Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali
Bimestrale
di divulgazione
giuridica ed economica. III° numero
Ottobre 2015
Numero III/2015 Numero redatto con la collaborazione di: Lenzi Paolo Broker di Assicurazioni Srl Via Riva Reno 29/c – 40122 Bologna mail: info@lenzibroker.it www.lenzibroker.it
Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali Bimestrale di Divulgazione giuridica ed economica Autori Vari – AA.VV.
Riv. Depositata presso il Trib. di Bologna in data 08/04/2015. Autorizzazione n. 8380
Proprietario e Direttore: Avv. Francesco De Sanzuane Sede redazionale: Via Borghi Mamo 1 – 40137 - Bologna Contatti e Info: http://www.rivistadelleimprese.it inforivistadelleimprese@gmail.com info@rivistadelleimprese.it
Numero III/2015 2
Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali – Ott. 2015
SOMMARIO Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali ISSN 2421-2830
Editoriale
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Internazionalizzazione significa rivoluzione culturale? Francesco De Sanzuane
Nuove Tecnologie
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Chiarimenti in merito all’attuazione della nuova normativa in materia di “Cookies” Vincenzo Cotugno
Diritto Internazionale e dell’Unione Europea
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Il Diritto Contrattuale nel panorama Europeo ed Internazionale. di Franz Gjeluci
Diritto della Proprietà Immobiliare
Direttore responsabile Francesco De Sanzuane Autori Mara Chilosi, Lorenzo Cottignoli, Vincenzo Cotugno, Francesco De Sanzuane, Franz Gjeluci, Loreno Magni, Riccardo Piccioli. Segreteria di Redazione Via Borghi Mamo 1 40137 – Bologna
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Building Management. Nuove frontiere nella gestione degli asset immobiliari di Lorenzo Cottignoli e Riccardo Piccioli
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Diritto Ambientale. Resp. d’Impresa 231/01 L’approccio per l’adozione o l’aggiornamento del modello per i reati ambientali di Mara Chilosi
Rubrica. Il professionista risponde.
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“Il trattamento fiscale dei trasferimenti nella soluzione della crisi del matrimonio” intervista all’avv. Loreno Magni
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giuridica ed economica. III° numero
Sito web http://www.rivistadelleimprese.it
Ottobre 2015
Numero III/2015 Numero redatto con la collaborazione di: Lenzi Paolo Broker di Assicurazioni Srl Via Riva Reno 29/c – 40122 Bologna mail: info@lenzibroker.it www.lenzibroker.it
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Editoriale
INTERNAZIONALIZZAZIONE SIGNIFICA RIVOLUZIONE CULTURALE? Il termine “internazionalizzazione” è sempre più in auge e non v’è talk show o trasmissione dedicata al mondo imprenditoriale che dimentichi di sottolineare l’importanza, per le nostre imprese, di intraprendere senza indugio un percorso volto ad “internazionalizzare” la propria azienda. Tuttavia, allo studioso attento, i numeri forniti dall’attivo della bilancia commerciale con l’estero ci dicono che l’economia italiana, ovvero la maggior parte dei circa 5 milioni di PMI, è già orientata verso l’estero, nonostante le nostre imprese siano di natura prettamente familiari e di dimensioni ridotte. Ma pare che ciò non basti e che la sfida sia appena iniziata. Dunque, come possono migliorare queste imprese che, invero, pur alle prese con i mille ostacoli che la crisi economica ha catapultato sul loro cammino, riescono ancora a distinguersi e conservano le proprie quote di mercato? La risposta non è certamente semplice, ma nel frattempo non si può attendere che intervenga finalmente quell’agognato intervento di natura istituzionale, che nel nostro Paese pare tardi ancora ad arrivare, e che avrebbe il merito di creare quel substrato di rapporti istituzionali che sono la naturale base per qualsiasi tipo di investimento in nuovi mercati. Pertanto, le nostre imprese non possono far altro che studiare i comportamenti virtuosi che hanno condotto altre realtà a raggiungere successi e traguardi di assoluta importanza e trasferire, o forse meglio ancora adattare tali esperienze ai propri processi produttivi. Ciò premesso, dall’esperienza maturata, emerge con chiarezza un principio di fondo, ovvero che per poter fronteggiare con successo il processo c.d. di “internazionalizzazione” le piccole imprese non possono prescindere da decisi ammodernamenti della propria organizzazione, attraverso il superamento di una serie di resistenze di natura meramente tradizionale (ad esempio l’abitudine dei soggetti apicali di accentrare a sé qualsiasi tipo di decisione). L’esigenza più attuale, dunque, nasce dalla necessità di proporsi in nuovi mercati sfida che può essere vinta solo quando affrontata sotto l’ottica del cambiamento, ovvero dell’evoluzione dell’azienda verso stadi di organizzazione più elevati, e che si estrinseca nel gestire con tecniche nuove le capacità delle persone che vivono l’azienda, i processi industriali adottati e le competenze dei consulenti. Il tutto, passando per una riorganizzazione dei poteri decisionali all’interno dell’azienda. Le imprese che giungono a tale grado di maturità, infatti, superano le classiche dicotomie delle aziende a conduzione familiare e riescono non solo a mantenere le qualità proprie dell’azienda di dimensioni più contenute, ma anche a sfruttare gli strumenti forniti dai nuovi modelli organizzativi adottati.
Francesco De Sanzuane 4
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giuridica ed economica. I° numero
Ottobre 2015
Nuove Tecnologie
Chiarimenti in merito all’attuazione della nuova normativa in materia di “Cookie”. Vicenzo Cotugno Con la decisione dell’8 maggio 2014 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 126/2014), il Garante per la Protezione dei Dati Personali (di seguito, il “Garante”) è intervenuto su un tema già affrontato sia a livello comunitario che nazionale ed avente ad oggetto l’utilizzo dei c.d. “cookie”. In particolare, il provvedimento del Garante segue la direttiva 2009 n. 136 del 25 novembre 2009 e il decreto legislativo n. 69 del 28 maggio 2012, recante modifiche al decreto legislativo n. 196 del 30 giugno 2003 (il Codice in materia di protezione dei dati personali e, di seguito, semplicemente il “Codice”), e individua talune misure “semplificate” che hanno lo scopo di informare gli utenti internet e fornire loro gli strumenti per formare ed, eventualmente, prestare un consenso consapevole. Il provvedimento è stato inoltre emanato in esito ad una consultazione pubblica diretta a tutti i gestori, grandi e piccoli, dei siti e alle associazioni maggiormente rappresentative dei consumatori allo scopo di acquisire contributi e suggerimenti. Per ciò che concerne i tempi per adeguarsi alle nuove prescrizioni, il provvedimento, nel prendere atto dell’“impatto, anche economico, che la disciplina sui cookie avrà sull’intero settore della società dei servizi dell’informazione e, quindi, del fatto che la realizzazione delle misure necessarie a dare attuazione al presente provvedimento richiederà un notevole impegno, anche in termini di tempo”, ha riconosciuto agli operatori internet interessati una finestra temporale di un anno. È d’altra
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parte risaputo che rinviare l’efficacia di norme cogenti, per periodi relativamente lunghi, in genere, invece di favorire la riflessione sulle misure più efficaci da adottare e rendere più agevole e meno onerosa la transizione ha l’effetto di procrastinare gli interventi correttivi sino a pochi giorni prima della scadenza del termine. Detto termine è alfine sopraggiunto, imponendo ai soggetti interessati (in pratica, tutti i titolari o gestori di siti internet) di correre ai ripari e implementare al più presto le misure obbligatorie salvo, in caso contrario, andare in contro ad importanti sanzioni amministrative. Alla luce del quadro testé descritto, ci pare opportuno analizzare la decisione del Garante e dedicare qualche riflessione ai nuovi adempimenti previsti a tutela degli utenti della rete.
i cookie sono stringhe di testo di piccole dimensioni che i siti visitati dall’utente inviano al suo terminale (solitamente al browser), dove vengono memorizzati per essere poi ritrasmessi agli stessi siti alla successiva visita del medesimo utente.
Cosa sono I “Cookie”? Il Garante dedica la sezione introduttiva del provvedimento ad alcune considerazioni preliminari volte ad inquadrare l’ambito di operatività e l’oggetto della decisione. Innanzitutto, chiarendo cosa sono i cookies. L’approfondimento al riguardo è tutt’altro che fuori luogo, non essendo l’intera platea degli utenti interessati preparata sull’argomento. Al riguardo, il Garante precisa che “i cookie sono stringhe di testo di piccole dimensioni che i siti visitati dall’utente inviano al suo terminale (solitamente al browser), dove vengono memorizzati per essere poi ritrasmessi agli stessi siti alla successiva visita del medesimo utente”. In altri termini, i siti internet fanno ricorso ai cookie per personalizzare l'esplorazione degli utenti e raccogliere informazioni sull’utilizzo del sito. In molti siti, inoltre, i cookie vengono utilizzati per archiviare informazioni che assicurano una maggior coerenza tra le sezioni del sito e rendere più agevole, fluida ed efficiente la navigazione. Ad esempio, taluni cookie sono utili per identificare e risolvere errori. In altri casi, i cookie sono utilizzati per finalità totalmente differenti, quali la raccolta di informazioni per ragioni commerciali e di marketing. Naturalmente, questo processo non è neutro in termini di diffusione ed utilizzo di informazioni personali e, per questo motivo, impone delle misure informative che consentano all’utente di prestare un consenso consapevole, ove richiesto.
Tipologie di “Cookie” Quest’ultima precisazione (sulla necessità del consenso) è importante perché serve ad introdurre un altro tema centrale nella descrizione dei cookie. Questi ultimi, difatti, non sono tutti dello stesso tipo e non comportano una uguale invasione della privacy dell’utente. A questo riguardo il Garante è chiaro nell’affermare che non vi sono delle caratteristiche tecniche che li differenziano alcuni cookie da altri, ma sono le finalità per cui questi strumenti sono usati che consentono di distinguerli. In genere, i cookie sono ripartiti in due macro categorie: 1. Cookie Tecnici: raccolgono informazioni su come un utente utilizza un determinato sito. Essi servono ad “effettuare la
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trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica, o nella misura strettamente necessaria al fornitore di un servizio della società dell'informazione esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente a erogare tale servizio” (art. 122, comma 1, Codice). Essi sono installati direttamente dal titolare o gestore del sito web e sono suddivisi in: (i) cookie di navigazione o di sessione (necessari per la normale navigazione e fruizione del sito web); (ii) cookie analytics (utilizzati dal gestore del sito web per raccogliere informazioni in forma aggregata sul numero degli utenti e sulle modalità di visita del sito); e (iii) cookie di funzionalità (che permettono di migliorare l'esperienza di navigazione nel sito); 2. Cookie di Profilazione: come si intuisce dalla denominazione, sono quelli finalizzati a creare il profilo dell’utente, al quale saranno poi inviati messaggi pubblicitari mirati a soddisfare le preferenze manifestate nell’ambito della navigazione in rete. Il legislatore riserva un trattamento diverso a seconda dell’utilizzo del dispositivo. In particolare, l’obbligo di acquisire il consenso preventivo ed informato degli utenti all’installazione ricorre soltanto per quei cookie utilizzati per finalità diverse da quelle meramente tecniche. Così dispone infatti l’art. 122 del Codice “L'archiviazione delle informazioni nell'apparecchio terminale di un contraente o di un utente o l'accesso a informazioni già archiviate sono consentiti unicamente a condizione che il contraente o l'utente abbia espresso il proprio consenso dopo essere stato informato con le modalità semplificate di cui all'articolo 13, comma 3”. I soggetti coinvolti. Per quanto riguarda l’impatto del provvedimento, non vi è dubbio che quest’ultimo coinvolga un numero amplissimo di operatori del settore web. “Qualunque decisione in merito alle modalità di informativa e consenso online” riguarderà “in pratica chiunque abbia un sito internet”. Per questo motivo, si immagina che le scelte del Garante abbiano provato a contemperare le esigenze di tutela, che giustamente richiede la privacy degli utenti, con quelle di funzionamento della rete. Senza, peraltro, sacrificare i legittimi interessi degli operatori e dei providers di servizi online. Le misure adottate si rivolgono a due categorie di soggetti, i quali sono individuati sulla base dell’interesse che il rispettivo cookie installato sul terminale dell’utente è volto a soddisfare. L’installazione del cookie, in particolare, avvenire direttamente da parte del gestore del sito web che l’utente sta navigando, definito “editore”, ovvero da soggetti gestori di altri siti web che usano quello dell’editore, per proprie finalità, come strumento di accesso all’utente (c.d. “terze parti”). Il Garante precisa come questa distinzione si renda necessaria alla luce dei differenti ruoli e delle responsabilità di ciascun soggetto e, di conseguenza, dei rispettivi differenti obblighi informativi. Non è difatti possibile (rectius, opportuno) imporre agli editori di farsi carico degli obblighi informativi e di raccolta del consenso anche per conto delle terze parti. Questa imposizione aggraverebbe significativamente la posizione economico-giuridica degli editori i quali, peraltro, non sempre hanno gli strumenti tecnici, giuridici ed economici per verificare la corrispondenza al vero delle dichiarazioni rese dalle terze parti. Queste ultime, inoltre, potrebbero modificare l’utilizzo dei cookie in un momento successivo. Senza dimenticare che l’editore potrebbe addirittura non conoscere tutte le terze parti che utilizzano il suo sito per raccogliere informazioni e dati né, a maggior ragione, le finalità per cui queste raccolgono i dati, essendo molto comune l’intervento di intermediari e concessionari che si interpongono tra l’editore e la terza parte. Ciò detto, non si può escludere in toto il coinvolgimento degli editori, quanto meno in termini di intermediazione tecnica tra gli utenti e le terze parti. È infatti tramite il sito dei primi che le terze parti accedono ai dati degli utenti. Sarà, dunque, indispensabile un loro intervento, ai fini del rilascio dell’informativa e dell’acquisizione del consenso. Le misure prescritte Vediamo, dunque, quali sono gli adempimenti prescritti dal legislatore. Dalla lettura del provvedimento, si apprende che il sistema informativo si snoda su più livelli di approfondimento: un primo, più superficiale, automatico ed immediato; un secondo, più esteso, approfondito e volontario. Informativa breve Nel momento in cui l’utente accede ad un determinato sito web, dovrà apparire una prima stringa informativa (c.d. “banner”), contenente: (i) un avviso che il sito utilizza cookie; (ii) una preliminare e
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sintetica descrizione dei cookie, dei fini per cui sono utilizzati e, specificamente, se vengono installati cookie di profilazione; (iii) se il sito utilizza cookie di terze parti; (iv) il link che rimanda all’informativa estesa; (v) l’indicazione che nell’ambito dell’informativa estesa è possibile negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie; e (vi) l’avvertimento che la prosecuzione della navigazione all’interno del sito equivale alla prestazione del consenso. Es. “Questo sito utilizza cookie anche di terzi per inviarti pubblicità e servizi in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, leggi qui. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque elemento acconsenti all'uso dei cookie”. Il provvedimento precisa che il banner deve essere di dimensioni tali da causare nell’utente un’interruzione nell’esperienza di navigazione, onde evitare che possa passare inosservato. Informativa estesa L’informativa estesa (accessibile sia dal link contenuto nel banner sia in calce ad ogni pagina del sito web) ha evidentemente lo scopo di fornire all’utente tutti i ragguagli di cui questi abbia bisogno, ai sensi dell’art. 13 del Codice. Innanzitutto, descrivendo in maniera chiara ed analitica quali cookie sono installati (tecnici o di profilatura, funzionali o pubblicitari, etc.) e descrivendone gli usi. Essa dovrà inoltre chiarire che l’utente potrà rifiutare tutti o alcuni cookie, eventualmente descrivendo la procedura per disattivarli. Con riferimento al ruolo di intermediario assunto dall’editore nei confronti delle terze parti, l’informativa estesa dovrà contenere i link aggiornati alle informative ed ai moduli di consenso delle terze parti. Notificazione In aggiunta alle misure informative, l’art. 37, comma 1, lett. d), del Codice prescrive un obbligo di notificazione al Garante laddove l’utilizzo dei cookie sia finalizzato a “definire il profilo o la personalità dell'interessato, o ad analizzare abitudini o scelte di consumo, ovvero a monitorare l'utilizzo di servizi di comunicazione elettronica con esclusione dei trattamenti tecnicamente indispensabili per fornire i servizi medesimi agli utenti”. Così, i cookie di profilazione risultano senz’altro soggetti all’obbligo di notificazione al Garante. Penali Per rendere cogente l’applicazione del provvedimento, il Garante ha ritenuto opportuno sanzionare eventuali comportamenti in violazione applicando significative penali. Nello specifico, in caso di omessa informativa o di informativa inidonea, è prevista una sanzione variabile da seimila a trentaseimila euro (art. 161 del Codice). L'installazione di cookie in assenza di idoneo consenso comporta, invece, una sanzione variabile da diecimila a centoventimila euro (art. 162, comma 2bis, del Codice). Infine, l'omessa o incompleta notificazione al Garante è sanzionata con il pagamento di un importo variabile da ventimila a centoventimila euro (art. 163 del Codice)
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Vincenzo Cotugno è avvocato del Foro di Milano, specializzato in diritto civile e commerciale, M&A, diritto del commercio internazionale, diritto dell’energia da fonti rinnovabili milanese, autore di numerosi articoli e approfondimenti e partner dello studio Carone & Partners www.cplex.it.
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Il diritto Contrattuale nel panorama Europeo ed Internazionale di Franz Gjeluci
La creazione di uno spazio giuridico europeo “Europeizzazione”, armonizzazione La questione sull’europeizzazione (1) del diritto privato, e del diritto contrattuale in particolare, è stata molto discussa negli anni recenti. Diverse sono state le iniziative europee in merito, e tante le risposte di quanti si sono cimentati su questo argomenti. La letteratura infatti è cosi ampia che è difficile riuscire ad essere particolarmente originali. Sebbene vi sia molta diversità fra le regole che si applicano ai contratti, è importante ricordare che vi sono dei concetti di partenza in comune che dimostrano che il processo di europeizzazione esiste da quando esiste un diritto contrattuale. Molti sono i sistemi che mostrano una somiglianza con il diritto romano contrattuale. Tutti i sistemi giuridici riconoscono il concetto liberale dell’autonomia privata. Il diritto comunitario insieme alla disciplina del diritto comparato hanno aumentato la convergenza fra i sistemi nazionali. Una prima tipologia di interventi del legislatore comunitario, destinata ad incidere sulle discipline privatistiche dei singoli Stati, è collegata all’esigenza di creare uno spazio giuridico europeo, soprattutto in seguito all’importanza che il tema della cooperazione giudiziaria in materia civile ha assunto col Trattato di Amsterdam (2). Altra iniziativa verso un’armonizzazione generale è stata proposta dal Parlamento europeo nel 1989 (3) che ha provocato l’inizio di una ricerca accademica sulla possibilità di un codice civile europeo. Da allora, diversi gruppi di giuristi hanno prodotto dei codici che potrebbero essere la base di un diritto contrattuale europeo: fra loro i più importanti sono la Commissione di diritto contrattuale europeo (4) e l’accademia dei giuristi europei privati (5). Nel 2001, la Commissione europea ha pubblicato una comunicazione al Consiglio e Parlamento europeo, con lo scopo di “allargare il dibattito sul diritto contrattuale europeo, coinvolgendo il Parlamento europeo, il Consiglio e le diverse parti interessate: imprese, operatori del diritto, accademici e associazioni dei consumatori”. La comunicazione ha proposto quattro opzioni per il futuro sviluppo del diritto contrattuale europeo: 1. assenza di un’azione comunitaria; 2. promozione di un complesso di principi comuni in
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Diritto Internazionale e dell’Unione Europea
“Nel 2001, la Commissione europea ha pubblicato una comunicazione al Consiglio e Parlamento europeo, con lo scopo di “allargare il dibattito sul diritto contrattuale europeo, coinvolgendo il Parlamento europeo, il Consiglio e le diverse parti interessate: imprese, operatori del diritto, accademici e associazioni dei consumatori”
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materia di diritto contrattuale per arrivare a una maggiore convergenza degli ordinamenti nazionali; 3. miglioramento qualitativo della legislazione già esistente; 4. adozione di una nuova ed esaustiva legislazione a livello comunitario. Le risposte alla comunicazione della Commissione sono state tante, quasi sempre favorevoli alle opzioni 2 e 3, e quasi sempre sfavorevoli all’opzione 4. Dopo il processo consultivo, la Commissione ha prodotto il piano d’azione8 che, pur essendo favorevole alle opzioni 2 e 3, non manca di volontà nel continuare la ricerca ad un possibile codice europeo. Sembra quindi che l’idea della codificazione non sia stata abbandonata, e sarà un obiettivo per il futuro. Attualmente, le regole fondamentali in materia di competenza giurisdizionale e circolazione delle decisioni adottate in ogni singolo Stato sono contenute nel regolamento 44/2001, che ha trasformato in strumento comunitario la Convenzione di Bruxelles del 1968 (regolamento Bruxelles II). Ciò, con riferimento all’intera materia civile e commerciale (salvo alcune eccezioni) e dunque anche per ciò che concerne la materia contrattuale. Viceversa, per quanto attiene all’utilizzazione di criteri di collegamento uniformi, ancora con riferimento alla materia contrattuale, essa rappresenta già una realtà, in seguito alla ratifica della Convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni nascenti da contratto, oggi modificata in strumento comunitario (regolamento “Roma I”, 593/2008). 1.2 Giustificazioni dell’europeizzazione Le giustificazioni che vengono proposte per l’armonizzazione del diritto contrattuale europeo sono quasi esclusivamente economiche, fenomeno non sorprendente dato che le competenze più importanti della comunità restano nella realizzazione di un mercato interno coerente. L’argomento proposto da coloro che sono favorevoli all’armonizzazione è basato sui costi delle transazioni: una varietà di regole fra stati può
“il legame fra l’armonizzazione del diritto contrattuale e la competenza culturale della comunità (Articolo 151 TEC) non è abbastanza forte da superare il principio di sussidiarietà”
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essere inconveniente alle imprese che svolgono un’attività internazionale in quanto spesso sarà necessario il ricorso ad esperti locali per capire le regole sconosciute. Questo aumenta i costi di una transazione con un’impresa straniera, e diminuisce l’incentivazione e l’inclinazione di entrare in contratti internazionali. Questa situazione ovviamente non è facilmente compatibile con l’idea di un mercato unico. L’europeizzazione quindi può diminuire questi costi di transazione e facilitare lo scambio di prodotti nel mercato internazionale. Vi sono anche motivi non economici. È chiaro che la presenza di una legge uniforme rappresenta un’unità culturale fra i popoli. Un diritto contrattuale europeo avrebbe quindi il ruolo sia di contribuire alla creazione di una cultura comune europea, sia di evidenziarne l’esistenza. Chiaramente questo tema non è stato trattato molto nella letteratura, visto che il legame fra l’armonizzazione del diritto contrattuale e la competenza culturale della comunità (Articolo 151 TEC) non è abbastanza forte da superare il principio di sussidiarietà. 1.3 Divergenza nelle regole L’estensione della varietà nelle regole che governano i contratti negli stati membri non è facilmente quantificabile. Mentre è evidente che le regole usate per regolare i contratti variano molto a primo impatto, è altrettanto evidente che diverse regole possono portare ad un risultato simile in una particolare situazione. Poiché un’analisi completa dei diritti contrattuali degli stati membri non è possibile nello spazio qui permesso, ci limiteremo ad alcuni commenti generali. Il diritto romano ha esercitato una grande influenza sui sistemi di civil law. Anche se la parte generale del diritto contrattuale romano non era altamente sviluppata, i giuristi canonici insieme alle scuole di diritto naturale e di volontarismo hanno trasformato le idee romane in un sistema complesso di regole, di cui la più importante realizzazione era il codice civile francese. Dall’altra parte della Manica la crescita del diritto contrattuale è stata più lenta. È accettato generalmente che il diritto romano non ha esercitato la medesima influenza sul sistema inglese. Per questo motivo molte delle regole inglesi non si trovano nei sistemi
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continentali e viceversa. Tuttavia, nonostante queste divergenze formali, vi è molta convergenza nascosta, sia nelle regole (un buon esempio sono le regole che governano la formazione di un contratto) sia nel risultato e nelle conseguenze di regole diverse. Quest’ultima osservazione è alla base delle tecniche moderne del diritto comparato, che analizzano il risultato delle regole giuridiche in una data situazione anziché paragonarle (6). Utilizzando questa tecnica, si può osservare che molte divergenze apparenti nelle regole non costituiscono una barriera all’europeizzazione. È giusto anche sottolineare come i gruppi di giuristi di diverse nazionalità sono arrivati con una certa facilità a regole comuni (7). Questa riflessione ci suggerisce che vi è meno divergenza fra i sistemi nazionali di quello che sembra. Nonostante questa convergenza nascosta, sarebbe un’esagerazione sostenere che non vi sono importanti punti di divergenza fra stati. 2. Meccanismi di “Europeizzazione” Tuttavia è stato notato che questa contrapposizione non è valida, e infatti le due posizioni possono completarsi (8). Anche se l’idea di immediata codificazione verrà respinta nelle pagine successive, la posizione difesa sarà che un ruolo complementare per i meccanismi hard e soft law non è solamente possibile, ma addirittura necessario per una coerente armonizzazione. 2.1 Hard law Con questo termine intendiamo le regole inderogabili (mandatory laws) che vengono introdotte nei sistemi giuridici degli stati membri, sia dal potere legislativo dell’Unione europea, sia dagli stati membri indipendentemente attraverso un trattato. L’espressione quindi comprende l’armonizzazione con le direttive e anche l’armonizzazione con un codice civile europeo. La legislazione europea avvenuta fino a ora ha avuto un ruolo importante per rompere alcune barriere economiche al mercato unico, create da regole divergenti. Tuttavia vi sono molti problemi con la legislazione esistente.
“Hard law”: le regole inderogabili (mandatory laws) che vengono introdotte nei sistemi giuridici degli stati membri, sia dal potere legislativo dell’Unione europea, sia dagli stati membri indipendentemente attraverso un trattato 11
In primo luogo, il “metodo classico comunitario” (9), usato dal processo legislativo europeo, non si presta all’armonizzazione del diritto contrattuale europeo, dato che il campo ha rilevanza per almeno cinque direzioni generali (DG) nella Commissione europea. Questo ha provocato una notevole incoerenza nelle direttive prodotte. In secondo luogo la scelta della direttiva come atto legislativo significa che molta divergenza nazionale non viene eliminata nel processo di attuazione. Inoltre, nei casi di una insufficiente attuazione, la direttiva stessa non ha validità fra due privati in una causa. Per questi motivi la legislazione esistente in questo campo può essere considerato insufficiente e inefficace per risolvere i bisogni economici di un mercato unico. Diversi giuristi hanno sostenuto la desiderabilità della progettazione, esecuzione e applicazione di un codice contrattuale europeo (10). Il principale vantaggio di un codice europeo è la sua capacità di diminuire i costi di transazione, a condizione che le regole inderogabili siano limitate a quelle assolutamente necessarie. In primo luogo, la divergenza nelle regole giuridiche significa che un eventuale codice non sarà facilmente accettato in Europa, ma più importante è il legame fra le regole che governano i contratti e l’identità culturale di una società. Questo significa che un codice contrattuale europeo dovrebbe stabilire dei valori della giustizia distributiva per sostituire quelli già esistenti nei sistemi nazionali. Data la mancanza di accordo fra gli stati membri nel campo della protezione sociale, è da dubitare che un codice pattuito fra gli stati membri possa avere la coerenza necessaria per stabilire questi valori. Per questo motivo è necessario stabilire una cultura contrattuale europea prima di poter codificare le regole. In secondo luogo, la divergenza negli stili giudiziali nazionali presenta un problema ancora più grave per la coerenza di un’eventuale codificazione. Sono esagerate le proposte che la divergenza negli stili giudiziali è tale da impedire completamente il processo di armonizzazione (11). La presenza di diversità non preclude la possibilità di una futura convergenza. Tuttavia, la precedente analisi della divergenza porta alla conclusione che un diritto uniforme sui libri non corrisponderebbe ad un diritto uniforme nella pratica. Considerati gli stili diversi sia del processo normativo giudiziale, sia dell’interpretazione giudiziale e sia degli stili delle sentenze, è chiaro che molta divergenza rimarrebbe nonostante l’esistenza di un codice uniforme
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europeo. Un’uniformità coerente richiede pertanto una riforma istituzionale e metodi di coordinamento del processo giudiziale europeo (12). In terzo luogo, la divergenza nelle procedure giuridiche crea un altro problema: una codificazione del diritto contrattuale europeo non sarebbe efficace o socialmente accettabile senza un sistema armonizzato di applicazione, esecuzione e sanzione della legge. Sarebbe possibile per i privati di scegliere il sistema procedurale più adatto alla transazione, ma questa non è una soluzione soddisfacente, dato che i privati meno dotati di informazione e di potere contrattuale non potrebbero usufruire di questa possibilità. Per questo motivo si sostiene che un processo di codificazione del diritto contrattuale deve essere accompagnato dall’armonizzazione delle procedure giuridiche civili. L’esperienza degli Stati Uniti sopporta questo argomento. È importante notare che il mercato unico statunitense non è gravemente danneggiato dalla mancanza di una codificazione del diritto contrattuale. Anche se i vantaggi di un diritto uniforme dei contratti sono chiari, questo non implica che la codificazione sia l’unico modo di approfittare di questi vantaggi, soprattutto considerati i diversi problemi che la codificazione incontrerebbe. È necessario aumentare la convergenza nelle tre aree che abbiamo identificato (le regole, stili e procedure giuridici) prima che la codificazione possa essere un progetto realistico. 2.2 Soft law Considerate le critiche subite dal meccanismo di codificazione, molti giuristi hanno proposto altri meccanismi ‘soft’ con cui promuovere l’europeizzazione. Molti hanno sottolineato l’importanza di creare una cultura contrattuale europea per facilitare il processo di armonizzazione. Questa non sarà un’impresa
Anche se un ‘Restatement’ non ha la validità giuridica di legge, l’esempio degli Stati Uniti indica che potrebbe svolgere un ruolo importante. Una maggior convergenza nelle procedure giuridiche potrebbe essere ottenuta con un meccanismo simile
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facile, e saranno necessarie altre iniziative. In primo luogo, è necessaria l’identificazione di un diritto comune contrattuale europeo. Questo significa la realizzazione di libri che superano le frontiere fra stati. È anche importante iniziare un’educazione più ‘europea’ di questo diritto comune: le università europee hanno un ruolo importante per educare le future generazioni di avvocati. L’importanza di questo diventa chiara quando si guarda all’altra parte dell’Atlantico: anche se il diritto contrattuale statunitense non è armonizzato completamente gli studenti di giurisprudenza crescono con il diritto federale, non quello statale. Tuttavia questi meccanismi da soli non bastano ad ottenere un diritto contrattuale europeo unito, necessario per superare i bisogni economici di un mercato unico. Per questo motivi, molti dei giuristi non favorevoli alla codificazione spesso propongono un modello facoltativo al fine di incoraggiare una maggiore convergenza. Questo modello potrebbe essere simile al “Restatement of Law”, una compilazione privata celebre negli Stati Uniti in forma di articoli che espone sistematicamente le decisioni emesse nei vari Stati che, secondo i compilatori, meritano di essere applicate dai giudici. Un modello simile avrebbe il vantaggio di permettere sia al potere legislativo sia ai giudici di impegnarsi nella ricerca comparativa nel adattare le regole nazionali secondo una struttura europea (13). Anche se un ‘Restatement’ non ha la validità giuridica di legge, l’esempio degli Stati Uniti indica che potrebbe svolgere un ruolo importante. Una maggior convergenza nelle procedure giuridiche potrebbe essere ottenuta con un meccanismo simile. Tuttavia molti giuristi insistono che un meccanismo del genere non sarebbe sufficiente per ottenere l’unità necessaria di realizzare un mercato unico (14). 3 Il diritto dei contratti e l’armonizzazione in senso sostanziale In materia contrattuale, gli interventi del legislatore comunitario non avrebbero potuto È presidente del comitato essere limitatiscientifico alla diprospettiva della Alma Iura, Centro per cooperazione giudiziaria in materia e la Formazione e gli Studicivile Giuridici della creazione di uno spazio di giuridico Bancari e Finanziari Verona europeo. Si tratta, infatti, di una materia (www.almaiura.it) che che ha gentilmente concesso presenta un’incidenza diretta sull’assettola pubblicazione del presente regolativi del mercato imposto dall’Unione, e articolo ai fini di un corretto che dunque richiede,
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funzionamento dello stesso, un ravvicinamento delle disposizioni normative esistenti nei diversi paesi. L’espansione della logica economica del mercato e della libera concorrenza, sottesi all’impianto comunitario, ha inciso in maniera significativa sui diritti nazionali, almeno su due distinti piani: innanzitutto, sul piano delle riforme dei sistemi economici di intervento dello stato nell’economia, promovendo politiche di privatizzazione e, soprattutto, di liberalizzazione dei mercati; in secondo luogo, sul piano della disciplina generale dell’autonomia privata e del contratto, obbligando i legislatori nazionali a rimodellare le proprie normative, con riferimento ai rapporti contrattuali tra imprese e, soprattutto, tra imprese e consumatori. Nella prospettiva indicata, gli interventi del legislatore comunitario hanno puntato sull’armonizzazione in senso sostanziale del diritto contrattuale, nell’intento di eliminare le divergenze. Da qui il ricorso a direttive che, con riferimento al settore volta per volta considerato (contratti di viaggio, contratti conclusi fuori dai locali commerciali, clausole abusive, vendita di beni di consumo, ecc.) introducevano nuovi principi e nuove regole, fondate sul principio di trasparenza, sulla previsione di precisi obblighi informativi, sul ricorso a un nuovo formalismo negoziale, sull’introduzione di nuove forme di tutela dell’effettiva consapevolezza del consumatore, e via dicendo. 3.1 L’acquis comunitario e l’adozione di strumenti opzionali per la disciplina dei rapporti contrattuali transnazionali. Dal punto di vista degli sviluppi del diritto privato europeo, non v’è dubbio che particolare rilevanza rivestono quegli interventi del legislatore comunitario diretti all’armonizzazione in senso sostanziale delle regole relative ai contratti. Nei sistemi di civil law l’introduzione di nuovi principi e regole contrattuali di derivazione comunitaria ha determinato uno sconvolgimento che ha portato, in alcuni casi, persino alla revisione dell’originario impianto codicistico. Valga, per tutti, l’esempio della Germania, in cui la riforma dello Schuldrecht, avviata già alla fine degli anni settanta, ha ricevuto una spinta decisiva in seguito all’obbligo di adeguamento alla legislazione comunitaria, che ha inciso in maniera così radicale sulla coerenza interna del sistema, da determinarne una
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riconsiderazione (15). Di fronte a questa realtà, in cui il diritto contrattuale dei singoli Stati è già fortemente caratterizzato dall’incidenza del diritto europeo, giova chiedersi che senso abbia discorrere di maggiore armonizzazione del diritto privato ed invocare ulteriori prospettive di sviluppo di un diritto privato (contrattuale) europeo. Si tratta davvero di evocare la prospettiva di una codificazione europea destinata a soppiantare i codici nazionali o, comunque, i sistemi di diritto privato di ogni singolo Stato? O si tratta di una prospettiva più realistica, destinata a perseguire obiettivi più pragmatici? E, se è così, di quali obiettivi si tratta? La risposta agli interrogativi posti la troviamo in quegli interventi con cui la stessa Commissione ha progressivamente delimitato e definito i margini di sviluppo di un diritto privato europeo. In particolare, già a partire dalla Comunicazione del 2001 sul diritto contrattuale europeo, la Commissione ha chiarito come le prospettive di sviluppo dovessero essere correlate alla duplice tipologia di interventi che interessano la materia contrattuale e che in queste pagine si è cercato di descrivere: da un lato, gli interventi finalizzati alla creazione di uno spazio giuridico europeo; dall’altro, gli interventi finalizzati all’armonizzazione in senso sostanziale delle regole in materia di diritto contrattuale. In entrambi i casi, l’obiettivo perseguito è quello di andare oltre le strategie di intervento fino ad ora adottate. Più precisamente: a) con riferimento alla materia dei rapporti contrattuali transnazionali, l’obiettivo della unificazione dei criteri di collegamento è già stato realizzato, come si è detto, dalla Convenzione di Roma, divenuta oggi regolamento comunitario. In base a tale normativa (art. 3), (richiamata dall’art. 57 della l. di riforma del diritto internazionale privato), il criterio principale in ordine alla legge applicabile a un rapporto contrattuale è rappresentato dalla scelta delle parti (cd. autonomia della volontà). La Commissione, tuttavia, mette in evidenza come tale possibilità di scelta possa non rappresentare una soluzione ottimale, nell’ambito dei rapporti contrattuali che interessano il mercato europeo. La scelta, infatti, rinvia comunque ad un ordinamento straniero, che innanzitutto bisogna conoscere, con conseguente aumento dei costi transattivi. In ogni caso, le incertezze connesse all’applicazione di un diritto straniero possono finire per disincentivare il ricorso alle transazioni internazionali, soprattutto per le piccole e medie imprese; senza contare, poi, che la scelta in ordine
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alla legge applicabile può, concretamente, essere imposta dal contraente più forte. Per tali ragioni, la Commissione avverte come sarebbe più consono, in una prospettiva volta alla creazione di un mercato unico e di uno spazio giuridico senza frontiere, consentire alle parti di fare ricorso ad un corpo di regole di diritto contrattuale europeo, che possa fungere da strumento opzionale su cui orientare la scelta in merito alla legge applicabile al rapporto; b) con riferimento ai molteplici interventi di armonizzazione in senso sostanziale che hanno riguardato la materia contrattuale, la Commissione avverte come lo strumento fino ad oggi adoperato, ovvero la direttiva, possa presentare dei limiti, in ordine alla possibilità di ottenere risultati omogenei in tutto il territorio europeo. Ciò, relativamente a diversi profili: le direttive comunitarie utilizzano termini giuridici astratti, dei quali non viene fornita una definizione ed i medesimi termini possono assumere un significato diverso all’interno dei paesi destinatari; inoltre, trattandosi di uno strumento per definizione frammentario, le direttive, pur concernendo un medesimo ambito applicativo possono contenere al loro interno contraddizioni; infine, imponendo una misura di armonizzazione minima, le direttive non riescono ad eliminare del tutto il problema relativo alle differenze di legislazione nei singoli Stati. L’obiettivo, dunque, è quello di andare oltre la prospettiva di armonizzazione indiretta e frammentaria, rappresentata dallo strumento della direttiva. La Commissione non si limita a compiere tale analisi e, nei documenti successivi alla Comunicazione del 2001, individua la strada da intraprendere: l’adozione di un Quadro comune di riferimento (CFR) 12. A tale strumento la Commissione assegna una duplice funzione: da un lato, quella di un testo volto a stabilire una terminologia comune nel campo del diritto contrattuale europeo, allo scopo di potersene servire come modello normativo di riferimento, nella futura produzione normativa comunitaria e nazionale; dall’altro, quello di corpus di regole applicabili alla materia contrattuale, da adoperare quale strumento opzionale. Il CFR, dunque, che avrebbe una struttura e un contenuto composito, sarebbe lo strumento in cui si concretano le prospettive di sviluppo del diritto privato europeo, nella duplice direzione indicata: il miglioramento dell’acquis comunitario, attraverso un testo di riferimento idoneo ad eliminare le contraddizioni presenti nei molteplici interventi comunitari ed a fornire adeguate definizioni di termini giuridici adoperati nelle direttive; allo stesso tempo, l’utilizzazione di un corpo di regole unitario per la disciplina dei rapporti contrattuali internazionali, in una prospettiva volta al superamento della mera armonizzazione delle regole di conflitto. 4. Considerazioni conclusive È evidente che i meccanismi descritti nella parte precedente non mancano di aspetti criticabili: L’europa non è pronta per la codificazione dovuto all’eccessiva divergenza nelle regole, stili e procedure giuridici, la legislazione attuale manca di coerenza, e i meccanismi “soft” non sono sufficienti per soddisfare i bisogni dell’integrazione europea. A questo punto è utile considerare le discussioni più generali sull’integrazione europea, fuori dal campo del diritto privato. Il conflitto fra giuristi favorevoli al “hard law” e quelli favorevoli al “soft law” appare anche nel contesto del programma sociale europeo. Alcuni giuristi preferiscono l’uso del metodo comunitario classico, mentre altri preferiscono meccanismi “soft”, come il metodo aperto di coordinamento. Questo primo gruppo presume che la mancanza di legislazione centrale provochi un “race to the bottom” (declino) negli standard sociali, mentre il secondo gruppo sostiene che la diversità sia un vantaggio nella ricerca verso nuove soluzioni a problemi nuovi creati
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dall’integrazione europea. Tuttavia la verità è che un conflitto fra questi due gruppi non è inevitabile: una convergenza maggiore può essere ottenuta con un ibrido delle due idee. Questi ragionamenti sono applicabili anche alla discussione sul diritto europeo contrattuale: mentre il ruolo del “hard law” è insostituibile per ottenere un’unità coerente per realizzare un mercato unico, il ruolo del “soft law” è ugualmente insostituibile per coordinare il processo legislativo e aumentare la convergenza fra gli stati membri. Altri meccanismi soft sono indispensabili alla creazione di una cultura contrattuale europea, importante per preparare una base per l’accettabilità e la coerenza di un’eventuale legislazione.
La Commissione non si limita a compiere tale analisi e, nei documenti successivi alla Comunicazione del 2001, individua la strada da intraprendere: l’adozione di un Quadro comune di riferimento (CFR)
NOTE (1) È opportuno precisare subito che il termine ‘europeizzazione’ in questo saggio verrà usato intercambiabilmente con il termine ‘armonizzazione’. Con questo termine intendiamo una convergenza nelle regole e pratiche del diritto contrattuale nei sistemi degli stati membri dell’Unione europea, sia graduale che immediata. (2) Sull’argomento v. C. KOHLER, Lo spazio giudiziario europeo in materia civile e il diritto internazionale privato comunitario, in P. PICONE (a cura di), Diritto internazionale privato e diritto comunitario, Milano, 2004, p. 65; F. POCAR, La comunitarizzazione del diritto internazionale privato: una “European Conflict of Law Revolution”?, in RDIPP, 2000, p. 873 ss.. (3) OJ C 158, 26.6.1989, p.400 (Resolution A2-157/89) (4) O Lando and H Beale (eds.), Principles of European Contract Law Parts I and II, Kluwer, 2000. (5) Academy of European Private Lawyers, European Contract Code – Preliminary draft, Pavia, 2001 (6) Questa tecnica comparativa può essere nominata come “common core”, molto usata dopo il progetto Cornell negli anni 60. Cf R B Schlesinger, Formation of contracts, a study of the common core of legal systems, New York, 1968, e M Bussani, U Mattei, ‘The Common Core Approach to European Private Law’, (Vol. 3 1997/98) The Columbia Journal of European Law 339. (7) Cf. O Lando, ‘Optional or Mandatory Harmonisation’, (2000) European Review of Private Law, p.59, alla p.65. (8) Cf. M Bussani, “Integrative Comparative Law Enterprises and the Inner Stratification of Legal Systems”, (2000) ERPL p. 85, at pag. 92. (9) J Scott and D Trubek, ‘Mind the Gap: Law and New Approaches to Governance in the European Union’, ELJ 8/1:1-18 (2002). (10) Cf. O Lando, si veda nota numero 7. (11) P Legrand, Against a European Civil Code, (1997) 60 MLR 44. (12) Cf. le proposte di C. Schmid, nota 12. (13) Cf. le proposte di C. Schmid, nota 12. (14) Cf. O Lando, si veda nota numero 7.
Avvocato è specializzato nel settore Corporate, avvicinandosi alla consulenza aziendale, al tax planning ed alla internazionalizzazione delle aziende, Franz Gjeluci è autore di numerosi articoli e approfondimenti. Presente con il proprio studio nelle sedi di Tirana e Shkodra in Albania, con uffici in Italia a Bergamo e Milano (www.franz-partners.ue) .
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Building Management. Nuove frontiere nella gestione degli asset immobiliari
di Lorenzo Cottignoli e Riccardo Piccioli
La crisi globale e più specificatamente quella immobiliare ha reso urgente anche in Italia la professionalizzazione del settore della gestione immobiliare. Che si tratti di asset patrimoniali individuali di grandi dimensioni piuttosto che di condomini, anche piccoli, diviene ogni giorno più importante e urgente reimpostare con metodologie professionali tutta la filiera di gestione, conduzione e management di un immobile. La stella polare di questa nuova impostazione manageriale sul mondo dell’immobile è la sua valorizzazione in termini reddituali nonché la massimizzazione della soddisfazione dei soggetti coinvolti siano essi piccoli proprietari, semplici conduttori o imprenditori del settore. Sono oramai tramontati i tempi nei quali la valorizzazione degli immobili scorreva sicura sull’asse della rivalutazione patrimoniale. Da poco meno di un decennio, il valore patrimoniale degli immobili è rappresentato, nella migliore delle ipotesi da una linea piatta, se non inesorabilmente discendente. In questo scenario diventa quindi fondamentale rivedere in modo professionale le scelte di gestione, minimizzando, ottimizzando, rivalutando le prestazioni, in modo tale da
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rendere gli asset immobiliari delle “macchine perfette”, sia per la preservazione delle prestazioni di base, sia per adeguare le stesse alle nuove esigenze della popolazione residente, che cambiano continuamente e si specializzano per target, settori, zone Da professionisti a manager Ecco quindi profilarsi la necessità di una progressiva riqualificazione del settore dell’amministrazione di immobile e condomini: da professionisti di settore con competenze legate soprattutto alla gestione dell’ordinario, a veri e propri manager specializzati con competenze diversificate e sempre più tecniche, in grado di assicurare capacità di visione, previsione e management improntate a sofisticate technicalities e tali da progettare e realizzare gestioni di medio – lungo termine ottimizzate e “by objectives”. Per mettere a fuoco e dimensionare quanto sin qui descritto basterà fare un accenno al concetto di Life Cycle e al relativo LCC (Life Cycle Cost) ovvero i “costi complessivi che derivano dal possesso e dall’utilizzo di una proprietà nell’arco del ciclo di vita previsto.
Fonte: audit su immobili della NTT (Nippon Telegrph and Telephone). Credit V. Acunto
Appare immediatamente evidente come i costi di manutenzione e della gestione operativa rappresentino una rilevantissima parte del Costo complessivo dell’asset immobiliare nel suo ciclo di vita atteso/medio. Ciò rende fondamentale applicare i criteri tecnici e di visione tipici delle più avanzate e professionali scuole e pratiche di management a queste rilevantissime voci di costo e conseguentemente a ciò che potrà fare la differenza sui parametri reddituali dell’asset stesso. Operare scelte sulle strategie delle manutenzioni piuttosto che su aspetti legati alla climatizzazione e quindi ai parametri energetici di un edificio, risulterà dirimente circa i risultati gestionali e valutativi dello stesso nel medio-lungo periodo. Da amministratori contabili e amministrativi a manager per la redditività La fondamentale e basica funzione dell’amministratore di immobili e condomini resta
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quindi pilastro della gestione ordinaria, che come tutte le funzioni di base può, solo in prima approssimazione, apparire come scontata. Una buona gestione dell’ordinario, sana, equilibrata, di buon senso nonché professionale, risulta sempre essere il prerequisito di base alla buona gestione dell’immobile e quindi alla sua redditualità nel breve come nel medio-lungo periodo. A questa funzione base va quindi ad affiancarsi e aggiungersi quella del Building Manager che si caratterizzerà molto più sugli Francesco aspetti tecnico manutentivi dell’immobile. Questa figura sarà caratterizzata dagli aspetti tipici della funzione manageriale, ovvero quelli che ne fanno un leader, un play maker, il centro fondante del “fare” con cognizione di causa e con obiettivi da raggiungere. Il Building Manager allora sarà un buon ascoltatore-comunicatore, dotato di vision, di competenze tecniche, ma soprattutto finalizzato all’obiettivo che si sarà concordato tra la proprietà e il manager stesso. Dovrà necessariamente essere in grado di dialogare su più fronti con i professionisti e tecnici dei settori ingegneristici, impiantistici e manutentivi, urbanistici, legali, essendo formato e informato sulle più rilevanti innovazioni a tutto campo; ma ancor più dovrà finalizzare le competenze, le gestioni e le triangolazioni in modo da raggiungere più efficacemente e efficientemente gli obiettivi prefissati. Il Building Manager sarà allora un leader, con: • conoscenze di tipo informatico , essendo tutta l’attività quotidiana odierna realizzata informaticamente; • “cultura manutentiva”, avendo visto quale e quanta parte dei costi passino sul fronte della buona e strategica manutenzione; • attitudini commerciali, dovendo potersi relazionare con successo con fornitori di servizi e strutture, organizzazioni; • conoscenze urbanistiche e catastali; • conoscenze normative Oltre a ciò, completeranno gli skills tecnici e professionali, quelle caratteristiche personali implementabili con la formazione accademica e con il training on the job, quali: • l’orientamento al “problem-solving”; • la diplomazia e il savoir fair indispensabili al miglior dispiegarsi delle relazioni interpersonali; • il senso del dovere e la deontologia; • la determinazione e la capacità di “deliver the good” indispensabili al raggiungimento dei risultati e tipici di ogni gestione manageriale finalizzata.
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“conoscenze di tipo informatico,
essendo tutta l’attività quotidiana odierna realizzata informaticamente; • “cultura manutentiva”, avendo visto quale e quanta parte dei costi passino sul fronte della buona e strategica manutenzione; • attitudini commerciali, dovendo potersi relazionare con successo con fornitori di servizi e strutture, organizzazioni”.
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Aree tecniche: Manutenzione Veniamo ora a definire alcune fondamentali questioni di tipo tecnico che avranno influenze determinanti sulla gestione integrata di un patrimonio immobiliare. Termini quali Facility Management, Property Management, Global Services, Asset Management, Risk Management, Manutenzione a data costante, Manutenzione su condizione, Manutenzione a guasto, Service Level Standard, diventano patrimonio di questa nuova cultura e organizzazione della gestione immobiliare. Senza volere qui dilungarsi troppo su aspetti tecnici specifici, vogliamo concentrare l’attenzione su alcuni aspetti dirimenti, quali ad esempio le strategie manutentive. Non esiste una strategia manutentiva vincente a priori, ma andranno valutate attentamente le situazioni in funzione dello stato dell’immobile e dei relativi servizi e impianti. Certo è che passare da una cultura della riparazione del guasto in emergenza (solitamente in giornata festiva) ad una programmazione degli interventi a ciclo, consumo, o tempo o meglio ancora ad un mix di questi in funzione delle realtà oggettive e degli obiettivi da perseguire, appare evidente e di buon senso. Si tratterà quindi di impostare un programma ben strutturato in funzione dello stato e quindi del censimento dei beni, passando per un check up degli stessi e integrando il tutto con le finalità e gli obiettivi reddituali che si sono impostati come obiettivo. Le attività di gestione integrata Focalizziamo ora l’attenzione sulle attività chiave della gestione integrata dei patrimoni immobiliari, che possiamo riassumere in cinque aree: Asset Management, che si definisce come la gestione strategica di un patrimonio immobiliare; Property Managent, l’attività basica dell’amministrazione ordinaria, prevalentemente amministrativa; Building Management, consistente nella gestione tecnica e di manutenzione di un patrimonio immobiliare esistente; Facility Management, concernente tutte quelle attività relative alle forniture di servizio accessorie; Marketing&Selling, ovvero tutto ciò che riguarda la commercializzazione e promozione di un immobile. Tutte queste attività e le modalità con le quali vengono impostate e realizzate fanno riferimento a quel modus operandi qualificante che mira a massimizzare la redditualità di un immobile, ovvero ad ottimizzarne le prestazioni o meglio ancora ad un sano ed equilibrato mix di queste componenti apparentemente conflittuali. 18
“conoscenze urbanistiche e catastali; conoscenze normative Oltre a ciò, completeranno gli skills tecnici e professionali, quelle caratteristiche personali implementabili con la formazione accademica e con il training on the job, quali: l’orientamento al “problemsolving”; la diplomazia e il savoir fair indispensabili al miglior dispiegarsi delle relazioni interpersonali; il senso del dovere e la deontologia; la determinazione e la capacità di “deliver the good”
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Dobbiamo infatti concepire il Management avanzato di un asset immobiliare quale la risultante di tutte le attività e le strategie che mettono al centro il valore dell’investimento e dell’immobile, secondo un classico schema a matrice che intercetta nel tempo le traiettorie della monetizzazione e dell’investimento (lato capitale) e delle migliorie e valorizzazioni (lato immobile).
“i livelli di competenza toccano settori professionali quali quelli legali, amministrativi, fiscali, di consulenza in materia giuslavoristica, tecnici, finanziari, nonché tutte le nuove attività collaterali”
Managers e Strutture operative Va da sé che competenze e finalità di tipo strategico ed elevato rendano indispensabili approcci multidisciplinari, e pertanto che dai singoli, dalle persone, si passi inevitabilmente alle strutture organizzate. Il settore si caratterizza, quindi, sempre più, mediante organizzazioni e società complesse che possono assumere anche dimensioni importanti. Inoltre, i livelli di competenza toccano settori professionali quali quelli legali, amministrativi, fiscali, di consulenza in materia giuslavoristica, tecnici, finanziari, nonché tutte le nuove attività collaterali che vedono al centro dell’attenzione i nuovi bisogni di una popolazione che invecchia e che necessita di servizi alla persona che trovano sempre più spesso ottimizzazione in realtà complesse e integrate. Per tacere di quei servizi che richiedono dimensioni importanti e che vedono nella sinergia tra più immobili/condomini la loro massima realizzazione. Siamo ad un punto di svolta anche a livello dei bisogni che sempre più spesso non vengono più soddisfatti dalla dimensione privata, né da quella collettiva classica rappresentata dal comune o dallo stato. Si pensi solo - a titolo esemplificativo - al cohousing molto diffuso nelle realtà nord europee e ora in via di sviluppo anche qui da noi, piuttosto che alle esperienze quali quelle del custode sociale che offre servizi cerniera tra gli abitanti e le istituzioni/servizi attivi sul territorio. Un accenno va inoltre fatto a quel rapporto sempre più importante e sinergico che si viene a sviluppare tra gli immobili, i loro abitanti, i condomini, i super condomini e i progetti e programmi promossi dalle istituzioni locali o da soggetti qualificati anche privati, che hanno come scopo il miglioramento e/o risanamento del territorio. Si pensi al riguardo all’ultimo comma dell’articolo 1135 c.c. così come scaturito dalla legge 220/2012, il quale dispone che “l’assemblea può autorizzare l’amministratore a partecipare e collaborare a progetti, programmi e iniziative territoriali promossi dalle istituzioni locali o da soggetti privati qualificati, anche mediante opere di risanamento di parti comuni degli immobili nonché di demolizione, ricostruzione e messa in sicurezza statica, al fine di favorire il recupero del patrimonio edilizio esistente, la vivibilità urbana, la sicurezza e la sostenibilità ambientale della zona in cui il condominio è ubicato”.
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I Network Tale nuova complessità genera sempre più il bisogno di sviluppare sinergie tra componenti professionali limitrofe, con la nascita e lo sviluppo di veri e propri Network che vedono lavorare fianco a fianco professionisti e imprese specializzate, nel rispetto delle reciproche prerogative e competenze ma sempre più integrate con lo scopo di raggiungere il massimo dell’efficacia e dell’efficienza gestionale. Solo a titolo di prima approssimazione si segnalano le seguenti possibili sinergie strategicooperative: • Building Manager & Amministrazioni di Immobili e Condomini • Facility Manager e Servizi agli immobili e ai loro abitanti • Agenzie di intermediazione immobiliare • Studi amministrativi, fiscali e del lavoro • Studi legali specializzati • Studi tecnici ingegneristici e di architettura • Studi impiantistici e di climatizzazione • Società di Global Services
Inevitabilmente portano il futuro in un settore che ha sempre vissuto con la testa rivolta al passato e al “si è sempre fatto così”. Prima renderemo presente questo futuro, prima rivalorizzeremo il nostro immenso patrimonio che a livello di sistema – Paese può veramente rappresentare la chiave di svolta dell’economia e del benessere collettivo.
Il tutto pensato con approcci integrati e sinergici di lungo periodo e non come mere interrelazioni occasionali e occasionate dal bisogno di qualche specifica realtà. Il Network di professionalità e servizi per gli immobili e per i loro abitanti, siano essi privati cittadini o professionisti, lavoratori e società, inteso come un team di collaborazioni sinergiche e strutturali pur nel rispetto delle singole autonomie e competenze porta inevitabilmente alla specializzazione, all’eccellenza e alla massimizzazione del rapporto qualità/prezzo delle prestazioni. Rating e Benchmarking Quanto sin qui enunciato porta conseguentemente alla possibilità di applicare tutte quelle indicizzazioni, rating e matrici di tipo quali-quantitativo classiche del mondo economico finanziario, anche alle realtà immobiliari siano esse di tipo semplice o complesso, strutturate in portafogli di assets. I rating vanno approcciati quali ausili indispensabili ad un mondo immobiliare che si qualifica, innova, professionalizza. Servono a creare standard, a collegare realtà differenziate e geograficamente lontane, piuttosto che a rendere più sostenibili i confronti tra situazioni e patrimoni, assets, immobili e società diversificate. Inevitabilmente portano al confronto, al relazionarsi con le eccellenze dei vari settori con inevitabili conseguenze positive di innalzamento complessivo della qualità e degli standard delle singole realtà e dei sistemi.
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Building manager, esperto in management e gestione d’impresa, organizzazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare, Riccardo Piccioli é fondatore e responsabile per l’Area Immobiliare di Iuxta Network, team di professionisti specializzati nel settore. Avvocato civilista, esperto in diritto immobiliare e condominiale, Lorenzo Cottignoli coordinatore regionale per l’Emilia Romagna di ANAP – Associazione Nazionale Amministratori Professionisti, sostiene e contribuisce all’organizzazione di numerose iniziative per la valorizzazione della figura dell’amministratore e della sua professionalità. Iuxta Network – Area immobiliare - www.iuxta.biz.
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“231 e ambiente. Spunti operativi e casistica” a cura di Mara Chilosi, Filodiritto Editore, 2013
CAPITOLO IV: L’approccio per l’adozione o l’aggiornamento del modello per i reati ambientali: standardizzazione versus customizzazione (seconda parte) di Mara Chiosi L’adozione del modello 231 nelle imprese dotate di un sistema di gestione ambientale (o di procedure operative formalizzate). Si diceva, i sistemi di gestione ambientale adottati conformemente alla norma UNI EN ISO 14001 o al regolamento EMAS o ad altri schemi volontari, siano essi o meno standardizzati, costituiscano un rilevante elemento di facilitazione nell’adozione del modello 231. In assenza di procedure operative formalizzate, debbono essere infatti inserite direttamente nell’ambito dei protocolli del modello le modalità operative ed i con- trolli attraverso cui garantire l’adempimento dei diversi obblighi normativi, spesso di natura soltanto formale, la cui violazione costituisce il reato-presupposto della responsabilità dell’ente. Operazione che, in presenza di prassi non codificate ma comunque effettivamente applicate in azienda, può consistere nella ricognizione e formalizzazione di quanto già presente, in sede di gapanalysis in fase di mappatura dei rischi oppure in fase di definizione dei protocolli del modello 231 o del piano di miglioramento.
Rilevanza dei sistemi di gestione ambientale adottati conformemente alla norma UNI EN ISO 14001 o al regolamento EMAS ambientali di reato.
Diritto Ambientale e Resp. penale degli Enti 231/01 Società
In presenza, invece, di una normazione interna di “secondo livello” (normazione interna che invero oggi è difficile non sia presente, quantomeno nei suoi tratti essenziali, in qualsiasi impresa), il modello 231 può (e deve) essere implementato attraverso una accurata operazione di integrazione, nell’organizzazione preesistente, di quanto prescritto dal decreto legislativo n. 231 del 2001 nell’ottica della prevenzione dei reati. Ciò anche al fine di evitare un’inutile e controproducente moltiplicazione dei sistemi organizzativi presenti nell’ambito dell’ente, che può sortire, quali unici effetti, lo spreco di risorse, l’inefficacia dei controlli (“troppi controlli, nessun controllo”30) e la coesistenza di “sistemi paralleli” che possono essere anche contraddittori fra loro, indebolendo ulteriormente la difesa dell’ente nel caso di procedimento. Va inoltre considerato che il modello 231 è adottato dall’organo di gestione dell’ente, dunque ad un livello elevato di direzione, e che le previsioni in esso contenute devono, pur nella loro necessaria concretezza e diretta idoneità preventiva, essere coerenti con tale livello decisionale, anche in ragione della necessità di preservare l’effettività del sistema di poteri esistente. ESEMPIO DI MISURA Prevenzione del rischio di gestione illecita di rifiuti associata alla violazione delle condizioni per il deposito temporaneo di rifiuti presso il luogo di produzione: deposito incontrollato [art. 183, comma 1, lettera b), in combinato disposto con l’art. 256, comma 1, lettere a) e b) decreto legislativo n. 152 del 2006]. (continua)
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CON SGA
SENZA SGA
Codice Etico Identificazione dei rischi Programma di prevenzione/di miglioramento (scelta sul dimensionamento del modello e pianificazione delle azioni di miglioramento) Parte generale del modello Parti speciali del modello, tra cui la “parte speciale reati ambientali” o controlli adottati nell’ambito dei processi/attività a rischio (misure per apicali + misure “cerniera”)* Sistema disciplinare Nomina OdV Registrazioni del modello (es. sanzioni, verbali OdV, verbali CdA, ecc.)
PRIMO LIVELLO Attività nel cui ambito Attività nel cui ambito adottare la misura: gestione adottare la misura: magazzino. Destinatari: adozione di norme responsabile magazzino, attuative del modello addetti magazzino. 231. Misura: devono essere Destinatari: responsabile adottati ed applicati ambientale dell’impresa. controlli che garantiscano il Misura: deve essere rispetto dei limiti quantitativi adottato e mantenuto o temporali per il deposito attivo un sistema di temporaneo dei rifiuti in gestione per l’ambiente assenza di autorizzazione, (SGA) conforme alla che prevedano l’utilizzo di norma ISO unità di carico per il SECONDO LIVELLO: SGA ISO 14001/EMAS 14001 certificato da Ente deposito dei rifiuti di volume indipendente complessivamente Politica accreditato. coincidente con il volume Analisi ambientale iniziale I rapporti dell’ente di massimo stabilito dalla Manuale Procedure Istruzioni operative certificazione, l’elenco legge, oppure di scadenzari Dichiarazione ambientale (per EMAS) delle procedure adottate informatici sottoposti a Registrazioni del SGA (compresi piani e programmi) nell’ambito del SGA, i verifica periodica da parte verbali delle verifiche delle funzioni preposte. Il *Qui e altrove si è fatto riferimento ad una “parte ispettive interne devono rispetto di tali procedure speciale” relativa ai reati ambientali. Questo essere trasmesse dal deve essere sottoposto a approccio “strutturale” non è peraltro l’unico responsabile SGA all’OdV. verifica ispettiva periodica Registrazioni: Certificato da parte di funzioni possibile: ad es. le Linee Guida per l’adozione dei ISO 14001; evidenza della separate da quelle modelli adottate da ANCE, le quali rappresentano trasmissione ad OdV dei incaricate un validissimo riferimento per la costruzione dei verbali. dell’adempimento, con modelli 231, suggeriscono l’adozione di protocolli successiva comunicazione per “processi” e non per “reati”. dell’esito della verifica SECONDO LIVELLO Una simile operazione richiede, è di tutta evidenza, un all’OdV. Procedura operativa congruo tempo e può pertanto essere Registrazioni: scheda “Gestione dei rifiuti”. ragionevolmente effettuata per stadi progressivi: settimanale rifiuti in Istruzione operativa 1. innanzitutto occorre effettuare una ricognizione deposito; rapporto di “Gestione dei rifiuti in verifica ispettiva interna; deposito temporaneo”. delle procedure e delle prassi esistenti 31, che evidenza della trasmissione Registrazioni SGA. debbono essere tutte formalmente ricondotte al ad OdV.
modello 231 (per quanto qui rileva, alla “parte speciale reati ambientali”), previa eliminazione di quelle obsolete o incoerenti;
Il modello 231 deve dunque costituire l’“ossatura” portante dell’organizzazione aziendale a tutti i 2. bisogna poi implementare le procedure operative livelli, quasi come fosse la “Costituzione” eventualmente mancanti rispetto al “set” di misure dell’ente, attraverso la quale l’organo di gestione di prevenzione individuate a li- vello di modello 231, esprime i “valori” dell’ente; rende noti ai singoli i misure che, anche in ragione dell’opportunità di principi etici cui debbono conformare la propria evitare che vi sia un “modello as is” (coincidente azione nell’ambito e a favore dell’ente; esprime con ciò che, in concreto, viene applicato in le direttive organizzative, che poi debbono azienda) non conforme al “modello to be” (ossia il necessariamente trovare attuazione, sotto il modello “a tendere”, in cui sono previsti controlli che profilo operativo, ai livelli decisionali inferiori, tuttavia potrebbero non essere ancora attuati) – secondo il principio di “sussidiarietà”. Il tutto situazione che di certo non gioverebbe all’ente in garantendo una coerenza di fondo, che, caso di sottoposizione ad un procedimento nelle soprattutto in caso di modelli 231 sopravvenuti more del completamento delle azioni di rispetto alle procedure operative di secondo miglioramento pianificate –, debbono comunque livello osservate nell’esercizio dell’attività, deve risultare già formulate, in sede di prima adozione essere oggetto di un’attenta verifica (anche da del modello (o della parte speciale riferita ad un parte dell’organismo di vigilanza) e di un’azione particolare gruppo di reati, per quanto qui rileva di integrazione e miglioramento continua. quelli ambientali), in maniera sufficientemente concreta e dunque suscettibili di applicazione STRUTTURA ORGANIZZATIVA DELL’ENTE PRIMO diretta; LIVELLO: MODELLO 231 22
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3. parallelamente, è opportuno sottoporre a verifica le procedure operative esistenti (e questa è un’attività che, a mio avviso, può e deve essere svolta anche dall’organismo di vigilanza) al fine di individuare eventuali contraddizioni o carenze rispetto alle misure del modello 231, in presenza delle quali l’ente deve svolgere una operazione di revisione, nonché di renderle coerenti con la funzione di prevenire reati, che non è certo la principale per la quale esse sono state in origine create; 4. infine, il più alto grado di integrazione ed efficacia lo si può conseguire attraverso l’ulteriore affinamento delle procedure di “secondo livello”, consistente nell’inserimento direttamente nel testo dei seguenti elementi: rinvio ai rischi di commissione di reatipresupposto connessi alla inosservanza di quanto prescritto; richiamo delle misure del modello di riferimento; indicazione espressa della prevenzione dei reati-presupposto di cui sopra quale “scopo” della procedura (oltre agli altri già individuati precedentemente); richiamo degli obblighi informativi all’organismo di vigilanza associati alle attività disciplinate; richiamo delle sanzioni disciplinari previste dal modello in caso di loro inosservanza. Un simile livello di integrazione è certamente molto efficace in termini tanto preventivi, quanto difensivi. Ciò non significa, peraltro, che sia necessario raggiungerlo (o che sia necessario raggiungerlo totalmente), nel senso che il modello può risultare idoneo ed efficace anche in presenza di documenti tra loro separati, se ne viene comunque garantita l’attuazione mediante un sistema organizzativo coerente ai diversi livelli; una adeguata formazione di tutte le persone operanti nell’ambito e nell’interesse dell’ente; il costante coinvolgimento degli stakeholders aziendali nel mantenimento e nel miglioramento del sistema, nell’aggiornamento della mappatura dei rischi, nella segnalazione delle violazioni; una continua e diligente azione dell’organismo di vigilanza, compiuta in collaborazione con tutti i sistemi di controllo presenti in azienda ai diversi livelli. Una possibile “controindicazione” della integrazione “spinta” può peraltro es- sere rappresentata dalla rapida obsolescenza delle procedure, laddove esse non vengano aggiornate ogniqualvolta viene aggiornato il modello, nonché dalla possibilità che vengano sottovalutati o non considerati “effetti preventivi” che la procedura di secondo livello può avere, an- che soltanto indirettamente, rispetto a reati di altri ambiti (ad es. le procedure di qualificazione e verifica dei fornitori dei servizi di gestione dei rifiuti possono efficacemente prevenire,
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oltre ai reati specifici di cui all’art. 25-undecies, i reati associativi). Ed allora un buon “compromesso” può essere quello di realizzare “matrici dei controlli” con funzione di “cerniera” tra riferimenti normativi e rischireato da un lato, e documentazione operativa dall’altro lato.
Modelli 231 e principio di effettività A comprova della utilità della integrazione nel modello dei sistemi di gestione aziendale, giova considerare anche quella parte della giurisprudenza che ha dato mostra di essere incline a valutare l’idoneità dei modelli in chiave preventiva adottando – quale che sia il reato-presupposto e come è auspicabile che avvenga – un approccio improntato al principio di effettività. Ci si riferisce, in particolare, alla sentenza del 17 novembre 2009 del Tribunale di Milano sul caso Impregilo, recentemente confermata in Corte d’Appello32, che ha ritenuto l’idoneità del modello 231 dando rilievo ad una procedura adottata ancor prima della formale adozione dello stesso da parte dell’organo di gestione; alla sentenza ThyssenKrupp di primo grado33 che, sebbene per inciso, sembra non precludere una difesa dell’ente basata sul «“principio di effettività” e, quindi, superando in tale prospettiva il dato formale della non avvenuta adozione del “modello” da parte dell’organo competente, in epoca precedente rispetto al verificarsi del reato»; alla sentenza del 23 maggio 2012 del Tribunale di Brescia, che, sebbene anch’essa in via incidentale, in una nota a piè di pagina (essendo stato assolto l’imputato persona fisica, il datore di lavoro accusato del reato di cui all’art. 590 codice penale per le lesioni subite da un dipendente coinvolto in un infortunio sul lavoro), ha riconosciuto di apprezzare la tesi difensiva circa l’esistenza in epoca anteriore all’infortunio di un “modello sostanziale”, benché non formalizzato (tesi, tra quelle difensive, ritenuta «più interessante e fondata sulle risultanze testimoniali e sulla rapidità con cui è stata successivamente all’infortunio ottenuta dalla […] la certificazione OHSAS 18001, compatibile con la preesistenza di protocolli di sicurezza, sistemi di vigilanza e sanzionatori sostanzialmente conformi ai requisiti di legge»34). In quest’ottica, appare consigliabile valorizzare, in sede di adozione del modello (o di successivo aggiornamento dello stesso a specifici ambiti di reato) le procedure preesistenti, quale che ne sia il livello di approvazione, richiamandole nel modello stesso e dando conto (ad es. nell’elenco o nel data-base delle procedure considerate “attuative” delle misure di prevenzione dei reati allegato al modello e/o espressamente richiamato nel verbale
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dell’organo di gestione) della data di prima approvazione (le successive revisioni saranno poi riportate sul singolo documento). Ciò anche al fine di dimostrare che il modello, lungi dal rappresentare la prima azione svolta dall’ente in chiave di prevenzione dei reati, è stato adottato in continuità con la propria politica ed azioni pregresse, già improntate alla compliance aziendale (elementi, questi, da adeguatamente valorizzare anche nel testo della delibera di adozione o di aggiornamento del modello, oltre che nelle parti descrittive del modello stesso). La scelta sul “dimensionamento” del modello o di sue singole “parti speciali Le considerazioni svolte nel precedente paragrafo in ordine alla op portunità di personalizzare il modello, di evitare una moltiplicazione dei controlli in modo da non perdere in efficacia, di privilegiare un approccio che valorizzi le procedure e le prassi esistenti, procedendo direttamente alla loro integrazione anche in chiave di prevenzione dei reati (adeguandone scopo e, ove necessario, contenuto), debbono essere richiamate an- che in ordine ad un altro importantissimo tema: quello del “dimensiona- mento” del modello (nella sua interezza, così come pure nell’ambito della medesima “parte speciale”). È infatti evidente come l’ente non possa, in ragione del vastissimo catalogo dei reati-presupposto individuato dal decreto legislativo n. 231 del 2001, investire le medesime risorse rispetto alla prevenzione di tutte le fattispecie astrattamente applicabili alla propria attività, ma debba necessariamente esercitare uno sforzo proporzionato al rischio concreto che i reati, tenuto conto dell’organizzazione esistente, oltre che della storia dell’ente e del settore di riferimento, possano essere commessi. Questa scelta potrebbe essere adottata anche soltanto avendo riguardo, in una logica puramente economica, al rischio sanzionatorio, e dunque al “costo” connesso all’eventualità che l’ente venga imputato (con il conseguente rischio di subire misure cautelari e/o di essere esposto alla “gogna mediatica” e comunque di doversi difendere) o addirittura condannato (con la conseguenza di dover sopportare le sanzioni economiche e/o interdittive, le sanzioni accessorie, la confisca del profitto del reato). A mio avviso, un simile approccio non solo non è di per sé esecrabile, ma – in presenza di una azione preventiva “minima”, che è opportuno (anzi, doveroso) venga in ogni caso messa in atto per tutti i reati rispetto ai quali la mappatura abbia evidenziato un rischio “inerente” (azione minima che consiste nell’adozione di un codice etico; nella somministrazione di adeguata formazione rispetto alle fattispecie di reato ed agli esiti della mappatura dei rischi; nella nomina dell’organismo di vigilanza; nel rispetto delle procedure operative esistenti) – è addirittura consigliabile.
«l’ente non possa, in ragione del vastissimo catalogo dei reatipresupposto individuato dal decreto legislativo n. 231 del 2001, investire le medesime risorse rispetto alla prevenzione di tutte le fattispecie astrattamente applicabili alla propria attività (…) »,
Ciò presuppone naturalmente che la mappatura dei rischi venga svolta in modo approfondito e comporta evidentemente l’assunzione, da parte dell’organo di gestione, di un rischio imprenditoriale, per quanto “residuo”: quello che – secondo la “murphologia” di Arthur Bloch – il reato considerato a “basso rischio” venga commesso e contestato e che il giudice, non condividendo la valutazione dell’ente (laddove formalizzata: cosa perciò tendenzialmente da evitare) e comunque ritenendo insufficiente la “azione minima” compiuta, pronunci una condanna. Ma tale rischio non deve essere sopravvalutato o comunque deve essere messo in relazione con quello che la introduzione generalizzata di controlli analoghi su tutti i reati (prevenzione “flat”) si traduca, in concreto, in un “livellamento” nocivo, con la conseguenza di diminuire l’efficacia dell’azione preventiva nei settori a maggiore rischio. 24
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Questo ragionamento vale sia che si considerino i diversi “gruppi” di reato (i reati connessi alla sicurezza sul lavoro versus i reati di falso nummario; i reati di corruzione e concussione versus i delitti contro l’industria e il commercio), sia che si consideri il medesimo “gruppo” di reati, nel caso di interesse i reati ambientali. Ed infatti i diversi reati ambientali sono puniti, dall’art. 25-undecies del decreto legislativo n. 231 del 2001, con incisività diversa sotto il profilo economico; alcuni di essi soltanto possono comportare l’applicazione di sanzioni interdittive (e dunque l’adozione di misure cautelari in fase di indagini); alcuni reati ambientali non possono essere commessi se non a fronte di particolari condizioni ambientali (es. la vicinanza dello stabilimento ad un habitat protetto); altri non sono addirittura configurabili in capo ad un ente, pure interessato dall’impatto ambientale in sé considerato, in ragione del particolare regime autorizzativo al quale è sottoposto (non sono ad es. stati inseriti nell’art. 25-undecies i reati previsti dalla normativa IPPC, dunque l’assenza o la violazione dell’autorizzazione integrata ambientale, con la conseguenza che, rispetto agli impianti dotati di tale provvedimento, la prosecuzione dello scarico di acque reflue industriali contenenti sostanze pericolose ad autorizzazione scaduta, sospesa o revocata non potrà fondare, stante il principio di legalità espresso 35
dall’art.2 del decreto legislativo n. 231 del 2001 , una responsabilità a carico dell’ente, a differenza che rispetto agli impianti dotati di ordinaria 36
autorizzazione ai sensi dell’art. 124 decreto legislativo n. 152 del 2006 ); altri non vengono, nella pratica, perseguiti e dunque rappresentano un rischio davvero basso per le imprese (il riferimento è al reato di cui all’art. 279, comma 5 decreto legislativo n. 152 del 2006, consistente nel superamento dei limiti di emissione in atmosfera che comporti anche il superamento dei limiti di qualità dell’aria, effetto davvero difficilissimo da dimostrare sotto il profilo probatorio soprattutto nell’ambito di zone industriali o caratterizzate da traffico urbano, tanto che non vi sono, a quanto con- sta, precedenti giurisprudenziali; gli altri reati relativi alle emissioni in atmosfera – assenza di autorizzazione, superamento dei valori al camino, ecc. – non sono stati inseriti nel catalogo dei reati-presupposto, anche in ragione, stanti i limiti della delega, delle irrilevanti sanzioni previste a carico del gestore persona fisica, risalenti alla disciplina del 1988). Alcune imprese differenziano pertanto il proprio approccio anche rispetto ai diversi reati ambientali del catalogo, prevedendo alcune misure comuni (ad es. quella relativa all’aggiornamento normativo), ma concentrando i controlli maggiormente incisivi soprattutto sulle fattispecie a più elevato rischio sanzionatorio, prime fra tutte quelle relative alla gestione dei rifiuti (con particolare riferimento alla qualificazione dei fornitori dei servizi di trasporto, recupero e smaltimento).
«infatti i diversi reati ambientali sono puniti, dall’art. 25undecies del decreto legislativo n. 231 del 2001, con incisività diversa sotto il profilo economico» (…)
Questa scelta è generalmente dovuta, laddove adottata, a diverse considerazioni: innanzitutto, dei reati previsti dall’art. 25-undecies, quelli relativi alla gestione dei rifiuti sono in effetti molto più “attenzionati” dalla magistratura e dagli organi di controllo ed è facile, per i soggetti apicali di una qualsiasi impresa, vederseli contestare anche soltanto a titolo di concorso, in quanto si tratta per lo più (con due eccezioni) di fattispecie contravvenzionali, il cui normale titolo di imputazione è la colpa, spesso connesse ad irregolarità commesse dagli operatori professionali cui i rifiuti 37
vengono affidati ; inoltre, per alcuni di questi reati (discarica abusiva, attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti), il decreto legislativo n. 231 del 2001 ha previsto un trattamento tra i più “pesanti” in termini sanzionatori, inserendo anche la sanzione interdittiva (con riflessi pure in termini cautelari); ancora, rispetto alle altre fattispecie ambientali, nella commissione dei reati in questione il fattore umano è molto influente, ed è, in effetti, proprio sui comportamenti delle persone, più che sugli aspetti tecnologici, che il modello può essere davvero incisivo.
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Va peraltro dato conto del fatto che non mancano le imprese che adottano il modello per la prevenzione dei reati ambientali a prescindere dal catalogo di cui all’art. 25-undecies, incentrando il proprio sforzo organizzativo su tutte le fattispecie a sé effettivamente applicabili ivi comprese quelle che (ancora) non comportano la responsabilità dell’ente ai sensi del decreto legislativo n. 231 del 2001 (dunque, ad esempio, quelle in materia di AIA, di violazione dei limiti di accettabilità dei rifiuti in discarica o di illecito abbandono di rifiuti o, ancora, quelle in materia di pericoli di incidenti rilevanti). Un simile approccio “virtuoso” può, in caso di problemi, aprire la strada a difese in chiave soggettiva dell’ente (secondo la recente 38
giurisprudenza in tema di “interesse” rispetto alla commissione del reato ) e comunque contribuisce a salvaguardare l’immagine dell’en- te ed i rapporti dello stesso con stakeholders e shareholders Le fasi per l’implementazione della “parte speciale reati ambientali” del modello 231 Tanto premesso, si riportano di seguito le diverse “fasi” in cui può articolarsi il procedimento di implementazione del modello 231 (o di aggiornamento dello stesso), con particolare riferimento alla prevenzione dei reati 39
ambientali : Prima fase: definire gli obiettivi del modello. È innanzitutto utile che il management, nel progettare l’operazione, ne definisca anche gli obiettivi. Gli obiettivi si possono distinguere in conservativi (ad es. evitare la sanzione in caso di commissione di un reato ambientale nell’interesse o vantaggio dell’ente) e costruttivi (ad es. creare una “cultura ambientale condivisa” all’interno dell’organizzazione; prevenire o minimizzare gli impatti ambientali negativi derivanti dalla attività imprenditoriale; chiarire compiti e responsabilità; coinvolgere maggiormente i lavoratori nella definizione delle norme interne; chiarire la politica aziendale e risolvere i conflitti di interesse tra management ed ente; tutelare l’immagine e la reputazione dell’ente). Questi obiettivi potranno poi confluire nel codice etico e nella politica ambientale. Seconda fase: individuare i destinatari del modello (revisione del sistema dei poteri in materia ambientale). Ulteriore fondamentale attività preliminare è quella di individuare i destinatari del modello, procedendo ad una verifica e revisione, secondo il principio di effettività, del sistema dei poteri in materia ambientale ai diversi livelli. Questa operazione consente non soltanto di capire chi, di fatto ed a prescindere dalle job descriptions presenti in azienda, intervenga nei processi che possono influire sulla gestione degli aspetti ambientali (diretti ed indiretti), ma altresì di individuare le attività ed i processi che debbono essere analizzati al fine di “mappare” i rischi di commissione dei reati ambientali. L’analisi è utile anche per ridefinire la posizione gerarchica delle diverse figure coinvolte, segregandone, per quanto possibile, le responsabilità ed eliminando le “zone d’ombra” (solitamente presenti soprattutto in relazione ai poteri dei dirigenti).
«individuare
i destinatari del modello, procedendo ad una verifica e revisione, secondo il principio di effettività»
Terza fase: decidere le “dimensioni” del Modello. Una volta individuati, da parte del management, i “rischi inerenti” ed i “rischi residui” (tenuto conto non soltanto dell’attività d’impresa in sé considerata, ma anche dell’esistenza di procedure ed altre norme interne di comportamento, ad es. di un sistema di gestione ambientale), si devono assumere delle scelte in ordine al “dimensionamento del modello”; si può in altre parole decidere se, come, quanto e quando intervenire in termini di integrazione dell’apparato organizzativo esistente, così come osservato nel
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precedente paragrafo. Quarta fase: progettare le “misure di prevenzione”. Compiute le predette scelte in ordine al “dimensionamento del modello”, devono essere progettate le “misure di prevenzione”, le quali, unitamente al “sistema dei poteri in materia ambientale”, al codice etico ed alla politica ambientale, costituiranno i “protocolli” citati dall’art. 6 del decreto legislativo n. 231 del 2001. Le misure devono essere differenziate sui diversi livelli (apicali e sottoposti) e costruite, per gli apicali (vale a dire per i reati commissibili dagli apicali), preferibilmente nel rispetto dei principi di separatezza ed integrazione delle funzioni (individuando, ad esempio, funzioni terze diverse da quelle titolari dell’adempimento quali destinatarie di obblighi di comunicazione degli adempimenti eseguiti dalle funzioni responsabili ed a propria volta titolari di obblighi di verifica relativamente alle comunicazioni ricevute), e tenuto altresì conto dei requisiti legali stabiliti dalla normativa cogente. In presenza di un sistema di gestione ambientale, considerata la complessità e la “verticalità” della organizzazione, dovranno essere verificate le procedure esistenti al fine di eventualmente procedere all’adeguamento delle stesse in un’ottica di prevenzione dei reati ambientali. Il sistema di gestione dovrà comunque essere integrato mediante: l’adozione di un sistema disciplinare, che preveda sanzioni, connesse all’inosservanza del modello, a tutti i livelli, compresi quelli dell’alta direzione 40
dell’ente ; la nomina di un organismo di vigilanza e la definizione degli obblighi informativi attinenti alla gestione degli aspetti ambientali nei confronti di tale organismo. Quinta fase: approvare il modello 231 (o l’aggiornamento dello stesso ai reati ambientali). Il modello 231 – così come il successivo aggiornamento – deve essere approvato con deliberazione dell’organo di gestione dell’ente. L’approvazione del modello 231 deve tuttavia avvenire in modo tale da non “scardinare” il sistema dei poteri esistente e dunque tenendo in debita considerazione i diversi livelli ai quali si colloca la normazione interna, livelli che saranno differenziati a seconda della complessità e del- le dimensioni dell’ente (impresa manageriale o padronale; nazionale, internazionale o multinazionale; con una o più unità locali; con una o più business unit; monosettore o plurisettore, ecc.).
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Sesta fase: attuare efficacemente il modello 231. L’adozione del modello 231 non è sufficiente di per sé a scagionare l’ente per il reato ambientale commesso nel suo interesse o vantaggio. Occorre infatti che il modello sia anche efficacemente attuato dall’ente. Attuare il modello significa: somministrare idonea formazione a tutti i soggetti che operano all’interno e/o nell’interesse dell’ente, in modo proporzionato al ruolo ricoperto nell’organizzazione; applicare quanto previsto nel modello (registrandone le attività) e sottoporre il sistema organizzativo interno a verifiche periodiche; sottoporre il modello ad una effettiva vigilanza da parte dell’organi- smo a ciò preposto, procedendo all’aggiornamento delle previsioni in esso contenute nel caso in cui siano «scoperte significative violazioni delle prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell’orga- nizzazione o nell’attività» (cfr. art. 7 decreto legislativo n. 231 del 2001); applicare le sanzioni disciplinari qualora emergano violazioni delle prescrizioni del modello.
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«Il sistema di gestione dovrà comunque essere integrato mediante: l’adozione di un sistema disciplinare, che preveda sanzioni, connesse all’inosservanza del modello, a tutti i livelli, compresi quelli dell’alta direzione dell’ente; la nomina di un organismo di vigilanza e la definizione degli obblighi informativi attinenti alla gestione degli aspetti ambientali nei confronti di tale organismo»
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NOTE
(30) Utili spunti possono trarsi dalla lettura del a. natalini-G. tiBeri (a cura di), Quaderno ASTRID. La tela di Penelope. Primo rapporto Astrid sulla qualità della regolazione e la semplificazione burocratica, Il Mulino, Bologna 2010. (31) Nelle imprese di rilevanti dimensioni, appartenenti a Gruppi societari, è opportuno vengano incluse in questa ricognizione anche le policies e le direttive di corporate. (32) Sentenza del 21 marzo 2012 della Corte di Appello di Milano, Sezione Seconda. (33) Tribunale di Torino, Seconda Corte di Assise, 14 novembre 2011. La sentenza dell’appello – 1^ Corte di Assise di Appello di Torino, febbraio 2013, n. 6/13 – valorizza ancor più la necessità di un approccio sostanziale ed effettivo al modello rilevando che «non deve trattarsi di un adempimento solo burocratico e non seriamente operativo». (34) Consultabile su www.filodiritto.com, con commento di e. amati, Verso una possibile rilevanza del Modello organizzativo “sostanziale” ex Decreto Legislativo n. 231/2001? Nota a Tribunale di Brescia - Sezione Seconda Penale, Sentenza 23-29 maggio 2012, n. 1526, (gennaio 2013). V. anche u. calDarera, Brevi note alla sentenza 23/5/2012 del Tribunale di Brescia – Seconda sezione penale – Giudice dr. Maria Chiara Minazzato, consultabile su www.aodv231.it. (35) Art. 2 decreto legislativo n. 231 del 2001: «L’ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto costituente reato se la sua responsabilità amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto». (36) Cfr., tra gli altri, c. ruGa riVa, Il decreto legislativo di recepimento delle direttive comunitarie sulla tutela penale dell ’ambiente: nuovi reati, nuova responsabilità degli enti da reato ambientale, in Dir. pen. cont. 2011, consultabile su www.penalecontemporaneo. it, 11. Si segnala altresì che l’autorizzazione allo scarico è stata sostituita, così come altre autorizzazioni ambientali, dalla cosiddetta autorizzazione unica ambientale (AUA), introdotta dal decreto del Presidente della Repubblica n. 59 del 2013. Le conseguenze che tale novità apporta sul piano sanzionatorio non sono ancora state affrontate dalla giurisprudenza. (37) La giurisprudenza è molto rigorosa nella interpretazione del principio di “corresponsabilità” espresso dall’art. 178 decreto legislativo n. 152 del 2006 di tutti i soggetti lungo la filiera ed ha affermato, quindi, che «siffatte responsabilità si configurano anche a livello di semplice istigazione, determinazione, rafforzamento o facilitazione nella realizzazione degli illeciti commessi dai soggetti impegnati direttamente nella gestione dei rifiuti» (Cassazione penale, Sezione Terza, 9 agosto 2007, n. 32338), per cui non può escludersi, ad esempio, la responsabilità del produttore iniziale quando si sia reso responsabile «di comportamenti materiali o psicologici tali da determinare una compartecipazione, anche a livello di semplice facilitazione, negli illeciti commessi dai soggetti dediti alla gestione dei rifiuti» (Cassazione penale, Sezione Terza, 11 febbraio 2008, n. 6420). Peraltro, ciò che conta, nell’accertamento delle diverse responsabilità, è il concreto potere di controllo e disposizione sul rifiuto, poiché «anche in materia di rifiuti, il sistema della responsabilità penale “risulta ispirato ai principi di concretezza e di effettività, con il rifiuto di qualsiasi soluzione puramente formale ed astratta” (v. Cassazione penale, Sezione Terza, 20 ottobre 1999, n. 11951, P.M., in proc. Bonomelli)» (Cassazione penale, Sezione Terza, 11 febbraio 2008, n. 6420). (38) V. Tribunale di Cagliari, sentenza 13 luglio 2011; Tribunale di Novara, sentenza 1 ottobre 2010; Tribunale di Aosta, sentenza 9 novembre 2011. In dottrina v. G. catalanoc.Giuntelli, Interesse e/o vantaggio dell ’ente: nuovi percorsi giurisprudenziali (in particolare nei reati colposi) in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, n. 1/2012. (39) Analoghe indicazioni erano state fornite relativamente ai reati colposi di omicidio e lesioni gravi e gravissime con violazione delle norme antinfortunistiche in m. chiloSi, La responsabilità amministrativa delle imprese, cit., passim. (40) Il sistema disciplinare va affisso in luogo accessibile a tutti ai sensi dell’art. 7, comma 1, della legge n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori).
principio di corresponsabilità «siffatte responsabilità si configurano anche a livello di semplice istigazione, determinazione, rafforzamento o facilitazione nella realizzazione degli illeciti commessi dai soggetti impegnati direttamente nella gestione dei rifiuti» (Cassazione penale, Sezione Terza, 9 agosto 2007, n. 32338)»
Avvocato in Milano, Mara Chilosi è esperta di diritto dell'ambiente e delle tematiche inerenti i servizi pubblici locali di rilevanza ambientale, di diritto della salute e sicurezza sul lavoro e di corporate governance (d. lgs. 231/2001 per reati ambientali e in materia di sicurezza sul lavoro). Altresì, dal 2010, é Coordinatore del Comitato Scientifico di Assorecuperi (Ass. nazionale imprese del settore del recupero di rifiuti).
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Rubrica: il professionista risponde. “Il trattamento fiscale dei trasferimenti nella soluzione della crisi del matrimonio, anche alla luce della circolare dell’Agenzia delle Entrate n.27/E/2012”
intervista all’avvocato Loreno Magni
Senza dubbio l’argomento oggi oggetto di approfondimento è tanto poco conosciuto quanto, in realtà, di centrale importante in quanto immediatamente influente sui diritti patrimoniali delle persone. Se poi consideriamo il particolare momento di generale difficoltà di natura economica, il diritto di Famiglia, ed in particolare la c.d. “crisi di famiglia” di cui oggi ci occupiamo, quanto può dirci un professionista del settore può aiutarci ad affrontare, se necessario, le problematiche che ne derivano, in termini effettivi e concreti.
Diamo dunque il benvenuto all’avvocato Loreno Magni, di Bologna, che ci descriverà succintamente quanto v’è di più importante da conoscere in merito.
La circolare n.27/E di cui al titolo, accorda il regime di favore di cui all’art.19 L.6/3/87 n.74 ai trasferimenti a favore dei figli effettuati dai genitori in adempimento di accordi di separazione e divorzio
“Ritengo la questione de quo di possibile generale interesse, coinvolgendo la materia della crisi familiare, in modo concreto, interessi economici spesso rilevanti. La circolare n.27/E di cui al titolo, accorda il regime di favore di cui all’art.19 L.6/3/87 n.74 (esenzione dall’imposta di bollo, di registro e di ogni altra tassa) ai trasferimenti a favore dei figli effettuati dai genitori in adempimento di accordi di separazione e divorzio, a condizione che il testo dell’accordo omologato dal tribunale, preveda espressamente che “l’accordo patrimoniale a beneficio dei figli sia elemento funzionale ed indispensabile a fini della risoluzione della crisi coniugale”. Il beneficio, e’ bene precisarlo, si estende anche alle sentenze che, in qualche modo, recepiscano gli accordi intervenuti fra coniugi “a beneficio dei figli”. Tale beneficio si applica a due condizioni: 1) Che l’accordo sia elemento funzionale ed indispensabile ai fini della risoluzione della crisi coniugale; 2) Che cio’ sia esplicitamente previsto nel testo degli accordi in sede di procedimento E’ bene precisare che tali condizioni devono essere formalizzate e chiarite nel testo dell’accordo omologato dal Tribunale; non è, infatti, sufficiente che tali condizioni siano evidenziate nell’atto notarile attuativo degli accordi de quo. Si noti bene: l’accordo deve essersi format all’interno del procedimento giudiziale (pertanto, non sono ricompresi dall’applicazione della norma gli accordi cd “extra procedurali”); per tale motivo e’ sempre piu’ indispensabile che l’avvocato ed il notaio collaborino nell’interesse prevalente del cliente. La circolare 27/E tratta anche della decadenza dalle agevolazioni per l’acquisto della cd “prima casa” in ipotesi di cessione del bene in relazione alla crisi del matrimonio, prima che siano decorsi 5 anni dall’acquisto.
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L’agenzia delle entrate ha riconosciuto che se uno dei coniugi trasferisce all’altro, prima del decorso del quinquennio dall’acquisto, la propria quota del 50% della casa coniugale acquistata con le agevolazioni, trova applicazione il regime di esenzione di cui all’art.19 l.74/87. In tale caso, quindi, non opera la decadenza dal trattamento di favore per l’acquisto della “prima casa”, a prescindere dalla circostanza che il coniuge cedente provveda o meno all’acquisto di un nuovo immobile.
Esperto di diritto civile e di gestioni patrimoniali, l’avv. Loreno Magni svolge la propria attività di consulenza principalmente nel Foro di Bologna ed in quello di Milano. Dal 2012 è socio e VicePresidente di Internazionalizza Srl
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Può darsi accada, infine, e non è raro che ciò si verifichi, che i coniugi vendano a terzi l’immobile acquistato come “prima casa”, prima del quinquennio dall’acquisto e che uno dei coniugi rinunci a favore dell’altro ad incassare il ricavato della vendita, al fine di dirimere e definire la citata situazione di “crisi familiare”. Anche in tal caso il coniuge tenuto a riversare la somma percepita non è soggetto alla decadenza dal beneficio; solo l’atro coniuge, cioè colui che riceve le somme, dovrà entro un anno riacquistare un immobile come “prima casa” per non perdere le agevolazioni. L’esenzione si applica anche se il trasferimento avviene a favore dei figli, anche in nuda proprietà.
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Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali – Giu. 2015
Rivista delle Imprese e dei Mercati Internazionali Bimestrale di Divulgazione giuridica ed economica Autori Vari – AA.VV. www.rivistadelleimprese.it
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