di un’operazione complessa e molto delicata, poiché va purtroppo rilevato che, sino ad oggi, la magistratura ha mostrato di adoperare criteri severissimi di valutazione dei Modelli adottati dalle imprese italiane, tanto che in un solo caso (sentenza del Tribunale di Milano 17/11/2009, tra l’altro non riguardante un caso di incidente sul lavoro) l’ente è riuscito da dimostrare l’idoneità esimente del proprio. A fronte di ciò, i vantaggi connessi all’adozione del modello sono comunque molteplici: prevenzione dei reati e riduzione del rischio sanzionatorio; riorganizzazione e segregazione delle responsabilità; riorganizzazione, razionalizzazione e maggior controllo dei processi aziendali; integrazione dei sistemi di gestione aziendale esistenti; miglioramento dell’immagine nei confronti di stakeholders e shareholders. Inoltre, l’adozione di un SGSL a norma OHSAS 18001o UNI INAIL rappresenta, come detto, un rilevante elemento di facilitazione nella costruzione del modello, posto che: 1. l’art. 30, comma 5 introduce una presunzione di idoneità delle misure (vale a dire procedure) in esso contenute a prevenire i reati di omicidio e lesioni in violazione delle norme antinfortunistiche; 2. esso può certamente soddisfare i requisiti richiesti dall’art.7 del D.lgs. 231/01 relativamente all’attività dei sottoposti. Le attività da compiersi ai fini dell’adozione del modello sono pertanto diverse a seconda che l’ente abbia o meno implementato un SGSL secondo i predetti standard». (15) Le pronunce che hanno riconosciuto l’idoneità del modello 231 adottato dall’impresa incolpata sono pochissime: oltre alla sentenza del Tribunale di Milano 17 novembre 2009 (confermata in secondo grado con sentenza del 21 marzo 2012 della Corte di Appello di Milano, Sezione Seconda) si segnala la sentenza della Corte di Appello di Torino, Sezione Prima, 2 febbraio 2013, n. 702 (che svolge interessanti considerazioni anche sulla prova). (16) Regolamento (CE) n. 1221/2009 (EMAS III) del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 novembre 2009. (17) Il paragone – forse un po’ ardito – è, evidentemente, con il fenomeno della “provvedimentalizzazione della legge” che, in campo ambientale, trova (purtroppo) ampia diffusione e che consiste nella perdita, da parte delle prescrizioni normative, del carattere della generalità e dell’astrattezza che le dovrebbero contraddistinguere, per assumere, invece, contenuti sempre più dettagliati e puntuali, che normalmente caratterizzano gli strumenti giuridici propri dell’esecutivo (sul tema v. B. Caravita, Diritto dell’Ambiente, Il Mulino, Bologna, 2010, passim.; G. Cangelosi, Tutela dell’ambiente e territorialità dell’azione ambientale, Giuffrè, Milano, 2009, passim). Il suddetto fenomeno determina la rapida “obsolescenza” delle norme rispetto allo stato del progresso scientifico e tecnologico e la drammatica presenza di situazioni che, per la loro peculiarità, la legge non riesce a disciplinare efficacemente. Coloro che hanno esperienza di organizzazione aziendale e, più specificamente, di modelli 231 riusciranno a comprendere il senso di tale raffronto. (18) L’art. 5 del decreto legislativo n. 231 del 2001 individua i “sottoposti” nelle «persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza» degli “apicali”. (19) L’art. 2 del decreto legislativo n. 231 del 2001 individua gli “apicali” nelle «persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso». (20) Esula dalle finalità del presente volume l’approfondimento delle dibattute questioni concernenti la connotazione di un “interesse” o “vantaggio” connesso alla commissione dei reati ambientali. Sul tema si rinvia, pertanto, alla dottrina (v., tra gli altri, G. De Simone, La responsabilità da reato degli enti: natura giuridica e criteri (oggettivi) d’imputazione, in Dir. pen. cont., ottobre 2012, consultabile su www.dirittopenalecontemporaneo. it; Ramacci l., Responsabilità amministrativa degli enti collettivi e reati ambientali, in Ambiente&sviluppo, 2012, 639, T.E. Epidendio-G. Piffer, Criteri d’imputazione del reato all’ente: nuove prospettive interpretative, in Responsabilità amministrativa società ed enti, 3/2008, 7) ed alla casistica giurisprudenziale (specialmente a quella in merito ai reati colposi di omicidio e lesioni con violazione delle norme antinfortunistiche, ma non

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L’art. 2 D.Lgs. n. 231 del 2001: “apicali”; le «persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso»

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solo: Cassazione penale, 16 luglio2010, n. 2773; Cassazione penale, Sezione Quinta, 15 ottobre 2012,n. 40380; Cassazione penale, Sezione Quinta, 20 giugno 2011, n. 24583; Cassazione penale, Sezione Sesta, 2 ottobre 2006, n. 32627; Cassazione penale, Sezione Seconda, 27 settembre 2006, n. 31989;Cassazione penale, Sezione Seconda, 30 gennaio 2006, n. 3615, in Diritto e pratica societaria, 2006, 60 con nota di A.Bernardo, Requisiti oggettivi della responsabilità degli enti dipendente da reato; Tribunale di Milano (GIP) sentenza 14 febbraio2012; Corte d’Assise di Torino, 15 aprile 2011). Da ultimo, sul tema dell’interesse, la sentenza d’appello sul caso Thyssen Krupp (1^Corte di Assise di Appello di Torino, febbraio 2013, n. 6/13) osserva che «In ordine al requisito dell’essere stato il reato compiuto nell’interesse o a vantaggio dell’ente, la Difesa prende atto che anche la dottrina è giunta a riconoscere che l’interesse in questione è quello che deve animare la condotta dell’imputato e non essere l’obiettivo del reato ma ritiene innanzi tutto che, a fronte di un reato colposo, non possa parlarsi di profitto. A tale argomento si può rispondere agevolmente notando che poiché il profitto è ricollegato dalla stessa legge alla condotta (l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: art. 5.1), la condotta può ben essere intenzionalmente orientata ad un profitto anche nei reati colposi; in secondo luogo si osserva che la legge stabilisce la confisca obbligatoria del profitto anche nel nostro caso di delitto colposo ovvero di contravvenzione. Anche il secondo argomento sviluppato dalla Difesa (per condotta non debba qui ritenersi quella del reato omissivo improprio di omicidio colposo, bensì quello commissivo delle contravvenzioni antinfortunistiche) appare non condivisibile. La condotta del reato di omicidio colposo, benché a forma libera, non è per ciò solo giuridicamente inesistente: essa è descritta dal legislatore per la sua attitudine a provocare l’evento. Dunque, quando l’art. 6.2 lett. a) del D.Lgs. 231/2001 detta i criteri a cui devono rifarsi i Modelli organizzativi (fra cui individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi i reati) richiama gli enti a cogliere i possibili interessi sottesi alla condotta del reato di omicidio colposo (e che ne sono il vero motore); tali interessi non sono all’evidenza riconnessi alla verificazione dell’evento (morte dei lavoratori, data la natura colposa del reato),ma sono i motivi a base della condotta di reato a forma libera compiuta dall’agente». (21) Esula dalle finalità del presente volume l’approfondimento delle dibattute questioni concernenti la compatibilità di questo requisito con le fattispecie colpose previste dagli artt. 25-septies e 25-undecies, per il quale si rimanda alla copiosa dottrina sul tema, assumendo quale presupposto per la trattazione la compatibilità. In dottrina si rinvia in particolare a: P. Cipolla, L’elusione fraudolenta dei modelli di organizzazione, in Archivio penale, 2013, 2; M.Malavasi, L’onere della prova nella responsabilità ex d.lgs.231/2001, alla luce della sentenza della Corte di cassazione n. 27735 del 16.7.2010, in Responsabilitàamministrativa società ed enti, 2011, 193, consultabile anche su ww w.rivista231.it; M.Arena, Assoluzione dell’ente per responsabilità ex 231: commento di prima lettura. Nota a Tribunale di Milano, Sentenza 17 novembre 2009, in Filodiritto, gennaio 2010, consultabile suwww.filodiritto.com; a. Alessandri, Diritto penale e attività economiche, Il Mulino, Bologna, 2010; c.e. Paliero, La responsabilità penale della persona giuridica nell’ordinamento italiano: profili sistematici, in F. Palazzo (a cura di), Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi, Cedam, Padova, 2003; D.Pulitanò, La responsabilità da reato degli enti: i criteri di imputazione, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2002,415, passim.; G. cocco, L’illecito degli enti dipendente da reato e il ruolo dei modelli di prevenzione, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2004, 91, passim. In giurisprudenza v. Tribunale di Milano, sentenza 17 novembre 2009; Corte di Appello di Milano, sentenza 18 giugno 2012, n. 1824. (22) V., sul punto, la Circolare del Ministero del lavoro e delle Politiche sociali dell’11 luglio 2011, prot. 15/VI/0015816/MA001.A001,pubblicata sul sito www.lavoro.gov.it. (23) Secondo tale disposizione, «in sede di prima applicazione, i modelli di organizzazione aziendale definiti conformemente alle Linee guida UNI-INAIL per un sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (SGSL) del 28 settembre 2001 o al British Standard OHSAS 18001:2007 si presumono conformi ai requisiti di cui al presente articolo per le parti corrispondenti. Agli stessi fini ulteriori modelli di organizzazione e gestione aziendale possono essere indicati dalla Commissione di cui all’articolo 6». (24) Art. 5, comma 1, lettera l-ter) decreto legislativo n. 152 del 2006: «Ai fini del presente decreto si intende per: (…) l-ter. “migliori tecniche disponibili”: la più efficiente e avanzata fase di sviluppo di attività e relativi metodi di esercizio indicanti l’idoneità pratica di determinate tecniche a costituire, in linea di massima, la base dei valori limite di emissione intesi ad evitare oppure, ove ciò si riveli impossibile, a ridurre in modo generale le emissioni e l’impatto sull’ambiente nel suo complesso. Nel determinare le migliori tecniche disponibili, occorre tenere conto in particolare degli elementi di cui all’allegato XI. Si intende per: 1)“tecniche”: sia le tecniche impiegate sia le modalità di progettazione, costruzione, manutenzione, esercizio e chiusura dell’impianto; 2) “disponibili”: le tecniche sviluppate in una scala che ne consenta l’applicazione in condizioni economicamente e tecnicamente idonee nell’ambito del relativo comparto

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«poiché il profitto è

ricollegato dalla stessa legge alla condotta (l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: art. 5.1), la condotta può ben essere intenzionalmente orientata ad un profitto anche nei reati colposi»

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industriale, prendendo in considerazione i costi e i vantaggi, indipendentemente dal fatto che siano o meno applicate o prodotte in ambito nazionale, purché il gestore possa utilizzarle a condizioni ragionevoli; 3)“migliori”: le tecniche più efficaci per ottenere un elevato livello di protezione dell’ambiente nel suo complesso». Sul concetto di BAT sia consentito rinviare a m. Chilosi., L’adozione delle BAT diventa obbligatoria, in Ambiente&Sicurezza, 2005, 69 ss., in cui si è già osservato come «rientrano, pertanto, nel concetto di BAT non solo le tecnologie adottate in fase di progettazione e costruzione dell’impianto, ma anche le tecniche gestionali ed operative, tra cui possono farsi rientrare le procedure del Sistema di gestione ambientale eventualmente implementato». (25) L’art. 3 della direttiva 2010/75/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 24 novembre 2010 relativa alle emissioni industriali (prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento) definisce come «migliori tecniche disponibili»: «la più efficiente e avanzata fase di sviluppo di attività e relativi metodi di esercizio indicanti l’idoneità pratica di determinate tecniche a costituire la base dei valori limite di emissione e delle altre condizioni di autorizzazione intesi ad evitare oppure, ove ciò si riveli impraticabile, a ridurre le emissioni e l’impatto sull’ambiente nel suo complesso: a) per “tecniche” sia le tecniche impiegate sia le modalità di progettazione, costruzione, manutenzione, esercizio e chiusura dell’installazione; b) per “tecniche disponibili” le tecniche sviluppate su una scala che ne consenta l’applicazione in condizioni economicamente e tecnicamente attuabili nell’ambito del pertinente comparto industriale, prendendo in considerazione i costi e i vantaggi, indipendentemente dal fatto che siano o meno applicate o prodotte nello Stato membro di cui si tratta, purché il gestore possa avervi accesso a condizioni ragionevoli; c) per “migliori”, si intendono le tecniche più efficaci per ottenere un elevato livello di protezione dell’ambiente nel suo complesso». (26) Documento IEF 22-4-3 del 7 aprile 2010. Sugli EMS v. anche il documento dell’Agenzia per l’ambiente britannica Horizontal Guidance Note H6 - Environmental Management Systems, 2010, pubblicato su www.environment-agency.gov.uk. (27) I sistemi di gestione ambientale, in particolare, sono definiti nel documento come strumenti che gli operatori possono utilizzare per gestire le attività di «progettazione, costruzione, manutenzione, esercizio e chiusura dell’impianto» in maniera sistematica e documentabile. Essi sono intesi ad attenuare costantemente l’impatto complessivo dell’impianto sull’ambiente in conformità all’approccio integrato che è proprio della direttiva IPPC. Per questo motivo, la realizzazione di sistemi di gestione ambientale con le caratteristiche descritte nel documento può trovare applicazione con riferimento a tutti gli impianti IPPC. In tal caso «the scope (e.g. levelof detail) and nature of the EMS (e.g. standardised or non-standardised) will be related to the nature, scale and complexity of the installation, and the range of environmental impacts it mayhave». Il documento menziona sia i sistemi di gestione conformi alr egolamento EMAS o alla norma UNI EN ISO 14001, sia quelli «non standardised», senza che in linea di principio sia attribuito valore diverso agli uni o agli altri. Il documento osserva, in particolare, che se da un lato i sistemi conformi alla norma UNI EN ISO 14001 o al regolamento EMAS, tanto più se sottoposti a verificazione esterna, conferiscono maggiore credibilità al sistema di gestione ambientale posto in essere, dall’altro sistemi di gestione non standardizzati possono essere altrettanto efficaci se correttamente strutturati e attuati. Il documento precisa che un sistema digestione ambientale per un impianto IPPC – standardizzato o non standardizzato – deve in particolare contenere i seguenti elementi: a. coinvolgimento degli amministratori; b. definizione della politica ambientale dell’impianto; c. individuazione e pianificazione degli obiettivi; d. attuazione ed esecuzione delle procedure; e. azioni correttive; f. revisione del modello da parte degli amministratori; g. preparazione periodica di un rapporto ambientale; h. validazione da parte di un organo di certificazione; i. valutazione dell’impatto ambientale derivante dall’eventuale chiusura dell’impianto; j. sviluppo di nuove tecnologie; k. confronto con valori di riferimento per settore, territorio, matrici ambientali. (28) Si considerino ad esempio: Cassazione penale, Sezione Prima,15 maggio 1996, n. 4880 («ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo nelle contravvenzioni di cui agli artt. 659 e 674 codice penale, non è configurabile la colpa nei confronti di soggetto, titolare di stabilimento industriale, che abbia adottato, anche con notevole anticipo rispetto alle ditte concorrenti e con considerevole dispendio di risorse in termini economici, tecnologie di intervento altamente qualificate per prevenire le immissioni»);Cassazione Civile, Sezione Terza, 4 giugno 1998, n. 5484 («La presunzione di responsabilità contemplata dall’art. 2050 c.c. per attività pericolose può essere vinta solo con una prova particolarmente rigorosa, e cioè con la dimostrazione di avere adottato tutte le misure idonee ad impedire l’evento dannoso, ivi compreso il rispetto delle più avanzate tecniche note ed anche solo astrattamente possibili all’epoca del

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migliori tecniche disponibili «la più efficiente e

avanzata fase di sviluppo di attività e relativi metodi di esercizio indicanti l’idoneità pratica di determinate tecniche a costituire la base dei valori limite di emissione e delle altre condizioni di autorizzazione intesi ad evitare oppure, ove ciò si riveli impraticabile, a ridurre le emissioni e l’impatto sull’ambiente nel suo complesso»

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fatto dannoso»); Cassazione penale, Sezione Terza, 7 ottobre 1999, n. 11410 («L’imprenditore ha il dovere positivo di adottare tutte le misure preventive tecniche ed organizzative, atte ad evitare il superamento dei limiti tabellari, per cui la rottura improvvisa di un tubo non può considerarsi imprevedibile e non comporta perciò la sussistenza del caso fortuito»); Tribunale di Mondovì, 24 aprile 2001, n. 257 («la previsione di procedure produttive in occasione della richiesta di certificazione è un primo significativo passo verso il conseguimento di una quota di sicurezza adeguata»; «la certificazione ottenuta ed i documenti prodotti e/o acquisiti dal perito hanno dimostrato una sola cosa: di più non si poteva fare. Di più. dunque, non era corretto esigere»); Cassazione penale, Sezione Terza, 19 febbraio 1999, n. 4009 («Lo scarico di reflui con valori non conformi ai limiti di cui alla Tabella A della legge 319/76, non costituisce il reato previsto dall’art. 21, comma 3 della medesima legge, se sono stati rispettati gli obblighi di vigilanza e manutenzione ed il superamento dei limiti tabellari è stato occasionato da un accidentale ed imprevedibile guasto» [nella specie era stato accertato che «quelle stesse valvole, dalla cui disfunzione era scaturito l’evento inquinante, erano state sottoposte alle prescritte manutenzioni il giorno stesso»]); Tribunale di Foggia, 9 giugno 2012, n. 805 («non solo [la società esercente attività pericolosa] non ha dato prova di aver osservato le specifiche disposizioni dettate dalla normativa vigente in materia di installazione di linee elettriche (…) ma neppure ha dimostrato di aver predisposto tutti gli accorgimenti tecnici necessari per evitare» la produzione di un danno). In dottrina v. L. Prati, Scarichi e inquinamento idrico dopo il T.U. ambientale, IPSOA, Milano, 2006,225 e ss. (29) Esistono diverse disposizioni nazionali che prevedono benefici ed agevolazioni a favore delle imprese che abbiano adottato sistemi di gestione ambientale conformi alla norma UNI EN ISO 14001 o al regolamento EMAS. A titolo esemplificativo, si richiamano le seguenti: legge n. 93del 2001, art. 18 (semplificazione delle procedure amministrative perle imprese registrate EMAS); artt. 29-ter, comma 3; 29-octies,comma 3; 194, comma 4; 197, comma 5-bis, 209, comma 1; 212, commi 10e 11 decreto legislativo n. 152 del 2006 (semplificazioni amministrative e riduzione delle garanzie finanziarie). Ulteriori disposizioni di favore sono stabilite dalle legge regionali (v. ad es. Deliberazione della Giunta Regionale Veneto n. 1543 del 31 luglio2012; legge finanziaria 2011 della Regione Toscana). Si consideri inoltre l’art. 30 del decreto legge 25 giugno 2008, n.112 (convertito con modificazioni in legge 6 agosto 2008, n. 133),Semplificazione dei controlli amministrativi a carico delle imprese soggette a certificazione, secondo cui: «1. Per le imprese soggette a certificazione ambientale o di qualità rilasciata da un soggetto certificatore accreditato in conformità a norme tecniche europee ed internazionali, i controlli periodici svolti dagli enti certificatori sostituiscono i controlli amministrativi o le ulteriori attività amministrative di verifica, anche ai fini dell’eventuale rinnovo o aggiornamento delle autorizzazioni per l’esercizio dell’attività. Le verifiche dei competenti organi amministrativi hanno ad oggetto, in questo caso, esclusivamente l’attualità e la completezza della certificazione. Resta salvo il rispetto della disciplina comunitaria. 2. La disposizione di cui al comma 1 è espressione di un principio generale di sussidiarietà orizzontale ed attiene ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale ai sensi dell’articolo117, secondo comma, lettera m), della Costituzione. Resta ferma la potestà delle regioni e degli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, di garantire livelli ulteriori di tutela. 3. Con regolamento, da emanarsi ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, previo parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, sono individuati le tipologie dei controlli e gli ambiti nei quali trova applicazione la disposizione di cui al comma 1, con l’obiettivo di evitare duplicazioni e sovrapposizioni di controlli, nonché le modalità necessarie per la compiuta attuazione della disposizione medesima. 4. Le prescrizioni di cui ai commi 1 e 2 entrano in vigore all’atto di emanazione del regolamento di cui al comma 3». Per le agevolazioni previste in ambito nazionale per le imprese registrate EMAS v.http://www.isprambiente.gov.it/it/certificazioni/emas/semplificazioni-ed-agevolazioni/ semplificazioni-normative.

Avvocato in Milano, Mara Chilosi è esperta di diritto dell'ambiente e delle tematiche inerenti i servizi pubblici locali di rilevanza ambientale, di diritto della salute e sicurezza sul lavoro e di corporate governance (d. lgs. 231/2001 per reati ambientali e in materia di sicurezza sul lavoro). Altresì, dal 2010, é Coordinatore del Comitato Scientifico di Assorecuperi (Ass. nazionale imprese del settore del recupero di rifiuti).

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Rubrica: il professionista risponde. “Acquistare all’asta” intervista all’avvocato Loreno Magni

Vendita con o senza incanto e trattativa privata

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Un argomento poco conosciuto, spesso quasi indecifrabile per i non addetti ai lavori, ma che riveste importanza centrale anche e soprattutto in tempi di grave congiuntura economica come quelli che stiamo attraversando. Facciamo riferimento alle Aste Giudiziarie e al fine di dissipare alcune delle incertezze più comuni, siamo oggi in presenza di un avvocato esperto in materia, che in ci aiuterà a dare risposta ad alcuni quesiti con termini pratici e concreti, Diamo il benvenuto all’avvocato Loreno Magni, di Bologna, al quale rivolgiamo il primo quesito. Cos’è un asta? Molto semplicemente: è un’attività processuale che si tiene presso l'ufficio Aste Giudiziarie dei Tribunali e, attraverso la quale, il Giudice, a seguito di una esecuzione immobiliare o di un fallimento, dispone la vendita di uno o più beni di proprietà del debitore esecutato o del fallito, al fine di ottenere liquidità con la quale soddisfare, anche solo in parte, i creditori intervenuti. Esistono Aste con e Aste Senza Incanto: ci può spiegare la differenza e come si svolgono? L’asta immobiliare si svolge innanzi ad un giudice, o un suo delegato, tipicamente un Notaio. Se vi sono più offerenti, l’asta prende il nome di “gara” e può essere di tre tipi: Con incanto – se in tale asta si è l'unico offerente e non ci si presenta all'udienza, si perde solo un decimo della cauzione versata; in tale gara un altro interessato, anche non partecipante alla gara, entro 10 gg dall'aggiudicazione, può presentare una nuova offerta, a condizione che tale offerta sia superiore ad 1/5 del prezzo di aggiudicazione e che si versi una cauzione doppia. Anche con una sola offerta in aumento il giudice o il delegato devono indire una nuova gara alla quale possono partecipare anche i partecipanti alla precedente gara, a condizione che anch'essi integrino la cauzione. Questa nuova gara ,“in aumento”, si svolge secondo le regole dell'asta senza incanto. Senza incanto – a differenza della prima, l'offerta fatta in questo tipo di gara è immediatamente impegnativa per chi la presenta; pertanto, nel caso si sia l'unico offerente, non è possibile revocarla, e si è obbligati all'acquisto. In caso di rifiuto si perde l’intera cauzione versata. In tale forma di asta l'aggiudicazione fatta in udienza è definitiva e, quindi, rispetto a quella con incanto, non è prevista “l'ulteriore offerta al rialzo”!! La trattativa privata – consiste in una vendita che si svolge per i beni mobili, specie se di piccolo valore. Chi può e come si partecipa all’asta? Tutti possono partecipare all’asta, indipendentemente dall’assistenza di un avvocato; se l'offerente non può partecipare fisicamente, deve essere rappresentato con procura notarile specifica che, ogni notaio, può predisporre. Se, invece, l'offerente non vuole rivelare il proprio nome (offerta per persona da nominare) riservandosi di comunicarlo solo ad aggiudicazione avvenuta, deve obbligatoriamente servirsi di un avvocato ex art.583 codice procedura civile. Dove possono essere trovare le informazioni relative alle aste in corso? Tutte le modalità della vendita sono contenute nell'ordinanza di

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Esperto di diritto immobiliare e gestioni patrimoniali, l’avv. Loreno Magni svolge la propria attività di consulenza principalmente nel Foro di Bologna ed in quello di Milano. Dal 2012 è socio e VicePresidente di Internazionalizza Srl

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vendita (prezzo base, giorno e ora dell'incanto, ammontare della cauzione, misura minima delle offerte in aumento, termine, non superiore a 30 gg o 60 dall'aggiudicazione, entro il quale deve essere depositato). L'offerta deve essere depositata alla Cancelleria delle Esecuzioni o del Tribunale Fallimentare, con domanda, incarta da bollo da 14,62 euro, oltre il 10% del prezzo base di asta e per sapere a chi deve essere intestato l'assegno circolare occorre leggere bene l'ordinanza del giudice. La domanda deve essere depositata entro le ore 13 del giorno precedente la vendita, in busta chiusa. Se non ci si aggiudica il bene all’asta, quali conseguenze vi sono? In caso di mancata aggiudicazione gli assegni vengono restituiti all'avente diritto. Nel corso dell'asta i rilanci vengono fatti a voce; se resta un solo offerente, il bene viene aggiudicato con verbale di aggiudicazione temporanea. In alcuni casi le aste non ricevono offerte e quindi vanno “deserte”; in tal caso il giudice fissa una nuova udienza di vendita ad un prezzo ridotto solitamente del 15%. È possibile visionare i beni o gli immobili prima dell’inizio dell’asta? È possibile. Il giudice nomina un custode dei beni che, previo appuntamento, mostra agli interessati i beni. L'interessato ha anche diritto di consultare la “stima del bene”, una relazione predisposta da un tecnico abilitato dalla quale l'interessato può ricavare tutte le notizie relative al bene (es: tipologia del bene, se libero, se regolare urbanisticamente, se gravato da servitù o altro) . Gli immobili in asta vengono pubblicati con tutti i dati di interesse con avviso e se, di valore superiore a 25 mila euro, oltre che all'albo dell'ufficio giudiziario, l'avviso deve essere pubblicato in appositi siti internet e quotidiani nazionali almeno 45 gg prima dell'asta. Acquistare partecipando ad un’asta è conveniente?? Certo, soprattutto se si attendono i maggiori ribassi a seguito di aste andate “deserte”; chi compra “compra bene”, perché a conoscenza di ogni problema dell'immobile. Non è invece consigliabile acquistare una parte (½ o ¼) di immobile, per non dover poi “litigare” con gli altri comproprietari! Dove si possono trovare informazioni sui beni da acquistare all’asta? Numerose sono le riviste specializzate, o sui quotidiani almeno 45 giorni prima della vendita, su internet, in appositi siti cliccando “Aste giudiziarie” e cercando o la regione o la provincia di interesse. Non mi resta che augurare buona asta a tutti!

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