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Cadorna e la Marina
Storia di una lunga amicizia
Andrea Tirondola
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Il 29 febbraio 1928 moriva il maresciallo d’Italia Armando Diaz, sepolto pochi giorni dopo nella basilica romana di Santa Maria degli Angeli. Seguirono il progetto e la costruzione, in quella grande chiesa, di un monumento funebre, realizzato nel tempo di nove mesi. Nel luglio di quell’anno Luigi Cadorna, anch’egli maresciallo d’Italia, dopo avere letto di quest’opera e della possibilità che quel monumento ospitasse altri illustri personaggi, scrisse al figlio Raffaele: «Ti avverto che per nessuna ragione al mondo io debbo andare a finire colà. L’ho scritto nel mio testamento che la mia estrema dimora deve essere a Pallanza accanto ai miei
Laureato in Giurisprudenza nell’Università di Padova ed è avvocato cassazionista in Vicenza, in ambito civile, penale e amministrativo. Tenente di Vascello (CM) di complemento, è stato più volte richiamato in servizio, in particolare presso il Morosini di Venezia. Ha pubblicato il volume Pale a prora! Storia della Scuola Navale Francesco Morosini. Collabora con la Rivista Marittima (per la quale ha curato diversi supplementi) e con l’Ufficio Storico della Marina Militare, per il quale insieme a Enrico Cernuschi ha pubblicato diversi volumi. È presidente dell’associazione culturale Betasom.
Cadorna generale dell’esercito (USMM).
vecchi. Io non so cosa farmene dei monumenti: mi bastano due metri quadri e due parole che dicano chi sono senza nessuna lode» (1). Di lì a poco, il 21 dicembre, anch’egli scomparve e non vide rispettate queste volontà in quanto, grazie a una sottoscrizione nazionale promossa dalle associazioni dei mutilati e dei combattenti, fu eretto nella sua Pallanza un mausoleo «nel più duro granito del Verbano tagliato e scalpellato», come d’Annunzio aveva definito in passato il volto di Cadorna, suscitando in lui, contrariamente a quanto si pensi dotato di senso dell’umorismo, una battuta: «Bella circonlocuzione per dire che sono brutto!» (2).
Cadorna aveva messo per iscritto che avrebbe preferito qualcosa di più semplice, ma è legittimo supporre che abbia perdonato i combattenti che, dimostrando di non averlo dimenticato, vollero tributargli quell’estrema dimora. E fu senz’altro una scelta felice realizzarla sulle rive del Lago Maggiore, da lui amate sin dall’infanzia. Né si tratta di una questione di poesia. Per quanto il suo nome sia simbolo e sinonimo della più tremenda guerra terrestre, Cadorna — appassionato montanaro — fu sempre tutt’altro che insensibile rispetto all’acqua, dolce o salata che fosse. Da bambino aveva a lungo praticato la vela sul Verbano (3) e i suoi figli ricordarono la sua passione per il mare, non inferiore a quella per la montagna: «Nuotatore e rematore vigoroso, dimostrava ugual forza a resistere a qualunque bufera scuotesse il bastimento. Più il gigante traballava e i passeggeri a uno a uno si arrendevano, e più se la godeva imperterrito sulla tolda come un vecchio lupo di mare con l’unico effetto di sentire un formidabile appetito» (4). Dell’amore per il mare il giovane Cadorna avrebbe voluto, per di più, fare la sua professione. Allievo tredicenne del Collegio militare di Milano, nel maggio 1864 scrisse al padre Raffaele: «Quando la mamma sarà qui ce la discorreremo su quel tale affare della Marina e che del certo tu saprai. Io credo che non cederò poiché è troppo radicato in me quel desiderio» (5). Pochi giorni
Luigi Cadorna nel 1860 a 10 anni, allievo del Collegio militare di Milano, la cui tradizione, e nella medesima sede, prosegue oggi con la Scuola militare «Teuliè». Durante gli anni trascorsi nell’istituto milanese, Cadorna maturò il desiderio di diventare ufficiale di Marina (archivio Cadorna).
dopo scriveva nuovamente al genitore esponendogli i dettagli per l’ammissione alla Regia scuola di Marina (l’Accademia navale del tempo, i cui corsi si tenevano tra Napoli e Genova) (6). Non avrebbe avuto problemi a superare le dure selezioni, in particolare le prove nelle materie scientifiche in cui eccelleva, ma un problema alla vista gli impedì di realizzare il suo sogno, dovendo ripiegare sull’Accademia militare per diventare ufficiale dell’Esercito; di quest’occasione perduta si dolse sempre nel chiuso della propria famiglia (7).
Diventato, al culmine di una lunga e non facile carriera, capo di Stato Maggiore dell’Esercito nel luglio 1914, proprio nei giorni in cui iniziava, allargandosi sempre di più, la nuova, grande guerra europea, Cadorna dimostrò immediatamente che la sua concezione della strategia italiana assicurava alla Regia Marina un ruolo determinante e complementare rispetto al Regio Esercito: circostanza unica, più che insolita, nella storia di quel senior service italiano, eccezion fatta per i molto successivi generali Alberto Pariani e Ugo Cavallero. Cadorna trovò così un interlocutore ideale, quanto a lucidità e tenacia, nell’allora capo di Stato Maggiore della Marina, l’ammiraglio Paolo Thaon di Revel e tutto ciò si tradusse, sin dal principio, in un confronto franco e cordiale (8). Se vogliamo non guastò neppure che i due, per quanto fossero entrambi formalisti inappuntabili, utilizzassero, tra loro, il dialetto piemontese, dandosi del tu anche nella corrispondenza (9). La collaborazione tra le Forze armate partì bene molto prima del 24 maggio 1915. In pratica dall’agosto 1914 e con l’Italia ancora neutrale, fu istituita una Divisione navale speciale, agli ordini dell’ammiraglio Patris, destinata a operare lungo l’ala a mare della III Armata schierata sul futuro fronte contro l’Austria-Ungheria (10). Thaon di Revel, essendo a sua volta consapevole, da marinaio, dei fondali di quelle lagune, pensò bene, a sua volta, d’inventare i pontoni armati, il primo dei quali, il Pavia, fu armato con i cannoni del vecchio incrociatore protetto Bausan, prelevati a Spezia e adattati a quella nuova bisogna, a partire dalle tavole di tiro e dal munizionamento, da ufficiali e sottufficiali del Genio del Regio Esercito. Quelle uniformi in grigioverde che si muovevano a bordo e in arsenale furono il concreto anticipo di una mentalità interforze inedita e imposta dai capi.
Alle vecchie e spendibili (opinione degli equipaggi a parte) navi della Divisione speciale su richiesta di Cadorna si aggiunse poi, dal 24 giugno 1915 fino all’aprile 1916, la IV Divisione, formata da 4 moderni incrociatori corazzati, più veloci degli avversari e più potenti (11). Queste unità non poterono, peraltro, essere impiegate con profitto data la natura insidiosa della guerra nell’Alto Adriatico; lo stesso Cadorna ne aveva preso atto per tempo in una sua lettera del 25 giugno 1915, osservando: «Si dovrà nell’avvenire dare grande sviluppo alla torpediniera e al sommergibile» (12); in effetti la presenza di quelle navi, oltre a registrare la perdita dell’Amalfi a opera di un battello tedesco, era legata più alle concezioni navalistiche, in concorrenza con quelle di Thaon di Revel, del comandante della squadra, il Duca degli Abruzzi, e dell’ammiraglio Cagni, comandante di quel reparto, poi tornato nel Basso Adriatico.
Sempre nell’ambito di una corretta ottica interforze
Il capo di Stato Maggiore dell’Esercito Cadorna, ritratto nel 1915, assieme al sottocapo di Stato Maggiore gen. Carlo Porro, in occasione di un volo su un bombardiere Caproni (archivio Cadorna).
L’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, nella tenuta di Cadorna a bordo di un Caproni nel 1917.
al massimo livello, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, fu destinato presso il Comando supremo il sotto capo di Stato Maggiore della Marina allo scopo di favorire la collaborazione tra le due Forze armate. Furono inoltre frequenti le visite di Thaon di Revel (e, dopo il 1° ottobre 1915, dei suoi successori prima che quell’ammiraglio tornasse a ricoprire, questa volta senza concorrenti, l’incarico di capo di Stato Maggiore il 9 febbraio 1917) (13). Questo costante scambio di vedute tra i massimi vertici assicurò una proficua collaborazione tra Esercito e Marina concretizzatasi, in particolare, nel rinforzare lo schieramento, all’inizio numericamente non sufficiente, delle artiglierie pesanti campali delle Forze terrestri grazie all’impiego quotidiano dei pontoni armati, semoventi o a rimorchio, ben presto affiancati dei primi reparti di fanteria e artiglieria di Marina all’estremità del fronte terrestre, nucleo della futura Brigata Marina (14).
Non tutto filò, naturalmente, sempre liscio. Pur condividendo la necessità di conservare il pilastro rappresentato dal campo trincerato di Valona, Cadorna si oppose strenuamente a qualsiasi sottrazione di Forze terrestri dall’Isonzo e dalle Alpi a favore dell’Albania e in occasione dei vari piani, studiati fino al 1918, per operazioni anfibie (sempre al livello, al massimo, di un reggimento) in Dalmazia, in Istria o subito dietro alla linea del fronte principale (15). Si trattò di una scelta, in nome del principio di concentrazione delle forze, condivisa nel 1915 dal ministro della Marina, l’ammiraglio Leone Viale (16). In seguito prevalsero le esigenze politiche: nel 1916 il Governo incrementò, fino
Il capo di Stato Maggiore della Marina Thaon di Revel al fronte con l’uniforme grigioverde, da lui amata tanto da volervi essere infine sepolto.
al livello di un Corpo d’armata, il contingente in Albania, pareggiando così le forze austro-ungariche nell’offensiva in quello scacchiere allora e nel 1918. Questi reparti furono messi agli ordini diretti del ministro della Guerra e non di Cadorna, il quale non esitò a scontrarsi, il 22 gennaio 1916, con l’intero Gabinetto, a partire dal nuovo ministro della Marina, l’ammiraglio Camillo Corsi, nel corso di una tempestosa riunione a Roma. Dal punto di vista politico, di per sé prevalente, non c’era niente da dire. Sotto il profilo militare, per contro, Cadorna, da tecnico, dimostrò di aver avuto ragione in quanto si trattò di un classico esempio di troppo poco e troppo tardi rispetto alle esigenze sul terreno. In altre parole l’assurdo di Lissa del 1866 non aveva insegnato nulla all’esecutivo (come pure, d’altra parte, sarebbe accaduto in occasione della guerra di Grecia dell’ottobre 1940). Nel febbraio 1916 le forze austro-ungariche, dopo avere sospinto sull’Adriatico (grazie ai tedeschi e ai bulgari) quel che restava dell’Esercito serbo (evacuato, infine, dalla Regia Marina e dai reparti navali francesi e britannici a Corfù), avanzarono su Durazzo, indifendibile a opera della sola Brigata Savona e destinata sin dall’inizio a essere abbandonata dopo aver imbarcato l’ultimo serbo. Il comandante della Brigata era il generale Giacinto Ferrero (in seguito trasformato nell’a dir poco improbabile «generale Leone» descritto da Emilio Lussu nel proprio celebre libro Un anno sull’Altipiano e reso ancor più infelice nella trasposizione cinematografica di quell’opera, tanto che lo stesso Lussu manifestò, dopo aver visto la pellicola, le proprie perplessità) (17). Ufficiale, in realtà, tutt’altro che ottuso e fanatico, oltre che molto stimato da Cadorna, Ferrero si regolò di conseguenza attendendo di essere lui pure trasferito a sud a cura dell’Armata navale. A questo punto, però, intervenne il Governo, impastoiatosi da sé correndo dietro alla propaganda avversaria. Il generale Emilio Bertotti, comandante superiore in Albania, ordinò pertanto, in base alle nuove direttive ministeriali, di resistere a Durazzo minacciando addirittura la fucilazione di Ferrero. Costui non poté che obbedire, comunicando ai propri dipendenti quell’ordine assurdo e che sarebbe stato pertanto necessario morire tutti sul posto (il tenente di vascello Gennaro Pagano di Melito, presente al discorso, scrisse al riguardo: «Lo avremmo tutti abbracciato. Caro e magnifico generale Ferrero!» (18)). Le navi italiane rientrarono a Brindisi suscitando la reazione, indispettita e meravigliata, del comando dell’Armata navale (19), per poi tornare a Durazzo dieci giorni dopo, essendo stata finalmente riconosciuta dal Governo (senza più la precedente, inutile retorica letteraria) la situazione. Naturalmente il reimbarco, effettuato ora a contatto del nemico, comportò gravi perdite del tutto inutili. Cadorna non mancò di stigmatizzare l’accaduto sottolineando, nel contempo, l’indispensabile concorso finale della Marina (20).
Il momento più alto e tragico della felice collaborazione tra Cadorna e la Regia Marina fu, comunque, quello immediatamente successivo allo sfondamento del fronte verificatosi a Caporetto il 24 ottobre 1917 e della ritirata decisa definitivamente tre giorni dopo. Il cardine fondamentale della manovra, svolta interamente
Cadorna, al fronte, ascolta l’istruzione morale fatta da un capitano alla sua compagnia, per poi rivolgersi personalmente ai soldati. Quella dello scarso interesse di Cadorna per il morale delle truppe è una delle leggende più dure a morire, smentita da provvedimenti quali la reintroduzione dei cappellani militari e l’istituzione delle «Case del Soldato», o da circolari come quella del 20/07/1917 in cui faceva obbligo a ogni superiore di far comprendere
al soldato «che egli è un uomo trattato con comprensione umana» (archivio Cadorna).
sotto la guida di Cadorna, consistette nel nuovo schieramento lungo la linea del Piave, identificata e organizzata, di base, dal capo di Stato Maggiore sin dall’anno precedente nella «dannata ipotesi» di una riuscita offensiva avversaria. Quella linea, contrariamente alla soluzione, più arretrata, del Mincio che pure era stata patrocinata da molti politici nel caos di qui giorni, attribuiva, correttamente, al massiccio del Monte Grappa il ruolo di principale contrafforte (fortificato e dotato delle necessarie sistemazioni logistiche, ossia strade e riserve d’acqua). La linea del Piave rispondeva, inoltre, non solo all’esigenza di ridurre la lunghezza del fronte, ma anche a quella, decisiva dal punto di vista delle operazioni navali in tutto l’Adriatico, di difendere Venezia. Pertanto Thaon di Revel «trovò in Cadorna un corrispondente pienamente consapevole della necessità di mantenere Venezia, segno della sua visione strategica, estremamente chiara, che gli faceva vedere bene le conseguenze negative di un eventuale abbandono dell’Alto Adriatico al nemico» (21).
La Marina e il suo capo condivisero, inoltre, lo spirito dell’ordine del giorno al Regio Esercito firmato da Cadorna il 26 ottobre: «L’ora è grave. La patria è in pericolo. Ma il pericolo vero non sta nella forza del nemico quanto nell’animo di chi è pronto a credere che quella forza è invincibile. La sconfitta è sempre di chi è disposto per il primo a ritenersi vinto (…). Ma l’appello supremo lo faccio al cuore generoso dei soldati di cui da due anni conosco il valore, la serena e paziente resistenza ai sacrifici, l’eroismo di cui la nazione è fiera. Essi devono oggi rendersi degni dei loro fratelli che a Passo Buole, sul Novegno, sull’Altipiano di Asiago, hanno detto al nemico: “Di qui non si passa”» (22).
Quei momenti furono ricordati da Cadorna qualche anno dopo allorché, nel febbraio 1923, la città di Venezia conferì la cittadinanza onoraria a Thaon di Revel e a Diaz, dopo avere già attribuito a quest’ultimo, nel 1919, una spada d’onore. Scrisse privatamente Cadorna al senatore Luigi Albertini, direttore del Corriere della Sera e fra i suoi pochi sostenitori dopo il 1918: «Ma, di grazia, chi ha salvato Venezia sul Piave nel 1917, nel momento del massimo pericolo? Rammento che quando dopo Caporetto (il 29 ottobre), Revel venne a consultarmi sul modo di salvare Venezia, gli dissi che c’era un modo solo, quello cioè di difendere a ogni costo la linea del Piave. Ma questo non conta, e così si scrive la storia…a Venezia!» (23).
L’identità di vedute tra i due capi, non solo strategica, ma anche di carattere, è riscontrabile in relazione a uno degli episodi per i quali Cadorna fu anche oggigiorno oggetto delle critiche più feroci: il famigerato Bollettino di Caporetto del 28 ottobre 1917 (24). Redatto dallo stesso ufficiale che un anno dopo scrisse il Bollettino della Vittoria, il comunicato in questione citava: «… La mancata resistenza di riparti della II Armata vilmente ritiratisi senza combattere, o ignominiosamente arresisi al nemico», per poi lodare «gli sforzi valorosi delle altre truppe». Come noto quel testo (che pure diversi ministri presenti alla sua prima lettura avevano approvato) non piacque al Governo, il quale sostituì l’incipit con le parole «la violenza dell’attacco e la deficiente resistenza di taluni riparti della
II Armata» non prima, però, che la versione originale fosse diffusa. È poco noto che quando il sotto capo di Stato Maggiore (il generale Carlo Porro) gli lesse la prima versione, Cadorna esclamò «No! Questo no!», ma si fece poi convincere della necessità di dare una sferzata senza nulla nascondere (25). D’altra parte quel bollettino rispecchiava le informazioni che pervenivano sui tavoli del Comando Supremo, purtroppo confermate dalla documentazione e dalle testimonianze postbelliche (26). Fra i non molti che ebbero in quelle ore il coraggio di non dare il proverbiale calcio dell’asino a Cadorna (il quale sarebbe stato sostituito, su decisione del Re, dal generale Armando Diaz il 9 novembre 1917) ci fu proprio l’ammiraglio Thaon di Revel, che disse al collega: «Bene! Così si dice la verità», dimostrando «che per uomini che avevano preoccupazioni esclusivamente d’ordine militare quel comunicato appariva allora necessario e anche opportuno» (27). Lo stesso Cadorna riferì alla Commissione d’inchiesta su Caporetto, di cui si dirà, che il Bollettino era stato «confortato» dalla «esplicita approvazione del capo di Stato Maggiore della Marina» (28), e nella sua relazione scritta sulla questione osservò che persino il Re gli aveva espresso il suo consenso (29).
A questo proposito, ancora una volta, il quadro odierno, a bocce ferme e col manzoniano senno di poi, è — dal punto di vista storico e storiografico — peggio che fuorviante. Che gli uomini del Regio Esercito fossero stanchi e psicologicamente scarichi dopo due anni di massacri senza precedenti, da noi come ovunque altrove, è un fatto che neppure un cadorniano di ferro (e reduce di quei giorni) il generale Emilio Faldella, grande storico militare italiano, ha mai pensato di negare. Quello che ci si dimentica di ricordare, in omaggio a una retorica dell’antiretorica tipicamente nostrana, è la cronologia dei fatti. La prima rivoluzione russa del 1917 non fu, come si legge troppo spesso sul web e in certi libri, quella bolscevica di Lenin, ma quella democratica e pressoché senza vittime di Alexander Kerensky, il quale aveva continuato, con poco successo, la guerra contro gli imperi centrali. I primi, veri moti rivoluzionari europei contraddistinti dall’uccisione di cittadini giudicati borghesi e dal saccheggio delle loro abitazioni erano quelli avvenuti a Torino nell’agosto 1917 con un bilancio (ufficiale) di 50 morti ed episodi di fraternizzazione tra soldati di cavalleria e rivoltosi che avrebbero caratterizzato, da allora in poi, i peggiori incubi di un giovane tenente colonnello, Vittorio Ambrosio, testimone impotente, o quasi, di quegli avvenimenti per poi diventare, nel 1943, capo di Stato Maggiore generale. Ricordi e timori tanto precisi da spingerlo ad affrettare i tempi, tra il 25 luglio e l’8 settembre 1943, convinto che non ci fosse un minuto da perdere «finché i carabinieri hanno ancora il sottogola» (30). Fermo restando la pessima gestione politica e propagandistica di quel famigerato Bollettino (ne circolarono innumerevoli versioni apocrife), se quella era ancora la reazione, a 26 anni di distanza, figurarsi a due mesi di distanza dalle vicende torinesi, estesesi, poco dopo, in forma appena attenuata, al resto del triangolo industriale.
A ogni modo un bell’elogio all’opera di Cadorna fu pronunciato, dopo la sua morte, da un altro marinaio, Augusto Vittorio Vecchj (alias Jack la Bolina), il quale, nel ricordo apparso sulla rivista della Lega Navale L’Italia Marinara, scrisse: « (…) Non fui affatto stupito allorquando, avendo chiesto al grande capitano, che mi onorò della sua amicizia, se era stato soddisfatto dell’opera della Marina, mi rispose senza alcuna esitazione di sì: anzi, ricordò il sempre sollecito concorso prestato all’opera comune dall’ammiraglio Thaon di Revel. (…) Cadorna si giovò della flotta in ogni maniera. Alla destra del suo esercito, essa la mantenne in contatto con la piazzaforte di Venezia; e i distaccamenti di marinari in grigio-verde fecero assidua guardia alla rete di vie d’acqua scavate apposta per aprire comunicazione per vie interne tra Venezia e Monfalcone. Voglio ripeterlo, il Maresciallo non sarebbe stato il completo capitano che fu, se non avesse adoperata l’arma navale con la medesima maestria che dimostrò nel manovrare l’esercito campeggiante» (31).
La storia potrebbe finire qui, con il passaggio di consegne tra Cadorna e Diaz al vertice del Comando Supremo del 9 novembre 1917 soddisfacendo, a un tempo, le esigenze politiche italiane e degli alleati e degli stessi generali austro ungarici, Conrad in testa, i quali considerarono la sua caduta un successo ancor maggiore della stessa avanzata di Caporetto. Ma in realtà le vicende dei rapporti di Cadorna con la Marina
non terminarono. Posto in ausiliaria nell’estate 1918, quel già onnipotente generale diventò il bersaglio dell’ostilità della quasi totalità dello schieramento politico: i liberali non gli perdonavano gli sferzanti screzi coi Governi nel corso della guerra; per i socialisti era il simbolo stesso del militarismo guerrafondaio; per i cattolici era il responsabile dell’«inutile strage» biasimata dal Papa. Non solo: per quanto credente, anche se non bigotto, Cadorna era pur sempre il figlio del conquistatore di Porta Pia, e nel contempo era inviso presso i generali Diaz e Pietro Badoglio — nuovo sotto capo di Stato Maggiore — a loro volta in odore, secondo la vox populi, di massoneria anticlericale. A queste correnti si sarebbero in seguito accodati anche i primi, neonati fascisti. Subito dopo Caporetto il nuovo Governo presieduto da Vittorio Emanuele Orlando (il quale, da ministro dell’Interno nel 1916 e nel 1917, aveva deciso di non dar corso a ripetute richieste scritte di Cadorna che sollecitavano iniziative contro quello che veniva definito il disfattismo che minava l’Esercito, salvo ripensarci, con mano ben altrimenti pesante, da Presidente del Consiglio) nominò una Commissione d’inchiesta destinata a indagare sui fatti dell’ottobre 1917. Tra i componenti di questa Commissione figurava anche un ammiraglio, Felice Napoleone Canevaro, già ministro
Sopra: Giovanni Roncagli, qui ritratto nel grado di capitano di corvetta. Scienziato ed esploratore, fondatore dell’Ufficio Storico della Marina, strettamente
legato sia a Thaon di Revel che a Cadorna (L’Italia Marinara).
Sotto a sx: Un ritratto in borghese di Luigi Cadorna nei primi anni 20, nel duro periodo, segnato da vessazioni morali e ristrettezze economiche, che seguì al suo collocamento d’autorità in ausiliaria avvenuto nel 1918 (archivio Cadorna). Sotto a dx: Raffaele Paolucci sul fronte dolomitico nel maggio 1916. Prima di vincere il concorso nel Corpo Sanitario della Regia Marina nell’estate di quell’anno,
il futuro affondatore del Viribus Unitis prestò servizio, sempre quale ufficiale medico, nell’8° Reggimento Bersaglieri. Molto tempo prima Cadorna aveva lungamente comandato (per quattro anni) un altro Reggimento di fanti piumati, il 10° (Paolucci, Il mio piccolo mondo perduto).
della Marina e degli Esteri. Un mese dopo l’assunzione di quell’incarico, però, l’Ammiraglio si dimise da quel consesso, formalmente per motivi di salute, ma in realtà, come scrisse lo stesso Cadorna: «… Visto di che si trattava» (32). In effetti la Commissione, la quale depositò la propria relazione nell’agosto 1919 addossando (spingendosi al di là dei quesiti cui doveva rispondere) a Cadorna ogni genere di colpa d’ordine tecnico e morale, agì in modo più che discutibile. Naturalmente quell’iniziativa non sopì, ma peggiorò soltanto le polemiche in corso da anni. Lo ammise poco tempo dopo, onestamente e con rassegnazione, lo stesso segretario della Commissione, il colonnello Fulvio Zugaro, che, nella prefazione di un proprio saggio a parte, scrisse: «Studioso appassionato nei miei più giovani anni della storia militare, e di recente chiamato, purtroppo, a ordinare notevoli per quanto incompleti e unilaterali documenti della nostra guerra, per trarne — sotto l’ausilio d’altrui ansiosissima impellente pressione — taluni dati ed elementi di giudizio, posso, nella mia modesta esperienza, vedere quanto erri chi ricerchi le ragioni di avvenimenti militari, siano essi fausti o infausti, nei fattori tattici e strategici immediatamente precedenti, o peggio esclusivamente le ricerchi nell’azione diretta di comando dei supremi reggitori degli eserciti » (33).
L’«ansiosissima pressione» citata da Zugaro rientrava nella sfera politica oggettiva di Orlando e trasformò, in pratica, il già generalissimo in una sorta di paria nel corso dei feroci dibattiti del biennio rosso cui seguì, dalla fine del 1920, lo squadrismo in un clima di guerra civile senza precedenti, quanto a dimensioni, estensione e numero di morti, contati a migliaia, persino rispetto alla, viceversa, localizzata repressione del brigantaggio del 1860-65. Chiuso in un dignitoso silenzio, ritiratosi a vita privata a Firenze in modeste condizioni economiche e impegnato a scrivere La guerra alla fronte italiana (cronistoria documentata degli eventi che lo videro protagonista dal 1914 al 1917), Cadorna ebbe, tuttavia, modo di constatare ben presto di non essere stato dimenticato dalla massa degli ex combattenti. Una prima prova tangibile di questi sentimenti di identificazione dell’uomo coi reduci ebbe luogo nei giorni seguenti le celebrazioni, in massima parte spontanee, avvenute in occasione della traslazione a Roma del Milite Ignoto, all’inizio del novembre 1921. A causa di una maldestra lettera d’invito alla cerimonia finale indetta nella capitale inviata dal ministro della Guerra, e pensando che, trovandosi in uniforme tra tanti generali che erano stati suoi subordinati fino al 1917, ciò li avrebbe messi in imbarazzo, Cadorna preferì infatti rendere omaggio, da semplice cittadino e in borghese, confuso tra la folla, alla salma del soldato ignoto al suo passaggio per Firenze. Il successivo 6 novembre ebbe quindi luogo, nel capoluogo toscano, una grande cerimonia commemorativa della vittoria che si concluse con un corteo cui presero parte sia Cadorna (sempre in borghese) sia Thaon di Revel. Tutti i presenti vollero che ad aprire il corteo fosse l’anziano generalissimo, il quale non mancò di apprezzare il gesto di cortesia manifestatogli dall’Ammiraglio. Thaon di Revel gli cedette, in effetti, il passo e la precedenza che pur gli spettavano di diritto, essendo stato insignito del Collare dell’Annunziata diventando, così, cugino del Re (34): un’ulteriore
conferma, se vogliamo, del rispetto e dei sempre ottimi rapporti tra i due in un periodo in cui, tra i generali Luigi Capello, Enrico Caviglia e Badoglio, tanto per citare tre soli nomi, era in corso una lotta feroce a colpi di libri e memoriali più combattuta delle stesse giornate di Caporetto e destinata soltanto a peggiorare l’immagine dell’Esercito e dei suoi capi presso chi la guerra l’aveva fatta in prima linea.
Tra quanti non gradirono le manifestazioni di stima che Cadorna riceveva dai combattenti vi fu il quotidiano fascista Il Popolo d’Italia, foglio che già aveva violentemente attaccato quel generale il precedente 28 ottobre per la sua assenza alle cerimonie romane. L’8 novembre 1921 quello stesso giornale pubblicò un fondo del proprio fondatore e direttore, Benito Mussolini, in cui, pur ammettendo candidamente di essere «incompetente in materia», l’autore biasimava Cadorna per il suo operato nella Grande guerra utilizzando gli stessi argomenti della Commissione d’inchiesta (35).
Tra i primi e più puntuali a esporsi in difesa di Cadorna fu proprio, in quel preciso momento storico, un marinaio, e non uno qualsiasi: il capitano di fregata in congedo Giovanni Roncagli (1857-1929) (36). Esploratore, idrografo e cartografo (fu pioniere della topografia aeronautica), autore di numerosi saggi di strategia, economia, geografia commerciale, organica e di memorie, Roncagli ricoprì, dal 1897 fino alla sua scomparsa, la carica di segretario della Società Geografica Italiana. Richiamato in servizio quale addetto all’Ufficio informazioni all’inizio della guerra italoturca, ricoprì in seguito l’incarico, dal 1912 al 1920, di primo capo dell’Ufficio Storico della Marina (37). Roncagli era, infine, strettamente legato a Thaon di Revel, del quale era stato capocorso alla Scuola di Marina di Genova, e che scrisse, nel giugno 1918, l’introduzione al suo volume Il problema militare dell’Adriatico spiegato a tutti (38).
Il comandante Roncagli coltivava rapporti di amicizia anche con Cadorna, tanto che nel 1922 diede alle stampe un volume nel quale, forte delle proprie competenze specifiche, analizzò in maniera critica il metodo e le conclusioni della Commissione d’inchiesta, oltre a commentare il precedentemente citato La guerra alla fronte italiana scritto in prima persona da quel generale (39). Roncagli ebbe infine modo di dimostrare, in seguito, la sua vicinanza a Cadorna in frangenti decisamente delicati.
Sin dal primo dopoguerra il maresciallo Foch, capo di Stato Maggiore dell’Esercito francese dopo gli ammutinamenti del 1917 e fino alla fine del conflitto, aveva rivendicato l’idea di attestare la difesa italiana dopo Caporetto sul Piave e di avere dato suggerimenti in questo senso a Cadorna. Quest’ultimo aveva già confutato l’assunto nel proprio La guerra alla fronte italiana, ma allorché, sul finire nel 1922, la questione tornò alla ribalta sulla stampa internazionale, l’ex generalissimo pubblicò, in difesa della dignità nazionale e della verità storica, alcuni articoli su questo tema, l’ultimo dei quali apparve nell’aprile 1923 sulla Rassegna Italiana, suscitando un vivace dibattito che si
Firenze, 4 novembre 1923. Luigi Cadorna, in borghese sulla sinistra, guida il corteo per il 5° anniversario della Vittoria dopo essere stato convinto a prendervi parte, quasi con la forza, dai combattenti fiorentini (archivio Cadorna).
estese alla più ampia questione della sua, in pratica, riabilitazione (40). Nel febbraio 1923 apparve poi sul Corriere della Sera un articolo anonimo (redatto da Angelo Gatti) con cui si chiedeva al Governo di estendere a Cadorna (il quale percepiva la misera pensione decisa dal Governo Nitti, nel 1920, a danno degli ufficiali generali e ammiragli tagliando, per risparmiare, gli importi previsti per legge a fronte dei contributi versati) gli assegni straordinari che sarebbero stati di lì a poco approvati per Diaz e Thaon di Revel (nominati, quattro mesi prima, rispettivamente ministro della Guerra e della Marina nel Governo Mussolini) (41). Pochi giorni dopo Cadorna scrisse al direttore Albertini per ringraziarlo manifestando, però, la propria perplessità in merito a quest’iniziativa: «… Perché Mussolini mi è avversissimo», e così Diaz (42). Fu facile profeta. Il Parlamento approvò gli assegni per i due ministri militari, ma non per lui. Il 18 febbraio 1923 Cadorna scrisse al figlio: «(…) Il che significa che Mussolini ha messo il suo veto e che tutti si sono inchinati come era prevedibile. Amen! Tale è il mio destino e sarebbe vano e sciocco ribellarvisi. (…) Perciò è inutile nascondersi la realtà, la quale è quella di finire la vita in una relativa miseria. Ma ci adatteremo anche a questa: ci si adatta a tutto; l’importante è non capitolare mai!» (43). La perdurante polemica con Foch, e il vivo interesse dei lettori, diedero peraltro il destro al giornale di Albertini di tornare, nel maggio seguente, sulla questione Cadorna, ricordandone i meriti e chiedendone la promozione a generale d’esercito (44).
Questa volta arrivò una diretta e stizzita risposta del Governo Mussolini: il 18 maggio un comunicato stampa informava che negli ambienti governativi si reputava inopportuno parlare di un uomo «legato a due sciagure del nostro esercito», invitando i suoi sostenitori a restare, per sempre, nel silenzio. Cadorna ritenne, sulle prime, che quel comunicato, destinato a suscitare l’indignata reazione delle associazioni combattentistiche, fosse farina del solo sacco di Cesare Rossi, capo Ufficio stampa di Mussolini (45). Ma pochi giorni dopo fu proprio il comandante Roncagli, suo «amico devotissimo» come lo definì il generale nel darne notizia ad Albertini, a rivelargli che il promotore di quelle righe era stato il ministro Diaz («pare adunque che nella capitale la cosa sia pressoché di dominio pubblico. Io stento ancora a crederla, tanto è enorme») (46). Nella sua lettera a Cadorna, Roncagli scrisse di avere avuto notizia di ciò (e autorizzazione a riferirne) «da un’alta personalità militare a Lei devota e che mi onora della sua amicizia», descrizione che non si fatica ad attribuire a Thaon di Revel.
Cadorna naturalmente si adirò. Diaz, da semplice colonnello, era stato, dal 1914 al 1916, suo capo segreteria e, una volta assunto l’incarico ministeriale, gli aveva scritto manifestandogli la propria «deferenza» e «costante devozione» (47). Nelle settimane seguenti la paternità dell’ormai famigerato comunicato fu pubblicamente attribuita a Diaz da un articolo del senatore Maffeo Pantaleoni (48). A questo punto, il 10 agosto 1923, Cadorna scrisse a Diaz, ricordandogli le sue precedenti manifestazioni di stima e chiedendo, laddove la notizia diffusa sulla stampa fosse stata errata, una smentita formale. Il ministro replicò in modo tortuoso senza prendere espressamente posizione; né rispose a una successiva lettera di Cadorna sullo stesso argomento (49). L’intento di Cadorna fu, all’inizio, quello di rendere di pubblico dominio l’intera questione, come evidenziano alcune sue lettere a una conoscente, la contessa Virginia Tadini Buoninsegni (vedova di un ufficiale di Marina), cui il 7 agosto 1923 Cadorna scrisse in merito alla propria prima missiva a Diaz: «Io lo diffido a smentire pubblicamente l’asserzione del Pantaleoni. E siccome non lo potrà fare, anche per riguardo a Mussolini, gli vuoterò allora completamente il sacco. È questo un bel caso davvero!» (50). Il 22 agosto, dopo avere inviato al ministro la seconda lettera di cui si è detto, Luigi Cadorna scrisse di nuovo alla contessa aggiungendo che: «Quando sarà scoccato un mese di silenzio, trarrò da questo le opportune deduzioni e constatazioni, ed egli non avrà da lodarsene» (51).
Cadorna informò delle proprie intenzioni anche lo storico Alberto Lumbroso (52), dicendogli «che era deciso a farla finita una buona volta, e che stava preparando uno scritto con cui intendeva rispondere pubblicamente alle malevole insinuazioni fatte a suo danno». A questo punto sarebbe stato lo stesso Lumbroso a pregare Thaon di Revel, col quale era in buoni rapporti e che sapeva essere sincero amico del generale,
ad agire da intermediario allo scopo di scongiurarne un intervento pubblico (53). Un’ipotesi, questa, senz’altro possibile una volta che si considerino le polemiche al vetriolo che stavano dividendo, in quello stesso periodo, gli altri maggiori generali della Grande guerra, da Hubert Gough, comandante della 7ª Armata britannica crollata durante la Caporetto inglese del 21 marzo 1918, al francese Robert Nivelle fino al generale tedesco Ludendorff, per tacere della faida, protratta fino al 1936, tra gli ammiragli Jellicoe e Beatty e ai giudizi al cianuro dell’ammiraglio Von Tirpitz.
Thaon di Revel, il quale era rimasto estraneo alla polemica, ma che non aveva evidentemente apprezzato la mossa del Governo di cui faceva parte, si prestò di buon grado a questo compito, facendo desistere, alla fine, il generale (54).
Cadorna, pertanto, tacque ancora una volta e anzi, considerandosi a maggior ragione un appestato per le istituzioni, rifiutò, nei mesi seguenti, gli inviti a presenziare a varie cerimonie, che pure continuavano a pervenirgli numerosi, «perché non ne sono degno». Così, alla richiesta delle associazioni combattentistiche di presenziare alla cerimonia per il 5° anniversario della vittoria tenutasi a Firenze il 4 novembre 1923, rispose che per tale motivo non avrebbe potuto; ciò nonostante, fu letteralmente prelevato dalla sua abitazione e poi portato sulle spalle da quelli che erano stati i suoi soldati (55). Il fascismo intransigente non gradì e il gerarca Roberto Farinacci commentò, sul suo quotidiano Cremona Nuova, sotto il titolo «Il fascismo vigila attentamente certe inopportune manifestazioni», in questo modo: «L’opporre Cadorna a Diaz e quindi Cadorna al fascismo è una delle tante linee del programma antifascista» (56).
La spaccatura (anche in merito a Cadorna) tra il fascismo e le associazioni dei combattenti (le quali, nel frattempo, promossero una sottoscrizione nazionale per donare al generale una villa a Pallanza), deflagrò, nell’estate 1924, dopo l’omicidio Matteotti, delitto in seguito al quale il generale scrisse ad Albertini che il discredito aveva colpito Mussolini «1° per il sistema di violenza che nessun uomo libero può tollerare; 2° per essersi circondato di canaglia» (57).
Il deputato Carlo Delcroix, presidente dell’Associazione nazionale mutilati e invalidi di guerra (nonché fervido sostenitore di Cadorna) manifestò subito le proprie critiche al Governo. In luglio si tenne inoltre, ad Assisi, il congresso dell’Associazione nazionale combattenti e reduci e nel corso del dibattito non mancarono tanto critiche aperte al fascismo quanto richieste di riabilitazione di Cadorna. La medaglia d’oro di Marina Raffaele Paolucci, affondatore della nave da battaglia Viribus Unitis, condannò espressamente il «nefando delitto» Matteotti (58). Fu infine votato un ordine del giorno destinato a provocare l’ira di Mussolini. Quel documento sanciva, infatti, l’indipendenza politica dei combattenti e condannava, nel contempo, ogni illegalità. L’atto in questione era stato presentato dal presidente dei combattenti, la medaglia d’oro Ettore Viola, e proprio costui si recò, pochi giorni dopo, con una delegazione, dal Re per chiedergli, «senza perifrasi» di trarne le conclusioni politiche (59). Si trattava di un atto privo di valore politico e costituzionale visto che (cosa spesso dimenticata da certi libri) la maggioranza parlamentare, basata sui fascisti e sui cattolici era rimasta, nonostante tutto, la stessa del «Mussolini a pieni voti» del novembre 1922, ma il campanello d’allarme, nell’Italia non certo pacificata del 1924-26, fu, non di meno, grave e importante.
In occasione della solenne consegna a Cadorna della
Padova, 14 giugno 1925: un raggiante Cadorna in occasione della cerimonia per la consegna del bastone di comando da Maresciallo (archivio Cadorna).
villa donatagli a Pallanza dai combattenti, lo stesso Paolucci inviò questo messaggio: «Il generale Cadorna conosce da tempo i miei sentimenti nei suoi riguardi. Da tempo egli sa che con altri deputati io volevo alla Camera farmi promotore di una legge che considerasse il generale Cadorna alla stessa stregua del generale Diaz, nei riguardi degli assegni speciali; e ciò quando doveva venire in discussione la proposta di tali assegni per il generale Diaz e per l’ammiraglio Revel. Ma conservo la nobile lettera con la quale il grande Generale mi vietò tale azione. Egli non avrebbe potuto accettare alcun assegno senza un preciso riconoscimento morale. Il riconoscimento gli viene oggi dal popolo. Gli viene dal nostro cuore di soldati che non dimenticano» (60). Mussolini, cui non difettava certo il fiuto politico, comprese che non poteva continuare a tirare la corda rispetto al numeroso e influente mondo dei reduci. Si risolse quindi ad accogliere una delle principali e politicamente più innocue tra le istanze avanzate dai combattenti (condivisa, oltretutto, dall’allargata base del partito nato nel 1921 e chimicamente molto diverso rispetto al gruppuscolo di vecchi della vigilia e repubblicani di piazza San Sepolcro, nel 1919): la riabilitazione di Cadorna (61).
Il 3 novembre 1924 fu così istituito il nuovo grado di Maresciallo d’Italia, di cui furono insigniti Cadorna — richiamato formalmente in servizio — e Diaz, nonché quello di Grande Ammiraglio, riservato a Thaon di Revel; ciò nonostante l’opposizione di Diaz (62) il quale, risultando (come da anzianità) posposto a Cadorna sull’annuario, inviò nel novembre 1925, con «un senso di amarezza e di dolore», all’amico Farinacci una lettera chiedendogli di risolvere, in suo favore e in sede politica, la questione delle precedenze (63).
I due neo-marescialli si trovarono giocoforza assieme allorché, il 14 giugno 1925, ricevettero congiuntamente, nel Palazzo della Ragione di Padova, i propri bastoni di comando. L’oratore ufficiale della cerimonia fu un marinaio, il già ricordato Raffaele Paolucci, il quale disse rivolgendosi a Cadorna: «L’Italia dei soldati vi è grata non solo per l’Esercito e le vittorie che ci donaste, ma anche perché sapeste romanamente ta-
I funerali di Cadorna, tenutisi a Pallanza il 27 dicembre 1928. Dietro il principe Umberto, in prima fila con dei diplomatici, seguono in seconda fila il grande ammiraglio Thaon di Revel, il capo di Stato Maggiore dell’Esercito gen. Gualtieri, Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta, Raffaele Cadorna e il capo di Stato Maggiore della Marina, Ernesto Burzagli (archivio Cadorna).
cere, quando una sola parola poteva accendere incendi terribili. Sapeste chiudere nel vostro cuore un’amarezza che difficilmente avrà avuto l’eguale nella storia degli uomini. Nei giorni della vittoria, quando voi chiuso nella piccola casa di Firenze sentivate il tripudio della folla e la vostra spada pendeva inerte alla parete, non c’era un cavallo che vi portasse a fianco del vincitore alla testa dell’Esercito. Chi scrisse sulla piccola casa la parola ingiusta e terribile “Caporetto” non era l’Italia. L’Italia è questa che non ha atteso la vostra morte per rendervi onore». Vale la pena riportare, a questo punto, la risposta di Cadorna. Sono parole che, nell’esaltazione del silenzioso sacrificio dei soldati, richiamano il Bollettino della Vittoria navale di Thaon di Revel: «E in noi, comandanti, esalta sopra tutto il valore unico costante dei soldati. Poiché — e lo sento con fierezza — gli onori fatti a me in quest’ora vanno oltre la mia persona; vanno al combattente italiano di tutte le battaglie e di tutte le vittorie; vanno ai vivi e ai morti; a quei milioni di silenziosi eroi a cui ho chiesto il sacrificio di ogni cosa più cara; a cui ho detto che bisognava esser pronti a morire per un altissimo scopo, che essi forse non vedevano sempre, ai quali ho dovuto far spargere il sangue, anche quando il successo pareva lontano, l’offensiva temeraria, e la lotta
Il varo dell’incrociatore LUIGI CADORNA, avvenuto a Trieste il 30 settembre 1931(L’Italia Marinara). senza via d’uscita; coi quali ho anche usato a volte parole dure, dettate dalla necessità e non dal cuore; ai quali non ho potuto dare singolarmente il premio che si meritavano, ma che sento oggi uniti a me e compartecipi della giustizia che mi è resa» (64). Così, riparati i torti subiti, Cadorna visse serenamente i propri ultimi anni, spegnendosi il 21 dicembre 1928 a Bordighera, su quel mare che tanto lo aveva attratto da ragazzo. Alle esequie, tenutesi a Pallanza, la Marina non mancò: oltre all’ammiraglio Umberto Cagni, che volle accompagnare la salma in treno dalla Liguria al lago, presenziarono infatti sia Thaon di Revel che il capo di Stato Maggiore, ammiraglio Ernesto Burzagli. Il 24 maggio 1932 l’inaugurazione del Mausoleo sulle rive del lago fu presieduta da un altro marinaio, Costanzo Ciano. Il nome di Cadorna fu infine ricordato dalla Marina con un incrociatore leggero della seconda serie dei «Condottieri», varato nel 1931 e unità eponima della sua classe a fianco, come era logico che fosse, del gemello Armando Diaz. Di quella nave, sopravvissuta alla Seconda guerra mondiale e radiata nel 1951, rimane, esposta, nel Museo storico navale di Venezia, la ruota del timone: un ricordo che, in una città che tanto La ruota del timone dell’incrociatore CADORNA, conservata nel Museo gli è debitrice, ben rappresenta la figura e il ruolo del storico navale di Venezia (archivio Tirondola). maresciallo Luigi Cadorna. 8
NOTE
(1) Luigi Cadorna, Lettere famigliari, a cura di Raffaele Cadorna, Mondadori, Milano, 1967, p. 317. (2) Ibidem, pp. 16-17. (3) Rodolfo Corselli, Cadorna, ed. Corbaccio, Milano, 1937, p. 17. (4) Luigi Cadorna, Pagine polemiche, ed. Garzanti, Milano, 1950, pp. XXVI-XXVII. Il libro è stato ripubblicato dal nipote Carlo, con numerose integrazioni, col titolo Caporetto? Risponde Cadorna, ed. Bastogi, Roma, 2020. (5) Cadorna, Lettere famigliari, op. cit., p. 52. Nel 1859 il padre Raffaele, assunto il ministero della Guerra nel governo provvisorio di Toscana, si era anche occupato della riorganizzazione dell’ex Marina granducale. (6) Ibidem, p. 53. (7) Cadorna, Pagine polemiche, op. cit., p. XXVI. (8) Ferdinando Sanfelice di Monteforte, La collaborazione tra Thaon di Revel e Cadorna e il ruolo della Marina Militare italiana in La Guerra di Cadorna. 1915-17. Atti del Convegno. Trieste-Gorizia 2-4 novembre 2016, ed. Ufficio Storico SME, Roma, 2018, p. 534; il saggio è stato contestualmente pubblicato sulla Rivista Marittima, dicembre 2016. (9) Per quanto nativo di Pallanza, Cadorna amava esprimersi in torinese. (10) Cronistoria documentata della guerra marittima italo-austriaca 1915-1918, coll. 1, La preparazione dei mezzi e loro impiego, Fasc. 8, Cooperazione della Marina alle operazioni dell’esercito sul fronte terrestre, Ufficio di Stato Maggiore della Regia Marina-Ufficio Storico, pp. 5-6; Luigi Cadorna, La Guerra alla fronte italiana, fino all’arresto sulla linea del Piave e del Grappa, vol. I, ed. Treves, Milano 1921, p. 106; Franco Favre, La Marina nella Grande Guerra, ed. Gaspari, Udine, 2008, pp. 53-55. (11) Cronistoria documentata, op. cit., p. 20. (12) Cadorna, Lettere famigliari, op. cit., p. 110. (13) Sanfelice di Monteforte, La collaborazione tra Thaon di Revel e Cadorna, op. cit., p. 535. (14) Ibidem, pp. 536-538. (15) Si veda l’ampia ricostruzione dei fatti in Luigi Cadorna, Altre pagine sulla Grande Guerra, ed. Mondadori, Milano, 1925, pp. 101 ss. (16) Riccardo Nassigh, La Marina italiana e l’Adriatico. Il potere marittimo in un teatro ristretto, ed. U.S.M.M., Roma, 1998, p. 61. (17) Una puntuale analisi di tale testo riguardo al generale Ferrero si trova in Paolo Pozzato e Giovanni Nicolli, Mito e antimito. Un anno sull’altipiano con Emilio Lussu e la Brigata Sassari, ed. Ghedina&Tassotti, Bassano del Grappa, 1991, p. 57, e in Paolo Pozzato, Un anno sull’altipiano con i Diavoli rossi, ed. Gaspari, Udine, 2006, pp. 91-96; Emanuele Farruggia, Uomini contro, Nuova Storia Contemporanea, settembre-ottobre 2009. Nei giorni di Caporetto Cadorna affidò d’urgenza a Ferrero, di passaggio a Udine in licenza, il comando dell’ala destra della II Armata, da lui guidata con perizia nella ritirata proteggendo nel contempo il fianco della III Armata, che rischiava di restare imbottigliata sulla costa dall’avanzata austro-tedesca. Nel corso dell’evacuazione di Durazzo, Ferrero si adeguò completamente alle disposizioni del capitano di fregata Roberto Monaco di Longano, incaricato di organizzare lo sgombero, pur a lui subordinato. (18) Gennaro Pagano di Melito, Mine e spie, ed. Ardita, Roma, 1934, pp. 189-191. (19) Cronistoria documentata della guerra marittima italo-austriaca 1915-1918, Coll. 2, Impiego delle Forze navali-Operazioni, Fasc. 1, Concorso delle Forze navali del Basso Adriatico alle operazioni militari nei Balcani, p. 14. (20) Cadorna, Altre pagine sulla Grande Guerra, pp. 158-169. (21) Sanfelice di Monteforte, La collaborazione tra Thaon di Revel e Cadorna, op. cit., p. 541. Si vedano inoltre Silvio Salza, La Marina italiana nella Grande Guerra, vol. VI, La lotta contro il sommergibile (dall’ottobre 1917 al gennaio 1918), ed. Vallecchi, Firenze, 1939, pp. 235-252, e Cronistoria documentata della guerra marittima italo-austriaca 1915-1918, coll. 1, Preparazione dei mezzi, fasc. 8, op. cit., pp. 121 ss. (22) Salza, La Marina Italiana, op. cit., p. 240. (23) Il direttore e il generale. Carteggio Albertini-Cadorna 1915-1928, a cura di Andrea Guiso, ed. Fondazione il Corriere della Sera, Milano, 2014, p. 198. (24) Cadorna, Pagine polemiche, op. cit., pp. 249-260. (25) Cadorna, che si assunse la piena responsabilità del primo bollettino da lui firmato, non citò mai questo dettaglio, reso pubblico solo postumo da una relazione di un ufficiale presente ai fatti, l’allora colonnello Melchiade Gabba, citata da Raffaele Cadorna in una nota di Pagine polemiche, p. 254. (26) Filippo Cappellano, Dalla parte di Cadorna. Capo di Stato Maggiore dell’Esercito 1914-1917, ed. Rodorigo, Roma, 2021, pp. 256-268. (27) Emilio Faldella, La Grande Guerra, vol. II, Da Caporetto al Piave (1917-1918), ed. Longanesi&C., Milano, 1978, p. 255. (28) Commissione d’Inchiesta (R.D. 12.1.1918), Relazione. Dall’Isonzo al Piave (24.10-9.11.1917), Vol. II, Le cause e le responsabilità degli avvenimenti, Stabilimento poligrafico per l'amministrazione della guerra, Roma, 1919, p. 546. (29) Il Re espresse il suo consenso con una lettera che, assieme ad altri documenti, fu sequestrata dai carabinieri nella villa di Cadorna il giorno stesso dei suoi funerali, il 27 dicembre 1928. Cadorna, Caporetto? Risponde Cadorna, op. cit., pp. 245-246. (30) Dino Alfieri, Due dittatori di fronte, ed. Rizzoli, Milano, 1948, p. 315. (31) Jack la Bolina, Cadorna, L’Italia Marinara, gennaio 1929. (32) Cadorna, Pagine polemiche, op. cit., p. 11. (33) Fulvio Zugaro, Il costo della guerra italiana. Contributo alla storia economica della guerra mondiale, stabilimento poligrafico per l’amministrazione della guerra, Roma, 1921; Angelo Gatti, Per la storia, Il Corriere della Sera, 22 settembre 1921. (34) Cadorna, Lettere famigliari, op. cit., pp. 286-287. Per protocollo i decorati dell’Annunziata dovevano precedere tutte le cariche dello Stato. Il Generale ricordò in privato: «Fui accolto da una ovazione delirante: fui quasi portato in trionfo e fu una cosa indimenticabile. Parlai, con veterani, madri di caduti ecc. E pensavo: se fosse vero il malgoverno degli uomini [di cui era stato accusato dalla Commissione d’inchiesta, ndr] mi odierebbero a morte». (35) Benito Mussolini, Il Fante Ignoto e Cadorna. Adagio, signori!, Il Popolo d’Italia, 8 novembre 1921. (36) Paolo Alberini e Franco Prosperini, Uomini della Marina 1861-1946. Dizionario biografico, ed. U.S.M.M., Roma, 2015, pp. 457-458. (37) Atti dell’Ufficio Storico della Marina Militare, ed. U.S.M.M., Roma, 2007, p. 19. Roncagli fu, inoltre, autore del testo storico ufficiale della Regia Marina sulla guerra di Libia: Guerra italo-turca. Cronistoria delle operazioni navali, vol. I Dalle origini al decreto di sovranità sulla Libia, ediz. riservata, ministero della Marina, Roma, 1916. (38) Giovanni Roncagli, Il problema dell’Adriatico spiegato a tutti, ed. R. Società Geografica Italiana, Roma, 1918, pp. V-VI. Thaon di Revel, qualificandosi «sempre aff.mo amico», scrisse a Roncagli: «(…) Mi rallegro nel vedere come, dopo quasi mezzo secolo di armonia di sentire, i nostri apprezzamenti si ritrovino concordi come lo erano nei primordi della comune carriera, alla Scuola di Marina, sul vecchio Vittorio Emanuele». Negli anni in cui Thaon di Revel era comandante dell’Accademia navale l’istituto livornese, su iniziativa di Roncagli, fu nominato socio della Società Geografica Italiana. (39) Giovanni Roncagli, Un Condottiero. Il Generale Cadorna nelle sue Memorie di guerra e negli Atti della Commissione d’inchiesta, ed. La Vita Italiana, Roma, 1922. (40) Luigi Cadorna, La fine di una leggenda. Risposta al maresciallo Foch, in Rassegna Italiana Politica Letteraria, fasc. LIX, aprile 1923. (41) Elevazione, Il Corriere della Sera, 11 febbraio 1923. (42) Il direttore e il generale, op. cit., p. 197. (43) Cadorna, Lettere famigliari, op. cit., p. 293. (44) L’Italia fu sola al Piave. Una risposta di Cadorna a Foch, Il Corriere della Sera, 27 aprile 1923; Luigi Albertini, La nostra colpa, Il Corriere della Sera, 4 maggio 1923; Idem, Atto di giustizia immancabile, Il Corriere della Sera, 16 maggio 1923. Nel primo articolo Albertini riportò le parole del generale austriaco Alfred Krauss, che nel lodare Cadorna osservò come una dodicesima «spallata» italiana sull’Isonzo nell’autunno 1917 sarebbe stata esiziale per l’esercito asburgico. (45) In merito al comunicato, Cadorna scrisse a caldo il 20 maggio: «Io lo ho accolto lietamente essendo da preferirsi una aperta dichiarazione di guerra a una subdola inimicizia». Cadorna, Lettere famigliari, op. cit., p. 295. (46) Il direttore e il generale, op. cit., pp. 208-210. (47) «L’antico mio segretario non mi poteva scrivere in tono più umile», chiosò Cadorna. Ibidem, p. 209.
(48) Ibidem, pp. 214-215. Cadorna appurò che il testo originale del comunicato prevedeva parole ancora più dure; tra i coautori c’era naturalmente il capo Ufficio stampa di Mussolini, quel Cesare Rossi che sarebbe stato poi coinvolto nell’omicidio Matteotti, oltre a Margherita Sarfatti. (49) Cadorna, Pagine polemiche, op. cit., pp. 207-209, che riportano l’intera corrispondenza. (50) Archivio di Stato di Siena, Fondo Tadini Buoninsegni, corrispondenza Tadini Buoninsegni-Cadorna. (51) Ibidem. (52) Lumbroso fu appassionato cultore delle vicende risorgimentali e fra i pochi sostenitori dell’ammiraglio Persano, protagonista dello scontro di Lissa. (53) Alberto Lumbroso, Cinque capi nella tormenta e dopo. Cadorna, Diaz, Emanuele Filiberto, Thaon di Revel, ed. Agnelli, Milano, 1932, pp. 78-79. (54) Sin dall’assunzione dell’incarico ministeriale Thaon di Revel «si sarebbe mantenuto sempre lontano per stile di vita e signorilità di modi» dall’estremismo fascista. Ezio Ferrante, Il Grande Ammiraglio Paolo Thaon di Revel, supplemento alla Rivista Marittima, giugno 2017, p. 90. I dissidi dell’ammiraglio con Mussolini sfociarono infine nel maggio 1925 con le sue dimissioni da ministro, a causa della previsione che il Comando Supremo fosse inderogabilmente retto da un generale dell’Esercito, a scapito della Marina. (55) Cadorna, Lettere famigliari, op. cit., pp. 296-297; Il generale Cadorna portato in trionfo dai combattenti e dalla folla a Firenze, Il Corriere della Sera, 6 novembre 1923. L’episodio è descritto nei dettagli anche in una lettera alla Tadini Buoninsegni del 5 novembre, in cui così descrisse il suo stato d’animo: «E intanto filosofavo sulla mia strana sorte che mi fa oscillare tra l’osanna e il crucifige! Buffo, non è vero?». (56) Le onoranze fiorentine a Cadorna, Il Corriere della Sera, 9 novembre 1923. Ancora nel 1940, nella sua Storia della rivoluzione fascista, Farinacci parlò del «tristo comando di Cadorna». Il gerarca cremonese era inoltre in ottimi rapporti con uno dei più agguerriti nemici del generale, il generale Giulio Douhet. (57) Il direttore e il generale, op. cit., p. 222. (58) Il Congresso dei Combattenti inaugurato ad Assisi, Il Corriere della Sera, 28 luglio 1924. Lo stesso Paolucci ricordò l’ordine del giorno presentato in quella sede da lui e da altre medaglie d’oro: «Volevamo la fine di ogni violenza, volevamo il rispetto della legge. Tutti i faziosi, tutti i violenti irriducibili dovevano andare via dalle nostre fila, perché ci disonoravano davanti agli stranieri e davanti a noi stessi», Raffaele Paolucci, Il mio piccolo mondo perduto, ed. Cappelli, Rocca San Casciano, 1952, pp. 305-306. (59) Emilio Lussu, Marcia su Roma e dintorni, ed. Einaudi, Torino, 1977, pp. 184-185. (60) La casa offerta al Generale con un vibrante discorso di Carlo Delcroix, Il Corriere della Sera, 21 settembre 1924. (61) In quelle settimane Il Corriere della Sera (Le riparazioni a Cadorna e la volontà del paese, 12 ottobre 1924) pubblicava un elenco di ministri e generali «che vedrebbero volentieri un atto riparatore»; tra questi era menzionato Thaon di Revel. (62) Mussolini disse poi nel 1940: «Non fu facile far accettare a Diaz — artefice della vittoria — una parità di annuario con Cadorna, artefice della grande carneficina carsica». Yvon De Begnac, Palazzo Venezia. Storia di un Regime, ed. La Rocca, Roma, 1950, p. 357. Mussolini, del resto ricambiato (il generale lo considerava «un energumeno»), non aveva cambiato giudizio su Cadorna; dopo la morte di Diaz, commemorandolo in Senato il 1° marzo 1928, affermò che il defunto «comprese che i soldati non erano soltanto dei piastrini di riconoscimento», evidentemente a differenza del predecessore. Cadorna non la prese bene, potendo oltretutto dimostrare che l’affermazione, riferita a lui, non aveva fondamento. (63) Archivio Centrale dello Stato, Carte Farinacci, scatola 18, fascicolo Diaz. (64) Otello Cavara, Le solenni onoranze a Cadorna e a Diaz, Il Corriere della Sera, 15 giugno 1925.
BIBLIOGRAFIA
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FOCUS DIPLOMATICO
L’Alleanza Atlantica verso il vertice di Madrid
Mentre prosegue — con devastazioni e massacri che volevamo credere ormai appartenere al passato — l’avanzata delle Forze russe nell’Ucraina sud-orientale, con la concreta possibilità di una presa di controllo da parte di Mosca dell’intero Donbass se non oltre, la NATO si accinge a tenere a Madrid, dal 28 al 30 del corrente mese, uno dei più importanti vertici della sua storia.
Un vertice non a caso definito dal Segretario generale dell’Alleanza — in occasione della sua recente visita a L’Aia per un incontro preparatorio con sette capi di Stato e/o Governo alleati — «historic and trasformative» e chiamato ad adottare deliberazioni su un insieme di temi sensibili: da quelle relative — per riprendere le parole dello stesso Stoltenberg — al sostegno «da fornire all’Ucraina nel breve e medio/lungo periodo» a quelle necessarie per consentire all’Alleanza di dotarsi di «una più robusta e immediatamente attivabile capacità di difesa avanzata» a quelle, infine, che impronteranno il nuovo Concetto Strategico per far fronte al meglio, nella fedeltà ai valori fondanti, a un contesto di sicurezza «profondamente mutato». Senza dimenticare le decisioni che dovranno parimenti essere assunte — ove, come auspicabile ma tutt’altro che certo, dovesse registrarsi nell’occasione una qualche attenuazione della posizione ostativa della Turchia di Erdogan — per avviare il percorso di adesione alla NATO di Svezia e Finlandia in un’ottica di finalizzazione in tempi per quanto possibile ravvicinati.
In sostanza, l’Alleanza sarà chiamata a offrire ulteriore conferma in occasione dell’imminente appuntamento nella capitale spagnola di almeno quattro suoi caratteri distintivi: 1) quello di rappresentare la sola organizzazione in seno alla quale le 30 nazioni che la compongono sono in grado di consultarsi quotidianamente nonché decidere e agire insieme su tutte le questioni di sicurezza di interesse comune. Sempre sulla base di quella preziosa regola del «consensus» che ne costituisce uno dei tratti qualificanti; 2) quello di esprimere in maniera altamente simbolica ma anche, ogniqualvolta necessario, operativa il profondo legame tra gli alleati europei da un lato (21 membri della UE lo sono del resto anche della NATO e diverranno 23 su 27 una volta completato l’iter di adesione di Stoccolma ed Helsinki) e Canada e Stati Uniti dall’altro su questioni securitarie cruciali, e direi «esistenziali» alla luce di quanto sta avvenendo in Ucraina.
La capacità dell’Alleanza di assicurare una presenza militare significativa, strutturata e di lungo periodo degli Stati Uniti sul suolo europeo è del resto valore aggiunto
difficile da sottovalutare per una pluralità di motivi. Non ultimo tra questi il disastro cui — insieme, certo, con altri fattori — condusse il disimpegno americano e il sostanziale disinteresse di quella dirigenza per le vicende del nostro continente dopo la Prima guerra mondiale; 3) quello di rappresentare tuttora (e, ritengo, per molto tempo a venire) il pilastro della sicurezza e difesa dell’area euroatlantica in continuità con la prova fornita nei difficili anni della Guerra Fredda; 4)quello infine di confermare, una volta di più, la sua capacità di adattamento al mutare del panorama di sicurezza internazionale.
È nell’unità intorno a valori condivisi che ha sempre saputo trovare nei momenti cruciali che risiede altresì la forza di un’Alleanza che celebra quest’anno il suo 73° compleanno.
Certo, essa ha conosciuto momenti di crisi anche seri: da quello legato alla vicenda di Suez nel 1956 (con la frattura tra Parigi e Londra da un lato e Washington dall’altro) a quello degli euro-missili negli anni 80 a quello, più recente, innescato dalla guerra all’Iraq del 2003 con conseguente frattura tra la cosiddetta «vecchia» (in sostanza l’Europa «carolingia») e la «nuova» Europa costituita dai paesi da poco sottrattisi al giogo sovietico e altre, probabilmente, ve ne saranno. Ma tali crisi sono, a oggi, tutte state superate nel segno di un superiore interesse collettivo.
La NATO appare in ogni caso, in questo momento, forte di una unitarietà di intenti certamente non prevista dal Cremlino alla vigilia dell’attacco all’Ucraina ed è, questo, patrimonio da conservare gelosamente. Anche se non sono da sottovalutare le affioranti diversità di accento tra talune capitali europee (in particolare, ancora una volta, Parigi e Berlino da un lato, con le quali Roma è in stretto contatto, e Washington e Londra dall’altro) sulle modalità e sull’urgenza da conferire all’avvio di un negoziato tra Mosca e Kiev in presenza delle necessarie pre-condizioni, a cominciare da una a tutt’oggi assente disponibilità del Cremlino ad arrestare la propria offensiva.
Se parlo di patrimonio da custodire gelosamente è anche perché — in aggiunta all’aggressione all’Ucraina e alla sua sovranità da parte della Russia di Putin (dico «Russia di Putin» perché vi è anche un’altra Russia certo minoritaria ma non assente, coraggiosa, che ci è vicina e non possiamo abbandonare) — altre sfide richiedono oggi più che mai una forte «coesione atlantica».
Esse vanno dalle sempre più sofisticate minacce cyber e minacce «ibride» (sul terreno, per esempio, della disinformazione o dell’uso politico e ricattatorio delle forniture alimentari cerealicole in primis — vedasi il blocco dei porti ucraini da parte di Mosca — e del dramma migratorio: basti pensare al cinico comportamento del regime di Lukashenko nei mesi scorsi) al duro confronto geo-politico in atto tra le nostre democrazie e i regimi autocratici (Russia e Repubblica Popolare Cinese in primis, senza dimenticare la Repubblica Islamica dell’Iran e la Corea del Nord), al terrorismo, in tutte le sue forme, alle ricadute dei mutamenti climatici (vero e proprio moltiplicatore dei fattori di crisi), alle sfide poste all’Occidente dalle cosiddette «Emerging Disruptive Technologies-EDT» (Intelligenza Artificiale, informatica quantistica…) particolarmente pericolose ove impiegate a fini offensivi da regimi incompatibili con i nostri valori.
Sono tutte «sfide globali» che nessun paese alleato può affrontare da solo, neppure gli Stati Uniti con i quali è anzi indispensabile vieppiù rafforzare la collaborazione sia a livello politico-diplomatico che tra le rispettive industrie di punta nel settore delle alte tecnologie.
In sostanza, nel pieno della più grave crisi geo-politica in Europa dal dopoguerra a oggi, l’esigenza di una relazione transatlantica robusta e ad ampio spettro è più evidente che mai.
Come ama ripetere il segretario generale Stoltenberg è questo il momento per l’Alleanza di: «Rimanere forte sotto il profilo militare — in primis, dato il momento, in termini di capacità di deterrenza — diventare più forte sotto il profilo politico (attraverso per esempio un’accentuazione delle consultazioni tra alleati e con i maggiori partner nel mondo), adottare un approccio più globale» senza per questo trasformarsi in una NATO globale. Sviluppo che sarebbe tra l’altro incompatibile col perimetro di competenza, quello euro-atlantico, definito dal Trattato istitutivo.
Prima di entrare più nel dettaglio con riferimento al prossimo «Concetto Strategico» (il testo che fissa periodicamente le linee guida di azione per l’Alleanza
sulla base di una condivisa valutazione delle minacce) qualche considerazione sulla crisi russo-ucraina. Al di là delle diverse valutazioni sulle cause di fondo dell’invasione russa, l’Alleanza è unita nel condannarla e nel tentativo di contrastarla.
Va da sé che essa è poi coesa sulla base dell’art. 5 del Trattato di Washington («uno per tutti, tutti per uno»: la cosiddetta «clause-Mousquetaire») nella volontà di difendere «ogni centimetro di territorio alleato» ma anche di evitare — facendo pervenire per tempo gli opportuni segnali dissuasivi al Cremlino — che il conflitto si allarghi al di là del territorio ucraino coinvolgendo direttamente paesi membri della NATO con conseguenze potenzialmente devastanti.
Nel merito le conseguenze innescate dall’aggressione russa al vicino paese hanno già portato: — all’attivazione, per la prima volta, della «NATO
Response Force-NRF» istituita nel 2002 al summit di Praga; — a un salto qualitativo e quantitativo negli investimenti e acquisti per la difesa (100 miliardi di euro) da parte di una sino a ora riluttante Germania determinata, almeno stando a quanto dichiarato dallo stesso cancelliere Scholz in un vibrante discorso al Bundestag lo scorso 27 febbraio, a investire ogni anno più del 2% del proprio PIL in spese per la difesa; — sono stati costituiti 8 battaglioni multinazionali da dispiegare ai confini orientali dell’Alleanza: in Polonia, in Bulgaria, in Ungheria, nei tre Stati baltici, in Romania e in Slovacchia, con contributi in termini di uomini e mezzi sia americani che europei,
Italia compresa (vi sono ormai circa 100.000 militari americani in Europa: numero certo inferiore a quello dei momenti del più tesi della Guerra Fredda ma superiore a quello precedente l’annessione russa della Crimea nel 2014); - indotto due solide democrazie nordiche con un’antica tradizione di neutralità (appunto Svezia e Finlandia) a smarcarsi da tale secolare orientamento per chiedere, sull’onda di un visibile mutamento in tal senso delle rispettive opinioni pubbliche, di entrare far parte a pieno titolo dell’Alleanza (pur essendone da tempo partner importanti, apprezzati e credibili anche in termini di interoperatività delle forze).
Tale sviluppo fa sì, nelle parole del direttore dell’«Estonian Foreign Policy Institute», Kristi Raik, che «per la prima volta nella storia avremo tutti i paesi del nord Europa e quelli baltici riuniti nello stesso Trattato di difesa collettiva. È un cambiamento importante che creerà più coesione nella regione». Né va dimenticata, aggiungo, la recente non meno importante e plebiscitaria decisione danese di rinunziare alla clausola di «opt-out» a suo tempo utilizzata per aderire, infine, alla politica di difesa comune europea.
Vengo al prossimo vertice di Madrid e ai principali risultati che è lecito attendersi.
È in primo luogo, scontato «rebus sic stantibus» che in quell’occasione i capi di Stato e di Governo alleati formalizzeranno un’accentuazione della presenza militare della NATO ai confini orientali dell’Alleanza (dunque senza sconfinamenti e sempre in un’ottica difensiva e di deterrenza), così come un salto qualitativo nella natura di tale dispositivo.
Si andrà in sostanza verso un rafforzamento della postura di deterrenza e difesa della NATO che dovrà essere ben strutturata, credibile e sostenibile nel medio/lungo periodo. In tale nuova postura di difesa verrà ovviamente integrata la componente cyber, anche per contrastare le note capacità offensive russe (e cinesi) su tale terreno. In altri termini, per trarre una prima conclusione di natura per così dire geopolitica, vi sarà un aumento anche se non massiccio nel numero delle unità dispiegate ma crescerà soprattutto e non di poco, in termini tra l’altro di rapidità di risposta, la credibilità della deterrenza e della difesa alleata.
Proprio il contrario di quello che il nuovo zar si prefiggeva con la sua brutale aggressione all’Ucraina, scommettendo su una sostanziale disarticolazione dell’Alleanza a fronte di una prova dura e inattesa.
Qualche considerazione su altri temi importanti che saranno affrontati al Vertice e ne impronteranno il Comunicato finale.
La Cina continuerà probabilmente a essere definita non un «avversario» quanto, piuttosto, un «rivale sistemico». Rivale sistemico che pone sfide serie per l’Alleanza testimoniate tra l’altro dai seguenti fattori: 1) l’impressionante crescita del suo arsenale militare nucleare e convenzionale, a cominciare dai missili ipersonici e dal recente varo della portaerei di ultima generazione Fujian interamente «made in China» e tecnologicamente competitiva con quelle statunitensi; 2) la sua alleanza, dichiaratamente «indefettibile» (ma i fatti diranno se sarà davvero così), con la Russia di Putin nel segno di una comune lotta «al mondo unipolare a guida statunitense» e ai valori di cui questo è espressione; 3)la sua diplomazia di potenza basata su accordi con clausole finanziarie molto impegnative, e dunque sovente difficili da rispettare per i paesi più fragili (basti pensare a quelli conclusi da Pechino, che sta ora passando all’incasso, per la realizzazione in tali paesi di progetti funzionali alla «Via della seta»); 4) le frequenti intimidazioni, con minacciose esercitazioni navali e aeree, nei confronti di Taiwan e della sua democrazia. Il Comunicato Finale del summit conterrà in ogni caso un linguaggio all’altezza delle preoccupazioni che la sempre maggiore assertività di Pechino ormai da tempo suscita in ambito atlantico e in seno alle grandi democrazie dell’Indo-Pacifico.
È un’assertività con pesanti implicazioni, ove non contrastata, per la sicurezza alleata nel suo complesso. Anche quella cinese è in ogni caso una sfida troppo grande per essere affrontata da un solo alleato, pur se si tratta degli Stati Uniti.
I «leader» alleati converranno altresì di intensificare gli sforzi per investire di più e più rapidamente nel settore della difesa. Anche se, va detto, il 2021 è stato il settimo anno consecutivo di crescita al riguardo per gli alleati europei e il Canada: come testimoniato da ultimo dalla per molti versi inattesa decisione dell’attuale esecutivo tedesco cui ho sopra fatto riferimento.
A Madrid come sopra anticipato verrà poi adottato il nuovo «Concetto Strategico», a 12 anni da quello varato a Lisbona in un contesto internazionale profondamente diverso. Basti pensare, e lo dico a titolo di esempio, al fatto che il documento approvato nel 2010 nella capitale portoghese: a) si riferisce alla Russia come «partner strategico»; b) menziona brevemente le sfide attuali (da quelle oggi dominanti di tipo cyber a quelle legate alle «Emerging Disruptive Technologies»; c) non menziona la Cina.
In altre parole esso sembra appartenere a un altro mondo perché il mondo è, da allora, profondamente cambiato e non in meglio come la tragedia ucraina si occupa quotidianamente di ricordarci. Andranno comunque salvaguardati ad avviso italiano, e la nostra diplomazia si sta attivamente adoperando a tal fine, due ruoli chiave assegnati alla NATO dal Concetto Strategico di Lisbona. Ruoli che restano a nostro avviso fondamentali al di là della «emergenza» rappresentata dai drammatici sviluppi in atto in Ucraina e dalla «minaccia russa» che non dovrà però monopolizzare, ferma restando la sua gravità, il futuro dell’Alleanza. Vale a dire — in aggiunta alla «difesa collettiva» ai sensi dell’articolo 5 che resterà la chiave di volta dell’Alleanza — quelli della «gestione delle crisi» in senso lato e della «sicurezza cooperativa», compiti entrambi da porre in essere attraverso una stretta cooperazione con i cosiddetti «key-partner across the world».
Ciò detto, il Concetto Strategico che uscirà dal Vertice di Madrid non potrà non riflettere il «nuovo mondo» cui ho sopra fatto riferimento, non solo nuovo ma anche più pericoloso e imprevedibile.
Non sarà però un’istantanea. Piuttosto assomiglierà a un film, anticipando le dinamiche così come le criticità e le minacce cui ci troveremo confrontati nel prossimo futuro. Indicherà altresì, per quanto possibile in maniera credibile, come potremo affrontare allo stesso tempo l’insieme di tali sfide.
Nella valutazione italiana il nuovo Concetto Strategico dovrà in primo luogo fornire una risposta a un certo numero di problemi che ci sembrano prioritari.
Tra questi: A) come rapportarci alla Federazione Russa non solo oggi ma in prospettiva (difficile, ma necessario per tutti i noti motivi, tornare a un rapporto più
o meno normale e costruttivo con Mosca specie dopo le recenti durissime esternazioni di Medvedev contro l’Occidente su Telegram del 7 giugno); B) dovrà poi riformulare la postura di difesa dell’Alleanza in un ambiente in rapido mutamento «dove gli attacchi cyber, i droni armati e il riscaldamento globale pongono seri problemi al miliardo di persone che la NATO è chiamata a proteggere»; C) definire, come anticipato, la «policy» dell’Alleanza nei confronti della RPC per i prossimi anni lanciando a Pechino segnali di adeguata fermezza (come caldeggiato, in particolare, da Washington e dalla Gran Bretagna post-Brexit) senza per questo adottare un atteggiamento di confronto a tutto campo che rischierebbe tra l’altro di accelerare la saldatura dell’asse Mosca-Pechino.
Il nuovo Concetto Strategico dedicherà poi ampio spazio alla «resilienza». Resilienza che costituisce ormai la «prima linea di deterrenza e difesa» delle nostre democrazie alla luce della stretta interconnessione ormai in essere tra settori civili strategici (banche, aeroporti, reti di distribuzione, ospedali…) e la «difesa» di un paese in senso stretto. Va in primo luogo assicurato in ambito alleato un «livello minimo comune di resilienza» poiché — come sappiamo — la capacità di tenuta di una catena dipende da quella dell’anello più debole.
Vi è motivo di ritenere che uno spazio adeguato sarà poi dedicato ancora una volta — con un linguaggio che non potrà ovviamente non tenere conto della criticità del momento — al perdurante impegno dell’Alleanza per un controllo e una progressiva riduzione degli armamenti sia nucleari che convenzionali. Traguardo il cui raggiungimento non è purtroppo agevolato dall’attuale contesto strategico: in particolare dal duro confronto in atto con Mosca anche se, almeno per ora, non sul terreno.
Vi è in ogni caso da sperare — anche se la situazione in atto ai confini orientali dell’Alleanza non induce all’ottimismo — che si determinino prima o poi le condizioni per un rilancio con i dovuti adattamenti da parte occidentale (Stati Uniti e NATO) delle articolate proposte in materia avanzate alla Federazione Russa, in risposta alle preoccupazioni della controparte, nelle settimane precedenti l’aggressione all’Ucraina. Proposte, base di un possibile negoziato, rese naturalmente caduche dalla sconsiderata decisione di Putin di invadere il vicino paese.
Verrà poi ribadita la necessità per la NATO di mantenere sugli avversari la necessaria superiorità tecnologica nei settori cruciali per la difesa. Sotto questo profilo un ruolo fondamentale potrà essere svolto dall’istituendo «Defense Innovation Accelerator for the North Atlantic» (DIANA) con importanti poli di ricerca e sviluppo ubicati anche in Italia presso nostri centri di eccellenza tecnologici e militari.
Sul piano politico dal vertice di Madrid usciranno con ogni probabilità le seguenti decisioni: 1) di avvalersi maggiormente dell’Alleanza (accentuandone dunque, ciò cui molto tiene il nostro paese, il carattere di istanza politica e non solo militare) per difendere al meglio le posizioni comuni tra gli alleati su questioni di rilevanza strategica: dalla posizione nei confronti dell’aggressione russa all’Ucraina alla tutela della libertà di navigazione nelle acque internazionali (tema di prioritario rilievo alla luce in particolare delle rivendicazioni cinesi sul Mar di Cina Meridionale); 2) tenere tra alleati più frequenti consultazioni anche al di là dei casi previsti dall’art.4 del Trattato di Washington; 3) fare il miglior uso possibile della rete di partenariati con paesi «like-minded» nei più diversi scacchieri per affrontare le sfide alla sicurezza comuni, a cominciare da quelle derivanti dalla crescente assertività russa e cinese.
Sotto tale profilo è significativo l’invito a contribuire alle discussioni che si terranno a margine del Vertice in senso stretto rivolto da Stoltenberg ai capi di Stato o Governo di quattro partner-chiave dello scacchiere Indo-Pacifico nel segno di una sempre più evidente «indivisibilità» della sicurezza: Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Sud Corea. Importante per l’Italia — e la nostra diplomazia si è molto spesa a tal fine — anche il fatto che a margine del Vertice i ministri degli Esteri dei 30 paesi membri avranno una importante discussione su che cosa debba intendersi per «fianco sud dell’Alleanza» e quali minacce possano scaturire a breve e in prospettiva da tale scacchiere. È un’area vasta, per noi cruciale anche per gli aspetti migratori, che va dall’Africa al Pakistan e dove è forte la competizione tra le nostre democrazie e le autocrazie (basti pensare alla crescente influenza di Mosca e Pechino nell’Africa sub-sahariana e non solo). Il tutto per pervenire in tempi stretti a quella NATO a 360 gradi cui noi aspi-
riamo: capace per esempio — oltre che di far fronte alla sfida proveniente da est — di anticipare le dinamiche proprie di un continente africano con un miliardo di abitanti a rischio povertà, aggravata dalla crescente insicurezza alimentare e nel quale è largamente presente il terrorismo jihadista.
Infine, nella sezione tradizionalmente dedicata al partenariato con le principali organizzazioni regionali e internazionali, il Concetto Strategico di prossima adozione — consolidando una costante apprezzabilmente emersa da qualche anno a questa parte anche attraverso dichiarazioni congiunte al termine dei lavori — non mancherà di dedicare adeguato spazio allo stato e alle prospettive della collaborazione tra la NATO e l’Unione europea per far fronte alle tante sfide comuni.
Sotto tale profilo l’accelerazione conosciuta più di recente anche sull’onda della crisi ucraina dall’impegno dei 27 paesi membri dell’UE a dotarsi in tempi il più possibile ravvicinati di una credibile capacità di difesa comune lungo le linee e con gli strumenti messi a fuoco nella Bussola Strategica avallata dal Consiglio europeo lo scorso 21 marzo, non potrà che essere salutata con favore dai capi di Stato e di Governo alleati. Una crescita progressiva e importante delle spese per la difesa in ambito europeo contemplata dalla Bussola Strategica — in uno spirito di complementarietà con la NATO, come non si è mancato e non si manca di caldeggiare in ogni occasione e ai più diversi livelli da parte italiana, ma anche di autonoma capacità di azione ove necessario — va del resto nel senso di quella miglior e più equa ripartizione degli oneri finanziari in ambito atlantico (il famoso «burden-sharing») da tempo vigorosamente sollecitata in maniera «bipartisan» dall’alleato statunitense.
Il salto di qualità nella collaborazione NATO-UE sul terreno della difesa, che dovrebbe essere propiziato dal disporre ormai l’UE di un articolato documento di strategia approvato al più alto livello, potrebbe però rivelarsi non privo di criticità. Potenziali ostacoli che vanno per non citarne che alcuni: dai tempi che si riveleranno necessari per pervenire a quella effettiva capacità di dispiegamento di una forza europea sino a 5000 uomini in tempo di crisi prefigurata dalla Bussola Strategica, agli ostacoli che sul terreno della collaborazione tra le due organizzazioni potrebbe prima o poi porre nuovamente, per l’uno o l’altro motivo, la difficile Turchia di Erdogan (paese membro della NATO ma da decenni «candidato» all’adesione all’Unione europea) al forte condizionamento che, sull’adozione di decisioni in materia di iniziative o azioni comuni sul terreno della difesa, è destinata come noto a esercitare la regola dell’unanimità prevista in materia dai trattati UE.
Tali criticità, peraltro note da tempo, non debbono tuttavia fare velo alla constatazione dell’importante passo avanti che anche per la collaborazione in prospettiva tra l’UE e l’Alleanza Atlantica è lecito ravvisare nell’ adozione, da parte dei 27, dello «Strategic Compass». Ovviamente progressi più celeri anche in tale ambito si registrerebbero ove dovesse un giorno trovare attuazione (ma il percorso appare tutt’altro che facile) l’una o l’altra delle proposte all’esame in talune capitali europee per sottrarre, in qualche modo, alla regola dell’unanimità le decisioni in materia di politica estera e di difesa.
È del resto solo attraverso un ulteriore rafforzamento del partenariato strategico tra la NATO e l’Unione europea che potranno essere affrontate con la necessaria incisività le sfide globali per l’Occidente al centro dell’agenda del Vertice: dal contrasto all’aggressione russa all’Ucraina alla gestione delle minacce provenienti dal fianco sud alla sopra evocata «sicurezza cooperativa».
Gabriele Checchia, Circolo di Studi Diplomatici
L’ambasciatore Gabriele Checchia è nato ad Ancona il 23 marzo 1952. Conseguita la maturità classica, si laurea, nel 1974, in Scienze Politiche al “Cesare Alfieri” con successivo corso di specializzazione in Diritto internazionale alla «Johns Hopkins». Nel 1978, a seguito di esame di concorso, entra al ministero degli Esteri ricoprendo negli anni numerosi incarichi alla Farnesina e all’estero. È stato Ambasciatore d’Italia in Libano (2006-10), alla NATO (2012-14) e all’OCSE (2014-16). A riposo, per limiti di età, dal dicembre 2016. È, attualmente, «Senior Advisor» della LUISS per le tematiche di internazionalizzazione e Presidente del «Comitato Atlantico» di Napoli.
Il Circolo di Studi Diplomatici è un’associazione fondata nel 1968 su iniziativa di un ristretto gruppo di ambasciatori con l’obiettivo di non disperdere le esperienze e le competenze dopo la cessazione dal servizio attivo. Il Circolo si è poi nel tempo rinnovato e ampliato attraverso la cooptazione di funzionari diplomatici giunti all’apice della carriera nello svolgimento di incarichi di alta responsabilità, a Roma e all’estero.
OSSERVATORIO INTERNAZIONALE
Un difficile ripartenza
Il 3 maggio il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres, il Consiglio di Sicurezza, il Dipartimento di Stato americano e l’alto rappresentante europeo Josep Borrell, hanno emesso duri comunicati condannando un attacco da parte delle milizie islamiste di al-Shabaab contro una base avanzata a Elbaraf, nella regione del medio Shabelle, tenuta da truppe burundesi, dell’ATMIS, l’ operazione di stabilizzazione dell’Unione Africana da poco attivata, istituita alla fine del mandato dell’AMISOM. Sull’attacco vi sono versioni discordanti, ufficialmente vi sarebbero stati una decina di caduti tra i «caschi verdi». Altre fonti parlano invece di quasi duecento caduti e riportano che la base è stata brevemente occupata dai miliziani islamisti, che dopo averla saccheggiata e incendiata, hanno abbandonato la posizione.
La gravità dell’accaduto è stata comunque confermata dal fatto che anche il Presidente della Commissione dell’Unione Africana (l’ex ministro degli Esteri Chadiano Mussa Faki) ha rotto il silenzio condannando l’accaduto. Nonostante l’AMISOM (come l’ATMIS) sia, anche se in maniera politicamente ambigua, una articolazione dell’Unione, una dichiarazione da parte di Addis Abeba rivela la gravità del momento (soprattutto in considerazione del fatto che l’organizzazione regionale è stata sempre molto misurata in merito a dichiarazioni pubbliche a proposito della Somalia, considerato il dossier più difficile dell’organizzazione). L’attacco alla base, nella Somalia centrale, parte dei miliziani di al-Shabaab, è stato un pesante segnale sia all’UA, ma anche all’ONU (il cui Consiglio di Sicurezza con la Risoluzione 2628 del 31 marzo 2022 sanciva la fine dell’AMISOM e l’ attivazione dell’ATMIS) e alla UE, che gestisce diverse operazioni in loco come la EUTM-Somalia (che opera dal 2010 e a cui prendono parte militari istruttori di Italia, Spagna, Svezia, Finlandia, Romania, Gran Bretagna e Serbia), la EU CAP-Somalia (che opera dal 2013) e la EUNAVFOR «Atalanta» (attivata nel 2008), segnale che rappresenta il fatto che per quei miliziani il cambio di nome non significa nulla e che continueranno a colpire.
La ATMIS (African [Union] Transition Mission in Somalia) ha preso il posto della AMISOM (African [Union] Mission in Somalia) il 1° aprile scorso, in linea con una decisione del Consiglio per la Pace e la Sicurezza dell’UA. La nuova missione ha il mandato di
supportare il Governo somalo nell’attuazione del Piano di Transizione e nel trasferimento di maggiori responsabilità alle Forze armate e alla polizia somale. L’attivazione dell’ATMIS era stata prevista per dicembre 2021 ma i disaccordi con le autorità somale lo hanno ritardato ed è stato finalmente raggiunto un accordo su quello che sembra essere in realtà solo un cambio di nome e un’estensione del mandato esistente. L’ATMIS opererà fino alla fine del 2024, dopodiché tutte le responsabilità saranno trasferite alle Forze di sicurezza somale. La capacità in termini di personale di ATMIS con circa 18.000 soldati, 1.000 poliziotti (provenienti da Kenya, Etiopia, Nigeria, Gibuti, Brundi, Uganda, Sierra Leone) e un centinaio di funzionari civili (tutti
diplomatici distaccati dalle rispettive nazioni) rispecchia quella di AMISOM, così come gran parte delle sue attribuzioni. Quindi è cambiato qualcosa che può aiutare a stabilizzare la Somalia? Il lavoro dell’AMISOM, iniziato nel marzo 2007, mirava a ridimensionare la capacità militare di Al-Shabaab e rafforzare quella dell’esercito e della polizia somale in modo che la missione potesse cessare quanto prima. Questo è avvenuto solo in parte, le Forze panafricane si sono impegnate in scontri violentissimi con le milizie islamiste, subendo perdite pesanti (si parla di cifre che arrivano ai 3.000 caduti) e hanno addirittura compiuto un assalto anfibio nel 2012 a Chisimaio, riuscendo a cacciare le milizie di al-Shabaab; il mandato dei «caschi verdi» è stato diverse volte rinnovato e la cessazione era prevista per il 2021. Tuttavia, tale mandato non è cessato,
poiché le minacce alla sicurezza che hanno reso necessario l’arrivo dei soldati panafricani, continuano a sussistere tuttora e la Somalia continua a fare fronte a tre emergenze : la sicurezza, la governance e lo sviluppo. Queste emergenze continuano a tenere impegnato il paese e l’AMISOM, che doveva essere la prima risposta al problema della sicurezza, e avviare un percorso virtuoso nella quale una nuova governance e lo sviluppo avrebbero portato fuori il paese dalla condizione di Stato fallito (dalla caduta del regime di Siad Barre, che ha gettato le basi della attuale instabilità del paese) è riuscita solo a controllare la situazione ma senza riuscire a modificarla.
Per determinare il futuro dell’AMISOM, sia l’UA sia l’ONU hanno valutato la situazione lo scorso anno e hanno proposto diverse soluzioni. Era necessario un accordo sul mandato, la composizione, le dimensioni, gli obiettivi strategici e specifici di una nuova missione e i compiti delle componenti militari, civili e di polizia. Questi processi hanno reso molto tesi i rapporti tra la comunità internazionale e le autorità somale, che sebbene divise su tutto, sono state unanimi nella durissima opposizione a ogni possibile riduzione delle forze e modifica sostanziale del mandato dell’AMISOM a causa del lento processo di integrazione tra le Forze armate e di sicurezza nazionali e quelle delle regioni autonome del Puntland e del Jubaland. Tale è stata l’ostilità che nel novembre scorso è stato espulso il vice capo della missione, il diplomatico ugandese Simon Mulongo e una settimana dopo l’avvio dell’ATMIS, è
stato fatto lo stesso con lo Special Representative of the African Union Commission Chairperson for Somalia (SRCC), il diplomatico mozambicano Francisco Madeira. Al momento la missione è guidata da un «acting», e Addis Abeba negozia con Mogadiscio e chiaramente il problema non è nella scelta della persona ma cosa dovrà fare la missione. Questo mostra come per l’ATMIS lo scenario sia difficile e tutto in salita anche senza i miliziani di al-Shabaab.
Il Governo della Somalia vuole che ATMIS si concentri sull’attuazione del Piano di Transizione, sviluppato nel 2018 per trasferire le responsabilità di sicurezza dall’AMISOM alle Forze di sicurezza del paese, ma con consistenti flussi finanziari per equipag-
giarle e addestrarle. Il Piano è stato recentemente rivisto e sarà realizzato (auspicabilmente) nei prossimi tre anni. L’UA e l’ONU hanno concordato con questo approccio. Bankole Adeoye, commissario dell’UA per gli Affari politici e capo del Consiglio per la pace e la sicurezza, ha affermato che gli obiettivi di stabilizzazione e costruzione dello Stato somalo e l’attivazione dell’ATMIS saranno pienamente in linea con il Piano di Transizione.
Il Consiglio per la pace e la sicurezza dell’UA ha delineato un mandato per la nuova missione che includeva la riduzione delle capacità militari di al-Shabaab e altri gruppi terroristici, le forniture di sicurezza, lo sviluppo delle capacità delle Forze di sicurezza, della giustizia e delle autorità locali e il sostegno alla pace e alla riconciliazione. Ma anche il mandato dell’AMISOM era lo stesso ed era allineato con il Piano di Transizione, quindi non ci sarebbe nulla di nuovo nella missione ATMIS, rispetto alla precedente.
Il cambiamento più grande è forse che l’idea di una «transizione» è più fortemente radicata nella logica della nuova missione, che ha una sequenza temporale in quattro fasi per lavorare con il Governo somalo per attuare il Piano di Transizione. Inoltre, dovrebbero essere implementati anche alcuni adeguamenti, come il riordino delle strutture dell’ATMIS rispetto a quelle dell’AMISOM e una maggiore riconosciuta autorità di comando e controllo al comandante delle forze impiegate nella missione.
In termini di modifiche operative, ATMIS differirà da AMISOM nell’incremento della mobilità, ed efficienza in ogni settore della missione con l’obiettivo principale di indebolire rapidamente le capacità di al-Shabaab e altri gruppi estremisti. Obiettivo difficile da raggiungere, tano più che le forze americane sono state ritirate da quei territori nel dicembre 2020.
A prescindere dell’attacco del 2 maggio, al-Shabaab continua a mantenere una forte pressione sulle forze internazionali e somale e il gruppo controlla ancora vasti territori della Somalia centrale e meridionale, conduce micidiali incursioni nella stessa capitale somala e dispone di consistenti risorse finanziarie (secondo un istituto di ricerca con sede a Mogadiscio, nel 2021 avrebbe raccolto circa 180 milioni di dollari di entrate [tasse e dogane] e speso 24 milioni di dollari in armi). Negli ultimi mesi sono state segnalate molte aggressioni, aggravate da scioperi a Mogadiscio e Beledweyne che hanno provocato oltre 53 morti.
Come accennato, la presenza dei «caschi verdi» era prevista come elemento di attivazione di un processo di unificazione nazionale; quindi dare priorità alla questione politica che verte in una situazione di stallo, rappresenterebbe una spinta a risolvere i problemi di sicurezza del paese, ma la sostituzione di AMISOM con ATMIS arriva in un momento critico. Le tensioni politiche nel paese minacciano ancora i modesti passi in avanti realizzati negli anni. Le divisioni tra le élite somale sulla distribuzione del potere e delle risorse sono al centro di tutti i problemi. Due pacifiche transizioni di potere si sono verificate nel 2012 e nel 2017, ma la terza ha vacillato a causa di controversie sulla gestione delle elezioni. Il presidente Mohamed Abdullahi Mohamed, al potere dal 2017, è rimasto in carica dopo la scadenza del suo mandato nel febbraio 2021 sino alle elezioni del maggio 2022, che
hanno visto la vittoria di Hassan Sheikh Mohamud. Come suaccennato le elezioni presidenziali di metà maggio hanno formalizzato la fine dello stallo istituzionale, ma i problemi, legati soprattutto alla spartizione del potere e delle risorse tra i partiti/clan somali, restano.
Il primo ministro Mohamed Hussein Roble è stato incaricato di riformare il processo elettorale, ma i progressi sono stati lenti, nonostante l’instancabile lavoro di mediazione dell’UNPOS (UN Political Office for Somalia). Il futuro del paese è imprevedibile, con l’impasse politica che a volte sfocia in scontri armati e persistenti intromissioni esterne, da parte di Turchia, Qatar e EAU, che hanno le loro agende (e consistenti presenze militari sul territorio) che non coincidono necessariamente con i piani dell’ONU e dell’UE (per completezza, la Gran Bretagna ha una sua missione bilaterale di addestramento delle Forze armate somale, l’operazione Tangham, con una sessantina di istruttori e l’Italia, la MIADIT-Somalia, focalizzata sull’addestramento delle Forze di polizia somale e di Gibuti e che opera in stretto collegamento con l’EUCAP Somalia).
ATMIS dovrà inoltre affrontare gli stessi problemi finanziari dell’AMISOM. Le Nazioni unite hanno fornito il supporto logistico alla missione, continueranno a farlo con l’UNSOS (UN Support Office for Somalia), con l’UE che finanzia gli stipendi del personale militare e di polizia dell’AMISOM. Ma l’UE aveva ridotto il suo sostegno negli ultimi anni (anche per protestare contro le politiche interne di alcuni paesi partecipanti all’AMISOM soprattutto nell’ ambito delle libertà politiche e civili) e le sue intenzioni nei confronti di ATMIS non sono ancora chiare, anche se la delegazione dell’UE in Somalia ha garantito che l’UE è pronta a contribuire e garantire i finanziamenti purché il piano di gestione sia realistico, pragmatico e mirato.
Quindi sembra che ATMIS non differirà sostanzialmente da AMISOM nei suoi fini ultimi. Continuerà principalmente a fornire supporto militare al paese, come fatto dall’ AMISOM, essenziale per la sicurezza della Somalia. Poiché lo stallo politico è al centro dei problemi sociali e di sicurezza interni del paese, risolverlo dovrebbe essere la priorità. Se deve differire dall’AMISOM, il mandato dell’ATMIS e la riconfigurazione delle forze dovrebbero includere un solido impegno politico a sostegno della riconciliazione tra i gruppi politici divisi all’ interno del paese e una migliore cooperazione politica tra ONU e UA. Altrimenti, la scelta di dare un nuovo nome alla missione senza affrontare i problemi istituzionali e politici in primis che affliggono il paese e che lo tengono ancorato alla condizione di «Stato fallito», non basterà ad attuare un vero cambiamento.
Analizzare i recenti sviluppi della Somalia e del Corno d’Africa, regione di importanza crescente, porta naturalmente ad ampliare lo sguardo, considerando, o almeno tentando di considerare, le possibili future ripercussioni regionali e sub-regionali della guerra in Ucraina. Le relazioni della Russia con l’Africa sono sottoposte a pressioni pesanti sulla scia della sua invasione dell’Ucraina e condizionate dalle diverse reazioni da parte degli Stati del continente africano in merito alla nuova guerra in Europa. Negli ultimi anni, Mosca ha rafforzato i legami con i paesi di tutto il continente, in particolare quelli afflitti dalla violenza interna e disil-
lusi dalle potenze occidentali. La Russia rimane un fornitore leader di armi e gli appaltatori militari privati russi continuano a espandere la loro presenza, come per esempio di recente in Mali, in Centrafrica, Camerun e Sudan (senza contare le incursioni politico-diplomatiche in Guinea, Burkina Faso, Niger e Chad). Se la Russia stia perseguendo con successo una strategia più ampia, o semplicemente si stia impegnando in giochi di potere tattici, resta oggetto di dibattito. La Russia ha cercato a lungo una base navale sul Mar Rosso e detiene il suo seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite per influenzare il continente africano. La risposta dell’Africa alla crisi ucraina è stata tutt’altro che unita. Durante la storica sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni unite all’inizio di marzo, le fratture emergenti sono state chiaramente mo-
strate: solo circa la metà degli Stati africani ha sostenuto la denuncia dell’aggressione russa contenuta nella risoluzione, mentre solo l’ Eritrea si è opposta. Laddove alcuni paesi hanno condannato fermamente l’invasione come una manifesta violazione di norme fondamentali, altri sono stati più titubanti, sottolineando spesso l’incoerenza dell’Occidente nei confronti di questi stessi principi (altri addirittura non si sono presentati al voto, nascondendosi dietro fumose e contradditorie dichiarazioni). È un fatto che anche nel continente africano e nell’area del Corno d’Africa e le sue aree circonvicine (l’asse Canale di Suez-Mar Rosso-Stretto di Bab elMandeb) la situazione resta aperta a possibili intromissioni, se non direttamente russe, da parte di «partners» (come l’Iran, presente nello Yemen) che provocherebbero ulteriori scosse a un’ area già fragile.
Un prossimo «rehatting» in Mali?
Nel mese di giugno il Consiglio di Sicurezza deciderà se rinnovare il mandato della Missione Integrata di Stabilizzazione in Mali (MINUSMA), una delle più grandi operazioni di mantenimento della pace delle Nazioni unite. Il Segretario generale dell’ONU Antonio Guterres, nel corso di una visita in Mali ha affermato che il paese potrebbe essere soggetto a una crisi grave se la missione dell’ONU si ritirasse, ma ha suggerito che un’opzione potrebbe essere quella di sostituirla con una forza dell’Unione Africana, sostenuta da un mandato operativo più stringente di quello dato a MINUSMA. Guterres ha avanzato la proposta in un’intervista alla stazione francese Radio France Internationale in vista di una decisione chiave sul futuro dell’ONU in Mali.
«La vera situazione è che senza MINUSMA, il ri-
schio del collasso del paese sarebbe enorme», ha detto Guterres (che ritornava da una controversa visita a Mosca e Kiev), aggiungendo «Non ho intenzione di proporre che questa missione finisca perché penso che le conseguenze sarebbero terribili. Ma MINUSMA sta operando in circostanze che richiedono davvero non più una forza di mantenimento della pace, ma una missione incaricata di rafforzare la pace e combattere il terrorismo. Deve essere una forza africana, appartenente all’Unione africana, ma con un mandato del Consiglio di Sicurezza che include il Capitolo Sette e un finanziamento obbligatorio».
Il Capitolo Sette della Carta delle Nazioni unite consente l’uso della forza in caso di «minaccia alla pace» e per imporre l’applicazione del mandato approvato dal Consiglio di Sicurezza.
Le parole di Guterres non sono casuali e sono un pesante campanello dall’allarme, in quanto vista la crescente ostilità delle autorità di Bamako verso la presenza internazionale, e occidentale in particolare, molte nazioni, stanno considerando di ritirare i loro contingenti, anche per non ripetere l’umiliante espulsione del contingente danese della missione multinazionale europea di Forze speciali Takuba e l’ONU vuole evitare a tutti costi un vacuum che potrebbe essere pericolosissimo e che ha già segnali negativi con la fine della missione di addestramento della UE (EUTM-Mali) e dell’oramai prossima fine (o espulsione, viste le ultime mosse di Bamako che denuncia la validità degli accordi firmati con Parigi) delle restanti forze francesi della Barkhane.
Questo difficile scenario non è casuale, ma il risul-
tato di un processo di degrado che parte da lontano e che nonostante molti sforzi, la comunità internazionale (o almeno una sua parte) non riesce ad arrestare. La crisi del Mali, esplosa nel 2011 con l’insurrezione dei Touareg che volevano separarne il Nord e costituire il loro Stato, l’Azawad; la contemporanea insurrezione islamista, l’ affannosa risposta di una Forza panafricana, la AFISMA, lanciata dall’ECOWAS (Economic Community of West African States) e schierata grazie a un ponte aereo delle nazioni della UE e NATO, accompagnata dall’invio di una operazione militare francese (operazione Serval prima e Barkhane poi) ha solo rallentato un cammino di scollamento istituzionale e alimentato una crescente ostilità da parte delle popolazioni locali contro tutto ciò che era Occidente.
Il passaggio della AFISMA a MINUSMA nel 2013 ha visto l’arrivo e l’integrazione di contingenti di paesi occidentali, asiatici e latinoamericani (anche se la maggior parte dei contingenti della missione proviene da Stati africani) in questa missione, arrivando a includere 14.000 soldati e poliziotti. La missione ha il mandato di sostenere il fragile paese del Sahel nella sua lotta contro gli insorti jihadisti, pagando un alto tributo di sangue (170 caduti, di cui molti in attentati con autobombe e/o altre azioni di tipo terroristico), ma è stata spesso criticata per essere stata dotata di un mandato che le ha impedito di intervenire con la forza necessaria. Questo problema risale alle divisioni politiche all’interno del Consiglio di Sicurezza (e in particolare tra i 5 Stati permanenti) che hanno reso difficile l’adozione di mandati più stringenti. Di conseguenza, secondo questo punto di vista, l’onere della sicurezza grava sulle Forze armate
mal equipaggiate del Mali (nonostante un generoso programma di aiuti da parte delle nazioni della UE che ha anche fornito la sopracitata EUTM-Mali, che è arrivata a contare quasi 600 unità di personale).
Per accrescera la capacità della missione Barkhane si è poi lanciata l’iniziativa della forza G5S (operazione multinazionale formata dalle unità di elite degli eserciti di Mali, Mauritania, Burkina Faso, Chad e Niger) con ruoli supplettivi e di sostegno alle forze francesi per il Sahel. Ma anche in questo caso le debolezze intrinseche degli attori locali (e, bisogna dirlo, le incertezze e contraddizioni occidentali) non hanno fatto decollare questo tentativo. A questo si aggiungono le crisi isituzionali di tre dei cinque aderenti al sottogruppo regionale G5 (Mali, Burkina Faso, Chad) dove sono al potere governi golpisti e/o provvisori che ne riducono legittimità e efficacia e la
comunità internazionale, anche in questo caso, non tutta, è restia a interagire con quel tipo di Governi.
Nel 2021 era stato ventilato l’invio di una forza dell’UA a sostegno della MINUSMA e delle altre forze internazionali, ma il progetto si è arenato e l’unica presenza di Addis Abeba in Mali è di una piccola delegazione di uffici e di consiglieri militari.
Guterres ha affermato di essere consapevole della portata del compito delle Nazioni unite in Mali ma ha riconosciuto che vi è una situazione molto difficile soprattutto nella cooperazione tra Bamako e MINUSMA sulla questione dei diritti umani. Il mese scorso, diverse centinaia di civili sarebbero stati uccisi nel Mali centrale da Forze governative e operatori militari stranieri, che secondo Human Rights Watch potrebbero essere stati i contractor russi della Wagner. Il Mali lo nega e afferma che le sue forze hanno eliminato più di 200 jihadisti. Tuttavia, l’ONU afferma di essere ancora in attesa del permesso da parte delle autorità per inviare investigatori nella regione. La decisione del prossimo mese a New York arriva nel contesto della rottura delle relazioni tra il Mali e la Francia, che negli ultimi nove anni vi ha inviato migliaia di soldati (perdendone 53), supportati da elicotteri, jet e droni.
Il loro prossimo ritiro potrebbe avere implicazioni per la MINUSMA, in quanto il mandato dell’ONU autorizzava le forze francesi a sostenere la missione in caso di pericolo imminente e grave. Quindi è nell’ordine delle cose, interpetando le parole di Guterres, un ritiro dei contingenti non africani dalla missione e un «re-hatting» dei restanti dai «caschi blu» delle Nazioni unite a quelli verdi dell’UA.
Ovviamente è una importante decisione politica : come si è visto, l’altra missione dell’UA, in Somalia, non sembra essere partita sotto i migliori auspici, e ci sono molti problemi da risolvere. Il primo è di ordine politico, come trovare l’intesa e la volontà all’interno delle due organizzazioni e tra queste due, visto che i precedenti sono stati a dir poco complessi, come nel caso dell’UNAMID. Anche i problemi finanziari rivestiranno grande importanza; la UE, che si è dotata di una nuova architettura finanziaria per questo tipo di attività, potrà farsi carico di una parte, ma sarà necessario l’ intervento di altri paesi finanziatori (Stati Uniti?). Inoltre, se il progetto di una nuova Forza panafricana troverà accoglienza, la presenza dell’ONU in Mali in una qualche misura dovrà estrinsecare la sua azione alla stregua di quella dell’UNSOS, visto che i contingenti africani sono estranei al concetto di «selfsustaining».
Anche in questo caso per evitare che si espanda la penetrazione russa in Mali (i recenti negoziati per la fornitura di armamenti e istruttori russi con il Camerun, che confina con la Repubblica Centroafricana dove la presenza di Mosca è forte, sono un segnale pericoloso) potrebbe fungere da catalizzatore per portare a termine queste iniziative, senza tuttavia ignorare le difficoltà istituzionali, come le esacerbate divisioni all’interno del Consiglio di Sicurezza e la non uniforme posizione degli Stati africani.
Una fragile tregua
Diciassette mesi dopo che un cessate il fuoco mediato dalla Russia ha posto fine alla seconda guerra tra Armenia e Azerbaigian in 30 anni, nuovi combattimenti ne minano una tregua fragile. Yerevan e Stepanakert (l’autorità de facto di quello che resta della autoprocalamata Repubblica armenofona del Nagorno-Karabakh/Artsakh) temono che Baku approfitterà del coinvolgimento russo in Ucraina per riprendere il controllo di altre porzioni del Nagorno-Karabakh. L’Azerbaigian vede l’intero territorio come proprio ai sensi del diritto internazionale. Insiste sul fatto che le Forze armate delle autorità de facto sono illegali e vuole che le Forze di pace russe le disarmino. La Russia è diffidente nei confronti dell’escalation, che potrebbe deludere le sue speranze di svolgere un ruolo di primo piano in un Caucaso meridionale stabile e vicino alle sue posizioni. Ma la guerra in Ucraina sta visibilmente riducendo l’influenza di Mosca e ha interrotto ogni tipo di collaborazione con Francia e Stati Uniti, gli altri co-presidenti del Forum principale per i colloqui sulla pace. Dati i costi di un nuovo conflitto, queste insieme ad altre nazioni— come l’UE e la Turchia — dovrebbero cooperare discretamente per incoraggiare il dialogo e i
colloqui tra interlocutori nazionali e locali necessari per analizzare questioni economiche e misure utili a ridurre le tensioni. Le radici del conflitto del NagornoKarabakh risalgono a decenni fa. Nel 1988, gli abitanti di etnia armena che vivevano in quella che allora era l’Oblast Autonoma del Nagorno-Karabakh (NKAO) — un’enclave a maggioranza armena all’interno del territorio dell’Azerbaigian sovietico — chiesero la restituzione di quei territori all’Armenia. Con il crollo dell’Unione Sovietica, gli attriti si trasformarono in una vera e propria guerra. La prima guerra del Nagorno-Karabakh si è conclusa con un cessate il fuoco sponsorizzato dalla Russia nel 1994, con le Forze armene che prendono il controllo dell’NKAO (che intanto dichiara l’indipendenza), nonché di sette territori azeri a ovest, sud e est del Nagorno-Karabakh. Questo status quo è rimasto fino alla seconda guerra, iniziata nel settembre 2020, che ha visto la superiorità dell’Azerbaigian. In un altro cessate il fuoco promosso da Mosca, truppe russe hanno preso rapidamente il controllo di parte del Nagorno-Karabakh, comprese le città di Shusha e Hadrut, e dei sette territori adiacenti che Baku aveva perso nel 1994. Le Forze di pace russe si sono schierate per pattugliare le porzioni di territorio dell’ex-NKAO rimaste nelle mani di armeni di etnia armena, mentre le truppe di Yerevan si ritiravano.
La regione ha visto alcuni combattimenti nel periodo successivo al cessate il fuoco, in particolare vicino al perimetro del Nagorno-Karabakh e lungo il confine di Stato tra Armenia e Azerbaigian. Dall’invasione russa dell’Ucraina il 24 febbraio, tuttavia, il rischio di un’escalation che potrebbe riportare la regione a un conflitto aperto è aumentato, con diversi scontri e la rivendicazione azera di aree che si trovano in un distretto del Nagorno-Karabakh popolato da armeni che era stato sotto l’amministrazione della autoproclamata Repubblica armenofona del Nagorno-Karabach/Artsakh.
Nonostante queste tensioni, le due parti tengono aperta la linea del dialogo (l’ultimo incontro si è tenuto a Bruxelles il 6 aprile scorso), anche se senza risultati concreti, riproponendo situazioni analoghe al difficile dialogo russo-ucraino, dove le questioni centrali riguardanti il destino dello stesso Nagorno-Karabakh, Armenia e Azerbaigian per ora restano distanti.
Con Baku che ora controlla saldamente i sette territori adiacenti che le Forze armene avevano conquistato nella prima guerra, la disputa è ora interamente concentrata sul Nagorno-Karabakh. La posizione dell’Azerbaigian è che l’unico accordo che vuole deve inziare con l’accettazione inequivocabile da parte dell’Armenia della sovranità di Baku su tutto il territorio entro i suoi confini internazionalmente riconosciuti, compreso l’intero Nagorno-Karabakh.
Baku, per ora, non è interessata a esplorare soluzioni alternative per definire lo status del Nagorno-Karabakh come un alto grado di autonomia e autogoverno, compreso la gestione delle proprie Forze di polizia. Per Yerevan queste promesse sono insufficienti, sebbene la leadership di Yerevan abbia fatto presente che la sicurezza e i diritti degli armenofoni del Karabakh potrebbero essere temi più cruciali per loro rispetto a quello dello status del territorio.
Date le circostanze, la strategia più promettente potrebbe essere la stessa su cui i mediatori hanno fatto affidamento fino a oggi: incoraggiare le parti a lavorare insieme su questioni meno delicate, come il ripristino dei legami economici, e lasciare da parte, inizialmente, la questione della demarcazione dei confini statali tra Armenia e Azerbaigian e status finale del Nagorno-Karabach e i diritti delle popolazioni armenofone. Nel frattempo, gli attori esterni con la maggiore influenza — Russia, Francia, Stati Uniti, UE e Turchia — che avrebbero dovuto incoraggiare un modus vivendi che aiuti a stabilizzare la situazione del Caucaso meridionale, sono concentrati sull’ invasione russa in Ucraina. In questo contesto un potenziale partner locale, come la Turchia, con il presidente Erdogan alla perenne ricerca di successi esterni per consolidare la sua posizione interna, data la solidità delle sue relazioni con Baku e il suo interesse a intrattenere relazioni più calde con Yerevan, potrebbe essere utile per aiutare a contenere i contrasti che sorgono tra le parti su quel territorio.
Enrico Magnani
ITALIA Conclusa la «Mare Aperto 22-1»
Il 27 maggio è si conclusa con successo la prima edizione dell’esercitazione «Mare Aperto 2022», iniziata il 3 maggio e a cui hanno partecipato più di 4.000 tra donne e uomini appartenenti a 7 nazioni della NATO, 37 navi, 3 sottomarini, 11 velivoli, 15 elicotteri, reparti della componente anfibia, con mezzi da sbarco e veicoli d’assalto, e distaccamenti di Forze speciali. L’ammiraglio di squadra Aurelio De Carolis, Comandante in Capo della Squadra navale, ha diretto l’esercitazione, insieme al suo staff imbarcato sulla portaerei Cavour. Impegnati anche i comandi della Brigata Marina San Marco, delle Forze di contromisure mine e delle quattro Divisioni navali in cui si articola l’organizzazione operativa della Marina Militare, nonché unità appartenenti a nazioni alleate — Canada, Francia, Germania, Grecia, Spagna e Stati Uniti — che hanno contribuito a mantenere un elevato livello di interoperabilità tra le forze della NATO, confermando così l’importanza dell’esercitazione sul piano internazionale. Nella Sardegna meridionale ha operato il gruppo cacciamine, al cui interno è stato integrato lo Standing NATO Mine Countermeasure Group 2 (SNMCMG 2) dell’Alleanza Atlantica. Coinvolti anche in questa edizione, gli studenti di alcuni atenei italiani che hanno collaborato a sviluppare lo scenario dell’esercitazione svolgendo il ruolo di political advisor, legad e addetti alla pubblica informazione e che — a bordo del Cavour, del Garibaldi e dell’Etna — hanno beneficiato di un ciclo di conferenze a cura del CeSMar (Centro Studi di Geopolitica e Strategia Marittima). Al termine dell’esercitazione, l’ammiraglio De Carolis ha affermato «in questa edizione della Mare Aperto, la prima da Comandante in Capo, ho voluto ricercare la massima efficacia addestrativa, coinvolgendo gli staff imbarcati in processi di pianificazione complessi, in uno scenario in continua evoluzione, utilizzando appieno il coinvolgimento degli studenti degli atenei partecipanti e delle realtà interistituzionali e interagenzia coinvolte, il tutto finalizzato alla preparazione delle Forze marittime nazionali per la tutela degli interessi del paese e delle organizzazioni internazionali cui esso aderisce, uno dei principali compiti istituzionali della Marina Militare».
Pubblicato il Rapporto Marina Militare 2021
Riprendendo un’importante consuetudine interrotta circa 10 anni fa, la Marina Militare ha pubblicato un’edizione del Rapporto che illustra e valorizza le attività svolte dalla Forza armata durante lo scorso anno. Il Rapporto Marina Militare 2021 si apre con una prefazione a cura del Capo di Stato Maggiore, Ammiraglio di squadra Enrico Credendino, che afferma la capacità della Forza armata nel superare con passione e orgoglio gli ostacoli e le sfide del difficile scenario creato dalla pandemia. Di fronte all’attuale scenario di conflittualità e instabilità, è essenziale che la Marina Militare agisca in modo efficace nel continuum tra prevenzione, competizione, crisi e conflitto, per mantenere un’adeguata iniziativa rispetto a tutti i soggetti che nel Mediterraneo
Ripresa aerea delle unità — in formazione su 8 linee di fila — della Marina Militare e di Marine estere partecipanti alla «Mare Aperto 22-1».
allargato perseguono, anche in maniera assertiva, i propri esclusivi interessi, spesso in contrasto con gli orientamenti della comunità internazionale. Il Rapporto Marina Militare 2021 prosegue con un’analisi di uno scenario con al centro l’Italia che, a causa di molteplici fattori di criticità, risulta particolarmente esposta e vulnerabile rispetto agli effetti di crisi con connotazioni marittime. In uno scenario marittimo così complesso, è indispensabile che l’azione dello Stato sul mare sia sostenuta generando un’adeguata «massa critica», ottenibile attraverso coesione trasversale, operatività unitaria ed efficienza sistemica dei mezzi governativi che sul mare operano a vario titolo. Arricchito da numerose infografiche, il Rapporto MM 2021 analizza poi un panorama a 360°, idealmente suddiviso in quattro quadranti: operazioni e attività, personale e organizzazione, lo strumento aeronavale e le infrastrutture, e i programmi e il bilancio. Si apprende che nel corso del 2021 le unità di superficie e subacquee inquadrate nella Squadra navale hanno eseguito complessivamente circa 99.000 ore di moto, associate a circa 12.200 ore di volo dell’Aviazione navale, svolgendo attività operative e addestrative che hanno inciso, rispettivamente, sul 71% e sul 27% del totale, con il rimanente 2% destinato a test e sperimentazioni. In tale ambito, viene giustamente ricordata la campagna «Ready For Operations» condotta con successo dalla portaerei Cavour negli Stati Uniti, nonché la proficua collaborazione con la portaerei britannica Queen Elizabeth, il tutto finalizzato al raggiungimento, nel 2024, alla capacità operativa iniziale del «Sistema portaerei» della Marina Militare. Anche nel 2021, la consistenza del personale — pari a 29.800 uomini e donne — è rimasta una delle principali criticità della Forza armata, impegnata in ambito istituzionale a soddisfare un’esigenza di consistenza minima per la quale occorrono circa 5.000 effettivi, a cui ne vanno aggiunti altri 4.000 per giungere a un assetto ideale; nuove risorse sono necessarie anche per garantire un ordinato ricambio generazionale del personale civile. Un ele-
La copertina del Rapporto Marina Militare 2021, che illustra e valorizza le numerose, complesse e variegate attività svolte dalla Forza armata durante lo scorso anno.
Un’ immagine al computer della Stazione navale Mar Grande di Taranto, nella configurazione risultante dopo i previsti interventi di ampliamento, come illustrato nel Rapporto Marina Militare 2021.
mento di novità nell’organizzazione complessiva della Marina Militare riguarda l’attuazione di un’architettura di innovazione tecnologica, di cui fanno parte lo Stato Maggiore della Marina, i Centri tecnici della Forza armata e ufficiali particolarmente qualificati in settori tecnologici di particolare interesse, al fine di indirizzare, valorizzare e mettere a sistema le attività di studio e sperimentazione di tecnologie innovative che possono trovare utile applicazione nello strumento aeronavale nazionale del futuro. In tema di infrastrutture, procede il programma di ammodernamento degli arsenali, meglio noto come «Basi Blu» e concepito per potenziarne le capacità anche in funzione dell’ingresso in linea di nuove unità quali il Trieste e la classe «Thaon Di Revel»; i nuovi programmi di potenziamento della Marina Militare prevedono i sottomarini U212 NFS, i cacciatorpediniere lanciamissili DDX, le unità d’assalto anfibio LXD, una nuova generazione di cacciamine e una serie di unità ausiliarie d’altura e costiere specialistiche.
L’Alliance di nuovo in azione nell’Oceano Artico
L’unità polivalente di ricerca Alliance è partita il 21 maggio dalla Spezia alla volta dell’Oceano Artico, con destinazione il porto norvegese di Tromsø. Due le missioni scientifiche che la nave condurrà nei prossimi mesi: la prima è denominata «Nordic Recognized Enviromental Picture 22» (NREP 22), condotta dallo «Science and Technology Organization-Centre for Maritime Research and Experimentation, STO-CMRE» della NATO, e la seconda è la campagna «High North 22», guidata dalla Marina Militare e comprendente attività di mappatura, campionamento, analisi e osservazioni finalizzare a accrescere le conoscenze delle regioni artiche, studiandone i cambiamenti occorsi negli ultimi anni e verificare così l’evoluzione del clima nonché lo stato di salute del pianeta Terra. Il rientro dell’Alliance alla Spezia è previsto nell’agosto 2022.
azione con l’US Navy
Dopo aver partecipato all’esercitazione «Mare Aperto 22-1», il cacciatorpediniere lanciamissili Caio Duilio ha fatto rotta verso gli Stati Uniti, e il 25 maggio è giunto nella base navale dell’US Navy di Norfolk, in Virginia. Dal 31 maggio al 1 luglio, il Duilio è stato impegnato nella «COMposite Training Unit EXercise, COMPTUEX», un complesso evento addestrativo finalizzato alla qualificazione delle unità assegnate a un gruppo navale incentrato su una portaerei. Pertanto, il Duilio opera come unità di scorta del Carrier Strike Group incentrato sulla portaerei a propulsione nucleare George H. W. Bush (identificato con l’acronimo CSG-GHWB), integrandosi nel sistema di comando e controllo di quest’ultimo. L’in-
serimento del Duilio nel CSG-GHWB permetterà di migliorare il livello di integrazione e di conseguire la piena interoperabilità delle unità di scorta della Marina Militare assieme a quelle statunitensi, consolidando le conoscenze in materia di protezione di un dispositivo navale complesso incentrato su una portaerei.
Il Carrier Strike Group del Cavour e l’esercita-
zione «Neptune Shield 2022»
Dopo una breve sosta seguita alla conclusione dell’esercitazione «Mare Aperto 22-1», il Carrier Strike Group, CSG, della Marina Militare formato dalla portaerei Cavour, dal cacciatorpediniere lanciamissili Andrea Doria e dalla fregata Alpino è stato impegnato, dal 27 al 31 maggio, nell’esercitazione NATO «Neptune Shield 2022» (NESH 22). In tale occasione e per la prima volta nella storia dell’Alleanza Atlantica, l’Italia ha trasferito il comando e il controllo operativo di un proprio CSG a un comando NATO, per la precisione
L’arrivo del cacciatorpediniere lanciamissili CAIO DUILIO nella base navale di Norfolk, in Virginia. Dal 31 maggio al 1 luglio, il DUILIO è impegnato nella
COMposite Training Unit EXercise, COMPTUEX (US Navy).
Dopo aver partecipato all’esercitazione «Mare Aperto 22-1», la portaerei CAVOUR, qui ritratta con velivoli ad ala fissa F-35B e AV-8B sul ponte di volo,
ha preso parte all’esercitazione NATO «Neptune Shield 22». Per l’occasione,
il CAVOUR è stato inserito in un Carrier Strike Group della Marina Militare comprendente anche il cacciatorpediniere lanciamissili ANDREA DORIA e la fregata ALPINO.
il «Naval Striking and Support Forces NATO, STRIKFORNATO», evento che ha rappresentato un’opportunità unica per integrare un dispositivo aeronavale della Marina Militare nelle operazioni alleate. Da parte sua, la NESH 22 ha avuto luogo dal 17 al 31 Maggio, in un teatro operativo comprendente il mar Adriatico, il Mediterraneo, l’Atlantico orientale e il mar Baltico, e ha visto come tema principale la vigilanza aeronavale e la condotta di operazioni di strike dal mare a cura di unità e reparti navali, aerei e terrestri: per l’occasione, STRIKFORNATO ha esercitato il comando e controllo anche sul CSG incentrato sulla portaerei statunitense Harry S. Truman e del gruppo anfibio incentrato sulla portaeromobili d’assalto Kearsarge (comprendente anche il 22nd Marine Expeditionary Unit, MEU). Sostanzialmente, la NESH 22 ha avuto luogo nel teatro operativo euro-mediterraneo sotto la responsabilità operativa dei due JFC, Joint Forces Command, della NATO, rispettivamente di base a Napoli e a Brunsum, in Olanda. In occasione della «Mare Aperto 22-1», il Cavour ha operato con un reparto aereo imbarcato formato da velivoli F-35B «Lightning II» e AV-8B «Harrier II Plus», avendo a bordo anche personale dello staff di STRIKFORNATO e svolgendo eventi addestrativi e procedurali finalizzati a potenziare le capacità del CSG italiano alle future operazioni NATO, in particolare la preparazione del personale della Marina Militare inquadrato nello staff della «Italian Maritime Force, ITMARFOR». Il complesso di queste esercitazioni è funzionale al potenziamento capacitivo delle unità e del personale imbarcato, in modo da impiegare al meglio sistemi e procedure NATO e ampliare lo spettro di capacità operative nell’ambito dell’Alleanza.
AUSTRALIA Missili «Tomahawk» sui sottomarini classe «Collins»
La Marina australiana sta valutando la possibilità di ammodernare i sei sottomarini classe «Collins» tuttora in servizio con missili da crociera «Tomahawk»: l’iniziativa rientra nei massicci interventi necessari e già programmati per estendere la vita operativa dei battelli (Life of Type Extension, LOTE), in attesa dell’ingresso in linea di nuove unità subacquee. Nell’ambito del programma LOTE, che inizierà nel 2026, si prevede di completare l’ammodernamento di ogni «Collins» a intervalli di due anni: gli interventi comprenderanno la revisione generale di tutto il sistema propulsivo e di generazione e distribuzione dell’energia elettrica, l’impianto di refrigerazione, ventilazione e condizionamento, nonché diversi tipi di sistemi e sensori, comprendendo ciò la sostituzione di almeno uno dei due periscopi tradizionali con un albero optronico di produzione francese. Qualora i «Tomahawk» fossero prescelti nell’ambito del programma LOTE, saranno necessarie idonee modifiche ai moduli hardware e software d’interfaccia fra i missili e il sistema di gestione operativa
Il sottomarino FARNCOMB, appartenente alla classe «Collins» rientra nella Fleet Base West, di Adelaide, nell’Australia occidentale. Il FARNCOMB sarà
il primo battello a completare il programma LOTE, forse comprensivo dell’adozione di missili da crociera (Commonwealth of Australia).
dei «Collins»: poiché essi non dispongono di tubi di lancio verticali, i missili verrebbero lanciati dai tubi lanciasiluri, procedura peraltro seguita da altre classi di battelli, fra cui quelli della Royal Navy. Va ricordato che la versione del «Tomahawk» impiegabile da tubi lanciasiluri non risulta più in produzione, ma la società produttrice, Raytheon, ha dichiarato che è pronta a riaprire la linea di produzione in caso di ordini quantitativamente significativi, una possibilità questa in cui potrebbe rientrare un approvvigionamento in comune di missili fra le Marine di Australia e Gran Bretagna, nonché di qualche altra Marina interessata all’arma.
FINLANDIA Esercitazioni navali nel Baltico settentrionale
Dal 13 al 28 maggio 2022, la Marina finlandese ha condotto una serie di attività addestrative nella porzione settentrionale del mar Baltico, a cui hanno partecipato unità navali e batterie missilistiche della difesa costiera. Ispirati dall’assertività della Russia in tutto il teatro euro-mediterraneo e in linea con le aspirazioni di Helsinki per l’adesione alla NATO, i temi delle esercitazioni hanno riguardato la protezione dei traffici marittimi, il monitoraggio e l’aggiornamento continuo del quadro tattico e le operazioni in ambiente littoral, compresa una serie di tiri e lanci missilistici simulati. Diretti dal comandante della Marina finlandese ammiraglio di divisione Jori Harju, gli eventi hanno visto la partecipazione anche di unità e reparti della Marina svedese (in particolare la corvetta Gävle e la nave comando/posamine Karlskrona e il 1° reggimento anfibio), nonché interazioni con altre componenti delle Forze armate e agenzie di sicurezza finlandesi. Nell’ultima fase delle esercitazioni sono state condotte attività tipo PASSEX con un gruppo navale dell’US Navy formato dal cacciatorpediniere lanciamissili Gravely e dalle unità d’assalto anfibio Kearsarge e Gunston Hall.
FRANCIA
Ultima missione della fregata Latouche-Tréville
Partita dalla base navale di Brest il 7 marzo, la fregata Latouche-Tréville ha svolto la sua ultima missione prima del ritiro dal servizio operando nell’ambito dello Standing Nato Maritime Group 1 (SNMG1) della NATO, inizialmente impegnato in operazioni antisommergibili nelle acque fra l’Islanda e la Norvegia. Sempre sotto il controllo operativo del MARCOM (Maritime Command) della NATO con sede a Northwood (nella campagna inglese), il Latouche-Tréville si è poi spostato nel mar Baltico, svolgendo attività addestrative con unità della Marina polacca: dopo il rientro a Brest (metà giugno 2022), il Latouche-Tréville eseguirà una serie di uscite in mare giornaliere tradizionalmente riservate a suoi ex-comandanti e sarà ritirata dal servizio a luglio 2022. In servizio nella Marina francese dal 1990, il Latouche-Tréville è l’ultima fregata della serie «F70», comprendente altre sei unità concepite per la lotta antisommergibili e due esemplari per la difesa contraerei. Nel suo ultimo dispiegamento, il Latouche-Tréville ha imbarcato un elicottero «Alouette III», ultimo modello di elicottero presente a bordo delle unità navali francesi basate nel territorio metropolitano.
GRAN BRETAGNA Accordo con la Marina danese per le fregate «Type 31»
Le Marine di Danimarca e Gran Bretagna hanno stipulato un accordo — noto come «Implementing Agreement» — per facilitare l’ingresso in servizio delle future fregate britanniche «Type 31», inquadrate nella classe «Insipiration». Il progetto di queste ultime è derivato dalle fregate classe «Iver Huitfeldt» già in linea con la Marina danese, e di ciò si avvantaggerà la Royal Navy per ottimizzare la costruzione, l’addestramento e le probabili operazioni congiunte fra le proprie unità e quelle
Immagine al computer di una fregata britannica classe «Inspiration». La Royal Navy e la Marina danese hanno sottoscritto un accordo per facilitare la realizzazione del programma costruttivo britannico per le nuove fregate (BAE Systems).
danesi. Da riprodurre in cinque esemplari, di cui il primo denominato Venturer, le fregate britanniche dovranno sostituire le unità classe «Duke/Type 23» e svolgere compiti di presenza e sorveglianza su scala globale. Il Venturer è stato impostato ad aprile 2022 nei nuovi cantieri Babcock, a Rosyth, in Scozia, ed è previsto che venga varato alla fine del 2023. Firmatari dell’Implementing Agreement sono stati gli ammiragli Andrew Burns per la Royal Navy e Torben Mikkelsen, entrambi responsabili delle operazioni navali nelle due Marine: la firma è avvenuta durante la riunione annuale dei capi delle Marine europee (noto come, Chiefs of European Navies Seminar, CHENS), svoltosi in Romania a metà maggio circa.
Ritiro dal servizio di due sottomarini d’attacco
I sottomarini nucleari d’attacco della Royal Navy Talent e Trenchant sono stati ritirati dal servizio il 20 maggio, nel corso di un cerimonia svoltasi nella base navale di Devonport: ultimi esemplari della classe «Trafalgar», entrambe le unità sono rimaste in linea per circa 32 anni, avendo come missione primaria la protezione dei sottomarini nucleari lanciamissili balistici che costituiscono la forza di deterrenza strategica britannica e come funzioni aggiuntive le operazioni antisommergibili, lo strike contro bersagli terrestri mediante missili da crociera, l’inserzione di Forze speciali e la raccolta d’informazioni. La sostituzione dei «Trafalgar» è iniziata da qualche anno, a cura dei battelli d’attacco a propulsione nucleare classe «Astute», di cui quattro esemplari sono già in servizio e il quinto, Anson, è impegnato nelle prove. Come i «Trafalgar», gli «Astute» operano praticamente in tutti i teatri del globo: in particolare, l’Astute ha fatto parte del Carrier Strike Group che nel 2021 ha raggiunto l’Estremo Oriente, l’Ambush ha partecipato ad attività addestrative NATO qualche mese fa e l’Audacious è stato in azione nel Mediterraneo, raggiungendo la piena capacità operativa all’inizio di aprile 2022.
ISRAELE Prove in mare del sistema ingannatore imbarcato «C-GEM»
All’inizio del 2022, la società israeliana Rafael, la Marina israeliana e la Direzione di ricerca e sviluppo
Il lancio di un ingannatore attivo a radio frequenza del sistema C-GEM da una corvetta israeliana classe «Sa’ar 6» (foto Rafael).
del ministero della Difesa di Tel Aviv hanno concluso con successo la campagna di prove del sistema CGEM, un ingannatore attivo a radio frequenza lanciato da unità navali per proteggerle da missili antinave attraverso la manipolazione dello spettro elettromagnetico. Il «C-GEM» disturba e distrae diversi tipi di sistemi di guida di ordigni nemici, indipendentemente dalle manovre evasive eseguite dall’unità navale che lo lancia: l’ultima fase di prove è stata condotta a cura di una corvetta israeliana classe «Sa’ar 6» e il loro esito positivo permetterà l’integrazione del C-GEM nel sistema di difesa multistrato delle principali unità navali di superficie della Marina israeliana. In questo modo, il C-GEM costituirà il pilastro soft-kill del predetto sistema di difesa, affiancando il C-DOME, che rappresenta il pilastro hard-kill, potenziando in maniera evidente le capacità operative della Marina israeliana nei moderni scenari bellici caratterizzati anche da minacce missilistiche antinave da non sottovalutare.
REPUBBLICA POPOLARE CINESE
Il cacciatorpediniere lanciamissili Lhasa con-
clude l’addestramento avanzato
Come riportato dal quotidiano filogovernativo Global Time, il cacciatorpediniere lanciamissili Lhasa, se-
Due cacciatorpedinieri lanciamissili cinesi: il LHASA (in primo piano) e il NANCHANG in banchina. Il LHASA ha recentemente completato il tirocinio
avanzato al termine di una campagna operativa che l’ha visto all’opera nei settori delle difesa aerea, del contrasto antinave e della lotta antisommergibili (South China Morning Post).
condo esemplare della classe «Rhennai/Type 055», ha recentemente completato l’addestramento avanzato al termine di una campagna che lo ha visto all’opera in operazioni di difesa aerea, contrasto antinave e lotta antisommergibili. Avente un dislocamento di oltre 10.000 tonnellate, il Lhasa è stato dichiarato pronto per missioni al di là delle prima catena insulare che circonda a levante i mari adiacenti la Repubblica Popolare Cinese. Il tirocinio avanzato è stato condotto a cura di un centro addestrativo inquadrato nel Comando della Flotta settentrionale della Marina cinese, si è svolto in una zona del Mar Giallo e a esso hanno partecipato anche tre corvette «Type 056A». La flottiglia guidata dal Lhasa è stata impegnata in eventi seriali con l’impiego dei sistemi d’arma e dei sensori imbarcati, svolgendo numerose attività a cui hanno partecipato anche sottomarini e almeno un cacciatorpediniere lanciamissili «Type 052D». Entrato in servizio nel marzo 2021 ed equipaggiato con un totale di 112 celle per il lancio verticale di ordigni superficie-aria, antinave, da crociera e antisommergibili, il Lhasa seguirà un percorso operativo simile a quello del Nanchang, primo esemplare della classe, e sarà presto aggregato a un gruppo navale incentrato su una delle portaerei attualmente in linea con la Marina cinese.
RUSSIA
Il sottomarino Alrosa alle prove
A metà maggio, l’agenzia d’informazioni russa TASS ha comunicato che il sottomarino Alrosa, inquadrato nella Flotta del Mar Nero ha completato un ciclo di lavori di grande manutenzione e ha iniziato le prove in mare per diventare nuovamente operativo. L’Alrosa è un battello realizzato secondo una versione particolare del «Project 877», meglio noto come classe «Kilo» e se ne distingue per la presenza di un propulsore «pump-jet» al posto dell’elica tradizionale: ciò faceva del battello un esemplare unico nel suo genere, concepito per verificare l’efficacia tecnica-operativa di un sistema propulsivo più silenzioso di quello presente a bordo di altri sottomarini russi diesel-elettrici. L’Alrosa era entrato in servizio nella Marina sovietica alla fine del 1990, e dopo la caduta dell’Unione Sovietica e l’indipendenza della Crimea, il suo equipaggio era rimasto fedele al Governo di Kiev. L’Alrosa svolse attività addestrative alquanto limitate e nel 1997 fu incorporato nella Flotta del Mar Nero al termine del negoziato che portò alla spartizione di quest’ultima fra la Russia e l’Ucraina. Anche con la Marina russa, l’attività dell’Alrosa è rimasta circoscritta al Mar Nero, se non addirittura alle acque costiere prospicienti la Crimea, con qualche ridispiegamento a Novorossiysk. Fonti dei cantieri di Sebastopoli affermano che gli ultimi intereventi sull’Alrosa ne hanno potenziato le capacità belliche, portando il battello allo stesso livello di efficacia dei sei sottomarini classe «Varshavyanka/Kilo Improved» in servizio nella Flotta del Mar Nero: l’Alrosa risulta inoltre esser stato modificato per permettergli l’impiego anche di missili da crociera «Kalibr-PL» («SS-N-27 Sizzler», secondo la denominazione NATO), ma non è noto se il propulsore «pump-jet» ha subito modifiche.
L’Admiral Makarov possibile futura nave ammi-
raglia della Flotta del Mar Nero
Il 19 maggio, l’agenzia d’informazioni russa TASS ha comunicato che la fregata Admiral Makarov potrebbe verosimilmente assumere il ruolo di nave ammiraglia della Flotta del Mar Nero, funzione assolta in precedenza dall’incrociatore lanciamissili Moskva, affondato il 14 aprile 2022. La perdita del Moskva ha costretto i vertici della Marina a scegliere una nuova nave ammiraglia della Flotta del Mar Nero fra le tre fregate
Immagine aerea della fregata ADMIRAL MAKAROV (classe «Admiral Gri-
gorovich»), verosimilmente destinata ad assumere il ruolo di nave ammiraglia della Flotta del Mar Nero, dopo l’affondamento dall’incrociatore
lanciamissili MOSKVA (TASS).
della classe «Admiral Grigorovich» (l’eponima, l’Admiral Essen e la Makarov): è tuttavia possibile che la funzione di flagship sia provvisoria, perché a novembre del 2021 in un evento svoltosi a Sebastopoli una fonte industriale aveva rivelato che il ruolo di nave ammiraglia sarebbe stato assegnato all’unità d’assalto anfibio Mitrofan Moskalenko, che si trova tuttora in costruzione nel cantiere Zaliv di Kerch in Crimea, ma il cui ingresso in linea è previsto per il 2030. Da parte sua, l’Admiral Makarov è stata costruita nei cantieri Yantar di Kaliningrad ed è entrata in servizio nella Marina russa alla fine del 2017: il suo dislocamento a pieno carico è di 3.620 tonnellate, mentre la velocità massima è di 30 nodi. L’armamento comprende un cannone da 100 mm, due complessi di celle per il lancio verticale di missili da crociera «Kalibr» e di ordigni antiaerei «Shtil», tubi lanciasiluri antisommergibili e un elicottero Ka-27 o Ka-31.
Nuovo lancio del missile ipersonico imbarcato «Zircon»
Il 28 maggio, il ministero della Difesa russo ha divulgato un video del lancio di prova di un missile ipersonico antinave «Zircon» dalla fregata Admiral Gorshkov: il lancio ha avuto luogo nel Mar di Barents e, secondo fonti russe, l’ordigno ha colpito con successo un bersaglio situato nel Mar Bianco, a circa 1.000 km di distanza. L’evento fa parte della campagna di prove necessarie a verificare le capacità belliche della fregata. L’Admiral Gorshkov ha un dislocamento di 4.500 tonnellate e un’autonomia di 4.850 miglia a 14 nodi; la propulsione è affidata a un sistema CODAG formato da due motori diesel e altrettante turbine a gas, per una potenza massima di 49 MW. L’armamento missilistico comprende due impianti ottupli per il lancio verticale di missili antinave e da crociera («Kalibr», «Oniks» e «Zircon») e quattro impianti ottupli «Redut» per il lancio verticale di diversi modelli di missili antiaerei: l’armamento balistico è articolato su un cannone da 130 mm e due mitragliatrici da 14,5 mm, mentre la difesa di punto è affidata a due impianti «Palash». Da parte sua, il missile «Zircon» può raggiungere una velocità di Mach 5, possiede capacità di manovra in volo e può colpire bersagli navali e terrestri.
RUSSIA-UCRAINA
Fra le numerose informazioni, veritiere e di propaganda, che giungono dal teatro bellico russo-ucraino, una di esse, confermata, ha riguardato la nuova unità ausiliaria della Marina russa Vsevolod Bobrov, colpita il 12 maggio nei pressi dell’ormai famosa isola dei Serpenti da uno o più missili antinave lanciati da batterie costiere ucraine. Il Vsevolod Bobrov, dotata di rinforzi antighiaccio perché destinata a operare nell’Oceano Artico e di equipaggiamenti di supporto, è rientrato a Sebastopoli con danni a bordo e con gran parte dell’equipaggio tratto in salvo da altre unità in azione nella zona: l’unità risulta adesso impegnata in lavori di riparazione di entità sconosciuta. Appartenente alla classe «Elbrus/Project 23120», il Vsevolod Bobrov è entrato in servizio con la Flotta del Nord nel 2018, ed è stata successivamente ad alcun interventi migliorativi nel settore dei sistemi di navigazione e comunicazioni. Le sue caratteristiche le premettono di svolgere diverse funzioni, prima fra tutto il trasporto e il trasferimento di materiali solidi e la partecipazione a operazioni di ricerca e soccorso: essa ha una lunghezza di 95 m, una larghezza di 22 m e un equipaggio di 27 persone, più
Immagine di repertorio della nave ausiliaria russa VSEVOLOD BOBROV,
verosimilmente danneggiata il 12 maggio da uno o più missili antinave ucraini nel corso di una missione presso l’Isola dei Serpenti, nel Mar Nero (TASS).
Il cacciatorpediniere lanciamissili FRANK E. PETERSEN (DDG 121), appartenente alla
classe «Arleigh Burke Flight-IIA» e ripreso poco prima della cerimonia di consegna all’US Navy, svoltasi il 14 maggio a Charleston (South Carolina) (US Navy).
altre 43 da ospitare in caso di bisogno. Le unità della classe sono state concepite per pattugliare le acque territoriali russe e la ZEE di Mosca nelle regioni artiche, ma l’andamento delle operazioni navali in Mar Nero ha indotto la Marina russa a trasferirla a Sebastopoli. E. Petersen (DDG 121), appartenente alla classe «Arleigh Burke Flight-IIA» e che porta il nome del defunto Lieutenant General dei Marines Frank Petersen jr. Alla cerimonia hanno partecipato anche Carlos Campbell, ex-assistente segretario al Commercio degli Stati Uniti (pilota navale e commilitone di Petersen), l’ammiraglio Mike Gilday (Chief of Naval Operations dell’US Navy) e il generale David Berger, attuale comandante del Corpo dei Marines. Petersen fu il primo afro-americano a diventare pilota del Corpo dei Marines e a essere promosso generale a tre stelle. Scomparso nell’agosto 2015, all’età di 83 anni, Petersen aveva partecipato alla guerra di Corea e al conflitto vietnamita, prendendo parte a 350 missioni di guerra e volando oltre 4.000 ore su vari modelli di velivoli da caccia e d’attacco.
… e del sottomarino Oregon
La cerimonia dell’ingresso in servizio nell’US Navy del sottomarino nucleare d’attacco Oregon (SSN 793), secondo esemplare appartenente della classe «Virginia Block IV», si è svolta il 28 maggio nella base navale di New London, nel Connecticut. Il battello ha una lunghezza di 114,6 m, una larghezza di 10,3 m, può operare a una quota superiore ai 250 metri e a una velocità massima di 25 nodi, prestazione questa naturalmente raggiunta soltanto in determinate condizioni tattiche. L’equipaggio comprende 140 uomini e donne. I battelli della classe «Virginia Block IV» si distinguono dai Blocks precedenti perché caratterizzati da accorgimenti progettuali finalizzati a ridurre i costi gestionali delle unità lungo tutto il loro ciclo di servizio: l’introduzione di alcune limitate modifiche progettuali relative alla componentistica permette all’US Navy di aumentare i periodi di disponibilità dei «Virginia Block IV» fra due consecutivi periodi di sosta per lavori, aumentandone di conseguenza il numero di dispiegamenti operativi. Il sottomarino Oregon è la terza unità dell’US Navy a portare il nome di questo Stato; la prima fu un brigantino in servizio nel periodo 1841-45, mentre la seconda fu una corazzata classe «Indiana», in linea nel 1896 e ritirata dal servizio nel 1919.
Frank E. Petersen
Con una cerimonia presieduta dal segretario dell’US Navy Carlos Del Toro e svoltasi il 14 maggio a Charleston (South Carolina), l’US Navy ha immesso in servizio il cacciatorpediniere lanciamissili Frank
Il lancio di un missile AGM-114L «Longbow Hellfire» dal «Surface-To-Surface Missile Module, SSMM» in dotazione alla littoral combat ship MONTGOMERY
(US Navy).
Immagine al computer del futuro sottomarino nucleare lanciamissili balistici : i 12 battelli che formeranno la classe saranno equipaggiato con i missili balistici «Trident D5LE», attualmente in produzione (US Navy).
L’US Navy ha completato con successo un’esercitazione di lancio di missili land-attack lanciati da una littoral combat ship, LCS, durante un evento svoltosi il 12 maggio. L’unità impegnata è stato il Montogomery, appartenente alla variante «Independence» e armato con missili AGM-114L «Longbow Hellfire»; tre di tali ordigni — parte del «Surface-to-Surface Mission Module, SSMM» — sono stati lanciati contro un bersaglio situato a terra, a una distanza imprecisata. Impiegati in entrambe le varianti di LCS sin dal 2019, i missili «Longbow Hellfire» hanno dimostrato di essere capaci di neutralizzare rapidamente un attacco a sciame condotto da numerose unità sottili veloci, mentre ogni modulo SSMM ha una capacità 24 missili. In servizio dal 1988 per l’impiego da elicotteri d’attacco dell’US Army contro mezzi corazzati, il «Longbow Hellfire» ha dimostrato la sua efficacia nel tempo ed è stato adottato anche dalle altre Forze armate statunitensi.
Impostazione del Columbia
La cerimonia d’impostazione del sottomarino nucleare lanciamissili balistici Columbia, eponimo di una classe destinata a sostituire gradualmente gli «Ohio», ha avuto luogo il 4 giugno nel cantiere di Quonset Point, Rhode Island, della società General Dynamics
Electric Boat, GDEB. Questo stabilimento produrrà il compartimento in cui sono installati i silos per i missili balistici e altre componenti del battello, il cui assemblaggio finale avverrà nel cantiere di Groton, nel Connecticut, anch’esso di proprietà della Electric Boat. Nel costruzione del Columbia e delle altre unità della classe è coinvolta anche la società Newport News Shipbuilding del gruppo Huntington Ingalls Industries, che negli stabilimenti d Newport News, in Virginia, produrrà il 22% del battello, comprese le sezioni prodiera e poppiera. Nel settembre 2017, la GDEB ha firmato un contratto di 5,1 miliardi di dollari per completare il progetto dell’unità capoclasse, a cui si è aggiunto nel novembre 2020 un altro contratto da 9,5 miliardi per la costruzione e le prove del Columbia e per iniziare la produzione del secondo battello, battezzato Wisconsin. La US Navy ha assegnato i distintivi ottici da SSBN 826 a 837 per identificare i 12 battelli che formeranno questa classe di nuovi sottomarini nucleari lanciamissili balistici. Fra le novità del progetto «Columbia», sono da menzionare le superfici di governo poppiere a «X», un propulsore water-jet ad azionamento elettrico facente parte di un sistema integrato di produzione e distribuzione di energia elettrica, una falsatorre dotata di sei sollevamenti elettrici e una suite elettroacustica di cui fa parte un sensore prodiero di grandi dimensioni: i nuovi battelli saranno equipaggiato con i missili balistici «Trident D5LE», attualmente in produzione. La costruzione del Columbia è iniziata nel 2017 e la consegna è prevista nel 2027: il primo pattugliamento strategico è programmato per il 2031, mentre la sostituzione completa degli «Ohio» dovrebbe concludersi entro il 2039.
TURCHIA Varo del secondo sottomarino classe «Reis/ Type 214»
Alla presenza del presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan, il 23 maggio si è svolta nell’Arsenale della Marina turca di Golcuk, la cerimonia del varo tecnico del sottomarino Hizir Reis (seconda unità della
Il varo tecnico del sottomarino turco HIZIR REIS (seconda unità della classe «Reis»), av-
venuto il 23 maggio nell’Arsenale della Marina di Golcuk; nell’occasione, ha avuto luogo
anche il taglio della prima lamiera del SELMAN REIS, sesto esemplare di una classe di
unità di progetto tedesco (Turkish MoD).
classe «Reis») e il taglio della prima lamiera del sesto battello, Selman Reis. Nel suo intervento, Erdogan ha dichiarato che la Marina turca ha in programma l’ingresso in linea di un sottomarino classe «Reis» a cadenza annuale, in modo da completare il programma entro il 2027: in particolare, si prevede che l’unità capoclasse — Piri Reis — entri in servizio quest’anno, seguita dal Hizir Reis nel 2023, dal Murat Reis nel 2024, dal Aydin Reis nel 2025, dal Seydi Ali Reis nel 2026, e dal Selman Reis nel 2027. I battelli classe «Reis» sono il risultato di un contratto siglato nel 2009 fra l’organizzazione governativa industriale militare turca (SSB) e la società tedesca Thyssen Krupp Marine Systems, per la costruzione di unità dotato di impianto AIP ma realizzate secondo requisiti e specifiche della Marina turca introdotte nel progetto originale «Type 214». Durante la cerimonia, Erdogan ha inoltre annunciato l’esistenza di un nuovo progetto per sottomarini destinati alla Marina turca, secondo il programma noto come MILDEN (MILli DENnizalti): al momento non si hanno dettagli del programma, ma è possibile ipotizzare che il progetto venga sviluppato in Turchia facendo tesoro delle esperienze maturate con i battelli di origine tedesca e che esso sarà verosimilmente dotato di impianto AIP. Michele Cosentino
SCIENZA E TECNICA
I grandi tecnici della Marina Militare: l’ingegner Cesare Laurenti - 2a Parte
In superficie i motori diesel, oltre ad assicurare la propulsione, trascinavano i 2 motori pneumatici, che fungevano da compressori per ricaricare le bombole di aria compressa. L’impianto del Proposto fu sperimentato dalla Regia Marina su di una unità di superficie, la cisterna Acheronte, fornendo risultati molto inferiori alle aspettative in termini di autonomia sulle bombole; questi risultati e la complessità del progetto, in particolare per l’alimentazione del motore diesel con l’aria di scarico dal motore pneumatico e per l’espulsione dei gas di scarico in immersione, portarono all’abbandono di questo primo progetto italiano di propulsione unica per sommergibili.
Dal progetto del Foca Laurenti derivò quello della classe «Medusa», con una più convenzionale propulsione su 2 assi, progetto che ebbe un discreto successo commerciale: fra il 1912 e il 1913 ne furono costruiti otto esemplari per la Marina italiana (Medusa, Velella, Arco, Salpa, Fisalia, Jantina, Zoea, Jalea); ne ordinarono uno ciascuno la Marina portoghese (NRP Espadarte) e quella russa (Svyatoyi Georgiy, poi requisito dalla Regia Marina e rinominato Argonauta), mentre la Gran Bretagna ne acquistò la licenza di produzione e realizzò, presso il Cantiere Scott, 3 unità classe «S» (S1, S2, S3) che nel 1915, quando Italia e Gran Bretagna erano paesi alleati nella Prima guerra mondiale, furono trasferiti alla Regia Marina italiana. L’autorevole Jane’s Fighting Ships del 1918 cita un sommergibile di questo tipo, ordinato dalla Marina rumena, impostato nel 1915 al Muggiano e poi requisito dalla Regia Marina italiana che l’avrebbe chiamato Scylla; di tale sommergibile però non vi è alcuna altra traccia, in particolare sul sito ufficiale della Marina Militare, per cui l’autore è portato a ritenere che, per una volta, il Jane’s si sia sbagliato.
La classe «Medusa» rappresentano il primo esperimento di produzione in serie di sommergibili per la Marina italiana da parte di cantieri nazionali. La loro costruzione, con la consulenza della Regia Marina, venne affidata nel 1910 alla Fiat-S.Giorgio della Spezia che passò la subfornitura ai Cantieri Orlando di Livorno e ai Cantieri Navali Riuniti di Genova, filiale del Muggiano, per quattro di essi. Su questi battelli vennero adottati per la prima volta, invece dei motori a benzina,
A sinistra la prima pagina della richiesta di brevetto depositata da Cesare Laurenti negli Stati Uniti nel 1907, relativa al concetto di sommergibile tipo Laurenti, con doppio scafo e intercapedine superiore per aumentare la riserva di galleggiabilità in superficie; il brevetto fu convesso nel 1911 con il numero US985911; al centro la seconda pagina della richiesta di brevetto depositata da Cesare Laurenti negli Stati Uniti nel 1907, relativa al concetto di sommergibile tipo Laurenti; a destra la terza pagina della richiesta di brevetto depositata da Cesare Laurenti negli Stati Uniti nel 1907, relativa al concetto di sommergibile tipo Laurenti (patents.google.com/?inventor=Cesare+Laurenti).
L’ariete torpediniere PUGLIA, costruito nell’Arsenale di Taranto tra il 1893
ed il 1901, alla direzione della cui costruzione fu destinato il giovane ingegnere Cesare Laurenti nel 1895-98; la nave è ripresa a Brisbane in Australia nel 1901, in occasione della prima campagna all’estero dopo la consegna (wikipedia.org).
Il GLAUCO, eponimo di una classe di 5 unità, fu il primo sommergibile costruito in Italia dopo il DELFINO; fu progettato da Cesare Laurenti quando
era capitano (GN) e realizzato tra il 1903 e il 1905 nell’arsenale di Venezia (www.associazione-venus.it, collezione Giuseppe Celeste).
Il sommergibile svedese HVALEN (del tipo «Foca» progettato da Cesare Laurenti) ripreso nel 1915 con la nave SKÄGGALD (ex cannoniera trasfor-
mata nel 1913 in nave appoggio sommergibili) (foto d’epoca, wikipedia.org).
motori diesel, i quali imposero lunghe e laboriose prove preliminari, dense di incidenti, che furono causa di notevole ritardo nella consegna delle unità alla Marina. La struttura dello scafo di questi battelli era del tipo a doppio involucro, con le ossature comprese fra i due fasciami, entrambi capaci di sostenere la pressione esterna. Come nel tipo «Glauco», lo scafo esterno era profilato per dare al sommergibile buone qualità nautiche in superficie; i doppi fondi, le casse assetto, i depositi combustibile e le casse compenso erano tutte ricavate nell’intercapedine fra i due scafi. Questi sommergibili dimostrarono di possedere ottime caratteristiche per la navigazione in immersione; avevano particolarmente eccellenti la manovrabilità e la stabilità in quota. Con questi sommergibili finì per la Regia Marina il periodo sperimentale, e iniziò con le successive costruzioni, a disporre di unità bellicamente valide, che costituirono l’ossatura della componente subacquea italiana in Adriatico durante il periodo iniziale della Prima guerra mondiale. Laurenti realizzò anche un bacino galleggiante tubolare per prova sommergibili, in grado di contenere unità subacquee anche di 300 t di dislocamento. Il bacino venne realizzato nel cantiere di Riva Trigoso e varato nel 1911. Il sommergibile vi si inseriva, quindi il bacino veniva messo in pressione fino a raggiungere il valore della pressione idrostatica corrispondente alla quota massima di esercizio. In questo modo il sommergibile veniva sottoposto alla verifica della robustezza senza dover essere portato fisicamente alla quota massima. L’equipaggio, se ne era necessaria la presenza a bordo, poteva stazionare nel sommergibile in costante comunicazione con la centrale di controllo dove veniva regolata la pressione, potendo in caso di emergenza richiedere l’immediata depressurizzazione del bacino, riducendo quindi gli elevati rischi legati alle prove di quota massima tradizionali. Il bacino, che venne realizzato e impiegato presso il cantiere del Muggiano, poteva anche essere utilizzato per tradizionali lavori di carenaggio, aprendolo superiormente. Il progetto di massima di tale bacino venne brevettato negli Stati Uniti (brevetto US998970 richiesto nel 1910 e concesso nel 1911).
Progetto preliminare Laurenti-Del Proposto 1910 per un sommergibile a elevata velocità subacquea
dotato di motore unico pneumatico a combustione (foto d’epoca, dalla Rivista Marittima, 1986).
Il motore diesel Fiat 2C 116 di potenza 300 CV montato sul sommergibile MEDUSA (foto d’epoca, da
internet, pagina Facebook centro storico Fiat). Prima pagina della richiesta di brevetto depositata da Cesare Laurenti negli Stati Uniti nel 1910, relativa al concetto di bacino galleggiante tubolare impiegabile, oltre che per carenamento, anche per prove di pressatura di sommergibili; il brevetto fu concesso nel 1911 con il numero US998970 (patents.google.com/?inventor=Cesare+Laurenti).
Prima pagina della richiesta di brevetto depositata da Cesare Laurenti negli Stati Uniti nel 1910, che modifica e integra una precedente richiesta del 1907, relativa al concetto di sommergibile tipo Laurenti, con doppio scafo e intercapedine superiore per aumentare la riserva di galleggiabilità in superficie; il brevetto fu concesso nel 1913 con il numero US1059475 (patents.google.com/?inventor=Cesare+Laurenti).
Nel 1910 Laurenti depositò negli Stati Uniti tre richieste di brevetto, la prima già citata relativa al bacino galleggiante per prove di pressatura del sommergibile, la seconda (brevetto US1061088 concesso nel 1913) per un timone di profondità retrattile, il cui principio di funzionamento era basato sulla variazione della superficie esposta al flusso idrodinamico dell’acqua, e non sulla rotazione di una superficie permanentemente esposta a tale flusso, come nei timoni convenzionali. La terza richiesta (brevetto US1059475 concesso nel 1913) era relativa a un concetto di sommergibile basato sugli stessi principi del precedente brevetto depositato nel 1907 e concesso nel 1911, ma con alcune novità nella struttura.
Nel 1909, nell’ambito di un concorso indetto dalla US Navy, Laurenti progettò il Thrasher (poi riclassificato G4), costruito nel Cantiere Cramp & Sons nel 1910-14; l’apparato motore con 4 motori a benzina su 2 assi con-
Il varo del sommergibile USS G4 a Cramp Shipyards, Philadelphia il 15
agosto 1912 (archivio autore).
dizionò con le sue ripetute avarie la breve vita operativa dell’unità, radiata nel 1919.
Nel dicembre 1912 Cesare Laurenti partecipa al secondo convegno degli ingegneri navali alla Spezia, contribuendo in particolare alla discussione sullo spessore ottimale della protezione delle navi corazzate.
Nel 1912 la Marina tedesca si rivolse a Laurenti per la progettazione di un sommergibile di elevato dislocamento. Il battello, di circa 700 tonnellate, chiamato U42, fu impostato nel 1913 e varato nell’agosto 1915, quando ormai l’Italia era in guerra contro gli AustroTedeschi. Pertanto il mezzo fu requisito dalla Marina italiana e battezzato Balilla.
Il Cantiere Scott in Gran Bretagna costruì, nel 191316, su progetto Laurenti, un battello di squadra con propulsione a vapore, lo Swordfish, di dimensioni nettamente superiori alla precedente classe «S».
Lo scoppio della guerra incrementò la produzione dei sommergibili sia negli arsenali militari sia nei cantieri privati. Laurenti contribuì con la progettazione di nuovi modelli, fra cui quelli della classe «F», realizzati in 21 esemplari per la sola Regia Marina, considerati i migliori da lui realizzati. Il progetto dei sommergibili classe «F» era derivato da quello dei battelli classe Medusa, dei quali conservavano praticamente identiche dimensioni e le forme dello scafo. Essi rappresentano la massima espressione tecnico-creativa dell’Ing. Laurenti e furono indubbiamente la miglior classe di battelli italiani progettati prima dell’inizio della guerra: manovrieri, affidabili, facili da gestire e poco costosi, si rivelavano particolarmente adatti a manovrare in mari stretti come l’Adriatico. Avevano un limitata quota operativa, ma essendo destinati a operare in mari con bassi fondali, la cosa non era determinante.
Erano unità a doppio scafo; quello interno resistente aveva sezioni trasversali di forma variabile in funzione dei macchinari che dovevano essere alloggiati in questa zona, mentre lo scafo esterno aveva la forma delle torpediniere, per assicurare una buona tenuta al mare in navigazione in superficie. L’intercapedine tra lo scafo resistente e il piano di coperta poteva essere resa stagna mediante la chiusura di apposite serrande laterali: in questo modo il sommergibile acquisiva una riserva di spinta aggiuntiva, particolarmente utile durante la navigazione in superficie con mare agitato. C’erano quattro doppi fondi, ciascuno dotato di valvola di allagamento e valvola sfogo d’aria. Lo scafo era suddiviso per mezzo di paratie stagne (munite di doppia porta stagna) in tre compartimenti: compartimento prodiero con camera di lancio e alloggio ufficiali; compartimento centrale con camera di manovra, locale motori termici e locale motori termici di propulsione; compartimento poppiero con i locali batterie.
Furono costruiti 21 sommergibili classe «F» tra il 1915 e il 1918, presso i cantieri Fiat San Giorgio del Muggiano (La Spezia), Odero di Sestri Ponente (Genova) e Orlando di Livorno. Tre unità della classe «F»
La camera di manovra di un sommergibile classe «F» (archivio autore).
Il motore diesel Fiat di un sommergibile classe «F» (archivio autore).
(inizialmente classificate F22, F23 ed F24 e destinate alla Regia Marina italiana) furono costruite al Muggiano nel 1915-17 per la Marina spagnola, che le classificò A1, A2, A3.
Tre sommergibili di progetto molto simile alla classe «F» furono costruiti al Muggiano per il Portogallo e consegnati nel 1917 (classe «Foca», composta da Foca, Hydra e Golfinho).
La Marina brasiliana impostò la propria arma subacquea con i battelli tipo «F» (F1, F3 ed F5) costruiti al Muggiano nel 1913-14. Sempre nel cantiere del Muggiano venne anche realizzata, su progetto di Laurenti, la nave appoggio e salvataggio sommergibili Cearà, che, alla sua entrata in linea nel 1916, era la più avanzata unità del tipo esistente. Questa unità era dotata di un bacino interno circolare allagabile e pressurizzabile capace di accogliere un sommergibile avente lunghezza fino a 60 metri e larghezza fino a 7 metri, 2 grandi gru a poppa con portata complessiva di 400 tonnellate, per operazioni di salvataggio e recupero sommergibili, dinamo per ricaricare le batterie, compressori per ricaricare le bombole di aria compressa. Venne impiegata per supportare le operazioni dei sommergibili brasiliani in Europa sia durante la Prima che la Seconda guerra mondiale. Fino al termine della Seconda guerra mondiale tutti i sommergibili della Marina brasiliana vennero realizzati nel cantiere del Muggiano. Il progetto di massima della nave appoggio sommergibili venne brevettato negli Stati Uniti (brevetto US1113450 richiesto nel 1913 e concesso nel 1914).
Nel 1913 Laurenti depositò negli Stati Uniti tre richieste di brevetto, la prima già citata relativa alla nave appoggio sommergibili, la seconda (brevetto US1120392 concesso nel 1914) relativa alla sistemazione dei locali accumulatori con spazi chiusi adiacenti per ragioni di sicurezza, e la terza (brevetto US1179848 concesso nel 1916) relativa a un sistema di tubi lanciasiluri per sommergibili disposti trasversalmente, ma che potevano essere ruotati in posizione longitudinale per essere ricaricati.
Alla vigilia della Prima guerra mondiale nel cantiere Kockums di Karlskrona venne impostata per la Marina svedese la classe «Svàrdfisken» composta dall’unità capoclasse e dal Turnlaren; progettate da Laurenti, erano unità simili ai nostri «F». Infine, durante la guerra, sempre negli stessi cantieri fu realizzata la classe «Hajen», progettata sempre da Laurenti e composta da tre battelli: Hajen, Salen e Valrossen, sensibilmente più grandi rispetto ai precedenti.
Una unità classe «F» fu costruita al Muggiano per la Marina russa, e regolarmente consegnato alla Russia in quanto all’epoca era un paese alleato dell’Italia. All’unità venne assegnato lo stesso nome di Svyatoy Georgiy già assegnato all’unità classe «Medusa» requisita dalla Regia Marina e ribattezzata Argonauta.
Allorché, a guerra iniziata, fu evidente l’importanza di impiegare battelli appositamente attrezzati per posare campi minati in prossimità delle basi e dei porti nemici, allo scopo di rendere disponibili in tempi brevi alcune unità subacquee per questo compito, Laurenti elaborò il progetto della trasformazione di alcuni sommergibili classe «Medusa» per renderli idonei al trasporto e alla posa di mine; tale progetto non fu poi realizzato.
Cesare Laurenti nel giugno 1913 al Muggiano in occasione del varo del sommergibile brasiliano F1 (archivio autore).
Nel 1915 Laurenti depositò negli Stati Uniti tre richieste di brevetto, la prima (brevetto US1219115 concesso nel 1917) relativa a serbatoi per il combustibile liquido fittamente compartimentati, che per assicurare la costanza dei pesi e della relativa posizione a bordo venivano riempiti di acqua di mare man mano che il combustibile era consumato. La seconda (brevetto 1161484 concesso nello stesso anno 1915) relativa all’impiego di eiettori (ad aria o ad acqua) per accelerare il deflusso dell’aria dalle casse d’immersione riducendo così la durata della fase di allagamento delle casse stesse e rendendo più rapida l’immersione. La terza (brevetto US1192537 concesso nel 1916) relativa all’impiego di valvole a flap con comando a distanza plurimo (capace cioè di aprire o chiudere numerose valvole contemporaneamente) come valvole di allagamento, in particolare per allagare rapidamente la camera superiore dei sommergibili tipo «Laurenti», che, ricordiamo, in superficie doveva essere stagna per fornire riserva di spinta.
Durante la Grande guerra Laurenti progettò per la Marina russa un tipo di sommergibile di elevato dislocamento (classe «V», 960 tonnellate in superficie e 1180 in immersione) da costruirsi nel cantiere Russud di Nikolaev sul Mar Nero. Si trattava di un’unità dotata di un armamento formidabile, costituito da 16 tubi lanciasiluri da 450 mm, 2 cannoni da 76 mm e 20 mine, propulsi da un apparato motore diesel elettrico concepito dall’ingegner del Proposto. Il contratto per la costruzione di 7 unita venne firmato nel 1916, e i battelli erano in costruzione durante la rivoluzione di ottobre del 1917 e vennero tutti demoliti sullo scalo.
Durante la guerra, su ordine della Marina, Laurenti progettò battelli di dislocamento più elevato, la classe «Pacinotti» (Pacinotti e Guglielmotti) e la classe «Barbarigo» (Barbarigo, Provana, Veniero, Nani), ultimati a guerra ormai terminata.
I «Pacinotti» rappresentarono il primo esperimento nel campo delle unità subacquee di medio dislocamento, anche dette di media crociera. La Regia Marina passò l’ordinazione di due esemplari nel 1913 quando la Marina Imperiale Germanica aveva già in costruzione un’unità dello stesso tipo presso i Cantieri della Spezia (che diventerà il sommergibile Balilla).
Lo scafo dei «Barbarigo», pur di dimensioni alquanto maggiori, riprende le forme esterne, la sistemazione centrale dei doppi fondi e quella dei depositi combustibili dei sommergibili classe «F». L’innovazione più importante fu apportata alla sistemazione degli accumulatori che vennero allogati in quattro compartimenti stagni al disotto di un ponte orizzontale che interessava buona parte del sommergibile escluse le due camere di lancio. La potenza dei motori sia a combustione sia elettrici installati su questi sommergibili fu piuttosto elevata; in tal modo i battelli di questo tipo poterono sviluppare una buona velocità tanto in superficie quanto in immersione. Pur essendo veloci e manovrieri sia in superficie sia in immersione, la forma dello scafo di questi battelli non era atta a sopportare forti pressioni, specialmente nelle parti affinate; la profondità massima raggiungibile fu pertanto limitata a valori che già nel corso del primo conflitto mondiale si erano dimostrati insufficienti. La sezione centrale del sommergibile Andrea Provana, della classe «Barbarigo», è esposta nel parco del Valentino a Torino, città nella quale la sezione fu portata, dopo la radiazione dell’unità, nel 1928 in occasione dell’esposizione universale, per essere acquistata nel 1933 dalla locale sezione dell’ANMI (Associazione Nazionale Marinai d’Italia).
Di caratteristiche simili ai «Pacinotti» furono i battelli del tipo «F» della Marina Imperiale Giapponese (da non confondere con la classe «F» italiana), progettati da Laurenti e costruiti su licenza dal Cantiere Kawasaki di Kobe tra il 1917 e il 1922: 5 sommergibili divisi in due sottoclassi, 2 («RO-1» e «RO-2») impostati nel 1917 e 3 («RO-3», «RO-4» e «RO-5») impostati nel 1919. Furono i primi sommergibili giapponesi di medio dislocamento.
Il sommergibile BARBARIGO il 18 novembre 1917 dopo il varo nel cantiere
Fiat San Giorgio del Muggiano (fdal Notiziario della Marina, 1998).
Nel progetto dei «Barbarigo» l’ingegner Laurenti fu coadiuvato, in particolare per la sistemazione degli accumulatori, dal maggiore del Genio Navale Virginio (Gino) Cavallini (7), che già aveva collaborato ad altri progetti di Laurenti, e che realizzerà poi una serie di progetti di sommergibili di successo, così come un altro ufficiale del Genio Navale, Curio Bernardis (8); i sommergibili tipo Cavallini e tipo Bernardis erano profondamente differenti dai tipo Laurenti (con l’eccezione della classe «Pietro Micca», progettata da Cavallini, ma basata sulla tipologia costruttiva dei sommergibili a doppio scafo di Laurenti, costruiti in 6 esemplari nel 191519 presso l’Arsenale della Spezia), e accettavano limitazioni in altri settori per poter conseguire quote operative superiori, dell’ordine dei 100 metri. Infatti quando la Regia Marina ordinò la costruzione delle prime unità subacquee del dopoguerra, nuovi concetti si erano affermati nel campo costruttivo e l’idea della torpedinierasommergibile, che aveva resistito per più di vent’anni e le cui migliori realizzazioni sono stati i battelli progettati da Laurenti, venne definitivamente abbandonata.
Nel 1916 Laurenti presento negli Stati Uniti una richiesta di brevetto (US1209729 concesso nello stesso 1916) relativa a un meccanismo da applicare a un tubo lanciasiluri per consentire di modificare i settaggi del siluro dall’interno del sommergibile, senza necessità di aprire il tubo; questo meccanismo inoltre consente di caricare nello stesso tubo siluri di lunghezza diversa.
Nel 1917 Laurenti presento negli Stati Uniti una richiesta di brevetto (US1234915 concesso nello stesso 1917) di un sistema di chiusura semiautomatico delle serrande di ventilazione di un sommergibile, capace di assicurare la chiusura automatica delle stesse nel caso il battello, per qualche motivo, si immerga senza che le serrande stesse siano state preventivamente chiuse manualmente. Si tratta dell’ultimo brevetto di Cesare Laurenti reperito dall’autore.
Non ci sono notizie sull’attività di Laurenti dopo il 1917, fino alla morte avvenuta a Roma il 29 marzo 1921, quando Laurenti aveva 55 anni. Risulta che nel 1919 fu nominato membro onorario della neonata Società Lunigianese per la Storia Naturale della regione, poi divenuta Accademia Cappellini. Cesare Laurenti fu sepolto a Civitavecchia; gli è ancora oggi dedicata una scuola elementare inaugurata nel 1928 a Civitavecchia. Un suo mezzobusto, in marmo, è sistemato nell’ala sinistra esterna del Civico Ospedale della Spezia, a ricordo della sua munifica donazione all’ente di ben 30.000 lire, nel 1919.
Claudio Boccalatte
I SOMMERGIBILI TIPO LAURENTI
I battelli di Laurenti privilegiavano talune caratteristiche come la sicurezza, l’abitabilità interna, la tenuta al mare e in generale la navigabilità in superficie, a scapito della quota operativa. In sostanza i battelli di Laurenti, adottando sezioni di forma diversa da quella circolare, ottimale per resistere alla pressione esterna, non potevano operare a profondità superiori ai 30-40 metri, ma questo non era considerato un difetto in quanto all’inizio del secolo, non esistendo apparecchiature per individuare i battelli in immersione, era sufficiente che essi scomparissero dalla superficie per non essere individuati e che si portassero a una quota di sicurezza per evitare lo speronamento accidentale da parte delle navi di superficie.
I battelli concepiti da Laurenti, a parità di dislocamento, risultavano di prestazioni, in superficie, superiori rispetto a quelli di altri progettisti che adottavano scafi resistenti a sezione circolare. Il Laurenti, non avendo il vincolo fissato dalla forma dell’involucro, poteva installare macchinari e impianti anche voluminosi e complessi senza penalizzare eccessivamente le dimensioni globali del battello.
Laurenti ideò pure un sistema originale per aumentare la riserva di spinta in emersione, così che il sommergibile potesse assumere appieno l’assetto di una veloce torpediniera di superficie di alto bordo libero, con buone qualità nautiche anche in mare agitato. Predispose una intercapedine opportunamente diaframmata al di sopra dello scafo resistente, in modo tale da formare un ponte di coperta abbastanza alto sul livello mare. Lo spazio racchiuso da questa intercapedine era reso a libera circolazione in assetto immerso oppure stagno durante la navigazione in superficie, aprendo o chiudendo opportunamente sfoghi d’aria e valvole di allagamento. Con questo sistema la riserva di spinta assicurata dall’acqua di zavorra nei doppi fondi era pari al 35÷40% del dislocamento dosato, mentre si arrivava al 60% contando, solamente in superficie, il volume aggiunto dall’intercapedine resa stagna.
Altre caratteristiche dei battelli tipo Laurenti che dimostrano la sua elevatissima attenzione alla sicurezza erano la presenza di zavorra distaccabile, che in caso di emergenza poteva essere sganciata dall’interno alleggerendo significativamente l’unità, l’elevata compartimentazione stagna trasversale interna (normalmente 6 paratie che dividevano il battello in 7 compartimenti stagni) e la presenza di appositi «maniglioni» per il sollevamento del battello mediante le gru di un battello di salvataggio, in caso il battello stesso fosse posato sul fondo in avaria.
CARATTERISTICHE DEI PRINCIPALI SOMMERGIBILI PROGETTATI DA CESARE LAURENTI
Delfino (dopo i lavori di trasformazione):
Cantiere: Regio Arsenale di Spezia. Impostazione: 1890; varo: 1895; in servizio: 01/04/1895; trasformazione: 1902-04. Dislocamento: in superficie: 103,3 t; in immersione: 113,3 t. Dimensioni: lunghezza: 24,4 m (f.t.); larghezza: 2,9 m; immersione: 2, 78 m. Apparato motore: di superficie 1 motore a benzina Fiat, potenza 130 hp (95,7 kW); subacqueo 1 motore elettrico di propulsione Savigliano, potenza 65,2 hp (46 kW) -1 elica. Velocità: max in superficie 10 nodi; max in immersione 6 nodi. Autonomia: in superficie 165 miglia a 6 nodi; in immersione 24 miglia a 2 nodi. Armamento: 1 tls AV da 450 mm; 2 siluri tipo A 60/450x3,70. Profondità di sicurezza: 32 m. Equipaggio: 1 ufficiale; 7 tra sottufficiali e marinai.
Classe «Glauco» (5 unità):
Cantiere: Regio Arsenale di Venezia. Unità capoclasse Glauco: impostazione: 01/08/1903; varo: 09/07/1905; in servizio: 15/12/1905; radiazione: 01/09/1916. Dislocamento: in superficie: 160 t; in immersione: 244 t. Dimensioni: lunghezza: 36,85 m; larghezza: 4,32 m; immersione: 2,50 m. Apparato motore: di superficie 4 motori a scoppio tipo Fiat; potenza 600 hp (441,6 kW); apparato motore subacqueo 2 motori elettrici di propulsione Savigliano; potenza 170 hp (125,1 kW) - 2 eliche. Velocità: max in superficie 13 nodi; max in immersione 6,2 nodi. Autonomia: in superficie 150 miglia a 13 nodi; 225 miglia a 10 nodi; in immersione 18,6 miglia a 6,2 nodi; 81 miglia alla velocità di 3,5 nodi. Armamento: 3 tls AV da 450 mm, 2 siluri tipo A 68/450x4,64. Profondità di sicurezza: 25 m. Equipaggio: 2 ufficiali; 13 tra sottufficiali e marinai.
Foca (unità singola):
Cantiere: Fiat - San Giorgio, Muggiano (Spezia). Impostazione: 04/1907; varo: 08/09/1908; in servizio: 15/12/1909; radiazione: 16/09/1918. Dislocamento: in superficie: 185 t; in immersione: 280 t. Dimensioni: lunghezza: 42.5 m; larghezza: 4,3 m; immersione: 2,58 m. Apparato motore: di superficie (iniziale) 6 motori a scoppio tipo Fiat; di superficie (dal 1910) 4 motori a scoppio tipo Fiat; potenza (iniziale) 600 hp (441,6 kW); potenza (dal 1910) 600 hp (441,6 kW); subacqueo 2 motori elettrici di propulsione Siemens; potenza 160 hp (117,8 kW); 2 eliche dal 1910 (iniziale 3 eliche). Velocità: max in superficie 12.8 nodi; max in immersione 6,5 nodi. Autonomia: in superficie 190 miglia a 12,5 nodi; 350 miglia a 10. Nodi: in immersione 12 miglia a 6,0 nodi; 45 miglia alla velocità di 4,0 nodi. Armamento: 3 tls AV da 450 mm; 2 siluri tipo A 68/450x4,64. Profondità di sicurezza: 35 m.
HSwMS Hvalen (Svezia) unità singola simile al Foca: Cantiere: Fiat - San Giorgio, Muggiano (Spezia) Varo:16 febbraio 1909; consegna 1909; radiazione 1919. Dislocamento: 190 t in superficie; 230 t in immersion. Dimensioni: lunghezza 42.4 m; larghezza 4.3 m; immersione 2.7 m. Propulsione: 3 motori a benzina; 750 hp (560 kW); 1 motore elettrico; 150 hp (110 kW). Velocità: 14.8 nodi in superficie; 6.3 nodi in immersione. Profondità di sicurezza 30 m. Equipaggio: 17 persone. Armamento: 2 tubi lanciasiluri da 457 mm.
HDMS Dykkeren (Danimarca) unità singola: Cantiere: Fiat - San Giorgio, Muggiano (Spezia). Impostazione: 18/07/1909; consegna: 29/09/1909; radiazione: 13/06/1917.
Dislocamento in superficie 105 t, in immersione 132 t. Dimensioni: lunghezza 34.65 m; larghezza 3.5 m, immersione 2.2 m. Apparato motore solo elettrico. Velocità: 12 nodi in superficie; 7.5 nodi in immersione. Autonomia: circa 100 miglia. Equipaggio: 12 persone. Armamento: 2 tubi lanciasiluri.
Classe «Medusa» (8 unità):
Cantiere: Fiat-San Giorgio, (Muggiano) Spezia. Unità capoclasse Medusa: impostazione: 25/05/1910; varo: 30/07/1911; in servizio: 01/06/1912; affondato: 10/06/1915; radiazione: 10/06/1915. Dislocamento: in superficie: 250 t; in immersione: 305 t. Dimensioni: lunghezza: 45,15 m; larghezza: 4,20 m; immersione: 3,00 m. Apparato motore: di superficie 2 motori diesel Fiat; potenza 650 hp (478,4 kW) - subacqueo 2 motori elettrici di propulsione Savigliano; potenza 300 hp (220,8 kW) - 2 eliche. Velocità: max in superficie 12,5 nodi; max in immersione 8,2 nodi. Autonomia: in superficie 670 miglia a 12 nodi, 1.200 miglia a 8 nodi; in immersione 24 miglia a 8 nodi; 54 miglia a 6 nodi. Armamento: 2 tls AV da 450 mm; 4 siluri da 450 mm. Profondità di sicurezza: 40 m. Equipaggio: 2 ufficiali; 19 tra sottufficiali e marinai.
NRP Espadarte (Portogallo) unità singola simile alla classe «Medusa»:
Cantiere: La Spezia Impostazione: 1910; varo 5/10/1912; consegna: 1913; radiazione: 1931. Dislocamento in superficie 249 t, in immersione 300 t. Dimensioni: lunghezza 45,1 m; larghezza 4,2 m; immersione max 3,0 m. Apparato motore: 2 assi; 2 motori diesel Fiat - 550 bhp (410 kW); 2 motori elettrici - 300 shp (220 kW). Velocità: 13,8 nodi in superficie. Autonomia: 1.5500 miglia a 8.5 nodi. Equipaggio: 21 persone. Armamento: 2 tubi lanciasiluri da 457 mm; 4 siluri.
U.S.S. Trasher (poi riclassificato G4) (Stati Uniti) unità singola: Cantiere Cramp & Sons, Philadelphia. Impostazione: 9/07/1910; varo 15/08/1912; consegna 22/01/1914; radiazione 1919. Dislocamento: 370 t in superficie; 464 t in immersione. Dimensioni: lunghezza 48,00 m; larghezza 5,33 m, immersione 3,33 m. Apparato motore diesel-elettrico:4 motori a benzina, 2 assi. Velocità massima: 15,5 nodi in superficie; 9,5 nodi in immersione. Autonomia: 1700 miglia a 8 nodi in superficie; 40 miglia a 5 nodi in immersione. Equipaggio: 23 persone. Armamento: 4 tubi lanciasiluri 450 mm, 2 a prora e 2 a poppa; 8 siluri.
Argonauta – unità singola- ordinato dalla Marina russa con il nome di Svyatoy Georgy e requisito dalla Regia Marina italiana allo
scoppio della Prima guerra mondiale, simile alla classe «Medusa».
Cantiere: Fiat - San Giorgio, Muggiano (Spezia). Impostazione: 11/03/1913; varo: 05/07/1914; in servizio: 18/12/1915; radiazione: 29/03/1928. Dislocamento: in superficie: 255 t; in immersione: 305 t. Dimensioni: lunghezza: 45,15 m; larghezza: 4,20 m; immersione: 3,05 m. Apparato motore: di superficie 2 motori diesel Fiat, potenza 700 hp (515 kW); subacqueo 2 motori elettrici di propulsione Siemens, potenza 450 hp (331 kW), 2 eliche. Velocità: max in superficie 14 nodi; max in immersione 9,9 nodi. Autonomia: in superficie 695 miglia a 13,5 nodi; 1.600 miglia a 9 nodi; in immersione 15,5 miglia a 9,0 nodi; 120 miglia a 3,0 nodi. Armamento: 2 tls AV da 450 mm; 4 siluri 450 mm. Profondità di sicurezza: 40 m. Equipaggio: 2 ufficiali; 12 tra sottufficiali e marinai.
S-class (Gran Bretagna), 3 unità simili alla classe «Medusa»:
Cantiere: Scotts Shipbuilding and Engineering Company, Greenock. Periodo di costruzione: 1912-15; trasferiti alla Regia Marina nell’ottobre 1915. Dislocamento: 265 tons in superficie; 324 tons in immersione. Dimensioni: lunghezza 45.1 m; larghezza 4.4 m; immersione 3.2 m. Propulsione: 2 assi, motori diesel Scott-Fiat a 6 cilindri, 650 hp , 2 motori elettrici, 400 hp. Velocità: 13 nodi in superficie, 8.5 nodi in immersione. Autonomia: 1,600 miglia a 8.5 nodi, in superficie. Equipaggio: 18 persone. Armamento: 2 tubi lanciasiluri da 450 mm; 4 siluri; 1 cannone; 12-pounder.
HMS Swordfish (Gran Bretagna) unità singola: Cantiere: Scotts Shipbuilding and Engineering Company, Greenock. Ordine: 1913; impostazione: 28/02/1914; varo: 18/03/1916; consegna: 28/04/1916; radiazione: 30/10/1918. Dislocamento: 947 t in superficie; 1,123 t in immersione. Dimensioni: lunghezza fuori tutto 70.49 m; larghezza 6.99 m; immersione 4.55 m. Apparato motore a vapore in superficie, elettrico in immersione; 2 assi; 2 turbine della potenza di 4,000 shp (3,000 KW); 1 caldaia; 2 motori elettrici della potenza di 1,400 bhp (1,000 KW). Velocità: 18 nodi in superficie; 10 nodi in immersione. Autonomia: 3,000 miglia a 8.5 nodi. Equipaggio: 18 persone. Armamento: 2 cannoni da 76 mm; 2 tubi lanciasiluri prodieri da 530 mm; 4 tubi lanciasiluri trasversali da 460 mm.
Classe «F»: 21 unità (da F1 a F21) per la Regia Marina italiana; 3 unità (A1-A3) per la Marina spagnola; 3 unità (classe «Foca») per
la Marina portoghese; una unità (Svyatoy Georgiy) per la Marina russa. Cantieri: 16 unità Odero di Sestri Ponente (GE) e 5 unità Orlando di Livorno. Impostazione: 27/05/1915; varo: 02/04/1916; in servizio: 20/10/1916; radiazione: 02/06/1930. Dislocamento: in superficie 259,7 t; in immersione 320 t. Dimensioni: lunghezza 45,63 m; larghezza 4,22 m; immersione: 2,62 m. Apparato motore: di superficie 2 motori diesel Fiat mod.2C 216, potenza 650 hp (478,4 KW); subacqueo 2 motori elettrici di propulsione Savigliano, potenza 500 hp (368,0 KW); 2 eliche. Velocità: max in superficie 12,3 nodi; max in immersione 8 nodi. Autonomia: in superficie 912 miglia a 12 nodi; 1.300 miglia a 9,3 nodi; in immersione 8 miglia a 8 nodi; 139 miglia a 1,5 nodi. Armamento: 2 tls AV da 450 mm, 4 siluri da 450 mm; 1 cannone antiaereo da 76/30; 1 mitragliatrice Colt da 65 mm. Profondità di sicurezza: 40 m. Equipaggio: 2 ufficiali; 24 tra sottufficiali e marinai.
Classe «Svàrdfisken»; 2 unità (Sveirdfisken e Turnlaren), simili alla classe «F», per la Marina svedese. Costruzione cantiere Kockum di Malmo, 1914. Dimensioni: lunghezza 44,6 m; larghezza 4,2 m; immersione 3,17 m. Dislocamento: in superficie 250 t. Armamento: 2 tubi lanciasiluri prodieri da 450 mm.
Classe «Hajen», 3 unità (Hajen, Salen e Valrossen) per la Marina svedese. Costruzione cantiere Kockum di Malmo, 1917-18. Dimensioni: lunghezza 52,1 m; larghezza 5,1 m; immersione 3,5 m. Dislocamento: in superficie 386 t. Apparato motore diesel 2800 HP + motore elettrico. Velocità: 15 nodi in superficie; 9 nodi in immersione. Armamento: 4 tubi lanciasiluri da 457 mm; 1 cannoncino antiaereo da 57 mm.
Nave appoggio sommergibili Cearà, Marina del Brasile. Cantiere: Fiat, San Giorgio, Muggiano (Spezia). Consegnata nel 1916. Dislocamento: 4100 t, 5200 t a pieno carico; 6460 t con sommergibile nel bacino in pressione. Dimensioni: lunghezza 90 m; larghezza 12 m; immersione 4.30 m. Propulsione: 2 assi; 2 motori diesel a 2 tempi 6 cilindri Fiat, 4600 hp.
Velocità massima: 14 nodi. Autonomia: 4000 miglia a 10 nodi. Equipaggio: 180 persone. Armamento: 2 x 102 mm; 2 x 20 mm AA.
Balilla unità singola; ordinato nel 1913 dalla Marina tedesca, requisito nel 1915 e consegnato alla Regia Marina. Cantiere: Fiat, San Giorgio, Muggiano (Spezia). Impostazione: 18/03/1913; varo 08/08/1915; in servizio 08/08/1915. Dislocamento: in superficie 728 t; in immersione 875 t. Dimensioni: lunghezza 65 m; larghezza 6,05 m; immersione 4,17 m. Apparato motore: di superficie 2 motori diesel tipo Fiat, potenza 2.600 hp (1.913,6 KW); subacqueo 2 motori elettrici di propulsione Siemens, potenza 900 hp (662,4 KW), 2 eliche. Velocità: max in superficie 14,8 nodi; max in immersione 9 nodi. Autonomia: in superficie 3.500 miglia a 10 nodi; in immersione 85 miglia a 3 nodi. Armamento: 2 tls AV da 450 mm; 2 tls AD da 450 mm; 4 siluri 450 mm; 2 cannoni da 76/30 mm.
Classe «Pacinotti», 2 unità (Antonio Pacinotti e Alberto Guglielmotti) Cantiere: Fiat, San Giorgio, Muggiano (Spezia). Unità capoclasse Pacinotti: impostazione 07/06/1914; varo 13/03/1916; in servizio 07/12/1916; radiazione 15/05/1921. Dislocamento: in superficie 710 t; in immersione 869 t. Dimensioni: lunghezza 65 m; larghezza 6,05 m; immersione 4,12 m. Apparato motore: di superficie 2 motori diesel Fiat, potenza 2.000 hp (1472 KW); subacqueo 2 motori elettrici di propulsione Savigliano; potenza 900 hp (662,4 kW), 2 eliche. Velocità: max in superficie 14,6 nodi; max in immersione 9 nodi. Autonomia: in superficie 1.600 miglia a 14,5 nodi; 3.500 miglia a 10 nodi in immersione 12 miglia a 9 nodi; 90 miglia a 3 nodi. Armamento: 3 tls AV da 450 mm; 2 tls AD da 450 mm; 5 siluri da 450 mm; 2 cannoni antiaerei da 76/30 mm. Profondità di sicurezza: 38 m. Equipaggio: 4 ufficiali; 35 tra sottufficiali e marinai.
Classe «Barbarigo», 4 unità (Barbarigo, Provana, Veniero e Nani)
Cantiere: Fiat, San Giorgio, Spezia. Unità capoclasse Barbarigo: impostazione 22/10/1915; varo 18/11/1917; in servizio 10/09/1918; radiazione 01/05/1928. Dislocamento: in superficie 796,6 t; in immersione: 926,5 t. Dimensioni: lunghezza 67 m; larghezza 5,90 m; immersione 3,81 m. Apparato motore: di superficie 2 motori diesel Fiat, potenza 2.600 hp (1.913,6 KW); subacqueo 2 motori elettrici di propulsione Ansaldo, potenza 1.300 hp (956,8 KW), 2 eliche. Velocità: max in superficie 16,8 nodi; max in immersione 9,3 nodi. Autonomia: in superficie 690 miglia a 16,8 nodi; 1.850 miglia a 9,3 nodi; in immersione 7 miglia a 9,3 nodi; 160 miglia a 1,6 nodi. Armamento: 4 tls AV da 450 mm; 2 tls AD da 450 mm; 10 siluri da 450 mm; 2 cannoni antiaerei da 76/40 mm. Profondità di sicurezza: 50 m. Equipaggio: 4 ufficiali; 36 tra sottufficiali e marinai.
Classe «F» o «Ro-1», 5 unità (Ro-1, Ro-2, Ro-3, Ro-4 e Ro-5) per la Marina imperiale giapponese. Cantiere: Kawasaki, Kobe, Giappone. Unità capoclasse Ro-1: impostazione 05/01/1917; varo 28/07/1919; consegna 31/03/1920; radiazione 01/04/1932. Dislocamento: 700 ton in superficie; 1064 ton in immersione. Dimensioni: lunghezza f.t. 65.6 m; larghezza 6.1 m; immersione 4.2 m. Propulsione diesel-elettrica, con 2 motori diesel Fiat per una potenza di 2,800 bhp (2,100 KW) e 2 motori elettrici Savigliano per una potenza di 1,200 shp (890 KW), 2 assi. Velocità 13 nodi in superficie; 8 nodi in immersione. Combustibile 58.4 ton; autonomia 3.500 miglia in superficie a 10 nodi; 80 miglia in immersione a 4 nodi. Profondità di sicurezza: 40 m. Equipaggio: 43 persone. Armamento: 5 tubi lanciasiluri da 450 mm (3 a prora e 2 a poppa); 8 siluri tipo 44; 1 mitragliatrice da 7,7 mm; dopo la consegna è stato aggiunto un cannone da 76.2/40 mm.
NOTE
(1) Giacinto Pullino (1837-98) fu generale ispettore del genio navale, presidente del Comitato progetti dal 1893 al 1896 e deputato al parlamento dal 1892; oltre al sommergibile Delfino progettò le corazzate classe «Emanuele Filiberto» e alcune unità minori. (2) L’incrociatore Puglia (inizialmente classificato ariete torpediniere) era una nave della classe «regioni» (o classe «Lombardia») costruita nel 1893-1901 presso l’Arsenale di Taranto, radiata nel 1923 e donata dalla Regia Marina a Gabriele D’Annunzio, che fece trasferire una gran parte della nave (inclusa la prora e la sovrastruttura) presso il Vittoriale degli italiani a Gardone Riviera (BS), dove è ancora oggi. (3) Corazzata Lepanto, della classe «Italia», progettata da Benedetto Brin, costruita presso i cantieri Orlando di Livorno nel 1876-87, venne radiata nel 1914. Le unità di questa classe erano caratterizzate da una protezione corazzata estremamente ridotta, privilegiando velocità, autonomia, abitabilità e una fitta compartimentazione interna. (4) Giovanni Sechi (1871-1948), altro prolifico autore di articoli per la Rivista Marittima, fu ammiraglio di squadra e ministro della Marina dal 1919 al 1921. (5) Sul cleptoscopio, sul contemporaneo TELOPS dell’ingegner Triulzi e sulle polemiche che contraddistinsero il deposito dei relativi brevetti si veda l’articolo «I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Gioacchino Russo» di C. Boccalatte, Rivista Marittima, maggio 2021, Rubrica «Scienza e Tecnica». (6) Cesidio del Proposto fu un ingegnere italiano, estremamente attivo nel primo decennio del 900, nel corso del quale pubblicò diversi brevetti relativi a vari aspetti della propulsione navale per unità di superficie e sommergibili; fu anche autore di un supplemento alla Rivista Marittima pubblicato nell’ottobre 1906 e dedicato alla propulsione diesel elettrica. Alcuni dei sistemi da lui concepiti trovarono applicazione pratica su unità navali costruite in diverse nazioni. (7) Virginio (Gino) Cavallini (Fornacette, Pisa, 20 febbraio 1875-Camaiore, Lucca 30 gennaio 1944) fu un ufficiale del genio navale, progettista di sommergibili di fama internazionale. Tra le unità da lui progettate si ricordano i sommergibili classe «Settembrini» e classe «R» per la Marina italiana, e classe «Tarantinos» per quella argentina. Lasciò il servizio nel 1922 a domanda, per continuare a lavorare come progettista e consulente presso i cantieri navali Franco Tosi di Taranto. (8) Curio Bernardis (Udine 1872-1941) fu un ufficiale del genio navale, progettista di sommergibili di fama internazionale, che definì un tipo di battello a semplice scafo e con doppi fondi resistenti interni, universalmente noto come sommergibile «tipo Bernardis». Da questo innovativo concetto nacquero i sommergibili delle classi «Pisani», «Bandiera», «Fieramosca», «Squalo», «Bragadin», «Dumlupinar», «Sakarya», «Glauco», «Marcello», «Marconi», «Ammiragli», classe «600». In tutto furono 103 i battelli realizzati su progetto di Bernardis per la Regia Marina italiana e per le Marine turca, romena e brasiliana, di cui 54 costruiti dal cantiere di Monfalcone.
BIBLIOGRAFIA
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Poddighe, «La Regia Marina italiana e l’impiego dei motori endotermici-le scelte relative alla propulsione delle navi militari costruite in Italia sino alla 2a g.m, volume 1», (scaricabile all’indirizzo internet https://www.academia.edu/43717301/REGIA_MARINA_ITALIANA_ED_ALTERNATIVE_DI_PROPULSIONE_VOL_1). Sito internet https://patents.google.com/?inventor=Cesare+Laurenti. A. Turrini, Ottorino Ottone Miozzi, Manuel Minuto Rizzo «Sommergibili e mezzi d’assalto subacquei italiani, tomo 1», Roma 2010, Ufficio Storico della Marina Militare. A. Turrini, «Ricordo di Cesare Laurenti», Rivista Marittima, luglio 1996. A. Turrini, «L’opera di Cesare Laurenti, realizzazioni e progetti», Roma 2002, Ufficio Storico MM. Ufficio Storico MM, Uomini della marina 1861-1946. Rivista nautica, Italia Navale, pubblicazione periodica quindicinale, raccolta anno 1913 (da http://www.books.google.com). 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Laurenti, «La perdita del sottomarino inglese A-1», nella rubrica «lettere al Direttore», Rivista Marittima, luglio 1904. C. Laurenti, «I disastri dei sottomarini», Rivista Marittima, agosto 1905. C. Laurenti, «La catastrofe del Lutin», nella rubrica «lettere al Direttore», Rivista Marittima, 1907. G. Ducci, capitano di corvetta, «Bacino galleggiante per prova e carenaggio di sommergibili», nella rubrica «Miscellanea», Rivista Marittima, aprile 1911. C. Boccalatte, «I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Benedetto Brin», nella rubrica «Scienza e Tecnica», Rivista Marittima, settembre 2015. C. Boccalatte, «I grandi tecnici della Marina Militare: l’ammiraglio Giancarlo Vallauri», nella rubrica «Scienza e Tecnica», Rivista Marittima, dicembre 2015. C. Boccalatte, «I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Giuseppe Rota», nella rubrica «Scienza e Tecnica», Rivista Marittima febbraio 2016. C. Boccalatte, «I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Domenico Chiodo», nella rubrica «Scienza e Tecnica», Rivista Marittima, marzo 2016. C. Boccalatte, «I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Umberto Pugliese», nella rubrica «Scienza e Tecnica», Rivista Marittima, maggio 2016. C. Boccalatte, «I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Vittorio Cuniberti», nella rubrica «Scienza e Tecnica», Rivista Marittima, novembre 2016. C. Boccalatte, «I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Edoardo Masdea» nella rubrica, «Scienza e Tecnica», Rivista Marittima, febbraio 2017. C. Boccalatte, «I grandi tecnici della Marina Militare: il professor Ugo Tiberio, ideatore del radar italiano», nella rubrica «Scienza e Tecnica», Rivista Marittima, maggio 2017. C. Boccalatte, «I grandi tecnici della Marina Militare: l’ammiraglio Gian Battista Magnaghi, artefice dell’Istituto Idrografico di Genova», nella rubrica «Scienza e Tecnica», Rivista Marittima, novembre 2017. C. Boccalatte, «I grandi tecnici della Marina Militare: l’ammiraglio Umberto Cagni», nella rubrica «Scienza e Tecnica», Rivista Marittima, gennaio 2019. C. Boccalatte, «I grandi tecnici della Marina Militare: il professor Angelo Scribanti», nella rubrica «Scienza e Tecnica», Rivista Marittima, aprile 2019. C. Boccalatte, «I grandi tecnici della Marina Militare: il generale Gioacchino Russo», nella rubrica «Scienza e Tecnica», Rivista Marittima, maggio 2021.
CHE COSA SCRIVONO GLI ALTRI
«Putin’s War is Europe’s 9/11»
FOREIGN POLICY, SPRING 2022
Nel libro di quasi un ventennio fa (2003), Paradiso e Potere, il politologo Robert Kagan, membro del think tank Brooking Institution e del Council on Foreign Relations, con una buona dose di provocazione geopolitica sosteneva che «gli europei venivano da Venere, mentre gli americani da Marte»! Il tutto per stigmatizzare come l’Europa e gli Stati Uniti non avevano più la stessa visione strategica su come difendere il sistema della democrazia liberale dalle pulsioni revisioniste poste in essere dalle potenze autoritarie. In altre parole, secondo Kagan, l’Europa stava andando verso un mondo fatto di negoziazione e cooperazione trans-nazionale, in una sorta di paradiso post-storico nel tentativo di realizzare il sogno kantiano della «pace perpetua», mentre gli Stati Uniti, rimanendo con i piedi ben saldi nella storia, erano pragmaticamente più vicini a un mondo «hobbesiano», dove le leggi e le regole internazionali sono inaffidabili e dove la difesa di un ordine internazionale liberale dipende ancora una volta dall’uso della Forza militare. Uno scenario che mi sembra molto opportuno premettere all’articolo in parola, a firma della columnist , che analizza come il 24 febbraio scorso, di fronte all’aggressione russa dell’Ucraina contraria a ogni norma del diritto internazionale, l’Europa, riscuotendosi bruscamente dal suo sogno kantiano della pace perpetua, «has finally woken up to the necessity of hard power». «Improvvisamente, gli europei stanno iniziando a capire perché i loro oltre due decenni di colloqui con Putin non hanno portato a nulla — scrive l’autrice — perché la loro diplomazia, per quanto ben intenzionata, mancava delle fondamenta dell’hard power. Gli europei vedono la guerra come una maledizione del passato. Putin no. Dal momento che gli europei parlavano da una posizione di debolezza, non di forza, Putin vedeva la guerra in Ucraina (e in Georgia prima nel 2008) come un’opzione migliore dei colloqui. Ha calcolato che facendo la guerra avrebbe probabilmente potuto ottenere ciò che voleva, perché gli europei non avrebbero ostacolato la sua strada, mentre nei negoziati avrebbero dovuto scendere a compromessi». Di qui, in un’unità d’intenti e soprattutto di vedute invero rara, l’Europa, insieme agli Stati Uniti e al Regno Unito, in maniera compatta, ha manifestato la volontà di colpire la Russia sul doppio versante economico-finanziario (e siamo arrivati al varo del pur discusso sesto pacchetto di sanzioni) e militare sul campo con il massiccio sostegno diretto di forniture militari alla tenace resistenza ucraina, trasformandosi così nell’arsenale della democrazia, come l’America ai tempi del presidente Franklin D. Roosevelt nella Seconda guerra mondiale. Accogliendo nel frattempo a braccia aperte, con una solidarietà assolutamente inedita per parecchi Statimembri, ben lungi dalle querimonie di sempre in materia di accoglienza e ripartizione dei richiedenti asilo, di milioni di profughi ucraini, «profughi veri di una guerra vera», avviando nel contempo le procedure per l’entrata dell’Ucraina nell’Unione. Ma soprattutto bisogna sottolineare ai nostri fini l’approvazione del 21 marzo scorso da parte del Consiglio dell’Unione della «Bussola strategica per la sicurezza e la difesa della Ue» (www.consilium.europa.eu ), un ambizioso piano d’azione per rafforzare la politica di sicurezza e di difesa dell’UE entro il 2030, destinata a rafforzare l’autonomia strategica dei 27 e le loro capacità di collaborare con i partner al fine di salvaguardare i propri valori e interessi, in considerazione che «la guerra è tornata in Europa, a seguito dell’ingiustificata e non provocata aggressione russa contro l’Ucraina, nonché dei grandi cambiamenti geopolitici in corso». Un Unione più forte e capace dunque in materia di sicurezza e difesa per contribuire positi-
vamente alla sicurezza globale e transatlantica, in maniera complementare alla NATO che, pur vilipesa e contestata nei quattro anni della presidenza Trump (e di cui lo stesso Macron, nemmeno tre anni fa, non aveva esitato a denunciarne addirittura, nella celebre intervista al settimanale britannico The Economist , «lo stato di morte cerebrale»), rinasce a nuova vita, rimanendo il fondamento della difesa collettiva per i suoi membri, visto che, come si è espresso il Consiglio europeo, «le minacce sono in aumento e il costo dell’inazione è chiaro». Lo scorso 9 maggio poi a Strasburgo, la celebrazione del 72° anniversario della «Dichiarazione Schuman» (european-union.europa.eu>historyeu) ha coinciso con la cerimonia solenne di conclusione della «Conferenza sul Futuro dell’Europa» nella sede del Parlamento europeo, un evento, come scrive l’ambasciatore Nelli Feroci su Affarinternazionali.it, «caratterizzato dal richiamo condiviso ai valori fondanti del progetto europeo: democrazia, tolleranza, rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, pace, cooperazione, integrazione e inclusione». Tutto ciò atteso, non si può non condividere il giudizio della De Gruyter, secondo cui: «il 24 febbraio è stato per l’Europa quello che il 9/11 è stato per gli Stati Uniti», cioè un vero e proprio «threshold crossing» geopolitico!
«Dopo l’11 settembre 2001»
QUADERNI DI SCIENZE POLITICHE, N. 20/2021
E all’11 settembre 2001 idealmente si ricollega, nell’ultimo numero in parola della rivista dell’Università Cattolica di Milano, Davide Antonelli che ripercorre in dettaglio le conseguenze immediate e di più lungo periodo degli attentati perpetrati dai terroristi islamici negli Stati Uniti l’11 settembre 2001, che hanno prodotto nel mondo occidentale «una sensazione di vuoto e desolazione». «L’11 settembre 2001 è generalmente riconosciuto come uno dei momenti di massima incertezza, paura e drammaticità della nostra storia recente — esordisce l’autore. In soli 148 minuti, le illusioni di chi aveva creduto di cambiare pagina, passando da un secolo dove la guerra e la deterrenza strategica si erano imposte come denominatore comune delle relazioni internazionali a una nuova epoca più tollerante e inclusiva, furono polverizzate al pari delle Torri Gemelle». In particolare, nella genesi e nell’affermazione delle denominazioni mediatiche degli eventi in questione, espressioni come «Ground Zero» e «9-11» sortirono un successo immediato tanto più che, in quest’ultimo caso, «nella cultura americana era un perfetto “three-syllable term” (termine di tre sillabe), come “Watergate,” “Vietnam,” o “Pearl Harbor”, nonché un simbolo immediatamente riconoscibile dell’intera serie di attacchi e delle loro conseguenze sia per l’America sia per il mondo intero. Da quel momento in poi l’espressione “nine-eleven” non fu più abbandonata e ancora oggi è un simbolo iconico e immediato della lotta al terrorismo di matrice islamica. Non a caso si dice che noi oggi viviamo nell’epoca “post- 9/11”». L’autore procede quindi a un’analisi approfondita degli effetti provocati dagli eventi del 9/11 nell’esame minuzioso dei suoi risvolti politico-giuridici, sociali ed economici. «L’11 settembre 2001 non si è quindi concluso in ventiquattro ore, ma si è protratto nei giorni e nei mesi successivi — ben sottolinea l’autore, nella considerazione che — qualcosa è cambiato per sempre. Un nuovo trauma collettivo ha distrutto certezze secolari, generando sfiducia e paura, ma anche rabbia
e desiderio di vendetta da parte di entrambi gli schieramenti. La consapevolezza che un evento di simile portata emotiva e distruttiva, inconcepibile e imprevedibile fino alle 8.46 del mattino dell’11 settembre 2001, avrebbe potuto ripetersi in futuro, ha segnato in pochi minuti la vita di un intero popolo, inaugurando una fase storica dove i nemici non hanno più né volto né divisa e gli attacchi terroristici sono diventati un nuovo e devastante strumento di propaganda. Da quel momento è stato chiaro che il concetto di nemico è cambiato, al pari di quello di arma. La minaccia può arrivare da qualsiasi oggetto di uso quotidiano e in qualsiasi luogo e momento della nostra vita. Il nemico e l’arma non sono più riconoscibili, per questo chiunque può essere un nemico da guardare con diffidenza e qualsiasi oggetto può essere un’arma con cui provocare una strage. A pensarci bene, forse è proprio questa la conseguenza più drammatica degli attentati dell’11 settembre». Il fascicolo in esame ci presenta una panoplia di temi e problemi al solito estremamente ricca, che spazia dalla politica internazionale (come nell’articolo di Andrea Zotti sulle barriere tariffarie, protezionismo e divergenze regolative fra Stati Uniti ed Europa durante l’amministrazione Trump) alla storia delle relazioni diplomatiche, come nell’ampio saggio del prof. De Leonardis, direttore della rivista (che nel 2011 ha raggiunto una tappa importante: dieci anni dall’inizio della pubblicazione e venti numeri pubblicati), dedicato ai rapporti tra Santa Sede e Inghilterra, dalla rottura delle relazioni diplomatiche al Congresso di Vienna (cioè dal 1559 al 1815), saggio che costituisce la bozza del capitolo introduttivo di un volume in preparazione. E sempre alla penna del De Leonardis si deve l’affettuoso ricordo del prof. Ottavio Barié, «Maestro di studi storici e gentiluomo» (1923-2011), una delle grandi figure di una stagione molto felice nel campo degli studi delle relazioni internazionali (insieme a Ennio di Nolfo, Enrico Serra e Pietro Pastorelli), del quale si ripercorre la lunga e prestigiosa carriera, sottolineando come sia appartenuto «a una generazione e a una specie di cattedratici, oggi più rara, che della loro materia padroneggiavano a pieno non una piccola nicchia, o un breve periodo se storici, ma l’intero arco temporale e di contenuti». (Barié, La storia e la grande crisi, Università Cattolica del Sacro Cuore (cattolicanews.it)).
«What Would Clausewitz Say about Putin’s War on Ukraine?
USNI PROCEEDINGS, MARCH 2022
Alla luce dei principi enunciati nel Vom Kriege del grande Carl von Clausewitz (1780-1831), che trascorse una carriera in armi combattendo la Francia rivoluzionaria e napoleonica sotto le insegne del re di Prussia e, per un periodo (1812-14), anche nell’Esercito imperiale russo, Jim Holmes, già ufficiale della US Navy e oggi docente al Naval War College, ci propone un’interessante lettura della guerra in corso in Ucraina. Innanzitutto i russi hanno fallito in una delle funzioni più elementari della creazione di una strategia: comprendere l’avversario e pagargli il dovuto rispetto. Se pretendi tutto dal tuo avversario, puoi scommettere che farà il massimo sforzo per sfidarti e sconfiggerti. I leader russi hanno ceduto alla fallacia della «sceneggiatura» — un’idea implicita negli scritti di Clausewitz — nel senso che non bisogna mai presumere a priori che il nemico reagirà esattamente nel modo in cui la sceneggiatura richiede. Contrariamente alle aspettative russe infatti, gli ucraini si sono comportati non come una «fiaschetta di Bologna» (cioè un tipo speciale di bottiglia di vetro a volte utilizzata in esperimenti di fisica, duro come la roccia all’esterno ed estremamente fragile all’interno), ma come «un toro ferito», infuriato per il «dolore bruciante» delle ferite inflittegli dall’aggres-
sore. Mosca ha dimenticato una delle ingiunzioni fondamentali del teorico prussiano: che la guerra comporta la «collisione di due forze viventi», una competizione in cui entrambi i pugili cercano di rovesciarsi a vicenda. Qualunque sia l’equilibrio delle forze, ogni concorrente ha almeno qualche possibilità di prevalere. L’autocompiacimento è un «vizio strategico» di prim’ordine e Clausewitz condannerebbe la leadership russa per esserne caduta preda. I comandanti russi poi sembrano ignorare il ritmo di flusso e riflusso tipico delle campagne militari, laddove Clausewitz discerne uno schema nelle operazioni sul campo di battaglia in base al quale l’attaccante gode di un considerevole vantaggio militare agli esordi in virtù dell’iniziativa, della sorpresa e di altri fattori, solo per vedere che il vantaggio inizia a scivolare via man mano che la campagna si consuma. Questo è naturale, sottolinea Holmes. Clausewitz sostiene che la difesa tattica — non l’offesa — costituisce la forma più forte di guerra. Di conseguenza, il difensore restringe il vantaggio dell’attaccante che, mentre penetra più in profondità in territorio ostile, è costretto a conquistare posizioni fortificate o, come nel caso della guerra in Ucraina, è trascinato in operazioni di urban warfare. Ma soprattutto l’esercito russo sembra aver dimenticato le regole fondamentali della logistica con legioni di unità in stallo perché letteralmente affamate di carburante, munizioni e pezzi di ricambio. Il fatto è che nessuna campagna militare può protrarsi fino alla vittoria senza un efficace sistema di funzioni di supporto. «Una battuta militare sostiene che i dilettanti parlano di tattiche, mentre i professionisti parlano di logistica. E come tutte le buone battute, c’è del vero in quello», è il commento ironico dell’autore. Infine se la guerra va avanti abbastanza a lungo e il difensore gioca bene la sua mano, l’invasore supererà quello che Clausewitz definisce il «punto culminante dell’offensiva», cioè il «punto di crossover» oltre il quale il contendente precedentemente in offensiva diventa più debole e bloccato in profondità all’interno del backcountry del difensore. In altre parole, conclude l’autore, «il difensore gode di determinati vantaggi, non importa quanto inferiori possano apparire le sue forze sulla carta. La disponibilità locale di risorse militarmente rilevanti, brevi linee di comunicazione tra le aree di base e il fronte di combattimento e molti altri vantaggi del campo di casa finiscono per rafforzare le prospettive del difensore». Ma l’errore più grande della cosiddetta «dottrina Gerasimov», la strategia militare non convenzionale di Mosca (dal nome del Generale capo delle Forze armate russe dal 2013, al riguardo www.opiniojuris.it/dottrina-gerasimov), sembra essere, a parere di molti analisti (da ultimo Stefano Pontecorvo sulle colonne del quotidiano La Repubblica del 25 maggio scorso), il rovesciamento della stessa posizione clausewitziana: non dunque «guerra come continuazione della politica con altri mezzi», come sosteneva fermamente il teorico prussiano, ma «politica come continuazione della guerra, sottolineando come un efficace conduzione politica può implicare l’uso di mezzi e metodi militari accanto a quelli a cui si ricorre tradizionalmente» (senza che peraltro siano stati conseguiti sinora nella campagna ucraina gli obiettivi che il Cremlino si era prefissato!). In buona sostanza, a quasi due secoli dalla sua pubblicazione il Vom Kriege mostra di essere nel suo genere un vero e proprio «classico», cioè un libro evergreen che si può leggere e rileggere con profitto e da cui poter trarre ancora ai nostri giorni utili spunti e riflessioni nella difficile condotta dell’arte della guerra. In altre parole, come ha scritto Italo Calvino: «i classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale».
Ezio Ferrante
RECENSIONI E SEGNALAZIONI
Lorenzo TERMINE (a cura di) (prefazione di Andrea Carteny e postfazione di Simone Dossi)
Tigri con le ali
Aracne Aprilia 2021 pp. 210 Euro 12,00
«Tigri con le ali: la politica di difesa post-maoista e l’arma nucleare» di Lorenzo Termine è un’attenta analisi della «transizione strategica» avvenuta nella Cina comunista nel periodo che va tra la fine del 1976 e il 1985. L’evoluzione della politica estera e di sicurezza della Repubblica Popolare Cinese, e della relativa politica nucleare, rappresenta la principale tematica di ricerca del volume che assume la fine del 1976 come data cruciale per lo studio della materia. Difatti, nel settembre del 1976 muore Mao Zedong, non solo leader della Cina comunista ma anche fondatore della RPC e Presidente della Commissione militare centrale e, quindi, figura centrale della politica estera e di difesa di Pechino. Il passaggio dalla leadership maoista a quella denghista costituisce pertanto uno spartiacque fondamentale in quella che rappresenterà una «transizione strategica» della Repubblica Popolare Cinese.
Sotto la guida del Grande timoniere l’arma nucleare veniva percepita come uno strumento in grado di modificare l’equilibrio di potenza, ma allo stesso tempo poteva essere neutralizzato attraverso i principi maoisti di «guerra popolare» e di «attrarre il nemico in profondità», definiti durante la guerra civile e nella guerra contro il Giappone. A seguito dell’osservazione degli eventi in Corea e nello Stretto di Taiwan, Mao comprese, però, che quest’arma garantiva la capacità di «ricatto nucleare». In seguito alla morte del fondatore della Repubblica Popolare si inasprì duramente la lotta fra la fazione conservatrice, legata ai principi maoisti, e la fazione riformista, guidata invece da Deng Xiaoping. L’ascesa alla leadership di quest’ultimo indirizzò la Cina comunista verso la cosiddetta «epoca delle riforme». Difatti, sotto la guida di Deng Xiaoping, la Repubblica Popolare Cinese integrò elementi di mercato nell’economia socialista nazionale. La leadership denghista segnò pertanto il passaggio da un’economia fortemente centralizzata a un’economia socialista con elementi di mercato. Le riforme promosse a partire dal 1978 portarono a quello che viene definito come «miracolo cinese».
Tuttavia, le innovazioni di Deng non si limitarono solamente alla dimensione economica. Analogamente, l’ascesa di Deng Xiaoping rese possibile la cosiddetta «transizione strategica». L’analisi e lo studio delle nuove tecnologie portarono alla necessità di superare la dottrina maoista di «guerra popolare» per passare alla fine degli anni Settanta al concetto strategico di «guerra popolare in condizioni moderne» e, a metà degli anni Ottanta, alla dottrina di «guerra locale» e di «difesa attiva».
A partire da tali premesse, Tigri con le ali si presenta come un attento studio delle direttrici fondamentali della «transizione strategica» dell’era denghista e di come questa abbia influenzato la politica nucleare di Pechino e sui principali elementi di continuità e discontinuità con il passato maoista.
La ricerca di Lorenzo Termine si basa su una solida metodologia di ricerca, che si sviluppa su tre direttrici fondamentali di studio: il fattore internazionale, il fattore interno e il fattore tecnologico.
In relazione alla prima direttrice, viene presa in considerazione l’influenza dei mutamenti del sistema di potere internazionale sulla pianificazione della politica estera e nucleare della Cina comunista. La cooperazione tecnologica dell’Unione Sovietica a favore della Repubblica Popolare Cinese fu fondamentale per lo sviluppo delle capacità militari e nucleari cinesi. L’abbandono sovietico di tale cooperazione, il 20 giugno 1959, contribuì alla maturazione dell’approccio strategico conosciuto come «politica estera indipendente per la pace», strettamente collegata con la politica del «non allineamento». I due elementi dell’autonomia e della ricerca della stabilità internazionale furono cruciali per dare vita al cosiddetto «miracolo cinese». Il volume analizza magistralmente come si riflettono questi fattori sullo sviluppo non solo dell’economia ma anche, e soprattutto, della dottrina militare e nucleare della Repubblica Popolare Cinese. Lo studio di Lorenzo Ter-
mine sottolinea come una dottrina orientata verso una politica indipendente per la pace abbia indirizzato la Cina verso l’elaborazione di un utilizzo esclusivamente difensivo dell’arma nucleare (second strike). Una postura pertanto rivolta a un No First Use che implica il principio del «guadagnare padronanza colpendo solo dopo che il nemico ha colpito». L’obiettivo pertanto è quello di assicurare la capacità di un «secondo colpo» in seguito a un attacco nucleare, ovvero quello che la letteratura definisce come «deterrence by punishment» (letteralmente «deterrenza tramite punizione»).
Un elemento di originalità di Tigri con le ali è costituito dall’attento studio dell’evoluzione del dibatto interno alla dimensione politico-istituzionale della Repubblica Popolare Cinese. Difatti, l’analisi del contesto internazionale viene sempre affiancata dall’indagine del secondo fattore che abbiamo precedentemente individuato, ovvero quello interno. Il lavoro di Lorenzo Termine presenta magistralmente il dibattito fra le due principali fazioni nel partito: una più conservatrice e fedele ai principi maoisti, l’altra più riformista e guidata da personaggi come Deng Xiaoping. L’ascesa di Deng Xiaoping alla leadership cinese gettò le basi per quella che viene conosciuta come «epoca delle riforme». Un’epoca segnata da cruciali riforme effettuate a partire dal 1978, non solo nel sistema di mercato ma anche in quello tecnologico-militare. Tigri con le ali pertanto riserva una particolare attenzione alla competizione delle varie fazioni interne al Partito Comunista Cinese, che viene analizzata attraverso il dibattito promosso dalle figure più importanti all’interno del partito stesso e dei principali analisti cinesi sulle riviste di politica estera e di difesa.
La terza e ultima direttrice fondamentale di studio è rappresentata dal fattore tecnologico. Per quanto concerne l’evoluzione tecnologico-militare in ambito nucleare, quest’ultima risulta essere strettamente collegata alla dottrina sviluppata in materia. Le innovazioni effettuate in tale ambito, pertanto, sono state coerenti con un utilizzo fortemente difensivo dell’arma nucleare. Per poter essere conformi a una strategia di second strike, le principali tecnologie militari tendono a escludere armi con un potenziale utilizzo offensivo o di first strike. L’impiego dell’arma nucleare secondo i principi di secondo colpo viene individuato, dalla letteratura in materia, come uno dei punti di coerenza fra il passato maoista e la leadership denghista. Tigri con le ali conferma tale postura aggiungendo però degli elementi essenziali, che talvolta la letteratura non ha sufficientemente evidenziato. Lorenzo Termine effettua un’analisi dettagliata della politica nucleare nel periodo della leadership maoista e di quella denghista, andando a indicare anche i punti di discontinuità fra le due dirigenze. La principale discontinuità che viene individuata non concerne la dimensione strategico-dottrinale ma riguarda proprio il fattore tecnologico. Deng Xiaoping confermò la postura del No First Use, ma nel 1982 lo studio e lo sviluppo di due armi generarono una deviazione dal percorso maoista degna di nota: la bomba al neutrone e le armi nucleari tattiche. Nel giugno del 1982 si svolse, infatti, un’esercitazione dell’utilizzo offensivo delle testate nucleari tattiche, mentre nell’ottobre dello stesso anno si registrò un’esplosione di circa 7 chilotoni causata da un test dell’arma al neutrone.
Lo sviluppo e i test di queste due tecnologie offensive risultano essere una discontinuità con la dottrina dell’utilizzo dell’arma nucleare secondo la postura del second strike e del No First Use teorizzata nel periodo maoista e riaffermata anche nella leadership denghista.
Il volume Tigri con le ali rappresenta un contributo fondamentale per la letteratura italiana, in quanto va a colmare una profonda lacuna nel dibattito in materia di difesa e nucleare della Cina comunista a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta.
L’analisi di Lorenzo Termine colpisce per la sua solidità metodologica, nonostante la materia sia contraddistinta da limitate fonti primarie da cui poter estrarre informazioni. La forte centralizzazione del processo decisionale politico ha portato l’autore ad approfondire anche documenti prodotti dall’intelligence americana e l’ampia letteratura memorialistica, autobiografica e antologica.
In conclusione, il merito di Tigri con le ali è quello di aver proposto al pubblico italiano un tema fondamentale discusso solo marginalmente. Lorenzo Termine con una precisa ricerca delle fonti e una metodologia di ricerca impeccabile interviene magistralmente analizzando gli elementi di continuità e discontinuità della politica nucleare fra la leadership maoista e denghista, ponendo delle solide basi per comprendere le prospettive future del nucleare cinese.
Elisa Ugolini Centro Studi Geopolitica.info
Giulio CARGNELLO (a cura di) (prefazione di di Andreas Ferrarese)
La diplomazia della Santa Sede e i governi nelle Filippine e a Guam
Aracne Roma 2021 pp. 748 Euro 30,00
La lunga clausura domestica ha permesso a molti utenti Netflix di scoprire anche film di nicchia: fra essi «1898: Los ultimos de Filipinas» pellicola spagnola del 2016 sulla resistenza dell’ultimo avamposto spagnolo nell’arcipelago e «Goyo: The boy general» film filippino del 2018 — disponibile solo in tagalog con i sottotitoli in italiano — su Gregorio «Goyo» Del Pilar (1875-1899).
Il libro che qui si presenta (circa 750 pagine) potrebbe pertanto fornire, a quanti intendano approfondire la conoscenza della storia delle Filippine, un utilissimo contributo. Non solo. Il libro risulta anche un utile e denso ausilio per chi sia interessato a capire come e quando gli Stati Uniti abbiano assunto all’inizio dell’età contemporanea il ruolo di «guida planetaria» e quale ruolo giocò, e forse gioca ancora, in una dimensione globale la Santa Sede, lo Stato «senza divisioni». Un interesse specifico per i lettori di questa Rivista assume inoltre la dimensione navale nella occupazione e nel controllo delle Filippine da parte degli Stati Uniti.
Nella premessa Andreas Ferrarese, già diplomatico nelle Filippine, sottolinea come il volume rappresenti un contributo essenziale per chi voglia avvicinarsi agli studi di storia di politica internazionale in età contemporanea sugli Stati Uniti, la Spagna e la Santa Sede.
Dopo un’ampia introduzione in cui all’illustrazione delle fonti analizzate e alla metodologia adottata è fornito un generale inquadramento geopolitico, i primi due capitoli si soffermano sull’Estremo Oriente iberico prima del 1898 e sulla diplomazia della Santa Sede. Il primo europeo che «scoprì» nel 1521, per la monarchia spagnola, le Filippine fu il portoghese Magellano. Come è ben illustrato nell’opera, la progressiva colonizzazione spagnola non avvenne sulla rotta che attraversa l’Oceano Indiano ma percorrendo quella atlantica che passa per le Americhe e l’Oceano Pacifico. Non si tratta di un elemento secondario: infatti le Filippine, pur essendo una colonia spagnola, hanno sviluppato fin dal XVI secolo un forte legame con le Americhe e in particolare con il Messico. Dopo circa quattro secoli di dominazione spagnola, nel 1896, scoppiò la rivoluzione filippina sostenuta da una serie di movimenti rivoluzionari indipendentisti nei quali un ruolo non secondario fu giocato dalla massoneria. La Chiesa cattolica seguì da vicino tutte le vicende che portarono prima alla rivoluzione e poi al conflitto ispano americano. In particolare, l’autore ricostruisce analiticamente i vani tentativi di mediazione svolti dalla Santa Sede per evitare lo scontro che nondimeno esplose dopo l’affondamento dell’USS Maine nel porto dell’Avana. Nel 1898, alla fine della guerra ispano-americana, gli Stati Uniti occuparono Cuba, le Filippine, Guam e Puerto Rico. Nel secondo capitolo, di grande interesse sono le pagine dedicate al ruolo svolto dalla diplomazia della Santa Sede — e in particolare dal cardinale Rampolla — per le vicine Isole Caroline. La disputa, scoppiata nel 1885 per il possesso delle Isole tra Spagna e Germania, fu felicemente risolta dalla Santa Sede riconoscendo la sovranità della Spagna ma con concessioni commerciali alla Germania.
Sempre al fallito tentativo svolto dalla Santa Sede per evitare lo scontro è dedicato il terzo capitolo il cui obiettivo tuttavia è chiarire la fitta trama di contatti che si stabilirono tra gli Stati Uniti e la Santa Sede. Il capitolo successivo è dedicato al primo Governo americano delle Filippine. Il quinto capitolo presenta, invece, le diverse e talvolta divergenti visioni della Chiesa cattolica sulla «gestione» delle faccende filippine, in particolare in relazione alle molteplici problematiche legate alla sopravvivenza degli ordini religiosi e alla possibile vendita delle loro proprietà nell’arcipelago. Infine, il sesto e ultimo capitolo, è dedicato all’isola di Guam che, sempre dal 1898, è divenuta, ed è tutt’ora, un’importante base militare degli Stati Uniti.
In conclusione, le Filippine e Guam risentono nelle lingue locali, nelle tradizioni popolari e nei costumi, dei quattrocento anni di dominazione spagnola e della successiva colonizzazione americana, rappresentando un panorama culturale unico dove tre continenti, Asia, America ed Europa, si incontrano e si fondono. Il lavoro evidenzia, inoltre, le radici di una presenza solidissima della Chiesa cattolica nella società filippina: sintonia provata anche da molti che vedono nel cardinale Tagle, arcivescovo emerito di Manila, un possibile candidato alla successione di Papa Francesco.
Alessandra Mita Ferraro