INTRODUZIONE Noi di Fralerighe ci siamo detti: quale festa migliore di Halloween per far scatenare la fantasia dei nostri lettori e dar vita a racconti intriganti, divertenti e bizzarri? Ci si potrebbe fare un ebook, una raccolta di racconti a tema. Ed eccoci qua, con questo numero speciale composto da nove racconti, che mostrano la celebre festa di Jack-o'-Lantern nei suoi aspetti più insoliti. In queste storie troverete chi sfrutterà Halloween per attaccare un nemico, chi per mangiare un po' meglio del solito; chi darà una festa da paura e chi, per una festa, ci rimetterà la testa; chi ad Halloween troverà la morte e chi una nuova vita; e via discorrendo in una galleria di situazioni insolite che, nel loro piccolo, riescono a divertire il lettore e a mostrare la festa delle zucche e dei fantasmi da angolazioni meno abusate. Non ci resta che augurarvi buona lettura e buon Halloween!
Lo Staff di Fralerighe
BENVENUTI AD HALLOWEEN
Paolo si diresse a passo scazzato verso il pulmino. Era il 30 Ottobre, faceva un freddo boia. Aveva dormito sì e no due ore e il fatto di doversi svegliare in piena notte per andare a fare una gita alla vigilia di Halloween non lo rendeva felice. Tutto per colpa di Marika, la nuova ragazza del Lurido. Si sedette, sprofondando sul sedile posteriore. Un occhio cadde sulle lunghe cosce tornite di Linda, l’amica di sempre. Sbuffò e voltò la faccia dall’altro lato quando un’altra ragazza fece capolino. Era piccola di statura ed esile, ma lo sguardo fiero attirò subito l’attenzione di Paolo, che si soffermò sulle lentiggini. «Che hai da guardare?» chiese lei sedendosi e muovendo nervosamente il sedere, come se dovesse farsi spazio. «Non ho nulla da guardare, ma ho un sonno da bestia e quando ho visto la tua faccia sconosciuta sbucare mi sono incuriosito» affermò lui, chiudendo gli occhi e appoggiando la testa al vetro per trovare la posizione meno scomoda per schiacciare un pisolino. «Sono Prisca, l’amica di Marika. Sono io che ho avuto l’idea di andare al nuovo parco» gli rispose mostrando un sorriso sfrontato. «E io sono quello a cui non frega un cazzo delle fate, né degli zombie» asserì lui, fissandola torvo, fino a quando gli parve di vedere una luce violacea nelle iridi della giovane. Uno strano senso di inquietudine lo investì. Si pentì di averle risposto in quel modo.
Quando arrivò anche il Becchino, la compagnia era al completo. Il lurido mise in moto. La sua donna seduta al fianco. «Non ho sentito nessuna pubblicità su Halloween, siamo sicuri esista?» domandò Linda. «Certo che esiste, non hai visto i cartelli pubblicitari?» rispose pronta Prisca, ammiccando all’amica. Paolo guardò fuori, era ancora buio pesto. Non c’era nessun cartello. Non ne incontrarono nemmeno strada facendo. “Queste due femmine non mi piacciono” valutò. Cercò nel Becchino uno sguardo d’intesa, ma quello stava per conquistare Linda, non gli avrebbe dato retta. Si strofinò gli occhi, e scosse la testa, poi guardò Prisca: quel nasino perfetto e la chioma arruffata rosso pomodoro non erano poi tanto male. Lei parve sentire i suoi pensieri e si voltò per guardarlo. Sorrise, accarezzandogli la mano. Ebbe un fremito, avrebbe voluto scacciarla con un gesto brusco, tanto il piccolo palmo di quella femmina era gelido, quasi senza vita. La ragazza gli si avvicinò a tal punto che le loro labbra si sfiorarono. Salì a cavalcioni su di lui lasciandolo basito. Un vento gelido entrò nella bocca di Paolo, la lingua della ragazza leccò vorace la sua. Quasi si congelò al tatto. Provò piacere e dolore nello stesso istante, sebbene non riuscisse a controllare i tremori. Arrapato o terrorizzato? Difficile a dirsi. Paolo non capiva più nulla, non avere la percezione di ciò che stava accadendo lo innervosì. «Tu sarai mio» sussurrò lei, staccandosi e tornando al suo posto. I due amici seduti di fronte gli fecero l’occhiolino. Come far capire loro che se l’era fatta sotto? Rimase fermo fino a sentire i suoi muscoli rilassarsi. Il gelo lo abbandonò.
«Eccoci» esultò Marika. L’ingresso era illuminato a festa. Sul cancello spalancato la scritta “Benvenuti ad Halloween” si illuminava a intermittenza. Centinaia di strane creature gesticolavano. Tra folletti, fatine e ondine, ce n’era per ogni gusto. In mezzo a loro zombie e mummie truccate a regola d’arte. I giovani tirarono giù il finestrino per sporgersi. «Mamma mia quante fate. Sembrano vere» esordì Linda, osservando con estasi. «Guarda che effetti scenici!» l’assecondò il Becchino avvicinandosi al vetro. Paolo rimase zitto e in assoluto silenzio. Quel luogo non gli piaceva affatto. Sentiva strani brividi percorrergli la schiena. Da quando il loro mezzo era entrato nel parco non aveva perso di vista Marika e Prisca, decisamente troppo euforiche. Aveva paura, combattuto fra il sentirsi stupido e il voler reagire. Il rumore di bocche che masticavano irruppe nei timpani. Come poteva fermare i suoi amici? Non avrebbero creduto alle sue percezioni. Scorse nei visi delle creature del parco la malvagità. Spostò lo sguardo su una fata. Aveva occhi neri come quelli di un corvo. Non aveva affatto l’aria benevola. Faticò a respirare. Le mani tremavano. Il terrore di trovarsi in un covo di demoni si fece strada sotto la pelle. “Che assurdità, non esistono queste cose!” pensò. Cercò di calmarsi, poi un fata sorrise lasciva. Denti aguzzi apparvero sotto le tumide labbra. Prisca si girò verso di lui. Lo stesso sguardo maligno sul volto. Come una furia senza eguali Paolo si scaraventò in avanti. Non c’era più tempo, avevano superato l’ingresso di almeno venti metri, il cancello stava per richiudersi, si sentì chiuso in trappola.
Spalancò la porta scorrevole del pulmino. Prese Marika e Prisca per i capelli e le strattonò fuori con forza. «Gira subito questo maledetto furgone e scappiamo» urlò Paolo chiudendo il portellone e mettendo al volo le sicure alle porte. «Ma ti sei ammattito? Hai buttato fuori la mia ragazza!» disse il Lurido mollando il volante. «Qualcosa là fuori sta cambiando» gridò Linda terrorizzata mentre sollevava i finestrini. I personaggi del parco li circondarono, le loro fattezze mutarono. Le due ragazze inveirono, il volto si distorse, esibendo la vera natura. Si trasformarono in orchi deformi. Il cancello prese a chiudersi. Il Lurido ingranò la retro. Le meravigliose fate mostrarono le fauci, spalancando ali di pelle e ostentando denti acuminati. Il cuore dei ragazzi palpitò, l’orrore dipinto sui volti. Il pulmino compì la sua corsa più folle. Riuscì a oltrepassare l’ingresso per un pelo. Tutto divenne nero. Il parco era svanito in un lampo sotto i loro occhi. Solo un cancello con la scritta Benvenuti all’Inferno li divideva da una zona selvatica. «La prossima ragazza te la scelgo io» disse Paolo. L’alba stava rischiarando il cielo. Fra gli arbusti gli parve di vedere una chioma rossa. «Torniamo a casa, meglio rivedere Venerdì 13 per l’ennesima volta, che rimanere qui ancora un secondo».
Alexia Bianchini
BUIO
Buio. Era tutto avvolto dalle tenebre. C’era odore di muffa e di stantio mischiato a un altro aroma pungente che non seppi riconoscere. Tentai di mettermi in piedi, ma un lancinante dolore al fianco m’impedì i movimenti. C’era un buio spesso anche dentro al mio cervello, mi sforzai di ricordare dove fossi. Il mio nome è Marta, questo lo ricordavo e poi? Un rumore forte e improvviso mi fece sussultare, in reconditi angoli della mia mente un grido di terrore si agitò. Non capivo in che modo fossi finita in quel posto, sapevo solo che dovevo scappare.
Sono in una discoteca, è la notte di Halloween, la musica ha un volume al limite del sopportabile, in mano ho un bicchiere con un liquido arancione e dall’odore fruttato. Ho accompagnato due mie amiche a ballare, solo che sono stanca e voglio tornare a casa, ma non ho la macchina. Raggiungo Daniela e Sara in pista, stanno ballando come selvagge assieme a due ragazzi conosciuti nel locale, dal viso poco affidabile direi. Non hanno nessuna intenzione di riaccompagnarmi. Decido di prendere un taxi. Compongo il numero, do l’indirizzo ed esco dal locale per aspettare “Parma 66” che arriverà tra dieci minuti.
Un rapido flash mi concesse un tassello di memoria sbiadita, ero in discoteca per festeggiare la vigilia di Ognissanti, ora questo lo rammentavo. Però adesso di certo non mi trovavo a casa mia. Freddo. Cominciai a sentire molto freddo, esplorai con le mani lo spazio intorno a me. Il pavimento era ruvido e polveroso, sembrava che fossi in una grotta o forse in una cantina. Di nuovo quello strano rumore. Era come se qualcuno stesse spaccando la legna. Feci un nuovo tentativo e questa volta il dolore al fianco non mi prese alla sprovvista, con molta fatica mi tirai su. Gli occhi si erano abituati all’oscurità, tanto che riuscii a percepire in modo più definito i contorni di ciò che mi circondava. Vidi, a pochi metri, una tremolante luce provenire dalla cima di una scalinata ripida. Andai in quella direzione.
C’è aria frizzante stasera. Sono sul marciapiede semideserto che aspetto il taxi, due minuti ancora e dovrebbe arrivare. Una coppietta brilla passa vicino a me e, urtandomi con violenza la spalla, mi fa cadere in terra la borsa. Sbraitando, mi chino per raccoglierla quando un ragazzo, della cui presenza non mi ero neppure accorta, me la prende. Penso che mi voglia derubare e così urlo, lui alza le mani e mi porge la borsa. «Volevo solo essere galante», dice. Lo guardo inebetita senza riuscire a proferire parola, nel frattempo arriva il taxi, corro nella sua direzione e ci salgo. Il ragazzo mi guarda scuotendo la testa e, contrariato, se ne va. «Dove la porto signorina?», chiede il tassista.
Un altro frammento d’immagini mi aiutò a ricordare che ero salita sul taxi. Doveva essere passato poco tempo, tastandomi capii che avevo ancora i vestiti di quella sera. Anche qualcosa di appiccicoso sul fianco, quello che pulsava impetuosamente. Sangue. La luce proveniva dalla stanza accanto a quella in cui mi trovavo. La porta semiaperta mi concesse di vedere che la stanza era vuota. Non riuscii a riconoscere il posto. Notai però, dal lato opposto, un’altra porta che conduceva all’esterno. Con il fiato corto del terrore, barcollai dei passi incerti da quella parte. Mi sentivo debole, come un palloncino morente che sta per afflosciarsi. Pensare che non avevo nessuna intenzione di festeggiare Halloween. Una fresca brezza autunnale mi carezzò il viso, quasi cercasse gentilmente di farmi destare da quello stato di torpore diffuso. Il cielo era stellato, una luna birichina giocava ad acchiapparella con nubi panciute. C’era un enorme giardino male illuminato, sembrava quasi infinito.
Dopo pochi metri il taxi si ferma a un semaforo. Una persona attraversa la strada. Toh, è il ragazzo della borsetta! Scatta il verde per noi ma il tipo, robusto e minaccioso, si pianta di fronte alla macchina. «Ma cosa fa quel cretino?», sbraita irritato l’autista. Il ragazzo tira fuori qualcosa dalla camicia. Una pistola dalla canna grigia scintilla tra le luci artificiali della sera. Spara. Il tassista urla e poi non sento più nessun rumore.
Il ragazzo viene verso di me. Ricordai tutto. In preda a un panico viscerale, dimenticai ogni tipi di cautela e mi avventai in mezzo al giardino, frullando le gambe deboli nell’aria. Misi a fuoco il taxi, era parcheggiato di lato con le portiere spalancate. Poco distanti, disposti sull’erba umida come un bizzarro decoro, giacevano scomposti un braccio e una testa avvolti dal sangue. Il ragazzo robusto mi stava fissando, entrò nel mio campo visivo all’improvviso, fu come ricevere una scossa elettrica al centro del cuore. Stringeva una grossa ascia tra le mani enormi. Urlai disperata, quasi mi strozzai con la mia saliva, tentai di fuggire attingendo a una forza che non avevo. Lui fu più veloce. Mi prese per i capelli e mi gettò in terra, cozzai dolorosamente sbattendo il fianco ammaccato. «Detesto la scortesia signorina, volevo solo essere galante», sibilò con occhi fiammeggianti, privi di ogni razionalità. Alzò l’ascia. Rassegnata, chiusi gli occhi. Ero così stanca. Buio.
Eleonora Della Gatta
BUON HALLOWEEN, ARRAMPICAMURI
Il signor Osborn supervisionò di persona la partenza di tutti i camion; dai magazzini delle sue industrie viaggiarono alla volta di tutta la città. Disseminarono decine di distributori automatici, banchetti, ambulanti, rifornirono feste; ognuno qualcosa di diverso. Solo il contenuto delle sacche, anonime, era simile. In un’ora, la città ne fu piena. Tempo mezzanotte ogni bambino di New York avrebbe avuto il suo regalo. Anche Tim era capitato vicino a uno di quei distributori automatici, di fronte a un negozio. Diceva: ‘La Bottega del Gioco offre un regalo a tutti i bambini!’ Tim e i suoi amici avevano premuto il bottone ed era uscito un sacco colorato. Tim aveva sorriso da sotto il caschetto biondo con su le corna da diavoletto. Mentre gli altri si rifornivano Tim aprì il suo sacco. “Che c’è?” gli saltò accanto Sarah. Tim rovistò: “Una maschera verde, piccole zucche intagliate di plastica, e caramelle.” Tim ne assaggiò una: “Buona!” Anche gli altri ne mangiarono: erano dolci, alla zucca, e pizzicavano di qualcosa di strano. Il giro di Tim e dei suoi amici proseguì. Per un’ora accumularono caramelle e dolci di ogni genere. Ma per Tim quelle alla zucca erano le migliori. Più ne mangiava, più si sentiva pieno di energia. Verso mezzanotte Tim cominciò a sentirsi nervoso. Già Rudy e Dan, che avevano finito la loro scorta di caramelle arancio, stavano diventando irosi. Anche Tim iniziò a non avere più
voglia di quei giochetti da bambini: voleva divertirsi. Tirò fuori quella maschera verde con gli occhi bianchi, il sorriso ghignante e il cappuccio viola. Dan lo avvicinò: “Ehi, buona idea, la metto anch’io.” “Che? Questa è una maschera troppo bella per un perdente come te!” “Ragazzi, ma che fate? Dai, smettetela,” tentò di rabbonirli Sarah. “Andatevene al diavo, sfigati! Io me ne vado!” rispose Tim, e se ne andò via. Mise la maschera e sentì il bisogno di trovare qualche cosa da far saltare in aria. Qua e là si sentivano altre esplosioni. La sostanza arancio nel suo sangue gli disse di provare quelle strane mini zucche nella sacca. Poco dopo nella sua casa il signor Osborn stava guardando alla TV le immagini di New York messa a ferro e fuoco dalle bombe zucca lanciate dai tanti Goblin in erba. L’uomo ragno aveva un bel da fare ad aiutare la polizia e i pompieri. “Buon Halloween,” pensò.
Marco Viggi
HALLOWEEN & VALVOLINE
Bussano alla porta. «Ma chi cacchio è a quest’ora?!» inveisce il pappagallo Astolfo. «Rumpi bal!» impreco, mentre a fatica mi alzo dalla vecchia poltrona e sciabatto lentamente fino alla porta, con un lembo della vestaglia che mi segue come un cagnolino, strisciando sul pavimento. Alla fioca luce dell’unica lampada cerco di azzeccare la toppa. Provo a infilare la chiave ma mi costa fatica, vuoi perché non ci vedo granché, vuoi perché la mano destra mi trema vistosamente. Cerco di bloccarla con la sinistra, che non trema tanto, ma io sono destro e con la mancina non ci ho mai preso granché. Figuriamoci se adesso, in vecchiaia, mi metto a usare l’arto che non ho mai usato… Ma lascia stare! E poi sono molto debole… Ho bisogno di zuccheri… Ci riesco, imbrocco la toppa, infilo la chiave, faccio per girare e mi blocco, perché mi ricordo che prima di aprire debbo chiedere chi è… Potrei aprire subito, visto che non mi viene mai a trovare nessuno. Potrei passare del tempo in compagnia, una volta tanto. A pensarci bene, qualcuno ultimamente è venuto ma era l’esattore delle tasse televisive. Mi ha fatto fare l’abbonamento… Non ho fatto in tempo a dirgli che il televisore è rotto da tempo immemore che quello non se ne è preoccupato, ha detto che basta averlo per pagare la punizione, faceva pure l’ironico e il pagamento l’ha preteso in contanti.
Così, mi ha tolto anche la possibilità di fare l’ultima volta la spesa, prima dell’arrivo della pensione e adesso non so più neanche quanti giorni sono che non mangio. Dell’ultima pannocchia transgenica sono riuscito a mangiare anche il torsolo, dopo averlo bollito per dieci ore si era spappolato e c’ho fatto una minestra, che debbo dire non era neanche male ma comunque… Ora è solo un ricordo. «Bussano! Bussano!» starnazza il pappagallo Astolfo, che per ora non ho ancora deciso perché sono un sentimentale… Ma mi sa che prima o poi… Più prima che poi… Lo metto in padella! Giro la chiave nella toppa e mi fermo di nuovo e chiedo finalmente «Chi è?» Mi risponde un coro di vocine urlanti «Halloween! Halloween!» «Valvoline?!» ripeto, e improvvisamente realizzo. «Ma sì! Il lubrificante che ho comprato un bel po’d’anni fa per posta, quando avevo ancora la macchina… Che c’aveva il motore un po’ andato, e il mio amico meccanico, Culo di gomma, mi aveva consigliato di acquistarlo su Internet… Pensavo si fossero scordati… Glielo avevo pure pagato… Quindi adesso lo voglio cacchio!» Mi decido ad aprire la porta. Davanti a me si parano quattro o cinque bambinetti mischiati, maschi e femmine bardati tutti con cappelli a punta, zucca intagliata in una mano e caramelle nell’altra. Dopo un attimo di indecisione da parte mia, perché pensavo proprio di trovarmi davanti il fattorino delle consegne, anche se è vero l’ora è tarda ma tant’è si sa, il mondo ormai gira
veloce… Ventiquattro ore su ventiquattro senza sosta, quindi ci sta la consegna a quest’ora, e poi, ritardo per ritardo, va bene anche la consegna a sera inoltrata… Sono già le undici e chiedo «Che c’è?!»
«Ehm…» fa quello più vicino a me, con una convinzione destabilizzata dalla mia figura - che a loro deve sembrare un po’ inquietante. Si schiarisce la vocina e mi dice, poco convinto: «Dolcetto o …scherzetto?» e fa quasi per andare, mezzo pentito di averlo detto. Io ci metto un attimo a realizzare che quella che mi si sta offrendo è un’opportunità fantastica e stupisco me stesso, per la velocità con cui razzio dalle mani degli imberbi figurini il totale delle zucche e delle caramelle che portano con sé. «Tutt’e due!» Mi fermo solennemente sulla soglia della porta, per un attimo, e guardo i loro visini delusi e stupiti. Li ringrazio, chiudendogli velocemente la porta in faccia. Mentre sento i pargoli travestiti piagnucolare fuori dall’uscio, mi dirigo verso la cucina con una caramella in bocca ancora incartata e un’idea che mi frulla per la testa… Adesso mi faccio una bella minestra di zucche! Grazie Valvoline!
Sergio Sciamanna
I RINTOCCHI DELLA FESTA
Quello era un quartiere normale. Sereno, sicuro… forse il luogo ideale in cui vivere. O almeno così era stato per gli ultimi nove anni, da quando Joshua aveva memoria. Quello era il luogo in cui tutte le feste dell’anno prendevano forma e si tramutavano in avvenimenti sensazionali. SpringWood era un bel nome per un quartiere, e rispecchiava esattamente ciò che era. Un giardino felice. Un bosco di primavera. Joshua liberò il viso dalla maschera di gomma che raffigurava Dracula e si ammirò allo specchio, decisamente euforico. Non l’avrebbe indossata. Preferiva il trucco che gli aveva fatto sua madre. Era giunto finalmente il momento. Aveva atteso per anni di sgusciare fuori di casa la sera di Halloween, assieme ai suoi coetanei del vicinato, per fare il giro delle case del quartiere e richiedere dolciumi vari, dietro la consueta minaccia del “Dolcetto o Scherzetto?” Il volto imbiancato dal cerone, le labbra violacee col rivolo di sangue che fuoriusciva da un angolo della bocca… i piccoli e sporgenti canini… la camicia bianca in stile ‘700… il mantello nero dal risvolto interno amaranto. Sì… Joshua era decisamente pronto. Pronto per quella prova che SpringWood riservava da sempre ai nove enni come lui. Pronto a girovagare durante la buia notte delle Streghe, giurando solennemente di rientrare prima dei Rintocchi della Festa.
Sua madre glielo ripeteva da anni. Ne aveva abbastanza di quella leggenda che permeava SpringWood. Che sciocchezze! Un luogo così ameno… vietato al male. Alla morte. La diceria, vecchia di secoli e secoli, metteva in guardia i ragazzini di nove anni e donava loro dei consigli da seguire durante la fatidica “spedizione”, la notte di Halloween. “un, due, tre… i Rintocchi della Festa… tocca a te ora perdere la testa…” “Sai cosa ti succede se non torni a casa prima dei Rintocchi?” gli ripeteva spesso sua mamma. Joshua di volta in volta sbuffava. In verità non vedeva l’ora che arrivasse il giorno della sua tanto agognata spedizione alla ricerca dei dolciumi. “Sì mamma. Me lo ripeti tutte le sante volte. Devo essere di ritorno dalla spedizione prima dei Rintocchi della Festa. Altrimenti il demone ignoto mi taglierà via la testa…” Sua mamma di consueto annuiva e sorrideva. Ciò voleva significare che i suoi insegnamenti stavano dando dei frutti molto succosi. Suo figlio stava crescendo bene. E fargli seguire delle piccole regole fittizie, seppur imposte dalla tradizione di SpringWood, non era altro che un modo per far sì che si preparasse al meglio ad affrontare le difficoltà della vita. I tre Rintocchi della Festa erano gli ultimi tre secondi che separavano la Notte del Diavolo da quella delle Streghe. Gli ultimi tre secondi che separavano il giorno precedente dalla festa di Ognissanti.
Gli ultimi tre secondi per salvarsi la pelle… e la testa. “Forza Joshua! I tuoi amici sono qui fuori che ti aspettano già da dieci minuti. Non vorrai farli congelare.” Joshua diede un ultimo sguardo d’insieme allo specchio. “Arrivo.” E raggiunse sua madre nel soggiorno. “un, due, tre… i Rintocchi della Festa… tocca a te ora perdere la testa…” “Hai preso il sacco per i dolci?” “Sì.” “Hai messo i canini di plastica?” “Sì”, e allargò la bocca in un ghigno, in modo da mostrarglieli. “Sei pronto?” “Sì.” Era impaziente. Fece per aprire il portone quando sua mamma lo trattenne a sé. “Sei diventato grande ora. Questo è un passo importante. Mi raccomando la massima prudenza. Come vuole la tradizione, torna a casa prima dei Rintocchi… e non sganciarti dal gruppo. Abbi cura di te.” I suoi amici erano fuori che lo aspettavano, imbellettati nei loro costumi policromi. Richie era un folletto sanguinario. Stan un lupo mannaro. Drew una strega. Emily una diavoletta. Theodore un troll. Erano pronti sul serio. Era il momento di iniziare la spedizione. “un, due, tre… i Rintocchi della Festa… tocca a te ora perdere la testa…”
Il signor Brooks, il più anziano del quartiere, fu piuttosto generoso con i ragazzi, cosa alquanto strana. Versò nei loro sacchi fiumi di leccornie dai colori e forme più disparati. Offrì addirittura banconote da cinque dollari ciascuno. La signora Valley fu meno clemente, e si limitò a lanciare dal portone semichiuso un pacchetto di chewing-gum già consumato per metà, assieme ad una robusta quantità di imprecazioni. I ragazzi andarono avanti zigzagando per tutta SpringWood, sfavillante di luci e colori. Centinaia di Jack O’Lantern brillavano nell’oscurità con i loro ghigni color arancione pastello. “un, due, tre… i Rintocchi della Festa… tocca a te ora perdere la testa…” “Credo che la nostra spedizione sia giunta al termine… non pensate anche voi?” chiese Theodore dopo poco più di un’ora. Gli altri annuirono. Tutti. Tranne Joshua. “Sono d’accordo. Vorrei essere a casa prima dei rintocchi” disse Drew facendo una smorfia. Joshua non voleva. Aveva aspettato da una vita quella spedizione. Non aveva mai vissuto la notte in quella maniera. A quell’ora si era sempre ritrovato a letto, col solo pensiero della scuola del giorno dopo. Non voleva tornare a casa. O perlomeno… ancora no. Al diavolo la balla dei Rintocchi! “un, due, tre… i Rintocchi della Festa… tocca a te ora perdere la testa…”
“Ragazzi correte! Manca poco ai Rintocchi! Su! Forza!” Gridò il papà di Stan dallo stipite della porta. Senza pensarci due volte, tutti quanti si affannarono in una corsa improvvisata, diretti verso le proprie case, ridendo di gusto per aver provato l’esperienza della spedizione, ed averla fatta in barba al demone taglia-teste. Tutti. Tranne Joshua, ammaliato dalla notte. Si perse nei colori, nei rumori… negli odori. Finché non giunsero i Rintocchi. “un, due, tre… i Rintocchi della Festa… tocca a te ora perdere la testa…” Al suono del campanello la mamma di Joshua si rallegrò. Doveva ammetterlo, era stata in ansia per tutto il tempo della spedizione. Ma tutto si era ormai concluso, e suo figlio era tornato a casa sano e salvo… e senz’altro più maturo. Era contenta di vivere in un quartiere come SpringWood. Offriva una coscienza catartica ai giovani… e una vita serena ai veterani. Aprì il portone. La testa di Jack O’Lantern era scomparsa. Lì davanti ai suoi occhi, gettata a terra, imbrattata di sangue, c’era quella di suo figlio. “un, due, tre… abbiam perso ormai la testa… un, due, tre… la speranza più non resta.”
Luigi Schettini
LA VEGLIA DI PIERO
Alla veglia di Piero erano presenti i suoi amici più cari. Geppo il barista, che gli aveva preparato il caffè fino a due giorni prima; Lara, la sua fidanzata del liceo, con la quale aveva mantenuto un buon rapporto anche se la loro storia d’amore era finita. E poi c’erano Roberto, Tonio e Steno, coi quali Piero aveva dato vita ai Black Crocodiles, un gruppo di musica hardrock famoso in tutta l’Emilia. Le volontà di Piero erano state rispettate con estremo rigore. Il suo corpo era stato adagiato in una bara d’acciaio assieme alla sua amata chitarra, che gli avevano messo tra le braccia. Non c’erano fiori, perché il ragazzo aveva scritto espressamente che non ne voleva. Ciascuno dei convenuti sedeva vicino alla bara e pensava ai giorni passati assieme all’amico prematuramente scomparso. Non tutti ne avevano un buon ricordo, perché in vita il buon Piero aveva avuto un carattere molto scontroso, ma il fatto che ora non ci fosse più cancellava qualsiasi rancore. I rintocchi dell’orologio a pendolo si diffusero nella stanza. Tutti alzarono lo sguardo. Era la mezzanotte di venerdì 31 Ottobre. Il vento fece sbattere gli scuri delle finestre, la pioggia iniziò a ticchettare sui vetri. - Sta arrivando un temporale coi fiocchi – osservò Geppo. D’improvviso andò via la luce. Lara si affrettò ad accendere qualche candela. La stanza assunse l’aspetto di una catacomba.
La pioggia divenne più insistente, il vento più violento. Un tuono cupo fece tremare tutto. Gli amici di Piero sussultarono e si guardarono con gli occhi sbarrati, ma non dissero una parola. Un fulmine accecante colpì la casa. La scarica elettrica percorse rapidamente i fili della corrente e fuoriuscì come un lampo di fuoco dalla presa a muro. La bara d’acciaio divenne di un blu intenso per alcuni secondi, la stanza s’illuminò a giorno, poi tornò il buio. Lara si portò le mani al petto ed uscì di corsa. Gli altri andarono a bere un po’ d’acqua per riprendersi dallo spavento. Quando tornarono nella stanza videro che Piero si era risvegliato. Se ne stava seduto nella bara e si guardava intorno spaesato. - Come è possibile?..- Disse Roberto. Piero tese le braccia e curvò la schiena. Le ossa rattrappite scrocchiarono. - Incredibile!- esclamò Tonio. Geppo indicò il calendario. – Questa è la notte delle streghe. Tutto può succedere… Alberto si avvicinò a Piero e lo aiutò ad uscire dalla bara. - Come ti senti? Poveretto… Il ragazzo parlò con voce roca. – Mi sembra di risvegliarmi da un lungo sonno. Ma, cosa mi è successo? - Ufficialmente sei morto due giorni fa per un infarto.
Piero annuì e prese la chitarra. – Che ne dite di festeggiare il mio ritorno alla vita con un po’ di musica? Le note si diffusero nella stanza, dando luogo ad un’oscura melodia che sembrava venire dal mondo dei morti. Gli amici di Piero si guardarono terrorizzati. Notarono che il loro amico suonava tenendo lo sguardo fisso nel vuoto. Le sue mani pizzicavano le corde con una velocità sovrumana. Sembrava essere caduto in trance. Geppo si agitò. Iniziò a muovere gambe e braccia in maniera scomposta, come il ballerino di una danza priva di senso, poi cadde a terra in preda alle convulsioni. Gli amici gli si avvicinarono e cercarono di soccorrerlo. - Cosa ti succede? Piero ripose la chitarra e scoppiò a ridere. Parlò con una voce che non era la sua. - E così era lui il traditore… Gli amici lo guardarono sconvolti. - Lara era la sua amante. Ĕ stata lei a svelarmi che Geppo aveva intenzione di uccidermi per prendere il mio posto nei Black Crocodiles... Il barista stava sempre peggio. Aveva gli occhi ormai fuori dalle orbite. -Ho bevuto il caffè avvelenato che mi ha offerto, e con impazienza ho atteso questo momento. Nella notte di Halloween coloro che muoiono ingiustamente hanno la
possibilità di risorgere. Gli assassini invece vengono puniti. Ora gli spiriti della notte verranno a prendersi la sua anima dannata e la porteranno all’inferno, dove merita di stare… Ombre nere comparvero all’improvviso nella stanza e si infilarono tra i presenti. Volteggiarono attorno al corpo ormai esanime di Geppo. Il velo trasparente che era la sua anima uscì dalla sua bocca. Per alcuni secondi il cadavere dell’uomo si sollevò, poi ricadde a terra in un tonfo. Gli spiriti uscirono dalla stanza lasciando un vento freddo che spense alcune candele. Piero rise di gusto. Gli amici lo guardarono impietriti, ne ebbero quasi paura. - Dov’è Lara?- chiese ad un tratto Tonio. - Eccola!- disse Alberto. La ragazza entrò nella stanza vestita da strega, seguita a breve distanza da un gruppo di bambini travestiti in modo bizzarro. - Dolcetto o scherzetto? - Hanno visto la luce delle candele ed hanno pensato che ci fosse una festa…- spiegò Lara. - Dolcetto!- esclamò euforico Piero. – Che la festa continui!Imbracciò la chitarra e suonò un vivace motivetto. Steno e Tonio misero il cadavere di Geppo nella cassa. I bambini si presero per mano e fecero un girotondo ridendo allegramente. I vassoi con dolciumi, bibite e liquori non tardarono ad arrivare.
Mentre tutti facevano baldoria Piero e Lara andarono in una stanza attigua. Un gatto nero li seguì. I due si abbracciarono e si baciarono con passione. - Non ho mai smesso di amarti…- Disse Lara. - Nemmeno io… Furono nudi in pochi istanti. Fusero i loro corpi con rabbia, dando sfogo al loro desiderio famelico. - Ricordati che hai fatto un giuramento. – Disse Lara. – La tua anima in cambio dell’immortalità. – Io sono pronto. – Piero chiuse gli occhi. Quando li riaprì Lara prendeva a morsi la sua carne. Intorno a loro le fiamme dell'inferno bruciavano ogni cosa, mentre il gatto nero sorrideva sornione in un angolo. Il ragazzo si sentì leggero. Vide la sua immagine alzarsi verso il soffitto e dissolversi nel vuoto. Ormai era dannato per sempre, ma non gli importava. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di diventare una stella immortale del rock & roll...
Giovanni Mistrulli
MELE CARAMELLATE
31 Ottobre 2015
Oggi è Halloween. Ho sempre amato Halloween. Quando ero bambino andavo per le villette del mio quartiere con i miei amici, travestiti da fantasmi o da mostri, e chiedevamo un dolcetto minacciando terribili scherzetti se non ci avessero esaudito. Ricordo che la signora Fitch ci dava sempre i dolci più buoni, ci riempiva i sacchetti di caramelle e barrette di cioccolato con le nocciole, invece la signora Mood ci dava solo una mela caramellata a testa. Noi odiavamo le mele caramellate. L’altro giorno sono andato proprio a casa della signora Mood, una delle poche che ancora non avevo visitato. Lei era in cucina e appena mi ha visto ha cercato di mordermi. Le ho piantato un colpo di filo con la vanga in piena fronte ed ha smesso di creare problemi. Nella sua dispensa non c’era niente di utile, solo cibo andato a male. In una cesta c’era una poltiglia marroncina dall’odore nauseante e dolciastro. – Anche da morta cerchi di rifilarmi le tue mele caramellate – ho detto al cadavere, come se potesse sentirmi. Per uno strano caso del destino, l’infezione si è diffusa proprio il giorno di Halloween, e infatti tutto è ancora fermo come lo era quella sera. Nelle case, vicino le porte, ci sono ancora le ceste piene di dolcetti. I bambini girano ancora indossando costumi di ogni genere. Ancora ci sono festoni e addobbi spaventosi. Eppure il segno del tempo è visibile in ogni angolo. I dolci sono marciti, la pelle di chi cammina per le strade si decompone, i festoni si rompono e cadono a pezzi. Tutto è esattamente com’era e al contempo è estremamente diverso.
I ricordi di quella notte sono confusi. Ero ad una festa con alcuni amici e la mia ragazza Isabel. Ci stavamo divertendo, ballando e bevendo birra. Poi ad un certo punto era esploso il panico: un tizio vestito da vampiro stile Buffy aveva morso alla gola una tipa vestita da gattina sexy, fino ad ucciderla. Alcuni ragazzi erano riusciti ad immobilizzare l’assassino, convinti fosse un pazzo, un malato. Poi la gattina si era rialzata, bianca come un lenzuolo, con gli occhi iniettati di sangue e un pezzo di carne del collo ancora penzolante dalla larga ferita. A sua volta aveva azzannato quelli che avevano cercato di aiutarla. La corsa verso casa era stata un incubo. La strada era male illuminata da pochi lampioni e per colpa dei costumi era impossibile capire chi fosse stato infettato e ti stava rincorrendo e chi invece era ancora vivo e cercava di fuggire. Incrociammo la sorellina di Isabel, vestita da zucca. Ci corse incontro e la mia ragazza la abbracciò con forza, pensando fosse solo spaventata. Dovetti usare una pietra trovata in un giardino per fermare la bambina che stava rapidamente divorando il volto di Isabel. In un secondo momento dovetti riservare lo stesso trattamento ad Isabel stessa. Quando tornai a casa, stanco, terrorizzato e sporco di sangue, trovai i miei genitori in sala da pranzo. La tavola era apparecchiata e i piatti erano ancora pieni. Eppure i miei avevano già cenato: i resti del mio fratellino Mike, sbranato e spolpato, erano riversi ai piedi di una poltrona insanguinata. CosÏ corsi nel capanno del giardino, presi la vanga e li fermai per sempre. La sala da pranzo è ancora chiusa, sbarrata da diversi pali di legno. Dentro ci sono ancora i cadaveri dei miei genitori e di mio fratello. Non ho idea in che condizioni siano. Non sono mai riuscito a trovare il coraggio di entrare dopo quella notte.
Per il momento vivo nel secondo piano della mia villetta. Ho abbattuto le scale e uso una scaletta di corda per entrare e uscire. La città sembra abitata solo da infetti. Non sono riuscito a trovare nessun altro superstite. Sono anni, credo due, forse tre, che non parlo con un altro essere umano. Fino a poco fa mi accompagnava la speranza. Le parlavo e lei mi consigliava, mi sosteneva e mi dava forza. Poi le provviste hanno iniziato a scarseggiare e le possibilità di trovare altri superstiti si sono assottigliate, così anche lei è morta. Il suo cadavere si è risvegliato sotto forma di disperazione e, proprio come un infetto, mi dilania le carni e mi uccide piano piano. Ma questo Halloween sarà diverso. Non lascerò che la disperazione mi trasporti alla deriva e mi faccia impazzire. Mi truccherò il volto rendendolo più pallido e disegnerò qualche ferita sulle guance e sulla fronte; poi indosserò gli abiti vecchi, strappati e sporchi di sangue che indossavo la notte in cui tutto cominciò. Ho trovato anche una vecchia zucca, incredibilmente non del tutto decomposta, l’ho intagliata e ci ho messo dentro una candela. Questo Halloween non lo passerò da solo. Travestito da zombie andrò a festeggiare insieme a tutti gli altri. Magari andiamo a casa della signora Fitch per una grande festa, oppure farò un giro delle villette per fare “dolcetto o scherzetto?” con gli altri infetti. Sono certo mi seguiranno volentieri. Questo Halloween sarà diverso. Mi divertirò così tanto che dimenticherò la disperazione e finalmente metterò fine alla mia sofferenza. Mi divertirò da morire. Quanto vorrei una mela caramellata adesso…
Tony Viola (www.uninsultoallatuaintelligenza.it)
UNO SCHERZO PER HALLOWEEN
Seduti in cerchio, Marco e i suoi tre amici cercano di arrivare ad un compromesso: scegliere lo scherzo di Halloween si sta rivelando un’impresa più ardua del previsto; sono già state vagliate diverse opzioni. Illuminati soltanto da una candela, i ragazzi fanno a turno le loro proposte. Elisa, l’unica donna della comitiva, guarda Marco con un po’ di preoccupazione. Da anni tutte le riunioni del gruppo si tengono nel suo garage. Alberto, inaspettatamente, si alza in piedi con uno scatto, deciso a prendere in mano la situazione: – Ci serve qualcosa di forte! Roba da far drizzare i capelli in testa alla gente! – Marco lo osserva meditabondo, e dopo un po’ sposta il suo sguardo triste sul volto di Elisa. – Non deve far paura soltanto ai bambini: deve terrorizzare anche le persone adulte! – dice Roberto – Anzi se permettete, ho un’altra idea da proporvi, forse la migliore! – Entusiasta, esce dal garage e torna poco dopo con un manichino più grosso di lui. L’uomo di legno ha le orbite scavate e desolate: un vuoto che inghiotte. – Provate ad immaginarlo con un mantello addosso, davanti alle porte dei nostri vicini … pensate alla faccia che faranno quei poveretti quando, dopo che noi avremo suonato e saremo scappati, se lo ritroveranno davanti conciato come un monaco! – Elisa e Alberto, pur con qualche perplessità, si alzano per ammirare da vicino quel pezzo di legno: gli riconoscono un certo potenziale inquietante. Marco è l’unico che resta seduto, assorto nel silenzio; finché sua madre, paralizzata al piano
superiore, lo chiama a gran voce. I ragazzi di colpo tacciono: l’euforia deve cessare. Roberto, pur sapendo che la donna non può scendere in garage, cerca lo stesso di nascondere il manichino sotto il tavolo. – Mamma, arrivo! Ti porto qualcosa da mangiare! – risponde Marco, con la sua tipica voce calma e misurata. Prende un piattino dal tavolo e lo riempie con delle pizzette e qualche rustico, quindi sale al piano superiore. – Non dovremmo parlare di queste cose qui … – dice Elisa appena il padrone di casa è ormai scomparso dalla loro visuale – Mi dispiace vederlo così. – – Se avesse un padre non dovrebbe occuparsi di quella poveraccia! – sbotta Alberto. Per lui è intollerabile che un uomo pianti in asso la propria famiglia per andare chissà dove, senza lasciare alcuna traccia. Nel momento in cui Marco ridiscende le scale, tutti tacciono. Il ragazzo cerca di riprendere il filo del discorso, in lieve imbarazzo: – Cosa stavamo dicendo a proposito dello scherzo? – – Ti piace l’idea del manichino per Halloween? – gli domanda Elisa con dolcezza, cercando approvazione nel suo sguardo distante – Mi pare un’idea carina … – – E’ da sballo! Farà schiattare tutti di paura! –– interviene Alberto quasi gridando. – Non mi piace, non vorrei che facessimo questo scherzo … – risponde Marco scuotendo la testa. Alberto non riesce a trattenere una risata sprezzante, senza anima, a cui fa da eco quella di Roberto; nonostante ciò nessuno dei due, da quando la donna paralizzata al piano di sopra ha parlato, ha avuto più il coraggio di tirar fuori il manichino da sotto il tavolo. Elisa guarda Marco: è senza un padre, e sua madre è su una sedia a rotelle. Forse dovrebbero
tutti uscire da quel garage a testa bassa e rinunciare allo scherzo di Halloween, almeno per quell’anno. – Non lo so … – continua Marco – non ne sono convinto. – – Pensaci bene: è uno scherzo pazzesco! – prova ad insistere Roberto, ignorando le suppliche di Elisa – tutti gli altri faranno il giro delle case con le zucche di Halloween, alla ricerca di dolci … noi dobbiamo trovare qualcosa che sia più divertente! – – Divertente … – ripete Marco mesto – qualcosa che sia più divertente! – Alberto ed Elisa rimangono sospesi in un silenzio imbarazzato: sanno che Marco è cambiato da quando ha dovuto cominciare a prendersi cura della madre; la cui voce, stavolta affievolita e sottile, si riaffaccia all’interno del garage. Elisa fa segno agli altri di tacere, portandosi un dito davanti alla bocca, e Marco si affretta a salire di nuovo al piano di sopra, stavolta con in mano un bicchiere d’ acqua. – Voglio andarmene di qui…– borbotta – Mi sto annoiando!– Ha ragione lui! A Marco non va bene nulla. E’ meglio lasciarlo stare. Salutiamolo con una scusa! – propone Alberto, che per quella sera si è annoiato abbastanza. Elisa si trova d’accordo con entrambi: ritiene che l’idea di andarsene sia la scelta più giusta, per non ferire Marco. Ormai pensa soltanto a lui, e al suo bene. Da di sopra, dei passi concitati risuonano nel silenzio del garage. Roberto cerca un foglio per scrivere un saluto prima di andare via: un breve messaggio. – Ecco: foglio e penna … – dice Alberto trionfante, dopo una breve perlustrazione – ma qui non si vede niente. Dov’è l’interruttore della luce? –
Roberto si guarda un po’ attorno, infine arriva davanti al congelatore, che ha attirato la sua attenzione perché non è stato chiuso bene. - La luce?- gli domanda Elisa – Lascia stare lì e cerca l’interruttore!Roberto non l’ascolta. E’ impietrito: la faccia dentro al congelatore, ormai spalancato. Alberto ed Elisa lo raggiungono, preoccupati. I tre amici lasciano vagare lo sguardo incredulo davanti allo spettacolo che fa bella mostra di sé: la testa recisa di un uomo, il padre di Marco, con accanto dei crisantemi congelati.
Alessandra Pagliari
UN PARTY DA PAURA
Esco a fumare una sigaretta e vedo che è arrivata un’altra macchina. Una Punto rosso mattone. E’ la macchina di Sandra. La osservo mentre parcheggia in uno dei pochi posti rimasti liberi davanti casa mia. Quando scende noto che ha addosso un costume da diavoletta davvero patetico. Le corna finte le penzolano quasi sulla fronte. Deve notare il mio disappunto, perché se le mette a posto con un sorrisetto di scuse. «Ciao Teo! Vedo che ti sei dato da fare, eh?!» mi dice, facendo cenno con la testa alle decorazioni per Halloween che ho appeso fuori casa. Tutti quelli che sono venuti me l’hanno fatto notare. Sono così banali. «Eh già. Accomodati pure… Io finisco la sigaretta e vi raggiungo» le dico. «Ma non hai messo nessun costume?» chiede, notando che addosso ho i vestiti di tutti i giorni. «Come no?! Mi sono vestito da psicopatico. Guarda» le dico, un attimo prima di spalancare gli occhi e tirare fuori la lingua in una smorfia malata. Lei ride. Poi guarda la sigaretta con aria di rimprovero. «Dovresti smetterla di fumare… Ti fa male, lo sai.» lo dicono sempre tutti. Sono così banali. «Lo so, ma che vuoi farci…E’ difficile, specialmente adesso...» «Ti capisco… E’ stato un brutto colpo» dice con un sorrisetto di circostanza. No che non lo sai, stronza. Lo penso ma non lo dico. Resto zitto. «Vabbè, allora io entro, che qui fuori fa freddo» dice lei dopo un po’, imbarazzata dal mio silenzio.
Di notte, nell’ultimo giorno di ottobre, fa freddo. Pensa un po’. Che originalità. «Vai, divertiti!» le dico con un sorrisino tirato. La diavoletta entra. Appena è fuori portata borbotto qualche insulto a mezza voce. Prendo una boccata abbondante dalla mia Merit e trattengo il fumo nei polmoni. Poi lo butto fuori con lentezza, gustandolo. «Non me lo meritavo proprio» dico a bassa voce. All’inizio del mese mi hanno licenziato, così adesso mi ritrovo solo come un cane, senza un euro, in un paesone spacciato per città che non mi appartiene, circondato da estranei che fanno finta di essere miei amici. Di tornare al paese dai miei non ne ho voglia. Pur di andarmene da lì ho accettato di lavorare come corriere. Tutto il giorno su un furgone a portare pacchi. Finché è durato, ovvio. No, non c’è da riflettere. C’è solo da agire. Entro in casa e mi guardo intorno. La gente ha un’aria divertita. Diverse persone stanno flirtando. Altre hanno l’aspetto di chi ha apprezzato parecchio le diverse bibite alcoliche che ho comprato. Non ho badato a spese. Deve essere un party da paura. Le decorazioni le ho fatte proprio bene. Ai pipistrelli manca solo il battito delle ali. I palloncini arancioni con sopra disegnata la faccia di Jack o’ Lantern sono perfetti. Ricoprono tutto il perimetro del soffitto. Negli angoli scendono giù fino al pavimento, formando delle colonne arancioni. La zucca l’ho intagliata in modo così preciso che sembra finta, una di quelle zucche di plastica che si comprano al discount. Guardo le candele bruciare dentro la zucca e l’adrenalina sale, schizza nelle vene come un animale impazzito. Come i gatti, quando i ragazzini gli danno fuoco. Vado verso il tavolo con la roba da bere e prendo un bicchiere di vetro e un coltello. Faccio tintinnare il vetro del bicchiere per avere la loro attenzione. Mi guardano in pochi. Faccio
tintinnare di nuovo il vetro ma continuano a guardarmi in pochi. Inizio a parlare, a voce alta. «Miei carissimi amici… Voi sapete bene che questo per me è un periodo difficile, ma ho voluto organizzare lo stesso questa festa, per svagarci, per non pensare ai soliti problemi. Vedo che vi siete divertiti, e ne sono contento. Ma vi assicuro che adesso ci divertiremo molto di più.» Adesso sono incuriositi. Prendo il mazzo di chiavi dalla tasca del jeans e chiudo la porta a chiave, dall’interno. Mi guardano perplessi, ma sono ancora troppo euforici per capire. Sfilo la piccola chiave dall’anello del portachiavi e la porto in alto, tenendola tra due dita. La guardano tutti. La metto in bocca e la ingoio. «Teo ma che fai?!» dice Michela, dall’alto del suo vestitino da strega. Ha l’unico vantaggio di esporre le cosce, quel vestitino. Michela ha belle gambe. Per il resto è patetica come il suo costume. «Mi assicuro che nessuno lasci la festa. Sta per arrivare il meglio. Fate attenzione» dico. Prendo una bottiglia ancora piena di vodka e la porto in alto. «Scommetto che nessuno di voi ha notato che per terra c’è un tappeto che fino a ieri non c’è mai stato, né che i palloncini toccano sia contro il tappeto che contro le tende. E sono sicuro che non vi siete accorti che i pipistrelli sono di cartone.» Stappo la vodka e verso tutto il liquore su una colonna di palloncini. Loro mi guardano sconvolti. «Dite un po’, avete sentito puzza di lacca per capelli? No? Beh, ci ho riempito i palloncini. E’ altamente infiammabile.» Tiro fuori l’accendino e faccio ardere la fiammella. Mentre avvicino il fuoco alla colonna di palloncini bagnati di vodka sento diverse persone strillare. Aniello Troiano