Riv. N. VII 20 Luglio 2017

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Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali

Bimestrale

di divulgazione

giuridica ed economica. VII° numero

20 Luglio 2017

Numero II/2017 Numero redatto con la collaborazione di: Lenzi Paolo Broker di Assicurazioni Srl Via Riva Reno 29/c – 40122 Bologna mail: info@lenzibroker.it www.lenzibroker.it


Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali

Bimestrale di Divulgazione giuridica ed economica Autori Vari – AA.VV.

Riv. Depositata presso il Trib. di Bologna in data 08/04/2015. Autorizzazione n. 8380

Proprietario e Direttore: Avv. Francesco De Sanzuane Sede redazionale: Via Borghi Mamo 1 – 40137 - Bologna Contatti e Info: http://www.rivistadelleimprese.it inforivistadelleimprese@gmail.com info@rivistadelleimprese.it

Numero II/2017 2

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SOMMARIO Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali ISSN 2421-2830

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Direttore responsabile Francesco De Sanzuane

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Autori Francesco De Sanzuane, Franki Fana, Aldo Franzioni, Jacopo Lucchiari, Francesca Solimini.

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Segreteria di Redazione Via Borghi Mamo 1 40137 – Bologna

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Interviste a Francesco Canè Marcello Mattioli

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Editoriale Imprenditori o sognatori? Quando sono la stessa cosa? a cura di Francesco De Sanzuane iMPRENDITORI di successo. Le interviste di Rivista delle imprese Incontriamo Francesco Canè, CEO di Fratelli Polli Spa, eccellenza Italiana nel mondo a cura di Redazione Diritto Civile Danni punitivi: grandi speranze! a cura di Francesca Solimini Strategia Aziendale Temporary Managment: un approccio alla risoluzione delle problematiche aziendali a cura di Aldo Franzioni Diritto Internazionale e diritti dell’Umanità Corporate social responsibility and abuse of Human Rights by corporations a cura di Franki Fana iMPRENDITORI di successo. Le interviste di Rivista delle imprese Incontriamo Marcello Mattioli, Presidente di Corvi Consulting Srl, azienda all’avanguardia nella consulenza marketing a social media a cura di Redazione Diritto Commerciale Sul divieto di patto Leonino oggi a cura di Jacopo Lucchiari

In redazione Federico Feliziani Francesco De Sanzuane ©Copyright 2017 - Rivista delle imprese e dei mercati internazionali®™ tutti I diritti riservati – vietata la riproduzione anche parziale Per presentare articoli e contributi Inforivistadelleimprese@gmail.com Per iscriverti alla Rivista inforivistadelleimprese@gmail.com Sito web http://www.rivistadelleimprese.it

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Editoriale Imprenditori o sognatori? Quando le due figure si sovrappongono? “Portatemi via la mia gente e lasciatemi le aziende vuote e presto l’erba crescerà sul pavimento dei reparti. Portatemi via le aziende e lasciatemi le persone con cui lavoro e presto avrò aziende migliori di prima”. Questo diceva Andrew Carnegie, imprenditore britannico naturalizzato statunitense (Dunfermline, 25 novembre 1835 – Lenox, 11 agosto 1919) che, con tutta probabilità è stato uno degli imprenditori, e filantropi, più importanti ed influenti della storia dei nostri tempi. Carnegie è ricordato per avere costruito dal nulla – il suo primo lavoro, a tredici anni, fu fare il garzone in un cotonificio - uno vero e proprio impero economico, giungendo alla costituzione di una delle più potenti e influenti aziende della storia degli Stati Uniti, la Carnegie Steel Company. Raggiunta la ricchezza, nella seconda parte della sua vita, si è reso celebre ad amato per la sua attività filantropica che ha permesso di fondare università, biblioteche e musei e non solo negli Stati Uniti, ma anche nella natia Scozia e in altri Paesi. Si tratta dunque di una persona che, nella sostanza, rappresenta in pieno il sogno americano: partì giovanissimo per andare negli Stati Uniti a cercar fortuna e dopo numerosi lavori umili faticosi e poco retribuiti, riuscì ad arricchirsi grazie al suo coraggio, e certamente al talento negli affari che non dovette certo mancargli Alcuni pare ritengano che il noto personaggio Disney Paperon de’ Paperoni (Uncle Scrooge a dispetto del suo nome, ove Scrooge significa spilorcio) sia ispirato proprio a lui). Se poi dobbiamo basarci su una comparazione effettuata dalla rivista Times (http://time.com/money/3977798/the-10-richest-people-of-all-time/) il suo intero patrimonio (rivalutato in dollari con valuta al 2008) sarebbe il sesto più alto di sempre, in tutto il mondo. La sua fama gli ha procurato anche l’ammirazione di Italo Svevo che non ha esitato a citarlo nella “Coscienza di Zeno” nel capitolo «La moglie e l'amante»: Zeno in visita a palazzo Pitti notò come Carnegie e Vanderbilt, probabilmente Cornelius (patriarca dell'omonima famiglia di imprenditori attiva sin dal 1800), assomiglino ai ritratti dei fondatori di casa Medici. Eppure, nonostante questo successo infinito, nonostante una autorità sostanzialmente assoluta, che gli avrebbe permesso di decidere qualsiasi cosa e di influenzare la politica intera del suo periodo, non ha permesso a tanto potere di distoglierlo da quello che era, a mio parere, il suo primo pensiero: il lavoro, l’impresa, attività che possono distruggere o, al contrario, elevare e dare senso ad una intera esistenza. E sapeva bene una cosa: l’impresa non è un’entità astratta, a meno di non considerarla semplicemente dagli articoli di un codice o di trarne il significato da una definizione da dizionario. L’impresa è un luogo di incontro, di aggregazione e di aspirazioni, una cosa per uomini e donne di “carattere” che, tuttavia, non sempre sono apprezzati come e quanto potrebbero. È certo che è difficile, o più difficile, quando l’economia non decolla e le difficoltà sono tante. Ma se parliamo di Italia e ripercorriamo all’indietro qualche titolo di giornale, non è così complicato imbattersi in titoli che denunciavano la continua austerità ed i sacrifici che gli Italiani dovevano affrontare. Nell’immediato dopo guerra, negli anni sessanta, settanta per non parlare degli anni ottanta. Sino ad oggi. Senza interruzione. Dunque mi chiedo se molte delle cose che “ci mancano” non siano effettivamente dovute alla difficile situazione economica, o meglio non solo ad essa, ma forse soprattutto all’uniformità di pensiero che una certa comunicazione di massa ci ha donato. Ma l’imprenditore Italiano, non può smettere di sognare, di creare, di costruire, ne va della sua sopravvivenza, ma anche di parte della sua identità. Ovvero ciò che credo sia la vera “anima” di tutte le imprese del nostro bellissimo Paese.

Francesco De Sanzuane 4

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Le interviste di Rivista delle imprese. iMprenditori di successo.

Incontriamo Francesco Canè, CEO di Fratelli Polli Spa, eccellenza italiana nel mondo A cura di Redazione Rivista delle Imprese . Conosciamo Fratelli Polli Spa

Dal mese di settembre del 2015, il dott. Francesco Canè è il nuovo Amministratore Delegato della F.lli Polli Spa, azienda storica – con oltre 140 anni di storia – e leader nel settore delle conserve vegetali. L’eccellenza dei prodotti delle società del Gruppo Polli è stata riconosciuta in tutto il mondo e, ad oggi, i suoi prodotti sono apprezzati in ben 45 paesi. Per soddisfare la crescente richiesta dei mercati, il gruppo Polli ha investito moltissimo in innovazione e strutture e, grazie a tali sforzi, può vantare tre stabilimenti all’avanguardia, con sede a Monsummano Terme (PT), Eboli (SA) e Hinojos, in Spagna, ove vengono lavorate e trasformate ogni anno oltre 134 materie prime alimentari, il che porta ad una produzione di circa di 20.000 tonnellate di verdure e più di 90 milioni di vasi.

Francesco Canè CEO di Fratelli Polli Spa 5

Dottor Canè, ringraziandola ancora per la sua squisita disponibilità, ci vuole raccontare qualcosa di più dell’azienda che attualmente dirige? E dunque, passando a qualche domanda: da un paese alle porte di Montecatini fino all'Italia, all'Europa e poi al mercato internazionale. Come è possibile coniugare tradizione e storia di una società così importante con le esigenze di un mercato globale sempre più difficile e competitivo?

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Darwin diceva: “Non è la specie più forte che sopravvive né la più intelligente, ma quella più ricettiva ai cambiamenti”. In Polli abbiamo fatto nostra questa massima ed operato, anno dopo anno, scelte strategiche che ci hanno portato ad essere tra i principali player europei nel settore dei pesti e delle conserve vegetali. Mescolare le “ricette di una volta”, l’amore per la terra che ci ospita da oltre un secolo (ndr La Toscana) ed impianti tecnologici di ultima generazione ha dato vita ad un mix competitivo ai massimi livelli.

“Darwin diceva: “Non è la specie più forte che sopravvive né la più intelligente, ma quella più ricettiva ai cambiamenti”. In Polli abbiamo fatto nostra questa massima ed operato, anno dopo anno, scelte strategiche che ci hanno portato ad essere tra i principali player europei nel settore dei pesti e delle conserve vegetali”

Quali strategie sta adottando il Gruppo Polli per mantenere ed incrementare la propria presenza sui mercati internazionali? Da un punto di vista produttivo continuiamo ad esprimere altissima qualità aumentando sempre più il controllo di filiera. Già da tempo coltiviamo noi stessi alcuni dei vegetali che poi finiscono nei nostri sottolio e sottaceto, così come investiamo agronomi del delicato compito di stabilire il momento giusto per il taglio del basilico per la produzione del pesto, prodotto rigorosamente dalla pianta colta in giornata. Come organizzazione ci stiamo strutturando con Filiali vere e proprie nei paesi più importanti, non solo in termini di fatturato ma anche di potenzialità. È infatti determinante l’essere in prima persona sul territorio così come offrire, con un portfolio prodotto dedicato allo specifico paese, al consumatore finale proposte che soddisfino appieno le aspettative sotto tutti i punti di vista. Abbiamo inoltre allo studio l’acquisizione di altre piccole aziende a noi sinergiche per un ampliamento della gamma di prodotti da offrire sui mercati internazionali. Da non dimenticare poi che la F.lli Polli è promotrice e membro della rete d’imprese “Gradita”, fondata assieme ad altre aziende leader nel mondo alimentare (Divella, Callipo, Coricelli e Galvanina). Importante è capire come sia passato il tempo del “di meno vuol dire di più”. Oggi ci si rivolge a platee internazionali sempre più complesse ed unire le aziende significa dare ancora più forza al made in Italy che tutte, singolarmente, ben rappresentano; con Gradita presentiamo un portafoglio di prodotti non solo eccellenti ma ampiamente diversificato, un vero valore aggiunto su tutti i mercati. Il ruolo di Amministratore Delegato implica l’assunzione di grandi responsabilità. Qual è la dote che più la aiuta nello svolgimento del Suo incarico? La perseveranza. Da sempre mi è stato insegnato che “volere è potere” e di questo ho fatto un dogma. Quando si è fermamente convinti di aver imboccato la strada giusta prima o poi i risultati arrivano. Credo inoltre di avere la capacità di circondarmi di collaboratori eccezionali il cui apporto rende il raggiungimento degli obiettivi prefissati non solo possibile ma anche entusiasmante. Quali competenze professionali ritiene siano prevalenti e più importanti per un manager?

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La conoscenza e la consapevolezza. Il vero manager deve essere un generalista, conoscere tutte le dinamiche aziendali. Allo stesso tempo deve possedere una leadership guadagnata “sul terreno” ed una eccellente visione strategica. Tutte competenze che si sviluppano nel tempo, spesso figlie di curiosità ed intelligenza. Da sempre gli Italiani sono riconosciuti, in tutti i Paesi, per la loro inventiva ed intraprendenza. Tra i cinque sensi, quali è più importante per Lei? Istintivamente mi verrebbe da pensare a tutti i sensi non annoverati nei classici 5, ad esempio la fame, la sete, la tensione, il dolore, la percezione, il magnetismo, ovvero tutto ciò che, in senso fisico e figurato, ci forma creando quelli che noi siamo. Nella realtà credo che la “vista” sia uno dei principali driver. Negli ultimi tempi sembrerebbe che l’apparenza abbia surclassato la sostanza. Ci sono prodotti nuovi in vista dei quali ci può dare un’anteprima? Tutti i nuovi prodotti in fase di lancio sono nati da “nuovi concetti” prima raramente utilizzati in ambito alimentare. Se fino a qualche tempo fa l’addizionare vitamine agli alimenti sembrava quasi una denaturazione chimica di qualcosa di puro, oggi siamo entrati nell’era del cosiddetto “superfood”, cibi funzionali che oltre a fornire calorie in modo gustoso devono anche “fare bene”. Polli ha appena lanciato i Me.Li.Mangio, linea di sottoli di altissima qualità pensati appositamente per l’aperitivo e quindi per un pubblico più giovane, cosa piuttosto nuova nel settore dei sottoli. E poi abbiamo inserito sugli scaffali di tutta Italia due nuovi condimenti per insalata di riso, che rientrano nella linea Risopiù Polli. Mi riferisco a un condimento a base di verdure con mandarino e zenzero, e un altro con noci e melagrana. Qui il plus di prodotto sono appunto i superfood presenti nelle due ricette. Infine, a settembre, lanceremo una nuova gamma sempre in linea con le nuove tendenze di consumo in ascesa in questo momento. Come potrebbe migliorarsi un manager alla guida di un’azienda importante come la F.lli Polli? La Polli è una azienda storica che deve costantemente coniugare tradizione e modernità per cui risulta fondamentale mantenere la mente aperta ai cambiamenti del mercato. Detta all’inglese suonerebbe come: “think out of the box” Per finire, ci può dare un consiglio da rivolgere particolarmente ai giovani imprenditori? Siate coraggiosi nelle scelte e determinati nel raggiungere gli obiettivi. Imparate dagli errori, diffidate da chi si professa infallibile ma soprattutto ricordatevi che il vero successo si raggiunge col gioco di squadra.

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Marchio pubblicato su gentile concessione di F.lli Polli Spa. Tutti i diritti sono riservati a F.lli Polli Spa.

Laureato presso l’Università di Bologna, Francesco Cané ha conseguito due Master, in “Business Administration” e “Sales and Marketing Management” e ha poi reso la propria attività di dirigente ed amministratore delegato in grandi gruppi internazionali, principalmente del settore “food & beverage”. www.polli.it

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Danni punitivi: grandi speranze! a cura di Francesca Solimini

Premessa. Le riflessioni che seguono prendono vita dall'analisi di un tema che negli ultimi anni ha smosso dottrina e giurisprudenza da una soporosa quiete. Entrambe, infatti, si sono mostrate sempre più interessate al riconoscimento della cittadinanza italiana ai cosiddetti "punitive damages". Se in passato dilagava lo scetticismo nei confronti dell'ammissibilità di tale categoria, ritenuta dai più una figura appartenente a sistemi di diritto lontani dal nostro, oggi non è più così. Di conseguenza, viviamo il presente nella più assoluta incertezza circa il contenuto della decisione che presto le Sezioni Unite assumeranno sul punto. Nota di aggiornamento: con sentenza del 5 luglio 2017, n. 16601, le Sezioni Unite sono intervenute sulla questione, affermando che non è ontologicamente incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi, come invece si riteneva una volta. Vi è infatti un riscontro a livello costituzionale della cittadinanza nell'ordinamento di una concezione polifunzionale della responsabilità civile, la quale risponde soprattutto a un'esigenza di effettività della tutela.

Diritto Civile

SOMMARIO: 1. Il caso sottoposto all’attenzione delle Sezioni Unite; 2. Punitive damages; 3. La funzione del nostro illecito aquiliano; 4. Incompatibilità tra punitive damages e ordinamento nazionale; 5. Danni punitivi riconosciuti dal legislatore; 6. Conclusioni

1. Il caso sottoposto all’attenzione delle Sezioni Unite L’istituto dei danni punitivi postula la possibilità che il giudice accordi al soggetto danneggiato da un certo fatto illecito, oltre al risarcimento che ripristina la sua sfera giuridica, anche una somma di denaro che esorbita dalla compensazione del danno concretamente sofferto. Tale è la punizione che spetta al danneggiante in virtù della condotta particolarmente grave da lui tenuta nello specifico caso concreto. “L’istituto dei danni punitivi Volendo dirigere lo sguardo fuori dai confini nazionali, negli postula la possibilità che il ordinamenti di Common law i danni punitivi sono da tempo giudice accordi al soggetto pacificamente ammessi. Anzi, l’istituto nasce proprio nei sistemi di danneggiato da un certo fatto diritto anglosassone. Nei sistemi di Civil law diversi dal nostro ma vicini illecito, oltre al risarcimento sia territorialmente che per tradizione, invece, tale istituto non penetra che ripristina la sua sfera nella tradizione giudica. Tuttavia, a oggi le Corti Supreme di questi Paesi giuridica, anche una somma di perlomeno tendono a riconoscere le sentenze straniere di condanna al denaro che esorbita dalla pagamento di somme a titolo di danni punitivi. compensazione del danno Proprio il tema della delibazione di sentenze straniere ricognitive di concretamente sofferto. Tale è risarcimenti punitivi è di recente approdato alle Sezioni Unite della la punizione che spetta al Corte di Cassazione. L’ordinanza della Prima Sezione n. 9978 del 16 danneggiante in virtù della maggio 2016, infatti, ha rimesso tale specifica questione al Primo condotta particolarmente grave Presidente. da lui tenuta nello specifico Il caso di specie ha ad oggetto la richiesta avanzata dalla società caso concreto” americana NOSA Inc., con sede in Florida, di riconoscere 8

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nell’ordinamento italiano l’efficacia e l’esecutività di tre sentenze pronunciate negli Stati Uniti d’America, passate in giudicato. Si tratta di pronunce con le quali veniva accolta la domanda di reintegrazione patrimoniale promossa dalla NOSA nei confronti di un’altra società, questa volta italiana, ossia la AXO Sport S.p.A. La reintegrazione aveva ad oggetto l’importo corrisposto dalla NOSA a seguito di transazione intervenuta con un motociclista, Charles Duffy, il quale aveva subito danni alla persona in un incidente avvenuto nel corso di una gara. Tali danni derivavano causalmente da un vizio del casco da lui indossato durante la gara, prodotto dalla AXO e rivenduto dalla NOSA. La proposta transattiva del motociclista, tecnicamente definita “offer of judgement”, includeva anche i punitive damages, che la NOSA provvedeva a risarcire. La Corte statunitense, nella causa di reintegrazione NOSA contro AXO, ha poi ritenuto opportuno che la NOSA dovesse essere manlevata dalla società italiana dell’importo della transazione. Tra le varie deduzioni prospettate dalla AXO al fine di non rimborsare la NOSA, rileva principalmente quella della contrarietà all’ordine pubblico interno, italiano, della comminatoria di punitive damages. Tale assunto si baserebbe sulla inammissibile funzione sanzionatoria dei danni punitivi, tesa a castigare il danneggiante, anziché risarcitoria, e quindi riferita agli specifici danni subiti in concreto dal danneggiato. È proprio la funzione sanzionatoria e non compensatoria dei danni punitivi che, pertanto, contrasterebbe con l’ordine pubblico interno e impedirebbe la loro risarcibilità nel nostro sistema di diritto. Ciononostante, il 3 gennaio 2014 la Corte di Appello di Venezia ha accolto la domanda avanzata dalla società americana di delibazione delle tre sentenze a lei favorevoli, escludendo la violazione dei principi costitutivi l’ordine pubblico interno. Secondo tale pronuncia di merito, infatti, il titolo su cui fondare la condanna della AXO non si sostanzierebbe nel risarcimento spettante al motociclista, bensì nell’obbligo di manleva verso la NOSA. Tale obbligo era ragionevolmente prevedibile per la AXO, la quale, tuttavia, deliberatamente non si costituiva nel giudizio tra la NOSA e Charles Duffy, e nulla obiettava verso la proposta transattiva del danneggiato. Pertanto, la stessa si poneva da sola nella condizione di subire tutti i possibili effetti derivanti della transazione. La Corte veneziana, inoltre, evidenziava l’impossibilità di riscontrare in concreto l’inclusione del risarcimento di danni punitivi nell’importo di 9

cui si chiedeva la corresponsione, atteso che la sentenza americana si limitava a riconoscere l’obbligo della AXO di versare alla NOSA l’importo della transazione, senza alcuna specificazione circa la tipologia dei danni da risarcire. Secondo la Prima Sezione della Cassazione, la Corte di Appello di Venezia erra nella sua ricostruzione. In particolare, è evidente per la Suprema Corte che la somma posta a carico della AXO dal giudice statunitense corrisponde esattamente a quella indicata nella proposta transattiva formulata dal danneggiato a composizione integrale della pretesa risarcitoria. La stessa, pertanto, sarebbe evidentemente comprensiva anche dei danni punitivi. A fronte di quella che è una questione di riconoscibilità o meno di una sentenza straniera di condanna al pagamento di somme a titolo di danni punitivi, la Prima Sezione ha ritenuto necessario rimetterla all’esame del Primo Presidente della Corte di Cassazione, affinché valutasse l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite Civili. La rimessione alle Sezioni Unite si giustifica sulla base della mancanza di uniformità di vedute circa la possibilità di ammettere tale categoria di danni nel nostro ordinamento per mezzo della delibazione di sentenze straniere. Gli orientamenti esposti in dottrina e giurisprudenza, infatti, sono diversi, anche alla luce di una progressiva evoluzione che ha interessato l’interpretazione del principio di ordine pubblico. In attesa che le Sezioni Unite appongano la parola “fine” ai tormenti giurisprudenziali e dottrinali, appare opportuno inquadrare, in primo luogo, l’istituto in questione, per poi passare a una riflessione circa le problematiche che negli anni sono state collegate alla categoria dei danni punitivi, sino a oggi. 2. Puntive damages I giuristi continentali hanno spesso osservato con estrema curiosità questo istituto, che presenta immense potenzialità. I danni punitivi nascono in Inghilterra nel XVIII Secolo, ma è l’ordinamento giuridico statunitense che rappresenta oggi il paradigma di riferimento per la disciplina. Sono anche conosciuti con il termine “exemplary damages”, soprattutto in Inghilterra. È bene comunque specificare che nel sistema di Common Law il termine “damages” non dovrebbe essere tradotto letteralmente “danno”, designando più che altro il “risarcimento”: sarebbe più opportuno, pertanto, discorrere di risarcimenti punitivi e non di danni punitivi. Tuttavia, nel nostro ordinamento è prevalsa nell’uso comune la traduzione letterale, e quindi ci si riferisce all’istituto in questione con

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l’espressione “danni punitivi”. Originariamente la categoria dei danni punitivi nasce per compensare, nell’ordinamento inglese, il vuoto di tutela generato dalla mancata previsione della risarcibilità del danno non patrimoniale. In questi casi, infatti, per mezzo dei danni punitivi si riusciva ad attribuire al danneggiato un risarcimento comunque congruo, di entità non del tutto irrilevante. La categoria rappresentava, pertanto, una vera e propria valvola di sfogo del sistema, volta a garantire un’adeguata compensazione per il danno concretamente subito. Dopo aver espressamente riconosciuto l’ammissibilità del risarcimento del danno non patrimoniale, l’istituto dei danni puntivi ha assunto i connotati che oggi conosciamo: da assolvere a una funzione meramente integrativa per la tutela risarcitoria, e quindi compensativa del danno, è giunto a rivestire la funzione sanzionatoria e deterrente sua propria. I punitive damages sono stati concepiti al fine di “danneggiare il danneggiante”, per infliggergli una pena, castigarlo. Inoltre, il potenziale danneggiante, prospettandosi l’eventualità di una sanzione siffatta, dovrebbe essere scoraggiato dal commettere azioni illecite sul piano civile. Per tali motivi i danni punitivi sono stati definiti come vere e proprie “pene private” o, più precisamente, come “sanzioni punitive civili”. Emerge chiaramente una natura ibrida dei punitive damages, i quali si pongono al confine tra il diritto civile e il diritto penale. Tali pene, però, sono pur sempre erogate nell’ambito di un processo civile avente ad oggetto il risarcimento danni, e non da un giudice penale. Inoltre, si tratta di risarcimenti che vengono direttamente corrisposti al danneggiato, e non all’Erario statale, come invece le sanzioni pecuniarie penalistiche. Nonostante ciò, l’istituto, al pari delle sanzioni penalistiche, evidentemente assolve a una importante funzione per l’interesse della società tutta. Proprio per fornire un pedagogico esempio alla collettività, al fine di evitare il riprospettarsi degli illeciti commessi, nei

“Emerge chiaramente una natura ibrida dei punitive damages, i quali si pongono al confine tra il diritto civile e il diritto penale” 10

primi due cases affrontati dalle corti inglesi nel 1763, i giudici dell’epoca ritennero di dover concedere dei risarcimenti punitivi. Sia nel caso Wilkes v. Wood, che, poco dopo, in quello Huckley v. Money, infatti, i giudici si accorsero che con lo strumento del risarcimento compensativo i danneggiati avrebbero ricevuto una ben misera riparazione per i danni subiti a due beni fondamentali quali la libertà personale e l’onore. John Wilkes, editore di una rivista nonché parlamentare, era stato vittima di un ingiusto arresto e detenzione. Inoltre, aveva subito una perquisizione illegittima della sua abitazione. Le sofferenze psicologiche derivategli da tali fatti illeciti, lo condussero a richiedere dinanzi alla Court of Common Pleas un risarcimento del danno per quanto sofferto. Si noti che, in effetti, in questo primo caso il risarcimento punitivo venne accordato proprio in virtù della mancanza di un meccanismo di risarcimento di danni non patrimoniali. Nel caso Huckley v. Money, invece, l’illegittima detenzione a detta della Corte non aveva causato alcuna physical injury, né, tantomeno, una perdita patrimoniale. Ciononostante, si riconobbe un risarcimento del danno in senso punitivo per il convenuto, in considerazione della condotta particolarmente grave tenuta da quest’ultimo. Data la genericità di tale affermazione, nel tempo sono stati prescritti dei limiti per ridurre il campo di applicazione dell’istituto dei punitive damages. La finalità, pertanto, è proprio quella, ex post, di punire il convenuto in virtù del suo comportamento antisociale, nonché, ex ante, di dissuaderlo dal commettere l’illecito stesso. La funzione sanzionatoria non è sempre stata vista di buon occhio anche nei sistemi di Common Law. Questo soprattutto negli Stati Uniti, laddove comunque non si è mai negato che i danni punitivi da sempre costituiscono parte integrante del sistema di diritto. Antonin Scalia, giudice della Corte Suprema dalle simpatie conservatrici, osservò che già nel 1868, quando il XIV emendamento venne adottato, i danni punitivi indubitabilmente erano parte costitutiva dell’American common law of torts. Tuttavia, nel 1873 nel caso Fay v. Parker la Corte mostrò dei dubbi circa l’esistenza di una funzione del risarcimento diversa da quella compensativa, definendo i danni punitivi come una “eresia mostruosa, una sgradevole e insalubre escrescenza che deformava la simmetria del corpo della legge”. Ciononostante, a oggi quasi tutte le corti statali pacificamente ammettono risarcimenti comprensivi di danni punitivi per garantire la pace sociale, la public tranquility (usando la terminologia di Hawk v. Ridgway, 1864), qualora il convenuto agisca in maniera maliziosa, intenzionalmente lesiva, arbitraria, dispotica o oltraggiosa. La funzione dissuasiva, infine, risulta particolarmente significativa in quelle ipotesi in cui il danneggiante potrebbe comunque arricchirsi a discapito del Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali – lug. 2017


danneggiato, nonostante la condanna al risarcimento compensativo dei danni. Si tratta di quei casi in cui il guadagno del danneggiante supererebbe le perdite per lui derivanti dal pagamento di quanto dovuto al danneggiato, per i danni in concreto da lui subiti. Il danneggiante sarebbe evidentemente spinto comunque alla commissione dell’illecito, a fronte delle grandi utilità che potrebbe ricavarne. Conseguentemente, emerge una manifesta e indubbia utilità dell’istituto dei danni punitivi sotto molteplici profili. 3. La funzione del nostro illecito aquiliano Se negli Stati Uniti l’istituto, pur accolto dall’ordinamento, è stato vittima di critiche, in Italia è stato del tutto ripudiato. La Suprema Corte di Cassazione nella sentenza numero 1781 dell’8 febbraio 2012 ha precisato che è “estranea al sistema interno l’idea della punizione e della sanzione del responsabile civile ed è indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta”. Si guarda, pertanto, all’effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto che è stato leso. Per l’impostazione tradizionale, derivante dal diritto romano, il risarcimento del danno conseguente alla commissione di un illecito aquiliano doveva invece assolvere a una funzione sanzionatoria. Tale concezione è stata poi recepita dal Codice Civile del 1865, e in particolare nell’art. 1151. Il risarcimento costituiva una reazione dell’ordinamento avverso il comportamento illecito del danneggiante, e veniva definito dalla dottrina e dalla giurisprudenza anteriore al 1942 come una pena in senso lato. L’addebito di responsabilità, pertanto, discendeva dalla causazione di un fatto ingiusto, contra jus, che si sostanziava in un’offesa a un diritto soggettivo tutelato erga omnes da norme primarie. Tali erano le norme poste a tutela di diritti assoluti, ossia di diritti patrimoniali e di diritti fondamentali della persona. La disciplina veniva conseguentemente incentrata sul danneggiante e sul suo atteggiamento psicologicamente doloso o colposo. Da questi rilievi appare del tutto evidente che la “In tal senso, si discorre di “integralità del

risarcimento”, ai sensi di quanto previsto dall’art. 1223 c.c., dettato in materia di responsabilità contrattuale, e richiamato dall’art. 2056 c.c. nel campo della responsabilità aquiliana”

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prospettiva adottata in passato per il risarcimento del danno era sostanzialmente analoga a quella penalistica di addebito del reato e conseguente applicazione della pena. Tale concezione è stata fermamente rifiutata dopo l’entrata in vigore del Codice del 1942. I successivi commentatori hanno osservato che la funzione riconosciuta al risarcimento del danno sarebbe solo e soltanto quella riparatoria. Tale assunto si edifica sulla ricostruzione interpretativa adottata per l’art. 2043 c.c. Nell’alveo di tale norma non si discorre di “fatto ingiusto”, bensì il requisito dell’ingiustizia viene espressamente riferito al danno: è questo a essere contra jus. Il fatto, invece, è non jure, ossia non autorizzato dall’ordinamento e arrecato in assenza di qualsiasi causa di giustificazione. Inoltre, un lungo iter giurisprudenziale, culminato con la famosa sentenza delle Sezioni Unite n. 500 del 1999, ha condotto ad affermare che l’art. 2043 c.c. non è affatto una norma secondaria, utilizzata per sanzionare violazioni di norme primarie poste a tutela di diritti assoluti, bensì è essa stessa una norma primaria. Infine, si è dato atto della circostanza per cui un danno ingiusto può emergere non solo nel caso di lesione diritti soggettivi assoluti, ma anche nel caso di lesione di diritti relativi, di credito, nonché nell’ipotesi di lesione di aspettative o mere posizioni di fatto. In tutti questi casi, il fine del risarcimento è quello di restaurare la sfera patrimoniale di chi ha subito la lesione, riportandola allo status quo ante. La somma integrante il risarcimento del danno deve necessariamente essere commisurata alle conseguenze del danno arrecato. In tal senso, si discorre di “integralità del risarcimento”, ai sensi di quanto previsto dall’art. 1223 c.c., dettato in materia di responsabilità contrattuale, e richiamato dall’art. 2056 c.c. nel campo della responsabilità aquiliana. L’attore ha l’onere di provare specificamente le conseguenze dannose subite, in quanto proprio sulla base dei riscontri istruttori forniti verrà parametrato il risarcimento a lui spettante. La prospettiva adottata, pertanto, non è quella propria del diritto penale, che guarda al reo, al danneggiante, ma è una prospettiva “vittimologica”, che si concentra sul danneggiato. La nuova ratio posta alla base dell’art. 2043 c.c. è quella di individuare il soggetto in capo al quale traslare il peso economico del danno in concreto subito dalla vittima, e non quella di stigmatizzare il comportamento del danneggiante. Si è verificato, pertanto, un progressivo distacco della disciplina della responsabilità civile da quella penale, e ciò ha comportato l’obliterazione della funzione sanzionatoria e di deterrenza. Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali – lug. 2017


Tale concezione è stata costantemente asseverata dalle corti interne. In particolare, ciò è stato ribadito in materia di risarcimento di danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c., laddove la giurisprudenza ha impedito ogni possibilità di duplicazioni risarcitorie. Segnatamente, nel 2008 la Suprema Corte a Sezioni Unite con la pronuncia n. 26972 ha negato la possibilità di risarcire sotto più voci distinte forme di lesione che integrano, invece, una medesima fattispecie. Danno morale, danno esistenziale, danno biologico e altre etichette utilizzate non sono autonome sottocategorie di danno non patrimoniale, poiché lo stesso configura una categoria unitaria di danno. La posizione giurisprudenziale è stata poi ribadita anche con riferimento all’impossibilità di configurare un risarcimento per danni da considerarsi in re ipsa. Ogni conseguenza dannosa, infatti, necessita di essere provata per poter essere risarcita in misura proporzionata. Inoltre, si è specificato che ai fini della configurabilità di un risarcimento non può essere tenuto in considerazione né lo stato di bisogno del danneggiato, né la capacità patrimoniale del danneggiante. Anzi, più nello specifico, non si deve tenere presente in alcun modo la posizione del danneggiante. Il ripudio della concezione sanzionatoria è stato recentemente messo in discussione da un’attenta dottrina. Nell’ambito della discussione sorta dopo la pronuncia delle Sezioni Unite del 2015 in materia di danno tanatologico, c’è chi ha sostenuto l’improprietà dell’affermazione per cui il risarcimento del danno assolverebbe sempre e solo a una funzione riparatoria. Tale funzione opererebbe,

“il risarcimento del danno non patrimoniale non è un ristoro per una perdita subita; esso non può che avere funzione sanzionatoria verso il danneggiante” 12

infatti, solo per i danni riparabili, eliminabili economicamente, compensabili. Le Sezioni Unite con la pronuncia n. 15350 hanno evidenziato che “i danni risarcibili sono solo quelli che consistono nelle perdite che sono conseguenza della lesione della situazione giuridica soggettiva e non quelli consistenti nell’evento lesivo, in sé considerato”. Ciononostante, c’è chi ha in senso contrario asserito che la teoria della funzione riparatoria del risarcimento sarebbe accettabile soltanto per i danni patrimoniali, poiché questi sarebbero in effetti gli unici eliminabili economicamente. Concentrandosi invece sul danno non patrimoniale, emerge subito e chiaramente l’irreparabilità del dolore subito. Solo e soltanto per mezzo di una finzione giuridica il denaro riuscirebbe ad assolvere a una funzione riparatoria del dolore. Conseguentemente, per i danni non patrimoniali la funzione del risarcimento del danno non può evidentemente essere riparatoria. Si pensi al caso in cui si voglia riparare il dolore per la perdita di un famigliare. È evidente che non esiste ricchezza in grado di compensare tale sofferenza, in quanto trattasi di entità completamente eterogenee, il dolore e il denaro, insuscettibili di essere bilanciate. Pertanto, il risarcimento del danno non patrimoniale non è un ristoro per una perdita subita; esso non può che avere funzione sanzionatoria verso il danneggiante. Questa soluzione si pone a favore della tesi giurisprudenziale che patrocina l’ammissibilità nel nostro sistema dei danni punitivi. C’è chi ha più accuratamente osservato che solo con la previsione di danni punitivi si potrebbe fornire un’effettiva e adeguata tutela a quei diritti fondamentali della persona. Si prospetta soltanto la necessità di assicurarsi di non dar luogo a quantificazioni inique, eccessive, di tali danni. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza di rimessione del 16 maggio 2016 n. 9978 ha a tal proposito rilevato che “quando l’illecito incide sui beni della persona, il confine tra compensazione e sanzione sbiadisce, in quanto la determinazione del quantum è rimessa a valori percentuali, indici tabellari e scelte giudiziali equitative, che non rispecchiano esattamente la lesione patita dal danneggiato”. Inoltre, ha ricordato come la medesima Corte nel 2015, con sentenza n. 1126, abbia individuato nella “gravità dell’offesa” un “requisito di indubbia rilevanza ai fini della quantificazione del danno non patrimoniale”. In conclusione, sempre a sostegno della tesi dell’ammissibilità nel nostro ordinamento dei danni punitivi, è stato evidenziato che la funzione sanzionatoria neppure era estranea ai lavori preparatori del Codice Civile del 1942, in particolare in caso peculiare intensità dell’offesa all’ordine giuridico. 4. Incompatibilità tra punitive damages e ordinamento nazionale Si è osservato che tale istituto non fa parte della nostra tradizione giuridica. Segnatamente, la Cassazione con la pronuncia già citata dell’8 febbraio 2012 ha puntualizzato che tramite i danni punitivi si configurerebbe un arricchimento senza causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale dal soggetto danneggiante al soggetto danneggiato. In altri termini, si genererebbe una c.d. overcompensation. Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali – lug. 2017


A fronte di tale assunto, la Corte si pronunciava nel senso dell’incompatibilità tra l’ordinamento italiano e l’istituto dei danni punitivi, con conseguente impossibilità di delibare sentenze straniere di condanna al risarcimento di tale tipologia di danni. Il fulcro attorno al quale ruota la questione della incompatibilità tra punitive damages e ordinamento interno è il concetto di ordine pubblico. L’ordine pubblico tradizionalmente si sostanzia in quel limite costituito da un complesso di principi, espressamente previsti in norme inderogabili o da queste desumibili, che informano l’intero ordinamento giuridico interno. Seguendo la definizione fornita dalla sentenza della Cassazione n. 2881 del 1961, i principi di ordine pubblico, segnatamente, concorrono a caratterizzare la struttura etico-sociale della società nazionale in un determinato momento storico. Il giudice interno deve valutare gli effetti della sentenza straniera sull’ordine pubblico. Qualora tale ordine risulti violato, la sentenza non può di certo reputarsi riconoscibile. Rilevato che secondo la giurisprudenza prevalente la funzione riparatoria del risarcimento del danno costituirebbe per il nostro ordinamento un principio di ordine pubblico interno, la funzione sanzionatoria propria dei danni punitivi sarebbe contraria a tale ordine. Conseguentemente, sarebbe da ritenersi inammissibile il riconoscimento della sentenza straniera, poiché produttiva di un arricchimento ingiustificato del danneggiato. La sentenza estera di risarcimento non potrebbe essere riconosciuta complessivamente, e non soltanto per quella parte di risarcimento che non supera la soglia dell’overcompensation. Diversamente opinando, infatti, sarebbe necessario riaprire un giudizio di merito per effettuare una concreta quantificazione del danno, al fine di verificare quale sia il pregiudizio concretamente subito che deve essere riparato. In tal senso si è espressa la Cassazione nel 2007 con sentenza n. 1183, che ha escluso l’applicazione di una sentenza resa nello stato dell’Alabama ricognitiva di danni punitivi. La fattispecie affrontata nel 2007 è quasi identica a quella rimessa alle Sezioni Unite nel 2016. Avverso tale pronuncia si è obiettato che esisterebbero frammenti di norme nel nostro sistema, come l’art. 1382 c.c. in materia di clausola penale, che permetterebbero di ritenere non del tutto estranea al nostro ordinamento la concezione punitiva di danno. Tale osservazione è stata screditata dalla Corte nel 2007, la quale ha invece asserito che i danni punitivi, a differenza del meccanismo previsto per la clausola penale, sarebbero caratterizzati da una ingiustificata sproporzione tra l’importo liquidato e il danno subito. Per la penale, invece, ciò non è assolutamente possibile, stante la possibilità per il giudice di ridurla d’ufficio ove manifestamente iniqua, ai sensi dell’art. 1384 c.c. Non sono pertanto accostabili in nessun modo tali istituti, tra loro del tutto eterogenei. In realtà, si è osservato che la clausola penale potrebbe configurarsi quale pena privata negoziale, con funzione al contempo compensativa ma anche sanzionatoria. La penale, infatti, è dovuta dalla parte inadempiente a prescindere dalla prova di un danno vero e proprio. Il debitore non può liberarsi dal pagamento della stessa provando l’inesistenza di un danno, in quanto, se lo facesse, ciò sarebbe del tutto irrilevante. In tal senso, la clausola penale prevede sicuramente una pena conseguente dall’inadempimento, configurando la possibilità di un risarcimento preventivato dalle parti e che prescinde dalla prova di conseguenze dannose. Proprio il potere del giudice di riduzione della stessa, se iniqua, sarebbe indice della sua funzione anche sanzionatoria, posto che non si chiede al giudice di ridurla commisurandola all’effettivo danno subito, ma semplicemente di ricondurla a equità, sulla base di un potere valutativo del giudicante, che può anche non essere commisurato al pregiudizio concretizzatosi. Seguendo tale interpretazione, quindi, la clausola penale sarebbe effettivamente un indice a riprova della possibile funzione sanzionatoria del risarcimento nel nostro ordinamento, nonché un elemento a favore della tesi che patrocina l’ammissibilità dei danni punitivi. In continuità con quanto affermato nel 2007, la medesima Corte di Cassazione con la sentenza n. 1781/2012 ha asserito che a giustificare il diniego di riconoscimento della sentenza straniera di condanna al pagamento di somme a titolo di danni punitivi sarebbe sufficiente anche soltanto un dubbio circa la configurabilità di una condanna ai punitive damages. A nulla rileverebbe, pertanto, l’assenza nella pronuncia straniera presa in considerazione di un esplicito rinvio all’istituto in esame. Inoltre, qualora risulti assente qualsiasi indicazione circa il motivo che giustifica l’attribuzione patrimoniale, nonché vengano omessi richiami alle regole o ai criteri adottati per la liquidazione del danno, la sentenza non sarebbe del pari riconoscibile. Contrariamente a quanto è stato sostenuto dalla Corte di Appello di Venezia, sarebbe necessario che la corte italiana venisse posta nella condizione di conoscere i criteri legali applicati concretamente dal giudice straniero per qualificare la responsabilità, 13

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nonché le conseguenti voci di danno riconosciute. I giudici veneziani, invece, hanno escluso a priori che la sentenza straniera presa in considerazione contenesse danni punitivi, senza verificare i criteri applicati dal giudice americano nella liquidazione. Soltanto a fronte di una conoscenza globale dei criteri adottati per quantificare il danno, sarebbe possibile vagliare la ragionevolezza e la proporzionalità di quanto viene liquidato all’estero. Secondo altra e più recente posizione, seppur ancora minoritaria, non è da escludersi la possibilità di un riconoscimento delle sentenze straniere che prevedono risarcimenti comprensivi di danni punitivi. La funzione sanzionatoria nel nostro ordinamento non sarebbe infatti aprioristicamente incompatibile con quella riparatoria, ma anzi, potrebbe convivere con questa. È questa la tesi alla quale sembra aderire l’ordinanza di rimessione del 16 maggio 2016, la quale si accosta a una più evoluta concezione di ordine pubblico. Con tale concetto dovrebbe intendersi non l’ordine pubblico interno, bensì quello internazionale. L’ordine pubblico interno si sostanzia nel sistema dei principi che informano la struttura etica, economica, sociale e giuridica del nostro ordinamento. L’ordine pubblico internazionale, invece, è dato dall’insieme dei principi comuni agli Stati esteri che informano la struttura di tali altri ordinamenti. Esso è costituito dal complesso di principi fondamentali che caratterizzano l’ordinamento interno in un determinato periodo storico, però fondati su esigenze di tutela di diritti fondamentali dell’uomo che si riscontrano in maniera analoga in diversi ordinamenti. Inoltre, le suddette esigenze sarebbero desumibili dai sistemi di tutela approntati dalla legislazione sovraordinata rispetto a quella ordinaria. Tale ricostruzione era stata in passato respinta. Ad esempio, nella pronuncia n. 818/1962 della Cassazione si legge che il principio avrebbe dovuto necessariamente essere inteso nel senso di ordine pubblico interno, non potendo invece essere recepito con il significato di ordine pubblico internazionale, astratto o universale. Successivamente, tale rigidità di impostazione si è attenuata, e con la pronuncia n. 228/1982 la Suprema Corte ha asserito che l’indagine avrebbe dovuto riferirsi al concetto di ordine pubblico interno soltanto qualora la sentenza da riconoscere avesse riguardato cittadini italiani. Al concetto di ordine pubblico internazionale, invece, avrebbe dovuto farsi riferimento qualora la sentenza da riconoscere avesse preso in considerazione solo cittadini stranieri. Seguendo, invece, l’interpretazione evolutiva adottata più di recente, facendo riferimento all’ordine pubblico internazionale anche nel caso di sentenza che coinvolge solo cittadini italiani, si consentirebbe l’ingresso nel nostro ordinamento di istituti giuridici e valori anche originariamente estranei a esso. Unico limite imprescindibile è che tali valori risultino compatibili con i principi fondamentali della Costituzione, con quelli dei Trattati fondativi dell’Unione Europea, nonché con quelli della CEDU. In alcuni ordinamenti i danni punitivi sono pacificamente ammessi, in particolare negli ordinamenti di Common law. D’altra parte, nei sistemi di Civil law quali quello francese, quello tedesco o quello spagnolo, le Corti Supreme comunque riconoscono le sentenze straniere di condanna ai danni punitivi. Conseguentemente, è possibile affermare che in tali ordinamenti i danni punitivi sono entrati a far parte del sistema di valori e di principi che informano l’ordine pubblico interno. Considerando, a questo punto, l’ordine pubblico internazionale, si dovrebbe necessariamente concludere nel senso dell’ammissibilità dei danni punitivi anche per il nostro sistema, e quindi della riconoscibilità delle sentenze straniere di condanna al risarcimento comprensivo di tali danni. La possibilità di delibare tali sentenze straniere troverebbe fondamento normativo nell’art. 64, lett. g), della legge n. 218/1995. Ai sensi di tale disposizione, la sentenza straniera è riconoscibile in Italia quando le sue disposizioni non producono effetti contrari all’ordine pubblico. Stante l’interpretazione giurisprudenziale più recente, è all’ordine pubblico internazionale che dovrebbe farsi riferimento, e non a quello interno. In tal modo non si prospetterebbe alcun contrasto. Tuttavia, c’è chi sostiene che anche guardando all’ordine pubblico interno i danni punitivi dovrebbero ormai essere pacificamente ammessi nel nostro sistema, stante l’evoluzione giurisprudenziale e legislativa. 5. Danni punitivi riconosciuti dal legislatore Sono sempre più numerose oggi le occasioni in cui il legislatore italiano si è attivato per prevedere fattispecie tipiche di danni punitivi. Per l’impostazione tradizionale, il giudice interno liquida il 14

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risarcimento sulla base degli artt. 2043, 2056 e 1223 c.c. Il potere riconosciuto al giudice sarebbe solo quello di compensare, quantificando il risarcimento in misura pari al danno, mentre non sarebbe ammissibile una sovra-compensazione. Ciò varrebbe per tutte le fattispecie di responsabilità, atipiche e anche tipiche, sempre che non venga previsto un criterio risarcitorio diverso da quello generale. Non è tuttavia possibile escludere che il legislatore possa introdurre fattispecie di responsabilità con condanna al risarcimento comprensivo di danni punitivi. Sono, pertanto, pacificamente configurabili nel nostro ordinamento danni punitivi tipici. Una prima ipotesi di danni punitivi tipici è stata dettata in materia di diffamazione a mezzo stampa, all’art. 12 della l. 47/1948. Se si trae un vantaggio superiore rispetto al danno cagionato, violando il diritto di autore, il criterio di quantificazione del risarcimento combina la funzione riparatoria con quella funzione sanzionatoria. In questi casi, si prevede il pagamento di una somma di denaro “in relazione alla gravità dell’offesa e alla diffusione dello stampato”. È palese il riferimento al danneggiante e alla sua condotta, e quindi il distacco dalla prospettiva vittimologica. Così come in Inghilterra nella seconda metà del Settecento, i danni punitivi vengono a giustificarsi in ragione della condotta particolarmente grave e riprovevole dell’autore del fatto illecito. Altro caso, più recente, è stato introdotto dal d.lgs. n. 7/2016, il quale ha inserito nel nostro sistema le sanzioni pecuniarie civili. Gli artt. 3 – 5 hanno affiancato al risarcimento del danno, irrogato a favore della parte lesa, uno strumento afflittivo. Si considerano, a tal proposito: la gravità della violazione; la reiterazione dell’illecito; l’arricchimento del soggetto responsabile; l’opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze dell’illecito; la personalità dell’agente; le condizioni economiche dell’agente. Sono evidentemente tutti criteri che guardano al fatto illecito e all’autore del fatto. Con questo strumento è stato introdotto nel nostro sistema un meccanismo di ridimensionamento dell’illecito completamente diverso dalla depenalizzazione, ritenendo per la prima volta di abrogare del tutto alcuni illeciti penali che incidono su interessi di natura privata, e che erano soggetti a un regime di procedibilità rigorosamente a querela. La ratio di dell’intervento, pertanto, sarebbe stato quella di restituire a questi illeciti la reazione sul piano delle relazioni private. La ratio della depenalizzazione, invece, è quella di attribuire all’illecito che pregiudica interessi pubblici un disvalore sociale più tenue. In questo caso, invece, si tratta di illeciti incidenti su interessi solo privati, sicché si restituisce ai privati stessi la decisione se perseguirli o meno, ma sul piano civilistico. Altra e più generale ipotesi di danni punitivi è quella di cui all’art. 96, comma 3, c.p.c. e 26, comma 2, c.p.a. si tratta del caso di abuso del processo per lite temeraria, a cui l’ordinamento reagisce attraverso la responsabilità e il risarcimento del danno, il quale ha funzione punitiva: non ripara il danno, ma sanziona l’abuso. Ancora, per l’art. 709ter c.p.c. nelle controversie tra i genitori relative all’esercizio della responsabilità genitoriale o le modalità di affidamento della prole, il giudice ha il potere di emettere sentenze di condanna al risarcimento dei danni, la cui natura assume sembianze punitive. In materia di proprietà industriale, invece, l’art. 125 del d.lgs. 30/2005 sancisce una responsabilità nell’ipotesi in cui il danneggiante, violando le regole della proprietà industriale, riceva un beneficio superiore al danno cagionato. Quando il vantaggio conseguito dall’autore del fatto illecito è maggiore rispetto alla perdita subita dal danneggiato, pertanto, il risarcimento del danno non è parametrato al danno, bensì al maggior vantaggio conseguito, al profitto. La norma appare particolarmente rilevante poiché introduce la c.d. retroversione degli utili (anche detta retrocessione degli utili): si ha restituzione delle utilità conseguite. Il legislatore in questo caso consente e giustifica l’arricchimento del danneggiato, poiché trattasi di un arricchimento derivante da fatto lecito, poiché giustificato dalla funzione sanzionatoria della responsabilità, dall’effetto deterrente, dall’ottica della tutela dei diritti della proprietà industriale. Passando alla materia dell’intermediazione finanziaria, l’187undecies T.U.F. sanziona un illecito civile per aver commesso il reato di manipolazione del mercato e abuso di informazioni privilegiate. Sul piano civilistico si accetta un risarcimento comprensivo di veri e propri danni punitivi, in quanto per la 15

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quantificazione del risarcimento si tiene conto dell’offensività del fatto, dei possibili effetti diffusivi della condotta, delle qualità del colpevole, dell’arricchimento ossia l’entità del prodotto o del profitto conseguito. Si adotta, conseguentemente, non una prospettiva vittimologica, tipica della funzione compensativa, ma ci si pone dal punto di vista del danneggiante. Il fine non è quello di riparare il danno, bensì quello di sanzionare il danneggiante. La funzione sanzionatoria, quindi, è evidentemente quella prevalente, se non proprio quella esclusiva. Alla luce di tutte queste disposizioni normative, è evidente che il legislatore attribuisce al giudice in alcuni casi il potere di sanzionare. È bene evidenziare che una maggiore vicinanza del nostro ordinamento alla funzione sanzionatoria del risarcimento del danno è stata prospettata anche in considerazione delle riflessioni svoltesi intorno all’istituto delle astraintes. In realtà, è necessario distinguere queste dai danni punitivi veri e propri. Le astraintes consistono in uno strumento volto a sottoporre a costrizione la volontà del debitore, al fine di farlo adempiere. La modalità con cui si attua tale costrizione è quella di prospettargli una condanna al pagamento di una determinata somma di denaro qualora non osservi gli ordini a lui impartiti dal giudice con la sentenza. A differenza di quanto asserito per i danni punitivi, le astraintes risultano del tutto compatibili con l’ordine pubblico interno, e non si pongono dubbi a riguardo. Tuttavia, la Cassazione nel 2015, con sentenza n. 7613 ha evidenziato che, nonostante le numerose differenze ontologiche, vi sarebbero anche tratti comuni del tutto evidenti tra punitive damages e astraintes. Entrambi gli istituti, infatti mirano a coartare l’adempimento. D’altro canto, si deve rilevare che l’astreinte mira a costringere la parte ad adempiere un obbligo derivante direttamente da una sentenza, nonché discendente da un rapporto giuridico già costituito. I danni punitivi, invece sono volti a forzare l’adempimento futuro del generale obbligo del neminem laedere, riferito a soggetti evidentemente diversi da quello già danneggiato. L’unica funzione diretta del danno punitivo è quella di sanzionare il danneggiante, mentre soltanto in via indiretta assolve ad una funzione deterrente. L’astreinte, inoltre, è una sanzione che viene irrogata in futuro in caso di eventuale inadempimento. Di conseguenza, vi è solo una minaccia di una futura sanzione, e non una pena irrogata vera e propria. Alla luce di tali palesi differenze, la Suprema Corte nel 2015 ha riconosciuto l’esecutività di una sentenza di un giudice belga senza problemi. A livello normativo, inoltre, sono previste numerose fattispecie tipiche in cui si sanziona il comportamento di chi commette, a seguito di una sentenza a lui diretta, ulteriori e successive inosservanze o violazioni. Si prevedono anche disposizioni con cui si ammette la condanna al pagamento di una somma di denaro per ogni giorno di ritardo nell’adempimento della sentenza. Esempi ne sono l’art. 614bis c.p.c. e l’analogo art. 114 c.p.a. in materia di ricorso per ottemperanza dinanzi al giudice amministrativo, nonché l’art. 140, comma 7, del Codice del Consumo, laddove si tiene conto della “gravità del fatto” commesso. Ancora, altra ipotesi è quella di cui all’art. 124, comma 2, e 131, comma 2, del d.lgs. 30/2005 in tema di marchi e brevetti. Infine, significativo per alcuni sarebbe anche l’art. 709ter nn. 2 e 3 c.p.c., per quanto riguarda le inadempienze degli obblighi di affidamento della prole. A ogni buon conto, emerge in maniera del tutto visibile che l’istituto delle astraintes è indicativo di una vera e propria evoluzione della responsabilità civile verso una funzione del risarcimento del danno anche sanzionatoria e deterrente, oltre a quella reintegrativa. L’astreinte, infatti, sicuramente non ripristina lo stato anteriore alla commissione di un illecito, riparando le conseguenze di un danno, bensì un danno lo minaccia un allo stesso danneggiante, qualora questo venga ad assumere un comportamento contrario a quanto prescritto nella sentenza che lo condanna. 6. Conclusioni In conclusione, secondo l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, l’ammissibilità dell’istituto dei danni punitivi passerebbe per una nuova lettura del principio di ordine pubblico. Segnatamente, si dovrebbe far riferimento non all’ordine pubblico interno, bensì a quello internazionale. In tal modo potrebbero fare ingresso sentenze straniere che applicano regole diverse dalle nostre, purché non contrastino con i valori

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costituzionali essenziali o non incidenti su materie disciplinate direttamente dalla Costituzione. In passato un dibattito non dissimile si instaurò, muovendo dai medesimi argomenti, in ordine al riconoscimento delle sentenze straniere di divorzio, prima che questo venisse positivamente previsto. Pertanto, il controllo circa l’ordine pubblico si sostanzierebbe, in fin dei conti, una sorta di controllo di costituzionalità virtuale e preventivo. Unico limite si rinverrebbe nell’aggressione a valori essenziali dell’ordinamento interno, da valutarsi, però, in armonia con quelli della comunità internazionale. Il vaglio di compatibilità con il nostro sistema non dovrebbe concentrarsi sulla correttezza o meno della soluzione adottata dalla corte straniera sulla base delle regole dell’ordinamento estero o dell’ordinamento italiano. Tale controllo dovrebbe essere svolto soltanto verificando se tale soluzione risulti ammissibile alla luce del nucleo essenziale dei valori dell’ordinamento, inteso in senso ampio e quindi comprensivo dei principi sia propriamente interni che sovranazionali. Per la pronuncia della Cassazione del 2016, un contrasto con l’ordine pubblico si prospetterebbe soltanto qualora venisse precluso al legislatore ordinario di introdurre nell’ordinamento interno una norma analoga a quella straniera, in quanto incompatibile con i valori costituzionali primari. Ciò sarebbe asserito sulla base di una lettura peculiare dell’art. 64 l. 218/95. Le norme espressive dell’ordine pubblico sono quelle fondamentali e non coincidono con quelle, di genere più ampio, imperative o inderogabili. Poste dette premesse, solo qualora alla funzione riparatoria del risarcimento venisse riconosciuto valore costituzionale essenziale e imprescindibile, si profilerebbe un contrasto con l’ordine pubblico dell’istituto dei danni punitivi. A questo punto, è bene però ricordare le numerose ipotesi di danni punitivi tipici già previste dal legislatore italiano. Dette norme, di certo, non si pongono in contrasto con l’ordine pubblico, e supererebbero un qualsiasi vaglio di legittimità costituzionale. Già in passato, con la pronuncia del 1999 n. 148 in tema di occupazioni appropriative, la Cassazione sostenne che la regola della integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non avrebbe copertura costituzionale. In effetti, se la funzione compensatoria del risarcimento assurgesse a rango costituzionale essenziale e imprescindibile nel nostro ordinamento, non sarebbe consentito neppure al legislatore ordinario derogarvi. All’evoluzione della concezione di ordine pubblico deve accostarsi il progresso concettuale anche della funzione del risarcimento del danno. Oramai, infatti, dovrebbe ammettersi che il risarcimento del danno possa assumere delle sfumature punitive e deterrenti. Questo, oltre a essere stato dichiarato in giurisprudenza, da ultimo nel 2015, è attestato anche dalla presenza di numerosi indici normativi. Infine, non può essere ignorata la globalizzazione degli ordinamenti giuridici in senso transnazionale, così come anche l’odierna circolazione regole giuridiche tra ordinamenti storicamente anche molto diversi tra loro. Si pensi, esemplificativamente, alla disciplina del trust elaborata negli ordinamenti di Common law e recepita nel nostro, anche se con non poche difficoltà. Tutto ciò viene posto in essere col fine di non giungere a una frammentazione tra i diversi ordinamenti nazionali, e quindi al loro reciproco isolamento, alla luce dell’evoluzione dei tempi e dello sviluppo esponenziale dei traffici commerciali, poiché questa comporterebbe soltanto uno svantaggio per i singoli ordinamenti. Ci si chiede se le Sezioni Unite vorranno avvicinarsi alla Corte Costituzionale federale tedesca, nonché al Tribunale supremo spagnolo e alla Corte di Cassazione francese le quali già nel primo quindicennio del XXI Secolo hanno ritenuto che non vi è alcun automatismo tra la presenza di statuizioni di condanna ai danni punitivi in una pronuncia e la contrarietà all’ordine pubblico. Soltanto qualora tale liquidazione risultasse davvero abnorme in base alle circostanze del caso di specie, i danni punitivi non potrebbero essere accettabili. Si potrebbe definitivamente accettare, pertanto, una tollerata convivenza tra funzione sanzionatoria e funzione compensativa. L’importante sarebbe attribuire il giusto peso specifico alle due funzioni: la funzione sanzionatoria dovrebbe poter intervenire in subordine, qualora quella riparatoria non fosse idonea ed efficiente in un’ottica di analisi economica del diritto. In questi casi dovrebbe abbandonarsi il criterio vittimologico per concentrarsi, piuttosto, sul danneggiante e sulla gravità della sua condotta. Le conseguenze di questa prospettiva sono molteplici. Secondo i tradizionalisti, infatti, si andrebbe incontro ad una inaccettabile modifica della fisiologia del risarcimento del danno per illecito aquiliano nei suoi connotati più profondi. Sebbene la funzione sanzionatoria debba assumere un peso minore rispetto a 17

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quella compensativa, è innegabile che in parte si prospetti un ritorno alla prospettiva penalistica. L’evento lesivo verrebbe considerato in sé, e non si guarderebbe al danno da riparare quale conseguenza specifica dell’illecito. Di conseguenza, il giudice civile assumerebbe i connotati del giudice penale, erogando dei risarcimenti che risarcimenti non sono, bensì pene con natura sanzionatoria e deterrente. Nonostante sia concesso in tal modo al giudice civile di irrogare delle pene, l’onere della prova in capo a chi chiede il risarcimento sarebbe diverso rispetto a quello che grava sul Pubblico Ministero nel processo penale. Lo standard probatorio, infatti, non sarebbe quello più elevato della regola B.A.R.D., dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio”, bensì sempre quello del “più probabile che non”. Inoltre, non si applicherebbero anche altre garanzie tipiche del processo penale, come il privilegio contro l’autoincriminazione, e così via. Tutto ciò viene giustificato in base al fatto che l’istituto trova pur sempre applicazione nell’ambito di un processo civile. Tuttavia, non può negarsi che le finalità dei danni punitivi sono proprio quelle tradizionali del diritto penale. Di conseguenza, si rimetterebbe con i danni punitivi la possibilità di richiedere al giudice civile che questo vada ad irrogare una pena nei confronti del soggetto danneggiante, rimettendo ai privati l’esercizio di potestà penalistiche tradizionalmente pubblicistiche. Ciò emerge soprattutto a seguito dell’introduzione delle c.d. sanzioni pecuniarie civili introdotte dal d.lgs. 7/2016. Le pene privatistiche irrogate dal giudice civile risponderebbero all’esigenza di rendere il diritto penale sempre più davvero una extrema ratio, in ossequio al fondamentale principio di necessità. Soltanto laddove le sanzioni civili e amministrative risultassero inadeguate, dovrebbe intervenire la pena. Ulteriore osservazione è da ricollegarsi proprio al concetto di pena. Ci si deve chiedere, infatti, se dietro ai danni punitivi non si nascondano delle vere e proprie pene, che tuttavia vengono applicate in assenza di qualsivoglia garanzia costituzionale. Sul concetto di pena è intervenuta più volte la Corte europea dei diritti dell’uomo, sancendo la concezione autonomistica degli illeciti e delle pene. Ciò che infatti viene formalmente non considerato pena dal nostro ordinamento interno, potrebbe in realtà esserlo a tutti gli effetti per l’ordinamento comunitario. I criteri per stabilire se una sanzione possa essere o meno configurata come pena sono stati enucleati nella sentenza Engel del 1976. Segnatamente, alla qualificazione “autonoma” dell’illecito penale si perviene osservando la natura dell’illecito e la gravità della sanzione irrogata. Con riferimento, invece, a quest’ultima, per stabilire se si tratti o meno di una sanzione penale si guarda alla sua riconducibilità ad una condanna per illecito penale (così come definito secondo i parametri della natura dell’illecito e della gravità della sanzione), la natura e lo scopo della misura in questione, la sua qualificazione nel diritto interno, le procedure correlata alla sua adozione ed esecuzione, nonché, infine, la sua gravità. Tra tutti questi criteri, in particolare, emerge quello che più palesemente condurrebbe a qualificare i danni punitivi come pene, ossia quello della natura e dello scopo della misura: si deve cioè verificare se la stessa abbia una funzione repressiva e preventiva e non, invece, riparatoria. Qualora, complessivamente, una sanzione venisse qualificata come penale alla luce di tali parametri, si dovrebbero estendere le garanzie convenzionali a tutela del reo, prima fra tutte il rispetto del principio di legalità. Questo è il quadro che si prospetta oggi in materia di danni punitivi, sicuramente influenzato dal passato, e che in qualche aspetto si riporta alle riflessioni di ieri. Tali riflessioni, nel tempo, si sono accatastate l’una sull’altra, creando un’enorme confusione. Non possiamo far altro che attendere il domani, quando le Sezioni Unite decideranno di rimboccarsi le maniche e fare ordine in questa vecchia soffitta. Chissà, forse trasformandola in una nuova e luminosa stanza, con arredo in stile americano. Bisogna solo provare a capire se tale arredo stonerebbe con il resto della dimora storica italiana, o se le conferirebbe un tocco di modernità positivo e funzionale.

Ottenuta a pieni voti la Laurea Magistrale presso l’Università di Bari, Francesca Solimini ha partecipato con merito al Corso di diritto Americano tenutosi presso la Southern California of Los Angeles, per approfondire la propria conoscenza dei principi di Common Law ed è autrice di articoli e contributi in materia di diritto civile e commerciale.

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Il “temporary manager”: un approccio alla risoluzione delle problematiche Aziendali a cura di.

Aldo Franzioni

Strategia Aziendale INDICE: Introduzione Quando Utilizzare il Temporary Manager; Come si deve sviluppare l’intervento di un Temporary Management; Cosa NON è il Temporary Manager (Quarta, s.d.); Temporary Manager Ideale; Inquadramento Giuridico-Normativo del Temporary Manager; Temporary Manager con rapporto diretto; Temporary Manager con rapporto indiretto; Il Temporary Management in Italia e in Europa.

Introduzione La nota seguente ha riunito in un unico documento importanti pubblicazioni, soprattutto di Maurizio Quarta e Angelo Vergani sul Temporary Management e vuole essere la nota esplicativa dei diversi aspetti di questa tipologia di approccio al mercato del lavoro. Abbiamo cercato di strutturare la nota per fornire, ad eventuali persone o aziende interessate, il maggior numero di strumenti per poter decidere se il Temporary Management può essere di utilità per lo sviluppo del loro business. Temporary Management Negli ultimi decenni si è sviluppata in Italia ed in Europa la professione di Temporary Management: attività volta ad affrontare e a risolvere problemi aziendali complessi, urgenti e difficili svolta da società specializzate che mettono a disposizione delle aziende, per un periodo definitivo, un team di manager professionisti. Angelo Vergani, in un suo recente articolo, ha definito in maniera estremamente pragmatica questo professionista: “si tratta di una figura ben precisa, non di un manager che per necessità, lavorando a tempo, a contratto, a progetto, viene definito temporary manager. Se così fosse oggi, con i cambiamenti avvenuti negli ultimi anni nelle imprese, tutti i manager sarebbero temporary, dato che praticamente sono tutti a tempo determinato, anche se sono inquadrati con contratti a tempo indeterminato”. In altre parole: I manager assunti normalmente sono già tutti a tempo. Al giorno d’oggi infatti le figure manageriali in azienda hanno un turn-over molto alto o perché si spostano di nazione o continente o cambiano lavoro o vengono allontanati o si allontanano dalle aziende. Si tratta di un profilo professionale altamente qualificato che collabora all’interno dell’organizzazione aziendale per un periodo di tempo determinato dal progetto o dall’obiettivo da raggiungere: al temporary manager vengono perciò conferite responsabilità manageriali, adeguati poteri organizzativi e decisionali, ma esclusivamente per il tempo necessario a definire o portare a termine un progetto o un’attività. Quindi, per Temporay Management (TM), si intende l’affidamento della gestione di un’impresa o di una sua parte a manager altamente qualificati e motivati, al fine di garantire continuità all’organizzazione, accrescendone le competenze manageriali esistenti e risolvendone al contempo alcuni momenti critici sia negativi (tagli, riassestamento economico e finanziario) sia positivi (crescita, sviluppo di nuovi business). Gestione significa inoltre che il manager viene dotato di tutte le opportune leve (poteri, deleghe). Il modo più corretto con cui interpretare il TM è quello di vederlo come una terza via, accanto alla consulenza e alla dirigenza tradizionale, attraverso la quale l’azienda può approvvigionarsi di risorse finalizzate a migliorare sia la propria performance che il livello delle proprie capacità 20

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di gestione. Molto spesso, per accelerare la presa di contatto con il problema e il disegno della soluzione, i manager cui si fa ricorso sono sovradimensionati rispetto all’incarico: es. per la risoluzione di un problema nell’area commerciale, inserire un manager di estrazione commerciale, ma con lo standing di Direttore Generale. Gli interventi possono riguardare situazioni di crisi oppure la gestione di fasi di transizione (crescita, innovazione tecnologica, new business, start-up, fusioni & acquisizioni, riorganizzazioni, spin-off, passaggio generazionale, ecc.). Pertanto, i T-Manager devono essere in grado di analizzare criticamente le situazioni, prendere decisioni, pianificare ed agire. Tali caratteristiche sono, o dovrebbero essere, tipiche di tutti i manager, ma in un progetto di TM sono ingigantite se non esasperate. Quindi il T-Manager è sostanzialmente un “Innovation Manager”, un "Change Manager" o un “Turn-around Manager” come vengono definiti in USA. Le prime attività dove (un vero) Temporary Management è stato coinvolto sono state storicamente quelle del Direttore Generale. È infatti in quell’ambito che si è sentita inizialmente la necessità dell’intervento di esperti abili ad affrontare e risolvere rapidamente problematiche aziendali di alta criticità. I buoni risultati ottenuti dai primi Temporary Manager a livello di Direzione Generale ha velocizzato la diffusione di questa attività allargandola anche alle altre funzioni aziendali dove si possono creare delle “criticità”: Amministrazione, Commerciale, Risorse Umane, Legale e Produzione. Ma perché un’azienda dovrebbe decidere di dotarsi di un Temporary Manager anziché di un quadro o di un dirigente? I vantaggi principali di questo approccio vanno individuati nella flessibilità garantita dal rapporto di collaborazione, quando si vuole intervenire su una funzione aziendale che una volta risollevata andrà sotto la responsabilità indiretta di un altro manager già presente in azienda, o nei casi in cui si voglia sperimentare la possibilità di internalizzare una nuova funzione in azienda senza per questo vincolarsi con l’assunzione di un manager ad hoc. In un mondo in cui le aziende richiedono una maggior flessibilità del lavoro e i professionisti si rendono conto che il contratto a tempo indeterminato ha assunto caratteristiche di maggior “temporaneità”, il Temporary Management può quindi rappresentare una soluzione reciprocamente vantaggiosa. L'impresa che adotta questa soluzione sa esattamente quanto deve spendere e i tempi d'implementazione del progetto. Alla fine il Temporary Manager (TM) esce dall'azienda senza alcun costo imprevisto per la gestione. Quando conviene Utilizzare il Temporary Manager Per una PMI la figura del Temporary Manager può essere la soluzione per avviare un progetto che richiede competenze specifiche, senza dover assumere definitivamente personale “di ruolo”; il temporary manager assumerà l’incarico e verrà temporaneamente integrato in azienda con un contratto a termine dai confini ben delineati, quanto a responsabilità, monte ore lavoro, utilizzo delle attrezzature aziendali, ecc. Quest’ultimo dettaglio è importante perché di solito il consulente è una persona che gode di una propria organizzazione imprenditoriale, con mezzi propri, contabilità personale ecc., ma soprattutto con una capacità decisionale estranea all’impresa. Il Temporary Manager può oggi configurarsi come un’azienda, ma dovrà rendere conto alla committente nei limiti del contratto di temporary management. La letteratura classifica normalmente gli interventi di TM nelle seguenti macrocategorie: • management transitorio, in cui l’intervento è richiesto per la copertura di improvvisi e non previsti vuoti manageriali; • gestione di progetti specifici; • gestione di crisi aziendali vere e proprie; • management delle competenze, ovvero necessità di introdurre in azienda, in tempi brevi e con la massima efficacia, nuovi strumenti e nuove modalità di lavoro; • gestione del cambiamento. Più nello specifico, un intervento di TM può essere utile nelle seguenti situazioni: • gestire situazioni di turnaround legati a crisi tendenzialmente reversibili; • rimettere in sesto un’azienda o una sua parte prima di procedere alla sua vendita; • pilotare e gestire un complesso processo di cambiamento, che interessi cultura, strategia e struttura 21

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aziendale; • avviare nuove attività, specie se all’estero (delocalizzazioni); • gestire l’integrazione di aziende/business di recente acquisizione; • attuare il coaching di un manager permanente; • gestire la transizione in attesa dell’ingresso di un manager permanente; • gestire con successo il passaggio generazionale; • gestire un progetto mirato, ad esempio la gestione di attività di outsourcing o l’implementazione di un sistema ERP. Esiste quindi una serie di problematiche che più di altre si presta ad essere risolta con un intervento di TM, ma il fatto che un problema si presti quasi naturalmente ad essere risolto in ottica di TM, non significa necessariamente che questo rappresenti la soluzione ideale per qualsiasi contesto aziendale. È necessario affinare ulteriormente il processo di analisi, definendo una lista dei problemi “caldi” esistenti, valutando per ciascuno di essi il costo della non soluzione (o di una soluzione tampone non ottimale) su base annua, per determinarne livello di priorità e grado di urgenza e valutare se, per ciascuno di essi, esistono soluzioni alternative. Se esistono risorse interne disponibili, ma il problema risiede nella definizione dei processi e delle metodologie più opportune, potrebbe avere senso ricorrere ad un intervento classico di consulenza direzionale. Se sono disponibili risorse interne di livello elevato e i tempi di risoluzione del problema sono “normali”, ovvero le condizioni ambientali non richiedono di imprimere alcuna accelerazione, potrebbe essere sufficiente ricorrere ad una soluzione di management di tipo permanente. In generale, la scarsità di risorse manageriali di elevata qualità e la non idoneità di soluzioni alternative sono buoni indicatori della opportunità di ricorrere ad un intervento di TM. Qual è però il livello di intervento più appropriato? La gestione globale dell’impresa oppure quello di gestione e ottimizzazione di una singola area funzionale critica per la crescita? Data la matrice tipicamente imprenditoriale delle PMI e la conseguente presenza attiva dell’imprenditore stesso e, in varia misura, di altri rappresentanti del nucleo familiare, è oggettivamente difficile che sulle scelte strategiche e sulla gestione generale si accetti di delegare in maniera sostanziale la gestione ad un manager “di passaggio”. Salvo i casi in cui una soluzione di TM venga generata da un’imprenditoria particolarmente illuminata o da pressioni esterne all’impresa (es. le banche nel caso di crediti a rischio o di concessione di finanziamenti oltre la norma, oppure un fondo entrante), l’interesse da parte delle PMI sembra concentrarsi soprattutto su interventi di natura funzionale. Con il termine sempre più usato di ottimizzazione funzionale si identificano quegli interventi di TM in specifiche aree dell’azienda le cui risorse umane “chiave” hanno in genere un’elevata anzianità aziendale e, spesso cresciute con l’azienda stessa, possono mostrarsi e sentirsi inadeguate a gestire situazioni sempre più complesse, finendo col creare momenti di tensione personale e nell’organizzazione. In queste aree particolarmente esposte alla tensione da crescita e da “raggiunto livello di incompetenza”, può rivelarsi necessario ricorrere al supporto di un manager che operi da vero e proprio coach (letteralmente: allenatore) del manager presente in azienda. In termini generali questo tipo di interventi si focalizza sui seguenti obiettivi minimi: • razionalizzazione delle modalità di gestione di una data area funzionale; • verifica dell’approccio esistente e introduzione nuovi approcci e nuovi metodi operativi; • trasferimento di nuove competenze alla struttura; • coach del manager già presente, al fine di metterlo in grado di subentrare nella piena responsabilità di gestione entro ragionevole lasso di tempo. Perché questo tipo di operazioni abbia successo è necessario avere la massima trasparenza nei confronti del manager oggetto del coaching (messaggio: l’azienda sta investendo su di te perché ha scelto te, il TM è qui per aiutarti) e salvaguardare la sua immagine e credibilità interna ed esterna. A tal fine il TM potrebbe entrare come consigliere della Direzione Generale con responsabilità progettuale su certe aree. Sono varie le aree di possibile intervento legate all’aumento della complessità gestionale: • la logistica e la gestione integrata della supply chain; • l’espansione della capacità produttiva; 22

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• • •

la costruzione di una rete vendita efficace; l’implementazione di sistemi informatici ERP; l’introduzione di sistemi strutturati di gestione delle risorse umane; • le strategie di internazionalizzazione e di delocalizzazione. Un caso a parte è quello del ricambio generazionale in cui il TM agisce come coach nei confronti dei componenti della famiglia prescelti per gestire una data area aziendale, al fine di garantire un passaggio di consegne alla generazione successiva non traumatico e di creare e rafforzare le competenze di gestione necessarie allo sviluppo organico dell’azienda. Come si deve sviluppare l’intervento di un Temporary Management Esempi sono nei settori: • chimico • agroalimentare • •

componentistica

macchinari

Questi sono solo esempi, i campi applicativi sono molti di più. Un modello di intervento di TM può essere configurato nel seguente modo: 1. Analisi e diagnosi del problema (check-up). 2. Stesura del piano operativo, discussione ed accettazione (da parte proprietà). 3. Assunzione da parte del T-Manager delle responsabilità gestionali. Il T-Manager può avere la responsabilità totale della gestione o può affiancare l'imprenditore nello svolgimento dell'attività di direzione. In ogni caso, lavora sempre in piena

“un TM qualificato trasferisce valore all’azienda soprattutto quando è incaricato di gestire progetti di innovazione e cambiamento” 23

integrazione col management aziendale. 4. Individuazione del successore ed affiancamento. 5. Passaggio delle consegne ed uscita del TManager. E’ bene precisare che non è il tempo la variabile principale che caratterizza l’intervento del TM, perché la funzione di riempimento di un vuoto non è l’unica né la più qualificante: un TM qualificato trasferisce valore all’azienda soprattutto quando è incaricato di gestire progetti di innovazione e cambiamento. Pertanto, la durata varia da progetto a progetto. Si passa da minimo sei mesi nel caso di un intervento “sostitutivo” per tamponare una “vacancy” in un’area specifica, a circa tre anni nel caso di progetti impegnativi di riorganizzazione e/o di transizione (crescita, innovazione tecnologica, new business, start-up,• fusioni acquisizioni, siderurgico auto & riorganizzazioni, spin-off, passaggio generazionale, • grande abbigliamento ecc.). distribuzione Il TM deve essere estremamente "flessibile" per potersi adattare velocemente alle varie situazioni aziendali che di volta in volta gli si presentano. Deve sapersi relazionare molto bene per coinvolgere le risorse aziendali nel "progetto". Inoltre, deve essere svincolato dal concetto tradizionale di "carriera": la sua è una "carriera"’ legata al successo dei progetti, è quindi una carriera esclusivamente meritocratica e non burocratica. Alla base del profilo di un manager “valido” è sempre necessaria un’elevata competenza "manageriale" che, di solito, è acquisita sul campo in anni di lavoro. Vi sono esempi di Top-manager oggi ai vertici di importanti gruppi quotati in borsa che hanno raggiunto la posizione di Direttore Centrale di primarie aziende (non di famiglia) entro i 30 anni, avendo alle spalle come esperienza pregressa solo quella in società di consulenza. Vi è un giovane TM (34 anni), con 10 anni di esperienze sia in azienda sia in una società di consulenza importante, che ha svolto tre progetti di TM (2 di start-up e 1 di riorganizzazione interna e riposizionamento sul mercato). Indagini svolte nei principali Paesi europei hanno evidenziato le principali motivazioni per cui le aziende ricorrono ad una soluzione di TM: • flessibilità, forse la motivazione maggiormente ricorrente, che è possibile leggere in due modi: soprattutto come possibilità di disporre di competenze di alto livello, senza alcun appesantimento dei costi fissi di lungo periodo, ma anche come necessità di lasciare aperto il maggior

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numero di gradi di libertà possibile prima di definire la soluzione di lungo periodo; • velocità nell’avviare il progetto: nella norma, in meno di due settimane è possibile far entrare il manager in azienda; • qualità del manager e della soluzione complessiva; • efficacia nel raggiungimento della soluzione ottimale al problema posto; • operatività immediata, derivante dal livello di seniority dei manager impiegati e dal loro tendenziale sovradimensionamento di qualifica; • motivazione dei manager, fortemente orientati allo specifico progetto; • nessuna complicazione ed onere legato al termine dell’incarico; • efficienza in termini di costi. Tali ricerche hanno evidenziato anche le seguenti aspettative: • spesso, l’azienda avverte l’esigenza di un servizio più che quella di un manager solo: questa esigenza viene manifestata con maggior frequenza dalle PMI che esprimono il bisogno di essere guidate e accompagnate, in forme più o meno intense, durante tutta la vita di un progetto; • un manager di grande esperienza che sappia anche essere un grande operativo e un realizzatore; • un manager che sappia integrarsi operativamente con il gruppo alla guida dell’azienda, senza mai scendere ad un eccessivo livello di familiarizzazione e omologazione con lo stesso; • direttamente legato al punto precedente: un manager intellettualmente indipendente, poco propenso alla “politica” e a fare gruppo per difendere la propria posizione o i propri interessi, e dotato di forte senso dell’obiettività; • un manager il cui senso etico sia assolutamente fuori discussione. Aziende e imprenditori, nell’approcciarsi ad una soluzione di TM, esprimono però anche alcune forme di paura e di diffidenza, legate principalmente al tema della confidenzialità e della riservatezza. Poiché il TM, per livello di seniority e criticità dei problemi su cui operare, viene frequentemente a contatto con informazioni e dati molto delicati e riservati, l’azienda, specie se piccola e di natura imprenditoriale, si pone il problema di un possibile utilizzo improprio di tali informazioni. Nella norma, ciò viene risolto da alcune clausole di garanzia (es. il manager si vincola a non operare per un dato periodo di tempo, direttamente o indirettamente, per aziende direttamente concorrenti dell’azienda cliente). Una seconda paura riguarda il livello di commitment del manager, ovvero: non è che il manager mi lascia a metà progetto non appena trova un posto a lungo termine? Si tratta di un timore legato alla concezione – ormai passata – del TM come persona impegnata su un progetto per riempire un buco durante la ricerca di un posto da dirigente tradizionale. Con opportune clausole contrattuali è abbastanza semplice proteggersi. Infine, c’è chi si pone anche la domanda: se è così bravo, perché fa il TM? Domanda per certi versi “classica”, anch’essa legata alla vecchia concezione del TM non come professione a sé stante, ma come impiego tappabuchi. Cosa NON è il Temporary Manager Nei paesi come l’Italia ove questo strumento è ancora in fase di sviluppo, è facile imbattersi in alcuni luoghi comuni che rischiano di creare confusione sia nei potenziali utilizzatori sia nei manager che si avvicinano a questa professione. Vediamo i più frequenti come indicati da Maurizio Quarta: Non è consulenza Il TM non è un consulente: il consulente consiglia e altri eseguono; il TM gestisce ed esegue. La confusione nasce per una serie di motivi: • molti consulenti tendono ad affermare di “operare nella pratica come dei temporary manager”, perché l’azienda cliente, specie se di natura imprenditoriale, segue le loro indicazioni, magari facendosi anche accompagnare nella fase realizzativa. L’elemento differenziante sono le deleghe operative di cui il manager dispone per gestire il progetto e raggiungere gli obiettivi definiti e che normalmente un consulente non ha; 24

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è vero che in alcuni casi il TM opera con un rapporto di collaborazione professionale e quindi con la veste formale di consulente; non va però confuso l’aspetto contrattuale con l’aspetto sostanziale dei contenuti dell’incarico e delle competenze richieste al manager, ovvero poteri/deleghe e capacità di esecuzione; • il TM non è alternativo alla consulenza, è semplicemente una professione diversa, che richiede a sua volta attitudini, motivazioni e competenze diverse da quelle normalmente identificabili in un consulente; • esiste infine un sottile legame tra TM e consulenza: spesso, un intervento di TM segue un intervento di consulenza, svolto da altri, nel quale sono state identificate e definite una serie di azioni da intraprendere per raggiungere un dato obiettivo: il temporary manager diviene colui che implementa quanto suggerito dal consulente, il quale a sua volta può affiancare il TM. In alcuni casi, l’intervento stesso di TM viene preceduto da un intervento di tipo consulenziale da parte della società di TM, finalizzato ad identificare le leve critiche su cui l’intervento stesso dovrebbe operare. Non è lavoro interinale Al di là di possibili analogie di natura giuridica, il lavoro interinale opera su figure professionali generalmente di profilo più basso e, quindi, con logiche totalmente differenti: non è infatti casuale che a tutt’oggi i maggiori operatori nel settore del TM provengano dalla consulenza e/o dalla ricerca di manager di alto livello. E’ una professione full time, non un riempitivo tra due lavori Molti manager in situazione lavorativa precaria si avvicinano al TM con questa idea; il TM però rappresenta la soluzione umana ad un problema di business e non la soluzione di business ad un problema umano. Il vero TM è colui che opera come un vero imprenditore di se stesso, attento e capace a gestire alcune leve basilari di successo, quali • il marketing di se stesso, • lo sviluppo attento di una propria rete di relazioni, • l’autoformazione costante. In concreto: in una fase di mercato ancora nascente, è possibile che il TM, insieme a risolvere il problema di business, risolva anche un problema umano, ma se il manager non mette in atto i cambiamenti richiesti, rischierà di essere emarginato sia dal mercato della dirigenza tradizionale sia da quello emergente del TM. Non è mestiere da “manager alla ricerca di un lavoro” Il TM è una professione dai contenuti particolarmente elevati e richiede manager dotati di elevate qualità professionali e personali. Se essere licenziati è oggi un fatto “più normale” che in passato, che può capitare spesso per motivi totalmente slegati dalla qualità del proprio lavoro (fusioni, acquisizioni, rottura con l’imprenditore, ... ), ciò che crea la differenza e le premesse per una rinascita professionale è il modo in cui un fatto, comunque traumatico, viene vissuto e metabolizzato. E’ ad esempio la ricerca di nuove sfide intellettuali che spinge manager che hanno già operato come Direttori Generali a confrontarsi con incarichi di tipo specialistico/funzionale, senza alcun problema di demotivazione o di accettazione dell’incarico come extrema ratio: si tratta di manager che vendono know how, che sono ben pagati per questo (a livello di Direzione Generale nel caso considerato) e a cui non interessa più una carriera di tipo tradizionale, cha hanno già svolto con successo e a cui hanno poco altro da chiedere. Non è mestiere solo per manager in fine di carriera Dalle esperienze europee emerge come sia in atto un movimento di progressiva diminuzione dell’età di coloro che valutano seriamente il TM come una possibile opzione professionale: il fenomeno è rilevabile in Francia, come in Germania, come in Inghilterra. Per quanto riguarda l’Italia, si possono solamente fornire alcune piccole evidenze: • già oggi molti giovani manager di successo, nella fascia d’età 30-35 anni, mostrano reale interesse per questo tipo di professione; • su progetti di un certo respiro temporale (2-3 anni) operano già manager di circa 40 anni, ovviamente 25

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a fronte di progetti stimolanti dal punto di vista dei contenuti e sostenuti da un adeguato pacchetto economico. Non è professione per tutti i manager Essere stato un manager di successo è condizione necessaria, ma non sufficiente per diventare un buon temporary. è’ un problema di competenze specifiche, ma anche di caratteristiche psicologiche e personali, non ultima la capacità di gestione dello stress. Non solo: nel caso di interventi di TM assume particolare rilevanza il profilo etico del manager, in quanto, dati i tempi spesso brevi dell’intervento, la delicatezza delle aree da toccare e il livello di sensibilità delle informazioni con cui un Temporary Manager può venire a contatto, assai gravi possono essere i danni provocati da manager che perseguano propri obiettivi personali. Temporary Manager Ideale Quale è il profilo del Temporary Manager Ideale: • deve aver avuto esperienze “significative” (non brevi) sia in aziende strutturate (fino alle multinazionali) che in aziende padronali; • possedere una profonda professionalità manageriale in almeno una delle aree aziendali fondamentali e conoscere bene le altre; • avere capacità di networking per trovare soluzione alle problematiche aziendali e prendere al volo le opportunità; • avere una forte leadership ed essere capace di motivare e coordinare gli altri manager; • essere propenso a capire l’azienda in cui si trova, portare le proprie esperienze adattandole alla realtà dell’azienda stessa; • essere un Team Leader con una fortissima capacità di lavorare in gruppo; • essere in grado di capire che il tempo a sua disposizione è limitato e concentrarsi su come arrivare agli obiettivi definiti nel tempo concesso. Essere cioè capace di una rapida analisi, di sviluppare soluzioni e poi di implementarle nel rispetto dei tempi e del budget. Inquadramento Giuridico-Normativo del Temporary Manager In Italia non esiste una definizione giuridica del fenomeno del temporary management, nonostante la rilevanza solo socio-culturale, di conseguenza non si ha una tipizzazione normativa della figura del Temporary Manager. Per gestire ed inquadrare la figura del TM occorre 26

ricorrere alle categorie giuridiche attualmente previste dall’ordinamento, in particolare dalle norme giuslavoristiche, in relazione alle caratteristiche concrete con cui si manifesta il rapporto o la relazione. Temporary Manager con rapporto diretto Quando si instaura un rapporto diretto tra il TM e l’azienda committente, le categorie a cui si può far ricorso sono le seguenti: • contratto di lavoro subordinato a termine; • contratto di lavoro parasubordinato (contratto a progetto, mini collaborazioni, collaborazioni); • contratto di lavoro autonomo. Temporary Manager con rapporto indiretto Si ha un rapporto indiretto quando il contratto che regola le prestazioni del temporary manager vede come soggetti principali l'azienda committente ed un soggetto terzo, diverso dallo specifico TM che opererà in azienda, configurandosi così una sorta di triangolazione. Questo fenomeno trova un inquadramento giuridico nell'Associazione in partecipazione e nella somministrazione di lavoro. In realtà nel panorama nazionale si riscontra più frequentemente l'esistenza di società di consulenza che stipulano questi accordi, al di fuori degli schemi normativi sopra citati. Dal punto di vista giuridico, qual è la differenza fra il temporary manager e il consulente esterno? Per comprenderlo basta ricondurre la questione alla differenza che passa tra il manager di un’azienda e un consulente: entrambi sono persone professionalmente molto preparate nel proprio settore di competenza, ma il primo è integrato nell’organizzazione aziendale — con ruoli e competenze, ma soprattutto con responsabilità anche di risultato — il secondo invece è esterno all’organizzazione aziendale, spesso ne ha una propria e offre appunto “consulenza” che l’azienda richiedente può tenere in considerazione o disattendere, senza perciò alterare la propria struttura dirigenziale e organizzativa. Il Temporary Management in Italia e in Europa Riportiamo di seguito i risultati di un’indagine internazionale sul Temporary Management condotta da SMW di Maurizio Quarta su una popolazione di oltre 3.000 manager in 12 paesi (11 europei, tra cui l’Italia, oltre alla Cina).

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Il profilo medio del Temporary Manager è quello di una persona di 53 anni con almeno 3 anni di esperienza come TM, con un utilizzo medio di circa 200 giorni all’anno. Utilizzo: Il TM è stato utilizzato nel 50% dei casi in operazioni di ristrutturazione aziendale, con un’incidenza particolarmente elevata nelle fasce dimensionali medie (20-100 milioni), con punte di oltre il 65% . Significativi anche i progetti relativi all’internazionalizzazione (25% per le aziende più grandi) e al passaggio generazionale (15%) e a tematiche di delocalizzazione (33% per la classe 20-50 milioni). Età : E’ una professione per over 50 ... In Italia, oltre il 78% dei TM intervistati ha più di 50 anni. Gender: Quasi per soli uomini ... In Italia i TM rosa sono solo l’8% mentre in altri paesi come l’Inghilterra, la Cina e la Polonia sono oltre il 30%. Esperienza: L’Italia è un paese giovane per questa attività ... oltre il 59% dei TM italiani ha meno di 4 anni di esperienza e solo il 22% più di 10. Giorni medi lavorati in un anno: In Italia la media di giorni lavorati in un anno per un TM è di 100 giorno meno della metà di quelli di un inglese o tedesco che supera i 200. Percezione del mercato: Il mercato è visto in crescita dai TM italiani e stabile da quelli europei mentre, per quanto riguarda i compensi, si registra in Europa un calo dovuto all’alto numero di manager che negli ultimi anni hanno intrapreso questa attività. Aree di Competenza: Il grafico che segue mostra la percentuale di utilizzo del TM nelle diverse aree societarie.

portato ad un incremento di ruoli di primo riporto funzionale: se infatti nel 1995, ben il 60% dei progetti riguardava ruoli di Direzione Generale, oggi tale percentuale è scesa al 14%, con punte del 33% nella classe 20-50 milioni. Per quanto riguarda le singole funzioni, prevalgono ruoli legati alle Operations (29%), alle Risorse Umane (7.8%) e alla finanza (23.9%). L’area Commerciale, gettonatissima nel 1995 con il 53%, è scesa oggi sotto il 21%. Dimensione Aziendale : Le PMI fino a 50 milioni di Euro rappresentano quasi il 50% delle società che utilizzano i TM.

Durata dei progetti: La tendenza è di richiedere la presenza di TM per lavori oltre i 9 mesi e questo si riflette sul grafico successivo che indica il numero medio di incarichi per TM negli ultimi 3 anni. Oltre il 60% ne ha avuti solo 1 o 2.

Per quanto riguarda le aree di utilizzo, il maggiore interesse da parte di aziende grandi ha 27

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Compensi: Gli italiani vengono compensati mediamente meno dei colleghi stranieri: 600800 €/giorno per oltre il 42% dei TM italiani intervistati mentre negli altri paesi la percentuale è sotto il 30%. Oltre il 50% dei TM tedeschi e svizzeri guadagni oltre 1,200 €/giorno.

Soddisfazione delle aziende: Il livello di soddisfazione delle aziende è in generale alto: positivo il parere nel 90% dei casi (di cui il 62% in area di forte positività) con un picco assoluto del 100% nelle micro aziende. Necessita invece di una seria riflessione il non basso livello di insoddisfazione nella fascia 5-20 milioni, per lo più di aziende di natura familiare, che supera il 30%. Il dato richiede un approfondimento. Sicuramente il problema non sta nella cattiva comprensione del TM e delle sue finalità: per l’impresa familiare è soprattutto un mezzo per portare in azienda competenze di elevato profilo, altrimenti difficilmente accessibili, a costi certi. Il problema sorge, invece, quando si tratta di mettere in essere le condizioni “ragionevolmente ottimali” per avviare un progetto (es. le deleghe al manager o il consenso dei soci operativi). Questo perché ci si scontra con la “pancia” dell’imprenditore, che spesso ne contraddice la “testa”. A ciò si aggiunga che le PMI sono in Laureato in Matematica pressp l’Università, docente e seminarista, Aldo Franzioni ha reso la propria attività di consulenza manageriale in Italia (Gruppo Olivetti) e negli Stati Uniti, ed ora riveste il ruolo di Temporary Manager e consulente aziendale in qualità di socio di Internazionalizza Srl. www.internazionalizza.com 28

genere poco abituate a “comprare” manager e temporary manager in particolare. Dall’altra parte, si è riscontrata spesso la difficoltà, da parte di manager di grande esperienza e seniority, ma vissuti prevalentemente in ambiti grandi e di matrice internazionale, ad interfacciarsi con le dinamiche relazionali proprie di realtà soprattutto imprenditoriali. Non è casuale che in questa fascia di aziende i problemi maggiormente segnalati siano la difficoltà di rapporto con il vertice (42%) e il mancato raggiungimento degli obiettivi (57%). Per questa tipologia di aziende, al fai-date spesso praticato sarebbe forse preferibile l’accompagnamento da parte di una società specializzata, proprio per ovviare in partenza ai problemi sopra evidenziati. In maniera del tutto consequenziale, la propensione al riutilizzo è molto alta nelle aziende medio grandi (dal 67% all’88% in quelle più grandi, con una quota di indecisi, ma nessuno contrario a nuovi progetti qualora se ne presentasse l’occasione). Diversa la situazione nelle medio-piccole, dove i NO al riutilizzo viaggiano intorno al 30%. Aspettative delle aziende: L’aspettativa più rilevante (66% con punte del 72%) è legata all’esperienza e alla professionalità di cui il temporary manager è generalmente portatore, ciò che include anche l’aspetto etico legato ai temi della riservatezza e dei comportamenti messi in atto. Di particolare rilevanza anche la conoscenza specifica dei problemi oggetto del progetto (è indispensabile averli già affrontati, magari in contesti più ampi e complessi) e la rapidità ed efficacia dell’azione, questo specie per le aziende di grandi dimensioni (con il 54%). Stranamente poco rilevante il tema flessibilità, che nel 1995 risultava uno degli elementi fondamentali. Il TM viene ritenuto preferibile rispetto ad altre soluzioni soprattutto nei casi di crisi (57% con punte dell’80%), gestione di progetti specifici (65%, con punte dell’80% trasversale sulle varie classi dimensionali) e passaggio generazionale (47%) seguito dalle tematiche di internazionalizzazione (37%).

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Corporate social responsibility and abuse of Human Rights by Corporation a cura di Franki Fana

Diritto Internazionale e diritti dell’Umanità

“one

of the most important contemporary debates in the field of corporate governance and social responsibility is protection of human rights by corporations”

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In the past two decades, corporate social responsibility and regulation of corporate liability in cases of abuse of human rights, have gained an ever increasing attention within academic and regulatory discussions around the world. On one hand, legislation of many countries are able to have corporations subject to sanctions for abuse of human rights, by using the agency relationship concept; while on the other hand, some may find some inevitable doubt about the identification of corporate consciousness, when it comes to liability. Corporations, as a creation of law, hamper the traditional way of finding guilty conscience, as they effectively hinder the application of norms, aimed at improvements of a somewhat moral nature. While it remains true that the economic fortunes of many countries, are indeed associated with the business conducted by corporations, there has been an increasingly more evident tendency to foster initiatives for better corporate social responsibility, beyond minimal protective provisions provided by various lexspecialis, such as labor law, environmental law, consumer protection law, etc. One might even argue that it is the duty of corporate law itself to identify and protect corporate stakeholder groups, rather than focus simply on the protection of the interests of shareholders. In this context, there has been an evident shift from conceptualizing corporations as merely profitmaximizing entities that ultimately serve the best interest of shareholders, towards considering them as serving a social function, aimed at maximizing the welfare of other corporate stakeholder groups, such as employees, consumers, creditors, the local community and so on. As stipulated at the introduction of this paper, one of the most important contemporary debates in the field of corporate governance and social responsibility is protection of human rights by corporations. Relaunched with more force than ever, the debate is often encountered in the US, especially after the onset of the financial crisis in 2008. The discussions on corporate social responsibility in USA Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali – lug. 2017


date way back. Since the early twentieth century, in the seminal work of Berle & Means “The Modern Corporation and Private Property,” the discussion about modern corporate ownership was of such nature, as to enable the recognition of the interests of stakeholders, like employees or creditors. American corporations began to apply various measures aimed at treating corporate stakeholder groups in a better way, often causing debate about the very purpose of a corporation. Within this framework, US corporations were also increasingly found liable for abuse of certain fundamental human rights, during their business activity. For instance, when it comes to the principle of nondiscrimination, despite the belief that the US is a classic example of a developed democracy, cases of abusive discriminatory corporate behavior have been quite frequent. One such practice referred to in corporate literature as “glass ceiling”, (meaning a policy according to which various categories of employees, such as women, for instance, are stopped by an “invisible” barrier from being promoted, or being given bonuses or other corporate perks,) has been a rather frequent US corporative practice. Furthermore, with regards to other human rights, such as for instance, guaranteeing freedom of expression, which is protected from the First Constitutional Amendment in the US, there has been a vivid discussion in the US, about cases of corporate violation of freedom of expression of individuals employed in a corporation. One such case refers to the case of A. Smith, a CFO of Vante Corporation, which engaged in some public comments against another corporation, accusing it of homophobic practices. After such public comments, Smith was fired from Vante Corporation, despite the fact that his freedom of

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expression was guaranteed by the First Constitutional Amendment and this guarantee is applicable even in cases when such violation does not come from abuse by a public authority, but rather by a private entity, such as a typical commercial company. Another publicized US example of abuse of human rights by corporations, refers to the case of FIFA`s forced evictions of individuals from their homes or commercial stores, its labor rights abuses, as well as infringement of the right to protest. Other companies, such as Gap Inc., for instance have been at the center of attention for refusal to sign a fire safety ordinance, refusal to compensate victims’ families, workers’ rights violations, as well as unsafe building conditions. Meanwhile, another famous corporation, such as McDonald`s, has been accused for limited (and relatively non-transparent) environmental policies, unethical marketing to children and lack of willingness to reform worker wages, while the famous designer company Ralph Lauren has been known for unsustainable sourcing of raw materials in viscose fibers; deforestation; environmental damage; human rights abuses; lack of consumer transparency; increasing CO2 foot-print and cultural appropriation. Lastly, another publicized case refers to the case of Vattenfall Corporation, accused for destruction of the environment and local communities, political manipulation and legal abuse of international treaties.

Graduated at the University of Law of Tirana, in Albania, Franki Fana is active in the field of Criminal and Commercial Laws. www.internazionalizza.com

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Incontriamo Marcello Mattioli, Presidente di Corvi Consulting Srl, azienda all’avanguardia nella consulenza marketing a social media A cura di

Redazione Rivista delle Imprese

“Il futuro della comunicazione è già iniziato” Incontriamo oggi Marcello Mattioli, Presidente di Crovi Consulting Srl, agenzia di consulenza marketing e comunicazione con base a Reggio Emilia e che opera nel centro-nord Italia, dal quale vogliamo farci raccontare quali novità presenta il mercato del “social marketing”, a cominciare dalla come l’azienda che rappresenta ha deciso di puntare su innovative piattaforme di analisi dei Social Media per rivoluzionare il modo di comunicare delle aziende. “Analisi e indagini di mercato, dei competitor e del settore, piani di comunicazione integrata, campagne pubblicitarie, creatività e grafica sono alcuni dei servizi più tradizionali offerti dall’agenzia. Siti web, ecommerce, SEO, SEM e Social Media Marketing rappresentano invece l’anima digitale e fortemente innovativa dell’azienda che conta 15 dipendenti. Nell’ottica di un ulteriore sviluppo e per offrire un servizio ancora più efficace alle aziende abbiamo investito in ulteriori nuovi strumenti all’avanguardia. Immaginiamo di dover acquistare la nostra prima casa e, per l’emozione, di condividere questa importante tappa con gli amici di Twitter e di Facebook in un breve post. Immaginiamo anche che, immediatamente dopo, ci appaia sul nostro smartphone un messaggio inviato da una banca che ci consiglia le migliori condizioni per 31

Le interviste di Rivista delle imprese. iMprenditori di successo.

Marcello Mattioli Presidente di Crovi Consulting Srl

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accendere un mutuo e la possibilità di fissare un appuntamento. Ma se vogliamo cambiare scenario possiamo immaginarci al concerto del nostro gruppo preferito, dove condividiamo, su Twitter, le immagini e i commenti della serata. Ecco che ci arriva un tweet in cui ci viene augurata buona serata e che ci rimanda alla pagina dello sponsor dell’evento in cui trovare informazioni utili per la viabilità di fine concerto o un link diretto all’acquisto del merchandising.

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Quello che avete appena letto è solo un esempio di quanto è in grado di fare un nuovo sistema automatizzato di social marketing. Geniale, vero? Tutto questo oggi è realtà. Le aziende possono accedere ai dati generati sui social, per sfruttare appieno il volume di interazioni, dati demografici e analisi degli argomenti di Facebook e Twitter in una modalità sicura per la privacy e a costi per contatto particolarmente contenuti. Una novità assoluta per l’Italia che realizza un importante vantaggio strategico e permette alle aziende clienti di aggiungere nuove dimensioni per le loro campagne di marketing e di brand awareness. Non solo: il meccanismo previsionale funziona come un sistema di interpretazione automatica basata su condizioni di “Natural Language Processing” che, grazie a elementi di “Artificial Intelligence”, è in grado di snellire il processo decisionale automatizzando la categorizzazione di interazioni in entrata. Una soluzione realmente innovativa che permette a Crovi Consulting, grazie all’esperienza consolidata nell’elaborazione e nella gestione di strategie e piani di Social Media Marketing per i Clienti insieme ad un’attenta interpretazione strategica dei dati forniti dagli strumenti tecnologici, di garantire risultati certi, misurabili e una sensibile riduzione dei costi per contatto. Il modo migliore per rispondere, fin da oggi, alle sfide del futuro della comunicazione”.

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Laureato in Comunicazione e Marketing, Presidente di Crovi Consulting, Marcello Mattioli è altresì Presidente dei Giovani Imprenditori CNA Reggio Emilia, Membro della Presidenza regionale e Vicepresidente dei Giovani Imprenditori CNA. Oltre a ciò, riveste la carica di Presidente di Laura Onlus, associazione di volontariato che attraverso il progetto 'Sport for Children' raccoglie fondi per aiutare i bambini delle famiglie in difficoltà a frequentare un anno di sport a scelta. Primo coordinatore di Cna Digitale e Membro della Consulta Giovani Imprenditori e Professionisti della CCIAA di Reggio Emilia. www.croviconsulting.com

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Sul divieto di patto leonino oggi A cura di

Jacopo Lucchiari

Diritto Commerciale

“Aristo refert Cassium respondisse societatem talem coiri non posse, ut alter lucrum tantum, alter damnum sentiret et hanc societatem leoninam solitum appellare: et nos consentimus talem societatem nullam esse, ut alter lucrum sentiret, alter vero nullum lucrum, sed damnum sentiret: iniquissimum enim genus societatis est, ex qua quis damnum, non etiam lucrum spectet”1. Già il giureconsulto romano Ulpiano sosteneva l’invalidità (“non sentimus talem societatem nullam essem”) della societas leonina, ossia di una società nella quale un socio cui è riservata una sia pur parziale sopportazione delle perdite viene escluso totalmente dalla partecipazione agli utili. A continuare quest’antica concezione del diritto romano si erge a baluardo, col codice civile del 1942, l’art. 2265, che recita: “È nullo il patto con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite”. Con le riflessioni contenute in questo elaborato non si vuole tanto ricalcare l’aspetto storico del divieto di patto leonino1, né concentrarsi particolarmente su alcune rilevanti clausole, come quelle di put and call, in relazione alle quali illustre dottrina ha riflettuto circa la loro configurabilità quali clausole in frode alla legge, o quali “patti leonini mascherati” 1. Si vuole piuttosto riflettere sulla logica che ha ispirato il legislatore nello scrivere questa norma, che, come vedremo, è una logica di diritto pubblico più che di diritto privato, e su alcune recenti sentenze della Corte di Cassazione e dei giudici di merito sul tema. Ma prima di addentrarci nella disamina si consideri la natura della norma in questione. PREMESSE TEORICHE A detta di illustre dottrina 1 la ratio del divieto di patto leonino, a cui 33

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secondo alcuni 1 sarebbe applicabile il rimedio canonico della laesio enormis1, solo in una prima fase era da ravvisarsi nella volontà del legislatore di arginare fenomeni di prevaricazione sopraffattoria di un socio nei confronti degli altri, in collegamento al problema della ricaduta in fenomeni di usura, mentre con la formulazione dell’art. 2265 del codice civile del 1942, il legislatore ha voluto semplicemente sancire il divieto di questo patto in quanto contrario alla natura stessa del contratto di società, che è definito dall’art. 2247 come “il contratto con cui due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili”. Ebbene credo che, ragionando sul tipo di interesse protetto dalla norma, si possa propendere più per la natura di norma antisopraffattoria, ancora oggi, del divieto di patto leonino. Appare infatti evidente come l’interesse protetto dalla norma non sia tanto un interesse privatistico, come quello che il legislatore protegge disciplinando ad esempio l’azione di riduzione in materia successoria, o la revocazione delle donazioni, o l’azione revocatoria, ma un interesse pubblico, di ordine pubblico, in particolare di ordine pubblico economico, assimilabile all’interesse che il legislatore protegge disciplinando il fallimento e le altre procedure concorsuali. Questo si può affermare se si pensa che qualora uno o più soci fossero esentati da partecipazioni agli utili o alle perdite, questo comporterebbe non solo uno stravolgimento degli equilibri intrasocietari, ma anche dei mutamenti sul quadro economico generale, in quanto ciò determinerebbe un cambiamento nelle scelte di politica economicoproduttiva della società. Così ad esempio, se fosse pattuito che alcuni soci siano esenti da partecipazione alle perdite, una società specializzata ad esempio nel tessile, potrebbe decidere di produrre meno, nel timore che le merci restino invendute, senza che di ciò ne possano risentire negativamente alcuni soci, oppure, se è stabilito che alcuni soci si occupino della produzione di cappelli, e altri, esentati dalla partecipazione alle perdite, della produzione di cravatte, la società potrebbe essere indotta a diminuire la produzione di cravatte, per analogo motivo, con conseguente possibile stravolgimento del rapporto domanda-offerta. Di più, si potrebbe dire, argomentando sulla base dell’art. 41 Cost., che l’interesse all’ordine del mercato è un interesse tutelato costituzionalmente, incontrando in particolare il limite dell’ “utilità sociale” di cui al secondo comma dell’art. 41 Cost. stesso. Si vuole anche citare un’opinione autorevole, con cui si concorda, secondo la quale non viola la normativa dettata dal legislatore in materia di divieto di patto leonino, l’esclusione del socio dagli utili/perdite, se è del pari esclusa la sua partecipazione alla formazione della volontà sociale 1C’è poi chi1 ravvisa nella norma del divieto di patto leonino, un limite di natura equitativa posto dalla legge all’autonomia contrattuale al fine di “colpire l’eccessiva sproporzione tra le pattuizioni”; chi poi1 sostiene che secondo la logica dell’art. 2265 c.c., sarebbe nullo ogni patto di riparto di utili e perdite che riveli “una sproporzione di carattere draconiano” fra i soci. A chi1 poi sostiene illogica la sanzione della nullità prevista dal legislatore, in quanto, anche qualora l’intento di quest’ultimo fosse stato, in una logica antisopraffattoria, l’evitare che certi soci prevarichino sugli altri, il rimedio all’uopo necessario sarebbe la risoluzione, secondo le normali regole in tema di contratti, si vuole

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“qualora uno o più soci fossero esentati da partecipazioni agli utili o alle perdite, questo comporterebbe non solo uno stravolgimento degli equilibri intrasocietari, ma anche dei mutamenti sul quadro economico generale, in quanto ciò determinerebbe un cambiamento nelle scelte di politica economicoproduttiva della società”

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replicare evidenziando la peculiarità del contratto di società, nel suo aspetto di creazione di un’organizzazione destinata ad operare nel mondo economico. Del resto, stante l’opinione di tale autore, illogica sarebbe anche la norma dettata in tema di nullità delle società per azioni (art. 2332 c.c.), mentre si vuole invece evidenziare l’illogicità dell’applicazione delle normali regole in materia di nullità dei contratti, assolutamente inadeguate per la dichiarazione di nullità di un atto che ha dato vita ad una struttura complessa, con impegno di mezzi e di capitale, con lavoratori dipendenti, con dei macchinari, ecc. Un problema implicito nella norma è sicuramente l’incerto confine del divieto del patto leonino. Così ci si potrebbe chiedere se un patto parasociale con cui si stabilisce che un socio sia tenuto in minima parte alla partecipazione degli utili o/e delle perdite sia da qualificarsi come patto leonino. Personalmente si concorda con queste tesi, che non sembrano altro che avvallare la natura equitativa – antisopraffattoria della norma. La risposta che credo si debba dare è positiva, dal momento che come una compravendita in cui sia stabilito un corrispettivo irrisorio o simbolico è da qualificarsi come donazione, così un patto in cui sia stabilita una partecipazione per esempio agli utili in misura del 2 o del 5%, dovrebbe qualificarsi come leonino. In relazione a quest’ultima ipotesi, non sembra irragionevole il rimedio della rescissione per laesio enormis, nella denegata ipotesi che il giudice non qualificasse un detto patto come leonino e non applicasse dunque la più severa sanzione della nullità. Infatti la rescissione, lungi dall’essere un rimedio che si applichi solo ai casi in cui il legislatore lo prevede, sembra, in considerazione della visione ampia che ne fece la giurisprudenza romana e canonica, ma tutto sommato anche il nostro legislatore 1,

“… come una compravendita in cui sia stabilito un corrispettivo irrisorio o simbolico è da qualificarsi come donazione, così un patto in cui sia stabilita una partecipazione per esempio agli utili in misura del 2 o del 5%, dovrebbe qualificarsi come leonino …”

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un rimedio di portata generale e suscettibile di applicazione analogica per tutte quelle ipotesi in cui vi sia la eadem ratio, ossia la necessità di sanzionare prevaricazioni, abusi di potere e iniquità, sia in materia contrattuale che non contrattuale. Una soluzione alternativa, per casi in cui sia prevista una partecipazione del socio agli utili o/e alle perdite i misura irrisoria o simbolica è data da chi1 sostiene che in questo caso si dovrebbe applicare la norma dell’art. 1419 c.c., dettata in tema di nullità parziale. Il problema, qualora si volesse fare applicazione di tale norma, starebbe a quel punto tutto nel comprendere se la singola clausola incriminata abbia o meno importanza essenziale; e per fare ciò il giudice deve capire a fondo quello che i contraenti hanno voluto, l’id quod actum est, secondo le regole in tema di interpretazione del contratto. Altri problemi teorici si potrebbero poi ingenerare circa la portata del divieto di patto leonino. Se ne considerino per il momento solo alcuni. Il primo consiste nel chiedersi se la norma dell’art. 2265 c.c. sia applicabile anche alle società in mano pubblica. La risposta dovrebbe essere affermativa se ragioniamo a fortiori. Infatti se già il legislatore si è preoccupato di disciplinare questi patti in relazione a società in mano a privati, a maggior ragione l’interesse pubblico alla tutela dell’ordine economico dovrebbe essere tanto maggiore in quanto la società sia gestita o partecipata dallo Stato o altro ente pubblico. Il secondo è il seguente: sarebbe valido un patto con cui si stabilisca che un socio, pur partecipando agli utili e alle perdite, sia esentato dai conferimenti? La risposta dovrebbe essere negativa e credo si dovrebbe applicare anche in questo caso la sanzione della nullità, parimenti a quanto prevede la norma sul divieto di patto leonino. Riprendendo infatti la dottrina che sostiene che la ratio del divieto di patto leonino è coerente con il contratto di società, nel senso che è la stessa norma dell’art. 2247 c.c. a negare la configurabilità di una società in cui alcuni soci siano esclusi dalla divisione degli utili (e dunque anche delle perdite), si deve concludere che sarebbe parimenti inammissibile un patto che escludesse il socio dall’obbligo di versare i conferimenti, dal momento che il contratto di società prevede che due o più persone conferiscano beni o servizi. Infine un terzo problema può così essere formulato: è applicabile il divieto dell’art. 2265 c.c. a una società non iscritta nel registro delle imprese, ossia ad una società occulta? E ancora, e ad un’impresa illecita, come una società volta allo spaccio di droga, sarebbe applicabile la norma del divieto di patto leonino? Queste due ipotesi hanno qualcosa in comune: in entrambi i casi siamo di fronte a società costituitesi in contrarietà alla legge. La risposta

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al problema è forse che questo non ha nemmeno ragione di porsi. Infatti qui siamo al di fuori del mondo della legalità, sicchè se anche ammettessimo l’applicabilità del divieto di patto leonino, nessuno ne potrebbe garantire l’effettività, tanto più nel contesto di un’attività in comune organizzata contra legem. Ancora, alla medesima soluzione si potrebbe arrivare in relazione al quesito, se sia applicabile la norma sul divieto di patto leonino, ad esempio, ad una s.p.a. che, in violazione dell’art. 2329 c.c., non abbia ottenuto una licenza che ne consenta l’esercizio. Altro problema consiste nel chiedersi: e se lo statuto o un patto parasociale prevedesse che in presenza di un patto leonino il socio anziché vedersi dichiarare la nullità del patto, possa recedere? Sarebbe valida tale pattuizione? La risposta credo debba essere positiva, dal momento che, come in conseguenza alla dichiarazione di nullità del patto leonino il socio avrebbe diritto, secondo le comuni regole di diritto privato, alla restituzione del conferimento, così credo che la tutela offerta dalla norma sul recesso da società per azioni (che si potrebbe in questo caso applicare anche alle società di persone, sostituendo il termine “azione” col termine “quota”, e visto che, come dice in tema di società di persone l’art. 2263 c.c., “le parti spettanti ai soci nei guadagni e nelle perdite si presumono proporzionali ai conferimenti”) si paleserebbe come tutela equivalente. Un ultimo problema, che trova spunto peraltro in una sentenza della Corte di Cassazione, come si vedrà, è il seguente: è ammissibile un patto con cui, per rivalere il socio di una minima partecipazione agli utili o/e alle perdite, gli si conferiscano più ampi diritti amministrativi? Per rispondere al quesito bisogna capire se in tema di divieto di patto leonino è applicabile una qualche forma di compensazione. La risposta dovrebbe essere negativa stante l’imperatività ed inderogabilità della norma dell’art. 2265 c.c.

“…è ammissibile un patto con cui, per rivalere il socio di una minima partecipazione agli utili o/e alle perdite, gli si conferiscano più ampi diritti amministrativi? Per rispondere al quesito bisogna capire se in tema di divieto di patto leonino è applicabile una qualche forma di compensazione. La risposta dovrebbe essere negativa stante l’imperatività ed inderogabilità della norma dell’art. 2265 c.c.…”

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ANALISI DI ALCUNA GIURISPRUDENZA IN MATERIA DI PATTO LEONINO 1.La giurisprudenza penale Nonostante le più importanti sentenze della Corte di Cassazione in materia di patto leonino siano abbastanza datate 1, sono rilevanti alcuni interventi della Cassazione civile e penale, nonché dei giudici di merito, compiuti in anni più recenti. Partendo da due sentenze della Corte di Cassazione, la prima del 2013 1 e la seconda del 2007 1 , è possibile ricostruire un interessante rapporto tra patto leonino, impresa illecita e delitto di estorsione. Infatti da queste due sentenze sembra ammissibile il divieto di patto leonino anche nel quadro di un’impresa illecita (addirittura un’associazione a delinquere). Partiamo dalla sent.17979 del 2013. In questa pronuncia la Suprema Corte si trova a dover trattare un caso di associazione a delinquere di tipo mafioso (art. 416 bis c.p.). La cosca Iamonte esercitava, come scrive la Corte “una indiscussa egemonia criminale sul territorio di sua “competenza”, gestendo o controllando, in particolare, l’attività di allevamento, trasporto e macellazione dei bovini e le conseguenti attività di distribuzione di carne alle macellerie”. Ci si potrebbe addirittura chiedere, stante quello che scrive la Suprema Corte, se non si possa fare qui applicazione della nozione di “controllo” ex art. 2359 c.c. e se la norma del codice civile non vada riscritta precisando ad esempio “controllo con fini leciti”,

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anche se questa non è la sede per approfondire quest’argomento, sicuramente interessante. Continua la Corte dicendo che, ottenuta la proprietà reale di alcune macellerie (formalmente fatte intestare a prestanome), “I.A. ricavava introiti da tali attività “sotto copertura”, non esitando ad accettare anche carne proveniente da animali di non accertata salute e comunque di non chiara origine, animali anche provvisti di certificazione e segni distintivi contraffatti, ovvero di pertinenza di altri capi di bestiame”. Prosegue la Corte al punto 2.1 della ricostruzione dello svolgimento del processo di primo e secondo grado, affermando che “Per raggiungere i suoi scopi, la cosca- secondo quanto sostennero i primi giudicanti- era anche ricorsa a condotte minacciose, a danneggiamenti, ad atti di intimidazione, a vere e proprie estorsioni, imponendo inoltre, a un operatore commerciale, che voleva aprire un punto vendita di alimentari (supermercato) in Melito di Porto Salvo, l’acquisto a prezzo maggiorato di un ramo di un’azienda (srl Tomidà), di pertinenza - ancora una volta per interposta persona – di I.A., richiedendo, per di più, il versamento di un’ulteriore somma per una pretesa opera di mediazione”. Stando a quanto riporta la Cassazione, ci si può chiedere se il comportamento dell’imputato non fosse sanzionabile anche come realizzante un’ipotesi di intesa lesiva della concorrenza ai sensi della normativa antitrust (l. 287/1990). Ma arriviamo al punto in cui si fa menzione del patto leonino. Eccolo: “La censura relativa al capo C ter) 1 è infondata, pur in presenza di una motivazione della sentenza lacunosa sul punto. Invero il ricorrente non tiene conto del fatto che, in pari causa turpitudinis, la divisione in parti uguali del provento della truffa non sta affatto a indicare che uno dei truffatori sia stato trattato peggio degli altri. Se, complessivamente, a B. e a I. sono andati due terzi della liquidazione, vuol dire che a F. è andato il terzo residuo: dunque, presumibilmente, la divisione (almeno in questo caso) è avvenuta in parti eguali e non secondo una logica da patto leonino”. Dalla seconda delle due sentenze citate si può inoltre desumere che, se la stipula del patto leonino è avvenuta dietro violenza o minacce, si ricadrebbe nell’ipotesi delittuosa dell’estorsione; se poi fossero usati raggiri, si ricadrebbe allora nel dolo civilistico, senza escludere una possibile rilevanza di un raggiro usato dal socio per convincere un altro a stipulare un patto leonino, come delitto di truffa (art. 640 c.p.); se infine fosse prospettato un male concreto ed attuale, si potrebbe parlare di violenza morale 1. Ma anche qui, andiamo con ordine. La sent. n. 23035 del 2007 prende in esame un caso di associazione mafiosa, con estorsione perpetrata dagli imputati nei confronti di un piccolo imprenditore e della di lui famiglia., il tutto nel quadro di un unico disegno criminoso. L’estorsione consisteva nel fatto che, dietro minacce, gli imputati costringevano la persona offesa a corrispondere loro una somma di almeno 40.000 euro e comunque pari alla metà dei ricavi percepiti. Gli imputati erano pure accusati di aver coartato la volontà dell’imprenditore per la costituzione di una società di fatto ed in incertam personam. La natura di estorsione dell’accordo era desunta dalla Corte d’Appello dal fatto che parte degli introiti dovevano essere versati a persone estranee al contratto di società. E la Corte territoriale qualificava espressamente questo accordo come patto leonino1. Ma con questa affermazione della Corte d’appello, non smentita dalla Corte di Cassazione, non si fa che estendere la portata del divieto di patto leonino ad un fenomeno, come l’estorsione, tipico non del diritto privato, ma del diritto penale. Ecco che dunque, nel ragionamento del

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giudicante, il termine “patto leonino” diviene sinonimo di “accordo estorsivo”, che come tale può prevedere il coinvolgimento anche di persone estranee alla società. La Corte territoriale, e con essa la Cassazione, sembra andare oltre una lettura dell’art. 2265 c.c. che ravvisa la ratio della norma nell’essenza stessa del contratto di società, per approdare invece ad una lettura in chiave antisopraffattoria. Un dubbio potrebbe, sulla base di quest’ultima sentenza, profilarsi all’orizzonte: sarebbe qualificabile come leonino il patto con cui certi soci consentono la partecipazione agli utili e/o alle perdite di altri, a patto che questi ultimi si impegnino, magari dietro minacce o ricatti, a corrompere la Pubblica Autorità, affinchè questa conceda una licenza che invece in base alla legge e alle norme di diritto amministrativo non dovrebbe concedere? Se ragioniamo come il giudice della sentenza n. 23035 del 2007 dovremmo rispondere positivamente. E ancora ci si potrebbe chiedere se, dal momento che quando viene stipulato un patto leonino, ciò non è indifferente nelle strategie economico-produttive della società, che potrebbe decidere di produrre meno merci di un certo tipo, di alzare o abbassare i costi, il patto leonino non possa dar vita, a certe condizioni, alla fattispecie delittuosa dell’art. 501 c.p. (rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato nelle borse di commercio. La norma del codice penale infatti nel descrivere la condotta criminosa parla anche di “altri artifici atti a cagionare un aumento o una diminuzione del prezzo delle merci ovvero dei valori ammessi nelle liste di borsa o negoziabili nel pubblico mercato”, e tra tali altri artifici ben potrebbe rientrare un patto leonino stipulato proprio con tale intento delittuoso. Quest’ultima riflessione consente anche di rispondere positivamente ad un altro quesito, ossia se il divieto di patto leonino sia applicabile anche alle società quotate in mercati regolamentati. La risposta non può che essere positiva e questo sulla base di un ragionamento a fortiori, solo che si pensi a quali stravolgimenti del mercato potrebbe dar luogo un patto leonino nell’ambito ad esempio di una grande multinazionale. In sede penale si potrebbe infine, de iure condendo, fare un ulteriore riflessione: vista e considerata l’incisione che il patto leonino ha, come sopra esposto, anche sul quadro economico generale, specie se stiamo parlando di grandi società, come le multinazionali, ci si può chiedere se non sia il caso che il legislatore penale sanzioni con una norma di delitto o contravvenzione, tale ipotesi, apparendo insufficiente la sanzione della nullità, visto qual è l’interesse tutelato, che è interesse di diritto pubblico più che di diritto privato. 2.La giurisprudenza civile In ambito civile, recentemente, la Cassazione ha escluso l’applicabilità del divieto di patto leonino alla figura giuridica del condominio1. In quel caso la causa di merito era stata instaurata da una s.r.l. (Sea Smeralda s.r.l.), che impugnava la deliberazione dell’assemblea dei condomini del Condominio Autorimessa Sea Smeralda, con la quale si andava a modificare una clausola del regolamento condominiale. In primo grado vince Sea Smeralda s.r.l. Condominio Autorimessa Sea Smeralda propone appello, che però viene rigettato. Il punto maggiormente controverso era la natura contrattuale o meno della clausola del regolamento e la maggioranza od unanimità richiesta per la sua modifica. L’appellante, perdente in primo e secondo grado, propone ricorso per Cassazione, e i giudici di legittimità, in relazione ai primi cinque motivi del ricorso, affermano che: “ I primi cinque motivi di ricorso, per la loro connessione logica, vanno esaminati congiuntamente sulla base di una comune premessa d’indagine. I criteri di ripartizione delle spese condominiali, stabiliti dall’art. 1123 c.c. possono essere derogati, come prevede la stessa norma, e la relativa convenzione modificatrice della disciplina legale di ripartizione può essere contenuta sia nel regolamento condominiale (che perciò si definisce “di natura contrattuale”), ovvero in una deliberazione dell’assemblea che venga 38

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approvata all’unanimità, o col consenso di tutti i condomini (Cass. sez. 2, Sentenza n. 641 del 17/01/2003). La natura delle disposizioni contenute nell’art. 1118 c.c., comma 1 e art. 1123 c.c. non preclude, infatti, l’adozione di discipline convenzionali che differenzino tra loro gli obblighi dei partecipanti di concorrere agli oneri di gestione del condominio, attribuendo gli stessi in proporzione maggiore o minore rispetto a quella scaturente dalla rispettiva quota individuale di proprietà. In assenza di limiti posti dall’art. 1123 c.c., la deroga convenzionale ai criteri codicistici di ripartizione delle spese condominiali può arrivare a dividere in quote uguali tra i condomini gli oneri generali e di manutenzione delle parti comuni, e finanche a prevedere l’esenzione totale o parziale per taluno dei condomini dall’obbligo di partecipare alle spese medesime (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5975 del 25/03/2004; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6844 del 16/12/1988). Non opera del resto, in materia di condominio negli edifici, nulla di simile all’art. 2265 (divieto del patto leonino), trovando questa norma la sua ratio nella posizione che un socio assume nell’ambito societario e nella necessità che lo stesso partecipi al rischio patrimoniale d’impresa, ovvero nell’essenziale scopo lucrativo che viene perseguito tramite una attività imprenditoriale, scopo del tutto estraneo al mero godimento di beni comuni, tipica del condominio degli edifici”. Non si può che concordare con quanto espongono i giudici di legittimità, dal momento che una norma dettata in tema di società sembra inapplicabile a fenomeni privi di scopo lucrativo, come le associazioni, le fondazioni, i comitati, e, appunto, i condominii. Interessante la sentenza del 2015 1 in cui la Cassazione, pur rigettando il ricorso della ricorrente (una società che si opponeva alla dichiarazione del suo fallimento), afferma che: “Premesso che la mancata partecipazione alla gestione della società è a questo riguardo irrilevante (stante l’autonomia contrattuale in materia: art. 2295 c.c., comma 1, n. 3), il patto leonino è nullo (art. 2265 c.c.), ma non comporta l’inesistenza della società, né era necessario ad accertare la distribuzione degli utili per riconoscere l’esistenza di una società, in presenza di conferimento essenziale per lo svolgimento dell’attività d’impresa”. La sentenza da ultimo citata è importante, in quanto pare riconoscere la rilevanza della norma sul divieto di patto leonino anche per una società dichiarata fallita. Merita altrettanta attenzione un’altra recente sentenza della Cassazione civile 1 , nella quale la corte, nell’analisi dei motivi della decisione, fa riferimento a concetti interessanti. Ma andiamo con 39

ordine: il caso vedeva come attore un imprenditore individuale che citava in giudizio il suo avvocato, dal momento che questi, a suo dire, lo aveva costretto a stipulare un contratto con lui (contratto simulato, poi qualificato dalla Corte d’Appello come contratto costitutivo di società occasionale tra due soli soci, appunto, l’imprenditore e il suo avvocato), con il quale l’imprenditore si impegnava ad acquistare un ampio appezzamento di terreno edificabile e ad accordargli, a titolo di corrispettivo dell’attività professionale svolta in suo favore, il 50% degli utili che sarebbero derivati dalla lottizzazione del suolo, una volta che egli avesse recuperato le somme anticipate dalla venditrice. Il ricorrente nel ricorso per Cassazione qualifica l’accordo come patto leonino. Nonostante la Corte di Cassazione rigetti il ricorso dichiarandolo inammissibile per carenza dell’interesse ad agire, è interessante notare quanto il giudicante scrive nei motivi della decisione al punto 3.4: “Maggiore approfondimento merita l’ultima censura, nella quale si individua un’effettiva ragione di nullità del contratto societario – concluso per un motivo illecito comune ad entrambi i contraenti – che, in quanto desumibile da circostanze di fatto compiutamente allegate nei precedenti gradi di merito, risulterebbe astrattamente rilevabile per la prima volta anche nella presente sede di legittimità (Cass. S.U. n. 26343/2014). Sennonché il ricorrente difetta di interesse ad ottenere siffatto accertamento, dal quale non potrebbe derivargli alcun risultato utile, posto che la declaratoria di nullità del contratto costitutivo di una società di persone è equiparabile, “quoad effectum”, allo scioglimento della stessa, con la conseguenza che la ripartizione, fra coloro che hanno agito come soci, delle rispettive spettanze sul patrimonio comune (una volta adempiute le obbligazioni verso i terzi) si configura alla stregua della liquidazione della quota (Cass. Nn. 3166/1999, 565/1995)”. La Corte dice in conclusione una cosa assai rilevante: ossia che il contratto – patto leonino tra due soci porterebbe alla nullità non solo del contratto in sé, ma, proprio perché qui i soci sono solo due, anche alla nullità dell’intera società, facendo notare come il problema delle restituzioni venga a palesarsi come problema di liquidazione della quota. In un’altra sentenza recente 1 il Tribunale di Milano ha messo in luce come, in un caso di cessione inefficace a seguito di operazioni di riduzione del capitale sociale, dove peraltro la ricorrente sosteneva: a) l’invalidità della revoca di lei quale amministratore unico, e, b) l’inefficacia delle suddette operazioni con conseguente inefficacia delle cessioni di quote Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali – lug. 2017


societarie, “gli effetti negativi della cessione inefficace (impossibilità dell’esercizio dei diritti sociali da parte del proprietario e dei suoi aventi causa) non si spiegano […] solo nei confronti dell’acquirente, ma anche, almeno sul piano organizzativo, nei confronti degli altri soci e della società. Costoro infatti si troverebbero di fronte a soci tornati tali solo per effetto della declaratoria di inefficacia della cessione, ma sottratti al rischio di impresa e dunque ormai totalmente privi di interesse nei confronti della società stessa. Una situazione non diversa dall’assoluta indifferenza alle perdite sociali (qui però sopravvenuta) che connota la nullità del patto leonino ex art. 2265 c.c.”. Da questa sentenza emerge come il divieto di patto leonino vada visto non solo sotto l’aspetto statico, ma anche sotto l’aspetto dinamico, nel senso che potrebbero violare il divieto di tale patto anche situazioni che si verrebbero a creare a seguito ad esempio di cessione di quote poi dichiarate inefficaci. Di primario rilievo è, ancora, una recente sentenza della Corte d’Appello di Milano1: nel caso concreto era in gioco la validità o meno di un patto parasociale, alla luce del divieto dell’art. 2265 c.c., col quale si prevedeva un’operazione di finanziamento di una s.p.a. La società ricorrente nei motivi dell’appello fa notare come, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, perché un patto possa qualificarsi leonino: a)l’esclusione dagli utili o/e dalle perdite deve essere assoluta e costante, e, b) non vi devono essere, dal lato opposto, interessi meritevoli di tutela, ex. art. 1322 c.c. Nel caso concreto la Corte ha dichiarato la nullità del patto parasociale, rilevando che: “Risulta evidente, nel caso concreto, che il trasferimento del rischio ha in realtà a un’assoluta e costante esclusione dell’alea tipica dell’investimento finanziario, che come tale non può mai essere vista come un tentativo di eludere il divieto di patto leonino attraverso un accordo tra soci esterno al contratto societario e pertanto non meritevole di tutela nemmeno ex art. 1322 c.c. Di conseguenza, l’opzione put, così come strutturata dalle parti all’esito della modifica del 23 giugno 2008, va dichiarata nulla”. In tema di divieto di patto leonino e clausole put & call si sottolinea un intervento del Tribunale di Milano1, in cui l’organo giudicante giunge a questo bivio: o si condanna la clausola come patto leonino perché non vi sono interessi meritevoli di tutela, oppure se tali interessi vi sono, si ricade nell’art. 1322 c.c., che parla di contratti innominati, ipotesi nella quale rientrerebbero anche queste clausole, così fatte rientrare, se portatrici di interessi meritevoli di tutela, nell’alveo della liceità 1. CONCLUSIONI Volendo concludere con quanto sopra considerato, non si può che osservare come il problema, ancora attuale, come testimoniato dalle sentenze sopra citate della Corte di Cassazione e della giurisprudenza di merito, degli incerti confini del divieto del patto leonino si ponga come la siepe dell’ “Infinito”, ossia come un qualcosa che non fa intravedere l’orizzonte rassicurante delle certezze. Ancora oggi infatti risultano poco indagati problemi quali: l’applicabilità del 40

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concetto di patto leonino in contesto penale, in relazione soprattutto al reato di estorsione, l’applicabilità del divieto di patto leonino alle società non iscritte nel registro delle imprese, alle società di fatto, alle società quotate in mercati regolamentati e alle società fallite. Interessante notare come la giurisprudenza di legittimità sembri avallare la tesi antisopraffattoria ed equitativa della ratio della norma dell’art. 2265 c.c., nonostante questa tesi in dottrina sia, e credo a torto, minoritaria. In linea di massima si può dire, da quanto analizzato, che oggi il patto leonino appare come una norma aperta e assai generale, come lo sono la categoria della nullità di diritto civile, il concetto di buona fede contrattuale, la nozione di diligenza nell’adempimento dell’obbligazione, ecc. E forse proprio questa era la volontà del legislatore: scrivere una norma che contemplasse e si estendesse a tutti i casi di iniquità e abuso di potere nella vita di una società. NOTE 1 D.17.2.29.2 (Ulp.). 1 V. per una precisa disamina sul punto N. ABRIANI, Il divieto del patto leonino, vicende storiche e prospettive applicative, Giuffrè, 1994. 1 Cfr. sul punto, ex pluribus: E. BARCELLONA, Clausole di put & call a prezzo predefinito, fra divieto di patto leonino e principio di corrispettività, Giuffrè, 2004; F. RIGANTI, Patto leonino e clausole put & call in un recente intervento della Corte d’Appello milanese, in Giurisprudenza italiana n. 4/2015; E. FREGONARA, S.P.A.- clausole put & call- brevi note in tema di clausole put & call a prezzo predefinito rispetto al divieto del patto leonino, in Giurisprudenza italiana, n. 7/2016; E. MAZZOLETTI, Put option e patto leonino- un divieto ancora attuale?, in Notariato n. 5/2016; A. MONTEVERDE, Patto leonino – opzione put, ovvero degli incerti confini del patto leonino, in Giurisprudenza italiana, n. 3/2016; A. DEL BIANCO e D. PROVERBIO, Opzioni put e divieto di patto leonino – IL COMMENTO, in Le Società, n. 6/2014; G. PENZO, Opzione di vendita a prezzo fisso e divieto di patto leonino: una convivenza possibile, in Le Società, n. 2/2014; A. STABILINI, Osservatorio di giurisprudenza di merito – contratto di opzione e divieto di patto leonino, in Le Società, n. 1/2014. 1 Magistrale in tal senso quanto scrive N. ABRIANI, in Il divieto del patto leonino, vicende storiche e prospettive applicative, Giuffrè, 1994, pg. 29-30, riprendendo G. RIPERT, Prêt avec participationm aux bénéfices, 1905, pg. 62; E.THALLER, A l’occasìon de la clause exonerant un associė des pertes, in Annales de droit commercial français, éntrager et International, 1892, pg. 297; P.PIC, Des sociètès commerciales, in Traité général théorique et pratique de droit commercial, diretto da Thaller, Parigi, 1907, pg. 53; G. MINERVINI, Partecipazioni a scopo di finanziamento e patto leonino, in Contratto e impresa, 1988, pg. 771 1 V. per tutti, A. ZANCHIO, Tractatus de societate, pars I, cap. V, n.12, per il quale: “viva quidem huius leoninae societatis imago, enormissima est, eaque laesio, quae in toto dicitur, seu in gradu extremo, et superlativo con tingere”. 1 E vedremo che questo rimedio, tipico del diritto romano e canonico, e che però trova fonte anche in alcune norme del codice civile, potrebbe essere astrattamente applicabile anche al contratto di società. 1 Ragionamento fatto da G. MINERVINI, in Partecipazioni a scopo di finanziamento e patto leonino, in Contratto e impresa, 1988, pg. 771, operando un ragionamento per analogia col patto contrario in materia di riporto (art. 1550, co 2, c.c.). 1 T.ASCARELLI, Appunti di diritto commerciale, Catania- Roma, Circolo Commercialista – Società Editrice del Foro Italiano, 1931, II, pg. 29. 1 E.SOPRANO, Trattato teorico – pratico delle società commerciali, Torino, Utet, 1934, I, pg. 282. 1 G. AULETTA, Il contratto di società commerciale, Milano, Giuffrè, 1937, pg. 171. 1 dal momento che tale rimedio non è previsto solo in materia di contratti dall’art. 1448 c.c., ma anche in materia successoria (v. rescissione della divisione, art. 763 c.c.). 1 V. per es N. ABRIANI, Il divieto del patto leonino, vicende storiche e prospettive applicative, Giuffrè, 1994, pg. 99 e ss.

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V. per es sent. 94/8927, con cui si è detto che “il divieto di patto leonino posto dall’art. 2265 c.c. […] presuppone una situazione statutaria […] caratterizzata dall’esclusione totale e costante di uno o di alcuni soci dalla partecipazione al rischio d’impresa o dagli utili, ovvero da entrambe”; sent. 00/642, con cui la Corte affermò che esulano dal divieto le clausole che contemplino la partecipazione agli utili e alle perdite in misura difforme da quella inerente ai poteri amministrativi, sia che condizionino in alternativa la partecipazione o la non partecipazione agli utili o alle perdite al verificarsi di determinati eventi giuridicamente rilevanti; sent. 94/8927, con cui la Corte ha detto che il divieto di esclusione dalla partecipazione agli utili o alle perdite deve essere riguardato in senso sostanziale, e non formale, per cui esso sussiste anche quando le condizioni della partecipazione agli utili o alle perdite siano, nella previsione originaria delle parti, di impossibile realizzazione, e, nella concretezza, determinino una effettiva esclusione totale da dette partecipazioni. 1 In cui si legge che: “invero il ricorrente non tiene in conto del fatto che, in pari causa turpitudinis, la divisione in parti uguali del provento della truffa, non sta affatto ad indicare che uno dei truffatori sia stato trattato peggio degli altri. Se, complessivamente, a B. e a I. sono andati due terzi della liquidazione, vuol dire che a F. è andato il terzo residuo: dunque, presumibilmente la divisione (almeno in questo caso) è avvenuta in parti eguali, e non secondo una logica di patto leonino” (Cass. Pen., sent., sez. V, 19.4.2013, n. 17979). 1 In cui si legge che: “a convalidare definitivamente la qualificazione operata in termini di estorsione, soccorre, del resto, la stessa eloquenza della “combinazione” della spartizione degli introiti del parcheggio, la quale in guida di “patto leonino” - come si legge nella sentenza di appello – comportava che tutti gli oneri di gestione restassero a carico del P.D. e che il 50% degli introiti […] venisse invece percepito dal gruppo di mafiosi” ( Cass. Pen., sent., sez II, 4.5.2007, n. 23035). 1 Ossia la fittizia intestazione della macelleria. 1 V. anche Cass. Pen., sent., sez. V, 9.1.2007, n. 173. 1 “Secondo la Corte territoriale, l’illiceità dell’accordo emergeva anche dall’assenza di consacrazione scritta del “patto leonino””. 1 Cass. Civ., sent., sez. II, 4.8.2016, n. 16321. 1 Cass. Civ., sent., sez. I, 14.10.2015, n. 20753. 1 Cass. Civ., sent., sez. I, 6.5.2015, n. 9124. 1 Trib. Milano, sez. specializzata in materia di imprese, sent. 20.10.2016. 1 App. Milano, sez. I, sent. 19.2.2016. 1 Trib. Milano, sez. specializzata in materia di imprese, sent. 6.8.2015. 1 V. anche Trib. Milano, sez. specializzata in materia di imprese, sent. 21.7.2014 e, sempre Trib. Milano, sez. specializzata in materia di imprese, sent. 31.10.2011.

Dottore in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Padova con una tesi sull’iniziativa economica privata nella Costituzione e nel diritto commerciale, Jacopo Lucchiari, ha conseguito una menzione d’onore in un concorso nazionale di latino (certamen senecanum), e svolge ora l’attività di pratica forense a Vicenza occupandosi di diritto commerciale, civile e penale.

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