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La corsa tecnologica cinese: impatto strategico sulle operazioni militari
Portaerei nucleare USS DWIGHT D. EISENHOWER
(CVN-69) in navigazione (Pixabay).
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Pechino mira ad allontanare dalle proprie coste la proiezione di potenza statunitense tramite il ricorso a bolle A2/D2 nel Mar Cinese. Le recenti innovazioni tecnologiche cinesi nel campo missilistico e delle telecomunicazioni costituiscono il perno di questa strategia di sea denial e portano con sé importanti riflessioni dottrinali circa l’uso delle portaerei.
L’infrastruttura tecnologica del 6G, ossia la sesta generazione di telefonia mobile, rientra tra le cosiddette disruptive technologies, innovazioni pioneristiche che aprono la strada a una serie di applicazioni mai sperimentate prima (1). Il 25 gennaio 2022 un team di scienziati cinesi ha annunciato di aver condotto con successo la più veloce trasmissione di dati mai avvenuta, utilizzando proprio tale tecnologia, con serie ripercussioni per la conduzione delle operazioni militari e le conseguenti dottrine di ingaggio, tanto da ricevere la completa attenzione da parte della Difesa statunitense (2). Il sistema di comunicazione 6G adopera radiazioni elettromagnetiche con frequenza nell’ordine dei terahertz, garantendo così velocità cento volte superiori alle attuali capacità di quinta generazione, non ancora completamente implementate anche nei paesi più industrializzati.
La sua applicazione in campo militare permetterebbe inoltre la scoperta e il controllo continuo dei missili ipersonici, operazione al momento impossibile. Tali vettori infatti sfruttano una velocità di crociera anche di otto o nove volte quella del suono per poter colpire
Estensione in frequenza e impiego tipico delle varie bande elettromagnetiche; la suddivisione utilizzata segue lo standard dell’Institute of Electrical and Electronics Engineers (IEEE). Lo spettro delle onde sub-millimetriche
(terahertz) costituisce l’attuale campo di ricerca per le future applicazioni
delle tecnologia nell'’mbito della difesa missilistica (autore).
in pochi secondi il proprio bersaglio, senza lasciare il tempo o la possibilità di attuare contromisure difensive. Durante il volo in regime ipersonico, il missile risulta essere circondato da una nube di gas ionizzati formata a causa dell’attrito con l’aria a elevata velocità. Tale nube assorbe totalmente le radiazioni elettromagnetiche che incontra, rendendo così tale vettore d’arma completamente invisibile ai radar, poiché avvolto da una barriera impermeabile rispetto allo spettro elettromagnetico da questi impiegato. D’altro canto quest’arma risulta essere un missile «cieco», poiché una volta lanciato non può essere guidato dal terminale dell’unità o dal vettore lanciante, parimenti a causa dell’impossibilità di penetrare la barriera di plasma. Le trasmissioni elettromagnetiche a una frequenza elevata come quella impiegata nelle telecomunicazioni di sesta generazione sarebbero in grado di bucare la nube di plasma che si crea attorno ai missili ipersonici, potendo così controllarne la traiettoria o comunicare con essi. Pertanto, qualora il report cinese si rivelasse veritiero a tutti gli effetti, Pechino avrebbe a disposizione una tecnologia in grado di ridurre il vantaggio occidentale, riducendo così l’attuale gap tecnologico. Attualmente, infatti, i mezzi delle Marine occidentali possiedono tecnologie più sofisticate che portano con sé un vantaggio ancora consistente. Tuttavia gli Stati Uniti, al momento, non possiedono alcuna arma ipersonica in servizio e l’unico lancio da vettore aereo effettuato con successo è avvenuto solamente a metà marzo 2022 (3). Naturalmente le Forze armate odierne sono quanto mai consapevoli della necessità di riflettere profondamente sulla propria postura complessiva evitando di rimanere indietro nella competizione globale, soprattutto in ambito tecnologico. Qualora Washington riuscisse a sviluppare con successo tale arma, gli Stati Uniti avrebbero a disposizione un prezioso assetto di deep strike, oltre a comprendere più a fondo i meccanismi di funzionamento dei missili ipersonici russi e cinesi, con ricadute positive sulla difesa da tali armamenti.
La ricerca cinese del vantaggio tecnologico
Nel corso di un’operazione navale, il Comandante di gruppo deve poter agire e muoversi a livello operativo in un ampio spazio multidominio che deve essere necessariamente ben conosciuto e la cui analisi viene attuata tramite una vasta e disparata gamma di sensori (4). In tali termini e in tale prospettiva, con il proseguire degli anni, il possesso di disruptive technologies quali realtà aumentata e sistemi di real-time communication diventeranno sempre più importanti nel mantenere il vantaggio tecnologico, anche definito come offset dalle linee guida della Difesa (5). La processazione ed elaborazione del dato grezzo, ovvero ricavato da un qualunque sen-
Distribuzione della provenienza delle domande di brevetto nell’area 6G del 2021(Cyber Creative Institute via Nikkei Asia).
sore, viene infatti totalmente affidata al sistema informatico e ai suoi algoritmi, al fine di estrapolare, connettere e presentare all’utente il quadro di situazione completo, nella maniera più comprensibile e immediata (6). Ciò implica inoltre che il possesso e l’efficienza di questi sistemi di elaborazione divengano degli assetti strategici attinenti alla sicurezza nazionale e strettamente correlati all’efficacia dello strumento militare; tali sistemi sono da custodire gelosamente da eventuali attacchi informatici o tentativi di spionaggio da parte dei servizi informativi di altri paesi competitori.
Si può ritenere, senza tema di smentita, che l’eventuale possesso di un’infrastruttura 6G, e dei relativi protocolli, costituirebbe un vantaggio strategico in grado di spostare l’ago della bilancia a proprio favore. Infatti, la possibilità di trasmettere una grande mole di dati con un basso tempo di latenza aumenterebbe le capacità di processazione in tempo reale dei calcolatori, compresi quelli a bordo delle navi, con una trasmissione che andrebbe così a pareggiare o addirittura a superare le velocità di calcolo degli odierni microprocessori presenti in commercio. Parallelamente, nel caso di un’operazione aeronavale, si acquisirebbe una maggiore integrazione tra i vari assetti (navi; sottomarini; aerei, elicotteri; droni) presenti in un dispositivo navale, attraverso una superiore situational awareness (quadro di situazione) di questi, grazie a un aggiornamento in tempo reale di una grande quantità di dati. Tale tecnologia inoltre avrebbe ricadute positive anche in altri settori quali la scoperta di oggetti con caratteristiche stealth, annullando i vantaggi dell’«invisibilità», o nel campo dei collegamenti ad alta velocità nello spazio. Non esiste infatti una caratteristica stealth assoluta, ma essa può essere raggiunta nei confronti di specifiche bande di interesse con opportuni accorgimenti (7). Nello specifico l’onda elettromagnetica alle frequenze operative del 6G appare più come un fascio e pertanto è dotata delle seguenti caratteristiche: maggior direttività; maggior energia trasportata e minima lunghezza d’onda. Essa riuscirebbe quindi a rilevare i velivoli con caratteristiche da noi al momento ritenute stealth (8).
Acquisire il predominio tecnologico in ogni campo o sviluppare ogni capacità militare possibile sarebbe per la Cina troppo oneroso. Pechino, come mostra il recente numero di domande di brevetto, si sta focalizzando in maniera intensiva nell’infrastruttura 6G. L’équipe di scienziati cinesi della Tianjin University’s School of Precision Instruments and Optoelectronics Engineering, come prima riportato, è riuscita a ideare un sistema laser in grado di emettere un’onda elettromagnetica continua nello spettro dei terahertz, requisito fondamentale per le comunicazioni in tecnologia 6G. Gli studiosi del settore asseriscono che tali onde potrebbero penetrare facilmente la barriera di plasma a velocità anche superiori a Mach 10, come se tale barriera non esistesse affatto. Ricerche passate avevano evidenziato come onde nello spettro inferiore dei terahertz (utilizzate per le trasmissioni ad alta velocità) al contrario, tendessero a degradarsi nell’attraversare la nuvola di plasma; di pari passo però lo spettro superiore dei terahertz non avrebbe problemi ad attraversare tale barriera, ma al contempo avrebbe una propagazione molto limitata nell’atmosfera.
Rendering grafico di un missile ipersonico (Pixabay).
Ulteriori calcoli del Northwestern Polytechnical University e del Shanghai Aerospace Control Technology Institute hanno inoltre rivelato che, per comunicare con armi ipersoniche in atmosfera, a velocità Mach 5, sarebbe necessaria una frequenza di 2 terahertz, la quale di pari passo consentirebbe un raggio di comunicazione di circa 60 chilometri. Il sistema laser sperimentato da Yao e il suo team lavorerebbe a una frequenza 2,5 terahertz e aprirebbe così nuovi scenari, sempre qualora queste affermazioni si rivelassero veritiere e non frutto di mera propaganda (9). In ogni caso, a prescindere dalla loro veridicità o meno, queste dichiarazioni mostrano chiaramente quale sia il trend e gli obiettivi dell’evoluzione tecnologica cinese.
Le portaerei, regine dei mari e perno della dottrina navale occidentale
La corsa tecnologica di Pechino, attraverso le sue applicazioni in campo militare, mira a ridurre l’efficacia bellica delle portaerei, ovvero cercando principalmente di allontanare in maniera sempre crescente i Carrier Strike Group dai mari vicini alla Cina. La portaerei rappresenta la pietra angolare sulla quale si fonda la dottrina di ingaggio delle Marine occidentali e in particolare degli Stati Uniti. La US Navy è abituata a operare in un contesto di totale supremazia aerea, proiettata dal suo Carrier Strike Group, il quale ha come elemento cardine proprio la portaerei. L’elevato numero e la tipologia di piattaforme aeree diversificate dispiegabili, che possono arrivare fino a ottanta unità (comprendendo quindi anche unità portaelicotteri), rende questa supremazia incontestabile da qualsiasi altro attore in un eventuale scontro simmetrico frontale. Inoltre i velivoli presenti a bordo sono in grado di assolvere a uno spettro di operazioni a tuttotondo quali il combattimento aereo, land strike, lotta antisommergibile (ASW), Search And Rescue (SAR), trasporto (COD), weather observation, ricognizione e compiti di Airborne Early Warning and Control (AEW&C), rappresentando di fatto un’intera Aeronautica militare «in miniatura». Tale impostazione inoltre influenza anche gli altri paesi appartenenti all’Alleanza Atlantica, i quali si muovono con dottrine di ingaggio simili.
La componente aerea trasportata permette di estendere notevolmente la capacità di proiezione del dispositivo navale nel quale essa è inquadrata, permettendo di operare in profondità. Questo primo aspetto si lega alla rapidità di dispiegamento dovuta alla velocità degli aeromobili imbarcati, che possono quindi essere impiegati in un più ampio spettro di operazioni di pattugliamento, interdizione e supporto. Essa è quindi strumento imprescindibile per una capacità di proiezione di potenza che possa sostenere il proprio strumento militare nelle aree di interesse e nella totalità del globo. La capacità aerea risulta parte integrante della capacità navale, grazie agli scenari odierni che prevedono proprio la necessità di un primo intervento rapido e possibilmente decisivo, con grande valenza data alla fase iniziale del conflitto stesso (10).
La portaerei rappresenta prima di tutto un microcosmo indipendente, una vera e propria infrastruttura mobile che porta già con sé tutto il necessario per operare per un lasso di tempo prolungato e sostenuto. Inoltre quale centro di comando e controllo, oltre che fulcro di un gruppo navale, essa può operare in sicurezza e a ridosso delle coste, sempre vicina all’area di operazione, conservando l’effetto sorpresa e avendo la possibilità attuare una strutturata azione di naval diplomacy (11). A fianco operazioni show the flag, ossia attività volte a mostrare la propria effettiva presenza e capacità di intervento, un Carrier Strike Group è in grado di attuare anche una linea più dura, con azioni coercitive volte a influenzare lo sviluppo di un eventuale crisi (12). In aggiunta essa è l’unico strumento in loco in grado di intervenire esprimendo già da subito il massimo dell’operatività nella primissima fase di un conflitto che, come riportato prima, è la fase più importante in grado di fare la differenza nei conflitti odierni (13).
Nel contempo le portaerei, oltre a essere uno strumento indispensabile per una Marina che voglia proiettare la sua influenza sull’alto mare, rappresentano delle High Value Unit (HVU), visto che il costo medio di una classe «Nimitz» è di 4 miliardi e mezzo di dollari. Se è vero che queste hanno a lungo dominato in maniera del tutto indisturbata il panorama navale mondiale a partire dalla fine della Guerra Fredda, lo sviluppo tecnologico missilistico ha tuttavia iniziato a
Gli aerei del Nimitz Carrier Strike Group volano in formazione sulla portaerei USS NIMITZ (CVN 68) (U.S. Navy by Seaman Keenan Daniels media.defense.gov).
costituire vieppiù una concreta minaccia. Proprio l’immissione sul mercato di missili antinave di fabbricazione sovietica e cinese, con un costo economico ridotto, ha iniziato a delineare uno squilibrio tra attacco e difesa, innescando una serie di riflessioni sull’utilizzo di assetti molto costosi. Ciò si verificherebbe, per esempio, qualora si riuscisse a saturare le difese aree avversarie tramite il lancio di numerosi vettori con un lieve dispendio finanziario.
Per una dottrina di ingaggio che ruoti attorno al Carrier Strike Group risulta quindi fondamentale la creazione di un opportuno schermo a difesa della portaerei, la cui perdita causerebbe sia una seria menomazione dal punto di vista militare sia dal punto di vista delle ripercussioni psicologiche. Per questo motivo si procede alla predisposizione di un particolare dispositivo di protezione, denominato «schermo». Lo scopo di uno schermo (screen) è costituire appunto la difesa multidimensionale quanto più possibile avanzata. La difesa antiaerea (AAW Anti Air Warfare), è attuata tramite l’utilizzo di unità lanciamissili, dotate di radar tridimensionali di scoperta a lungo raggio, il cui scopo è quello di estendere, il più lontano possibile, l’area di sorveglianza, identificazione e controllo di tutti i velivoli in avvicinamento, oltre a scoprire eventuali missili lanciati da distanza. È normale attuare anche un dispositivo navale diradato che aiuta a nascondere la reale posizione dell’unità di alto valore all’interno del dispositivo. Nella difesa nei confronti dei missili antinave (ASMD), la neutralizzazione della piattaforma aerea nemica, prima del rilascio del suo armamento, costituisce una necessità e sempre una sfida, viste le velocità dei missili antinave che lasciano una breve finestra temporale per procedere alla neutralizzazione
Lo sviluppo cinese delle bolle Anti-Access/Area Denial
In passato lo strapotere navale statunitense permise ai paesi dell’Alleanza Atlantica di accerchiare l’Unione Sovietica, arginare il suo espansionismo e attendere così il suo inevitabile tracollo economico. Al giorno d’oggi Russia e Cina, sentendosi soffocate dalla proiezione di potenza statunitense, mirano allo sviluppo di una capacità di naval strike che possa arrivare sull’avversario da una posizione sicura, al di fuori del raggio di azione degli assetti avversari, conosciuta come distanza di stand-off. Infatti la totale supremazia statunitense, in fatto di quantità e qualità di mezzi, ha causato
lo sviluppo di strategie alternative volte ad arginare la proiezione delle piattaforme americane creando aree di difficile accesso, anche chiamate bolle A2/AD (14). Mosca e Pechino, non potendo attuare i presupposti richiesti per esercitare il controllo dello spazio marittimo, puntano piuttosto a negare l’uso del mare al suo avversario (sea denial), aspetto non di minore importanza, limitando la libertà di azione e movimento delle Marine occidentali (15). Come insegna lo storico navale Julian Corbett, non è sempre possibile esercitare il controllo dello spazio marittimo, ma la condizione standard consiste in una situazione di mare conteso. Si può quindi affermare che il sea denial sia un aspetto minoritario del sea control, nella misura in cui esso impedisca l’uso dello specchio acqueo all’avversario, ponendolo sotto la propria influenza. Vista la capacità di proiezione statunitense e della Marine occidentali, ciò significa sviluppare una capacità che possa riversare un’azione di fuoco efficace fino a 1.000 chilometri di distanza (16). Tale considerazione è pienamente confermata dagli sforzi russi e cinesi nella progettazione di missili ipersonici o balistici.
Pechino punta perciò ad annullare il vantaggio delle Marine occidentali in maniera trasversale e ibrida. Non potendo competere in uno scontro frontale e simmetrico tra i propri assetti e quelli dell’Alleanza Atlantica, la Cina intende allora allontanare le forze della NATO dalle acque limitrofe, in un vero e proprio tentativo di territorializzazione del Mar Cinese Meridionale e Orientale (17). Ciò si evince dall’ampio ricorso a navi draga adoperate per riversare sabbia sugli atolli presenti in quelle acque, espandendone la superficie emersa per poi appropriarsene tramite la costruzione di infrastrutture civili e militari. È il caso per esempio degli arcipelaghi delle isole Spratly e Paracelso, sulle quali sono presenti un totale di 27 avamposti, tra i quali un aeroporto con una lunghezza di pista sufficiente a far operare i moderni aerei multiruolo ad alte prestazioni (18).
Strategia cinese di interdizione degli spazi del Mar Cinese, strumentale all’attuazione della «difesa dei mari vicini» (Laura Canali per Limes, rivista italiana
di geopolitica).
Sfere di influenza statunitensi e cinesi nello scenario dell’Oceano Pacifico e del Mar Cinese Meridionale (Laura Canali per Limes, rivista italiana di geo-
politica).
La geografia e l’estensione di questi atolli ci suggerisce un uso prettamente difensivo, tramite la costruzione di stazioni di sorveglianza radar costiere e sistemi di telecomunicazioni, in modo tale da rendere tali isolotti gli occhi del dragone cinese nel Pacifico. Tale linea d’azione risulta essere in accordo con la dottrina della «difesa dei mari vicini», teorizzata per la prima volta durante gli anni Ottanta del secolo scorso dal comandante dell’Esercito Popolare di Liberazione Liu Huaqing, al fine di prevenire l’ingerenza esterna tramite la capacità militare, la quale sarebbe venuta proprio dagli specchi acquei prospicienti (19). Per la prima volta nella dottrina cinese non ci si è fermati alle semplici acque costiere, ma al proprio intorno geografico individuato in un’area complessiva che si estende almeno fino a 200 miglia dalla costa e, soprattutto, si è identificato il Potere Marittimo come elemento fondamentale per la sicurezza nazionale (20). Pechino intende quindi creare una seconda Grande Muraglia fatta di sabbia invece che di pietra, per riprendere le parole dell’ammiraglio Harris, ex comandante della Flotta del Pacifico. La presenza di assetti missilistici a terra, sull’isola di Hainan e sugli arcipelaghi prima citati costituisce una vera e propria spada di Damocle per Taiwan, la cui fattuale indipendenza dipende fortemente dalla presenza statunitense.
L’appropriazione indebita di tali isole, o la creazione di esse ex novo, è attualmente al centro delle dispute tra Pechino e i paesi rivieraschi che si affacciano sul Mar Cinese Meridionale, controversie acuite dalla presenza di ricchi giacimenti di petrolio e gas naturale. La presenza in questi arcipelaghi costituisce un elemento strategico per la Cina, poiché Pechino è intenzionata a dislocare su questi armamenti antinave al fine di creare una catena di bolle A2/AD.
Gli sforzi missilistici cinesi degli ultimi anni non si sono concentrati solamente su armi ipersoniche, ma essi hanno portato anche all’aggiornamento nel campo
dei missili balistici, in particolare con lo sviluppo del missile balistico a medio raggio Dong-Feng 26 (21). Soprannominato come «killer delle portaerei», dalle prime indiscrezioni esso sembra essere il primo missile cinese in grado di raggiungere l’isola di Guam da terra, con un raggio di oltre 5.000 chilometri, per colpire bersagli navali o terrestri. Le appendici aerodinamiche di cui è dotato il missile lasciano intendere che esso abbia capacità di manovrare, anche se ciò non è un dato del tutto sicuro, poiché un missile balistico possiede un profilo di volo molto complesso e non tutti sono in grado di manovrare durante la loro permanenza in atmosfera. In ogni modo, nonostante i roboanti proclami trasmessi dalla televisione di stato cinese, Pechino non ha mai dimostrato di possedere la capacità di colpire bersagli in movimento quali una portaerei con armi a traiettoria suborbitale (22). Infatti al giorno d’oggi nessun paese ha mai sviluppato un missile balistico antinave effettivamente funzionante, e gli analisti militari ritengono che per muoversi in tale direzione siano richiesti numerosi test di lancio, cosa che la Cina non ha mai effettuato. Perché il vettore missilistico possa andare a segno, Pechino dovrebbe disporre di sensori dotati di una robusta schermatura che consenta loro di resistere allo shock causato dall’uscita e dal successivo rientro nell’atmosfera. Di pari passo, si ravviserebbe la necessità di un capillare sistema di sorveglianza tale da individuare le unità avversarie in una porzione molto ampia dell’Oceano Pacifico. Tale capacità non è minimamente raggiungibile basandosi sulle sole installazioni radar costiere ricavate dalle isole artificiali del Mar Cinese, ma ciò non esclude che in futuro Pechino possa sopperire a tale mancanze ricorrendo all’immissione in orbita di satelliti adatti allo scopo.
Conclusioni
Le portaerei hanno a lungo dominato in maniera del tutto indisturbata il «campo da gioco» ma, a similitudine di come nel secolo scorso queste piattaforme e i sommergibili segnarono il definitivo declino delle corazzate, a partire dalla fine della Guerra Fredda lo sviluppo tecnologico missilistico ha iniziato a poter porre dei limiti alla proiezione di potenza di questo strumento.
La portaerei rappresenta la pietra angolare sulla quale si fonda attualmente la dottrina navale statunitense ed essa è oggigiorno la regina dei mari. I vettori aerei da essa trasportati sono stati impiegati con lo scopo di colpire in profondità i punti nevralgici o importanti strutture a terra, con una decisiva e rapida azione risolutoria che in molte situazioni ha fatto la differenza per le truppe presenti sul campo di battaglia e non. Fu il caso per esempio dell’operazione El Dorado Canyon del 15 aprile 1986, consistente in una serie di raid aerei contro l’aeroporto di Tripoli lanciati dalla Marina, Aeronautica e Marines statunitensi. Grazie al carattere expeditionary di una Forza di mare, che assieme alla libertà di navigazione le permette di proiettare liberamente la propria presenza fino a sole 12 miglia dalla costa di qualsiasi Stato rivierasco, gli attacchi condotti dalle portaerei Saratoga, America e Coral Sea presenti in loco poterono iniziare immediatamente a produrre i loro effetti devastanti senza alcun tipo di ritardo. Al contrario i bombardieri long-range dell’Air Force furono costretti a percorrere un totale di 7.000 miglia, evitando il sorvolo dello spazio aereo di alcuni paesi, e facendo
22 marzo 1986. Appontaggio di un F-14A Tomcat sulla USS SARATOGA (wikipedia.org).
ricorso a ben quattro rifornimenti in volo con i problemi a esso connessi (23).
Al momento gli Stati Uniti continuano a detenere il primato militare con mezzi superiori a qualsiasi paese, sia in termini qualitativi che quantitativi. Tuttavia gli sviluppi futuri in fatto di sorveglianza satellitare e sistemi missilistici A2/AD potrebbero ridurre questo offset e ridurre le portaerei più complesse a dei semplici bersagli galleggianti da miliardi di dollari. Per quanto scritto in precedenza, l’interrogativo da porsi non è se i nostri competitors riescano o meno a contrastare frontalmente il potere navale della NATO, ma se essi riescano a livellare l’offset tecnologico mediante l’utilizzo di particolari armi strategiche. Visti i recenti sviluppi tecnologi e le innovazioni nel campo militare, non è da escludere che in un futuro prossimo il dominio dei mari, conseguenza del relativo Potere Marittimo, possa arrivare a dipendere sempre di più dalla capacità di proiezione di un paese nella dimensione geospaziale e missilistica. 8
NOTE
(1) D. Panebianco, Le possibili evoluzioni del concetto di difesa del XXI secolo, in Rivista Marittima, CL (2019), 12, p. 38. (2) S. Tiwari, China’s New «Super 6G Tech» Can Penetrate Hypersonic Missile Shield, Boost Country’s Near-Space Defense - Top Scientist, in The Eurasian Times, 29 gennaio 2022. (3) O. Liebermann, US tested hypersonic missile in mid-March but kept it quiet to avoid escalating tensions with Russia, in CNN, 5 aprile 2022. (4) Un’operazione multidominio consiste in una strutturata azione di comando e controllo (C2) che si estrinseca contemporaneamente in tutti i domini militari: terrestre, marittimo, aereo, spaziale e cyber. Essa rappresenta un ulteriore sviluppo del modello «joint», nel quale ogni Forza armata opera pur sempre nel proprio dominio. (5) Ministero della Difesa, Documento di integrazione concettuale delle Linee Programmatiche, ed. 2018. L’offset è definito come «un vantaggio persistente, pervasivo, univoco e non bilanciabile, che sposta la competizione da uno scenario non favorevole a uno che permette l’applicazione di forze a un problema altrimenti irremovibile, o sormontabile a un costo inaccettabile. L’offset e� il cuore del vantaggio strategico, ed è in genere raggiunto tramite una strategia di superiorità tecnologica di lungo termine (offset strategy)». (6) D. Berna, Ruolo e importanza dell’Intelligence per il «Sistema Paese Italia», in Rivista Marittima, CLII (2020), 5, p. 15. (7) In particolare si cercano di evitare forme della fusoliera arrotondate poste sulla più probabile direzione di provenienza di un fascio radar, poiché queste producono una retrodiffusione (backscatter) simmetrica che permetterebbe di individuare l’aeromobile. (8) Per ulteriori notizie circa il rapporto tra lunghezza d’onda e persistenza delle caratteristiche stealth si rimanda a F. Bozzato, G. Plopsky, The F-35 vs. The VHF Threat, in The Diplomat, 21 agosto 2014, reperibile al link https://thediplomat.com/2014/08/the-f-35-vs-the-vhf-threat. (9) S. Tiwari, China’s New «Super 6G Tech» Can Penetrate Hypersonic Missile Shield, Boost Country’s Near - Space Defense - Top Scientist, cit. (10) G. Lertora, Incidenza e attualità del Potere Aeronavale nel Potere Marittimo, in Rivista Marittima, CLIII (2021), 2, p. 20. (11) Il diplomatico britannico James Cable, nel suo Gunboat Diplomacy 1919-1979, indicò tale azione come «l’impiego o la minaccia d’impiego di Forze navali per assicurarsi un vantaggio politico o negarlo all’avversario senza provocare un vero e proprio conflitto» (12) G. Lanzara, Diplomazia ed equilibrio di potenza nel XXI secolo, in Rivista Marittima, CLII (2021), 10, pp. 20-33. (13) P. Messina, A chi toccano gli F-35? La disputa infinita fra Aeronautica e Marina, in Limes, XXVII (2020), 10, p. 89. (14) Anti Access / Area Denial (A2/AD). (15) A. Rocco D’avenia, Le bolle A2/AD, in Rivista Marittima, CLIII (2021), 2, p. 53. (16) Questa considerazione è stata fatta prendendo a riferimento l’utilizzo di missili Harpoon sul McDonnell Douglas F/A-18 Hornet, il quale ha un raggio di azione di circa 800 chilometri, al quale deve essere sommata una gittata massima di 200 chilometri propria del missile. Il più recente caccia multiruolo di quinta generazione Lockheed Martin F-35 Lightning II ha invece un raggio di azione massimo di circa 1.100 chilometri. (17) F. Caffio, Glossario di Diritto del Mare, supplemento a Rivista Marittima, CLII (2020), 11, p. 66. (18) E.S.Y. Chan, La Cina diventerà una potenza marittima - non un Impero dei mari, in Limes, XXVII (2020), 10, pp. 311-316. (19) L. Huaqing, Liu Huaqing memoir, Pechino, Pla Press, 2004, pp. 432-439. (20) Nonostante l’estensione costiera cinese ammonti a un totale di 18.000 km. essa non si pensò mai tra i flutti, evidenziando da sempre una scarsa propensione allo sviluppo di una strategia marittima, ritenendo sufficienti le risorse donate dall’entroterra. Le Forze navali dell’Impero furono dapprima limitate a compiti di difesa costiera nei confronti dei pirati e, in seguito, a limitare l’influenza straniera durante le guerre dell’oppio (1839-42, 1856-60), per poi limitarsi a prevenire gli attacchi provenienti da Occidente verso la fine del XIX secolo. Per un approfondimento sul tema si rimanda all’opera B. Swanson, Eighth voyage of the dragon: a history of China’s quest for seapower, Annapolis, Naval Institute Press, 1982. (21) Un missile balistico è un proietto dotato di traiettoria di volo suborbitale. Tale vettore permette il trasporto di più testate (convenzionali o nucleari) su di un obiettivo, con un profilo di volo inizialmente accelerato e infine inerziale. (22) Office of the Secretary of Defense, Military and Security Developments Involving the People’s Republic of China 2020: Annual Report to Congress, Washington, DC, U.S. Department of Defense, 2020. Reperibile al link https://media.defense.gov/2020/Sep/01/2002488689/-1/-1/1/2020-DOD-CHINA-MILITARY-POWER-REPORT-FINAL.PDF. (23) P. Messina, A chi toccano gli F-35? La disputa infinita fra Aeronautica e Marina, cit., p. 89.
BIBLIOGRAFIA
D. Berna, Ruolo e importanza dell’Intelligence per il «Sistema Paese Italia», in Rivista Marittima, CLII (2020), 5. Bozzato, G. Plopsky, The F-35 vs. The VHF Threat, in The Diplomat, 21 agosto 2014. F. Caffio, Glossario di Diritto del Mare, supplemento a Rivista Marittima, CLII (2020), 11. E.S.Y. Chan, La Cina diventerà una potenza marittima - non un Impero dei mari, in Limes, XXVII (2020), 10. L. Huaqing, Liu Huaqing memoir, Pechino, Pla Press, 2004. G. Lanzara, Diplomazia ed equilibrio di potenza nel XXI secolo, in Rivista Marittima, CLII (2021), 10. G. Lertora, Incidenza e attualità del Potere Aeronavale nel Potere Marittimo, in Rivista Marittima, CLIII (2021), 2. O. Liebermann, US tested hypersonic missile in mid-March but kept it quiet to avoid escalating tensions with Russia, in CNN, 5 aprile 2022. P. Messina, A chi toccano gli F-35? La disputa infinita fra Aeronautica e Marina, in Limes, XXVII (2020), 10. D. Panebianco, Le possibili evoluzioni del concetto di difesa del XXI secolo, in Rivista Marittima, CL (2019), 12. A. Rocco D’avenia, Le bolle A2/AD, in Rivista Marittima, CLIII (2021), 2. B. Swanson, Eighth voyage of the dragon: a history of China’s quest for seapower, Annapolis, Naval Institute Press, 1982. S. Tiwari, China’s New «Super 6G Tech» Can Penetrate Hypersonic Missile Shield, Boost Country’s Near-Space Defense - Top Scientist, in The Eurasian Times, 29 gennaio 2022. Ministero della Difesa, Documento di integrazione concettuale delle Linee Programmatiche, ed. 2018. Office of the Secretary of Defense, Military and Security Developments Involving the People’s Republic of China 2020: Annual Report to Congress, Washington, DC, U.S. Department of Defense, 2020.
Introduzione
Se è vero che il terrorismo è un metodo da sempre utilizzato, tanto che la storia è piena di esempi sin dall’antichità, è altrettanto vero che solo nel corso dello scorso secolo la comunità internazionale e le opinioni pubbliche mondiali hanno iniziato a occuparsi del fenomeno. Proprio l’evoluzione che esso ha avuto nel corso del XX secolo lo hanno trasformato, facendogli assumere man mano connotati nuovi e sempre più «internazionali», sino alla nascita di un terrorismo internazionale che alla soglia del XXI secolo è divenuto universale ed è considerato come una delle maggiori minacce alla pace e alla sicurezza internazionale.
Seppur la comunità internazionale, per oggettive difficoltà giuridiche (la possibilità di realizzarlo con una qualsiasi modalità operative) e ragioni più propriamente politiche (connesse per lunghi anni al terrorismo palestinese) (2), non sia ancora riuscita a trovare l’accordo intorno a una definizione giuridica universalmente riconosciuta (3), possiamo concordare sul fatto che, al di là della modalità operativa di volta in volta utilizzata, il «terrorismo» sia un metodo, giuridicamente inquadrabile come «fattispecie criminosa a forma libera, attraverso la quale si mira, nell’immediato, a raggiungere l’obiettivo di spargere il terrore in una determinata comunità, per il conseguimento, in un secondo momento, di uno scopo ulteriore, che si concretizza normalmente in un cambiamento politico, sociale o religioso» (4). Nessun dubbio esiste poi, sia in dottrina che nella prassi di pressoché tutti gli Stati e tutte le organizzazioni internazionali, sul fatto che il carattere di internazionalità possa essere attribuito al terrorismo in presenza anche di un solo elemento di estraneità rispetto a un’unica realtà statale (per esempio tra nazionalità degli autori e delle vittime).
Fatte queste necessarie premesse, e ricordato che il terrorismo come metodo è sempre esistito, si deve sottolineare come per secoli sia stato perseguito a livello statale anche quando presentava elementi di internazionalità. Solo nella seconda parte del XIX secolo sorse
infatti nella comunità internazionale l’interesse a perseguirlo, in seguito al lungo contenzioso diplomatico sviluppatosi dopo la fuga in Belgio di due uomini che avevano attentato alla vita di Napoleone III. Davanti all’impossibilità del Regno del Belgio di concedere l’estradizione dei due attentatori, rientrando l’attentato contro un capo di Stato tra quelli di natura politica per cui le sue avanzate leggi vietavano l’estradizione, nacque la c.d. «clausola belga», ben presto recepita in numerosi trattati bilaterali di estradizione. Essa prevedeva una restrizione della nozione dei delitti politici, escludendo da essi, e quindi dal divieto di estradizione per gli autori di tali crimini, gli attentati contro i capi di Stato o i membri delle loro famiglie (5), rendendo così
possibile l’applicazione dell’istituto dell’estradizione per gli autori di atti di terrorismo.
Per decenni, tale clausola continuò a essere la sola e unica risposta giuridica internazionale al terrorismo, anche se negli anni Trenta, dopo l’ondata di attacchi del terrorismo anarchico registrati a cavallo tra il XIX e il XX secolo, la comunità internazionale provò a rispondere con l’elaborazione di convenzioni internazionali che avrebbero dovuto portare addirittura all’istituzione di una corte penale internazionale, con decenni di anticipo rispetto alla Corte penale internazionale prevista dallo Statuto di Roma del 1998.
In realtà, fu solo nella seconda metà del secolo scorso che la comunità internazionale trovò una nuova via per contrastare il fenomeno, cercando di prevenire e colpire la commissione di attentati che venivano man mano realizzati con sempre nuove modalità operative, da un terrorismo internazionale che potremmo dire fosse sempre meno secolare e sempre più religioso.
In effetti, nel corso del XX secolo il terrorismo internazionale è mutato molto più di quanto non avesse fatto in tutti i secoli precedenti, gettando le basi per lo sviluppo di quello che noi oggi conosciamo, ma già negli anni Settanta era stato definito da Walter Laqueur, nel sottotitolo del suo famoso Storia del terrorismo, il «più drammatico fenomeno del nostro tempo» (6).
Il terrorismo e le risposte della comunità internazionale a cavallo tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX. Il periodo post bellico e i primi atti di terrorismo legati al sionismo e alla questione palestinese
I primi decenni del XX secolo hanno visto una lunga scia di attentati anarchici che ebbero luogo a cavallo tra il XIX e il XX secolo (7), che presentavano, in numerosi casi, rilevanti profili per il diritto internazionale a causa della fuga all’estero degli autori o della diversa nazionalità tra i soggetti attivi e i soggetti passivi del delitto.
Malgrado ciò, il terrorismo per diversi anni restò an-
cora un problema affrontato giuridicamente solo a livello nazionale, se si escludono le citate clausole di trattati bilaterali, che prevedevano l’applicazione dell’istituto dell’estradizione agli autori dei reati anarchici, e il Trattato d’estradizione firmato il 6 febbraio 1930 tra Portogallo e Romania, che consacrò il principio Aut dedere aut judicare (8).
Nel periodo compreso tra le due guerre mondiali si sviluppò in dottrina la consapevolezza dell’impossibilità di uno Stato di combattere da solo il terrorismo internazionale, ma si deve aspettare l’attentato di Marsiglia del 9 ottobre 1934, che costò la vita ad Alessandro di Jugoslavia e al ministro degli Esteri francese Barthou, per vedere l’inizio dei lavori per la stesura di
un progetto di convenzione internazionale contro il terrorismo a opera della Società delle Nazioni.
Il 16 novembre del 1937 una Conferenza intergovernativa adottò i testi di due Convenzioni, una per la prevenzione e la repressione del terrorismo e l’altra per la creazione di una Corte penale internazionale (9), rispettivamente firmate da 24 e 13 Stati. Malgrado fossero necessarie solo tre ratifiche affinché entrassero in vigore, solo uno Stato, l’India (10), ratificò la sola Convenzione per la prevenzione e la repressione del terrorismo. La mancata ratifica delle due Convenzioni può essere attribuita a vari fattori, tra cui sicuramente lo scoppio della Seconda guerra mondiale, la sussistenza in alcuni Stati di problemi di ordine costituzionale con riguardo alla repressione di reati commessi all’estero o alla creazione di giurisdizioni eccezionali, l’eccessiva ampiezza della definizione di terrorismo e i gravi incidenti che si registrarono prima dello scoppio della guerra.
Le Convenzioni del 1937 erano state pensate per le c.d. «manifestazioni classiche» del terrorismo, tra le quali vanno ricompresi gli attentati contro la vita o l’incolumità di personalità politiche, nonché gli attentati contro gli edifici e le installazioni pubbliche o private e le stragi. E va rilevato che, pur non entrando esse mai in vigore, gli Stati non manifestarono particolari problemi nel contrastare tali manifestazioni, poiché rien-
trando nella tipologia tradizionale degli atti di terrorismo, per esse bastò continuare ad applicare la normativa esistente.
Per l’esame storico dell’evoluzione delle varie forme in cui il terrorismo si è manifestato nel corso del XX secolo, e della conseguente evoluzione delle risposte normative elaborate dalla comunità internazionale, è quindi opportuno compiere un salto in avanti e iniziare direttamente dalla fine della Seconda guerra mondiale (11).
È nel periodo postbellico, infatti, che accanto alle tradizionali forme di manifestazione del fenomeno terrorista si sono pian piano sviluppate, soprattutto a par-
tire dagli anni Sessanta, nuove modalità operative, per le quali fu necessario procedere all’elaborazione di nuovi strumenti normativi, manifestando quelli esistenti una totale insufficienza a contrastarle.
Prima di esaminare, prossimamente, tali nuove modalità operative e i nuovi strumenti normativi elaborati per contrastarle, si deve comunque sottolineare come le modalità operative c.d. «classiche» continuarono a manifestarsi anche nel secondo dopoguerra, con dei cambiamenti importanti nella natura delle motivazioni che spingevano i terroristi ad agire, in una fase storica caratterizzata dal processo di decolonizzazione.
Furono storicamente rilevanti, anche per gli sviluppi che ebbe la c.d. «questione palestinese» nei decenni seguenti, soprattutto gli attentati compiuti in Terra Santa e legati alla nascita dello Stato di Israele, con un terrorismo prima sionista e poi palestinese, che portò al riaccendersi del problema del terrorismo sul piano internazionale e allo sviluppo delle nuove manifestazioni terroriste (12).
Tra gli attentati legati alla nascita dello Stato di Israele e compiuti con modalità operative classiche, a titolo esemplificativo si possono ricordare: quanto agli attentati contro personalità politiche internazionalmente rilevanti, l’assassinio del conte Folke Bernardotte, rappresentante delle Nazioni unite in Palestina, che venne compiuto a Gerusalemme nel settembre 1948 dal gruppo sionista «Banda Stern» e al quale seguì un noto parere della Corte Internazionale di Giustizia (13); per quanto riguarda gli attentati dinamitardi realizzati con sostanze esplosive o infiammabili contro edifici pubblici, particolarmente importante fu quello compiuto dal gruppo sionista «Irgun Zwei Leumi» nel luglio 1946 contro il King David Hotel di Gerusalemme, sede del Quartier generale britannico, che alla luce dell’elevato numero di vittime integrò anche la fattispecie del crimine di strage (14).
Per combattere tali manifestazioni continuò a non esser necessario elaborare alcun nuovo strumento giuridico, essendo applicabile la c.d. clausola belga tanto nei casi degli attentati contro i capi di Stato e le altre personalità politiche, per i quali era stata concepita, quanto per quelli degli attentati contro edifici pubblici o privati e le stragi. Tale clausola, infatti, a metà del XX secolo era presente in tutti i trattati bilaterali e multilaterali di estradizione ed era divenuta una prassi consolidata anche in difetto di norme pattizie (15).
Come vedremo nella «Parte Seconda» dell’articolo, che sarà pubblicata nei prossimi numeri, a partire dagli anni Sessanta, per rispondere alle nuove modalità operative di volta in volta utilizzate dal terrorismo internazionale (es. dirottamenti aerei e altri atti illeciti contro l’aviazione civile, uccisioni e sequestri del personale diplomatico, attacchi a navi e postazioni marittime fisse), la comunità internazionale rispose invece
mediante l’elaborazione di convenzioni settoriali. Queste, al di là delle diverse figurae criminis prese di volta in volta in esame, che per ricadere sotto la disciplina delle convenzioni debbono presentare come presupposto carattere di internazionalità, hanno disegnato uno standard normativo uniforme, costituito da obblighi di prevenzione e repressione, tra cui spicca l’osservanza del principio aut dedere aut judicare (16). 8
NOTE
(1) Le opinioni sono personali dell’autore e non rispecchiano necessariamente le amministrazioni di appartenenza. (2) Storicamente i problemi incontrati dalla dottrina di diritto internazionale sono stati da un lato il rischio di fornire una definizione meramente tautologica o rappresentativa di una sola determinata modalità operativa del terrorismo e non del terrorismo in sé, dall’altro la difficoltà del distinguere tra i due diversi fenomeni del terrorismo come mezzo di coercizione politica adoperata dallo Stato nei confronti dei propri cittadini e del terrorismo come uso della violenza illegittima finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività, a destabilizzarne o restaurarne l’ordine. Nel corso della seconda parte del secolo scorso, poi, si sono aggiunti altri problemi, che potremmo definire politici, dopo che il fenomeno è divenuto strettamente legato alla c.d. «questione palestinese», suscitando la simpatia di larghi settori dell’opinione pubblica mondiale e il sostegno di alcuni Stati, che additavano come terrorista il Governo israeliano e non i gruppi palestinesi autori degli attentati, da giustificare, secondo loro, nella lotta di autodeterminazione del popolo palestinese. Come diceva il prof. Sherif Bassiouni, «what is terrorism to some, is heroism to others», ciò che è terrorismo per qualcuno è eroismo per qualcun altro. Tra i numerosi libri in cui l’espressione è ampiamente analizzata, si veda Bassiouni M. C., International terrorism: multilateral conventions (1937-2001), New York, 2001. Per una ricostruzione delle difficoltà incontrate nella ricerca di una definizione del terrorismo internazionale che potesse essere valida al di là della modalità operativa utilizzata, e riconosciuta dalla maggioranza degli Stati che compongono la comunità internazionale, si veda Quadarella Sanfelice di Monteforte L., Il terrorismo internazionale come crimine contro l’umanità - da crimine a rilevanza internazionale a crimine internazionale dell’individuo, Napoli, 2006 (Capp. 1 e 2). (3) Per tutti questi discorsi si rimanda all’articolo La minaccia proveniente dal terrorismo internazionale pubblicato nel numero di marzo 2022 della Rivista Marittima. (4) Si veda Quadarella Sanfelice di Monteforte L., Il terrorismo internazionale come crimine contro l’umanità - da crimine a rilevanza internazionale a crimine internazionale dell’individuo, op.cit., Cap. 1, § 1. (5) La clausola belga, da taluni autori citata anche con l’espressione «clausola di attentato», dispose che «ne sera pas réputé délit politique ni fait connexe à un semblable délit l’attentat contre la personne du chef d’un gouvernement étranger ou contre celle des membres da sa famille, lorsque cet attentat constitue soit le fait de meurtre, soit d’assassinat, soit d’empoisonnement». (6) Laqueur W., Storia del terrorismo. L’analisi storica del più drammatico fenomeno del nostro tempo, 1978, Milano. (7) Si tratta di quella che una parte della dottrina identifica come la «prima ondata» del terrorismo, definito «radicale». La seconda, secondo tale classificazione, sarebbe quella del «terrorismo etnico-nazionalista» a partire dagli anni Cinquanta, la terza quella del terrorismo islamista (o meglio jihadista) dell’inizio del XXI secolo. Per tale classificazione si veda: John A Lynn, Une autre guerre: Histoire et nature du terrorisme, 2021. (8) In tale trattato (il cui testo è rintracciabile in Revue de droit pénal et de criminologie, 1932, 78), così come in quello firmato dalla Romania con la Spagna l’11 novembre dello stesso anno, si prevedeva che in casi di impossibilità a consegnare l’autore di un atto di terrorismo lo si doveva giudicare davanti ai propri tribunali. Per approfondire l’analisi dei due trattati bilaterali e della legislazione della Romania cfr. Pella V. V., La répression des crimes contre la personnalité de l’Etat, in Recueil des Cours de l’Académie de droit international de La Haye, 1930, 791ss.; Meintani, L’extradition dans les nouveaux codes roumains, in Revue de droit international et de législation comparée, 1937, 51; Sottile A., Le terrorisme international, in Recueil des cours de l’Académie de droit international de La Haye, 1938, III, 109; Panzera A. F., Attività terroristiche e diritto internazionale, Napoli, 1978, 15s. (9) Convention for the Prevention and Punishment of Terrorism, Geneva, 16 November 1937 - LN Doc. C.546.M.383.1937; Convention for the Creation of an International Criminal Court, Geneva, 16 November 1937 - LN Doc. C.546.M.383.1937 Annex. (10) Può sembrare quantomeno singolare che l’India, allora non ancora indipendente, sia stato l’unico paese a ratificare la Convenzione. A farlo fu in realtà il Governo coloniale britannico dell’India, che grazie all’appartenenza separata di Delhi alla Società delle Nazioni deviò dalle scelte di Londra, che invece respinse la Convenzione per motivi legali e politici. L’India, al contrario, scelse di aderire a un trattato ritenuto necessario per la sicurezza interna, mostrando un’attenzione verso il fenomeno che si sarebbe vista decenni dopo con la presentazione di un Progetto di convenzione globale, su cui si sta ancora lavorando in sede di Nazioni unite: il 28 agosto 2000 fu presentato dall’India con il documento Meaures to Eliminate International Terrorism: Draft Comprehensive Convention on International Terrorism, Working Document Submitted by India, UN Doc. A./C.6/55/1. Per approfondire le divisioni che si sono verificate alla fine degli anni Trenta tra Delhi e Londra sul sostegno alla misura antiterrorismo, si veda: Mary Barton, The British Empire and International Terrorism: India’s Separate Path at the League of Nations, 1934-1937, in Journal of British Studies , Vol. 56 , Issue 2 , April 2017 , pp. 351 - 373, e online in Cambridge University Press, www.cambridge.org/core/journals/journal-of-british-studies/article/abs/british-empire-and-international-terrorism-indias-separate-path-at-the-league-of-nations-19341937/ 1F36E0BF7776067F390294DB74C34039#article, 2017. (11) Per l’esame storico dell’evoluzione del terrorismo cfr. soprattutto Bassiouni M. C., International terrorism: multilateral conventions (1937-2001), op. cit.; Panzera A. F., Attività terroristiche e diritto internazionale, op. cit., 35 ss.; Ziccardi Capaldo G., Terrorismo internazionale e garanzie collettive, Milano, 1990. Va rilevato che nel corso della Seconda guerra mondiale vennero compiuti numerosi atti di terrorismo da Forze armate, truppe di occupazione e movimenti di resistenza; ci si riferisce ad atti che non avevano esclusivamente il fine di colpire gli obiettivi militari del nemico, ma anche quello di diffondere il panico nell’esercito e nella popolazione civile nemica e che vennero solo in parte puniti dal Tribunale di Norimberga e da quello di Tokyo, anche se senza sottolinearne esplicitamente la natura terrorista. (12) Ancorché gli attentati terroristi legati alla nascita dello Stato di Israele e alla questione palestinese furono sicuramente i più importanti alla luce dei decenni seguenti, non va dimenticato che il fenomeno interessò buona parte degli Stati che lottavano per la decolonizzazione: per tutti basti citare il caso dell’Algeria che a partire dagli anni Cinquanta ha visto il ricorso al terrorismo caratterizzare lo scontro tra la Francia e il «Fronte Nazionale di Liberazione», che con gli anni esportò la violenza terrorista sul suolo francese arrivando ad attentare alla vita del presidente De Gaulle. Per una ricostruzione storica completa e una classificazione dei vari «terrorismi» legati al processo di decolonizzazione, cfr. AA.VV., Encyclopedia of World Terrorism, New York, 1997, vol. 1, 155-182. (13) Il caso Bernardotte divenne celebre nel diritto internazionale soprattutto in seguito al famoso parere che su di esso diede la Corte Internazionale di Giustizia, che si occupò del problema su richiesta dell’Assemblea generale, che chiese alla Corte se le Nazioni unite potessero agire sul piano internazionale contro Israele per chiedere un risarcimento del danno. La Corte, con un parere molto criticato dalla dottrina, affermò che l’organizzazione avesse titolo sia per chiedere risarcimento dei danni arrecati alla funzione, sia per quelli subiti dall’individuo in quanto tale, equiparando di fatto il rapporto tra funzionario e organizzazione internazionale per cui lavora a quello tra cittadino e Stato di appartenenza. Cour Internationale de Justice. Recueil, 1949, 174ss. (14) Tra i capi del commando che entrò in azione nell’esecuzione di questo attentato dinamitardo (che costò la vita a più di 200 persone) c’era anche Menachem Begin, che divenne primo ministro nel 1977 e l’anno seguente, insieme al presidente egiziano Sadat, ricevette il premio Nobel per la pace per gli Accordi di Camp David. (15) Cfr. Panzera A. F., Attività terroristiche e diritto internazionale, op. cit., 42. (16) Si veda, soprattutto, Quadarella Sanfelice di Monteforte L., Il terrorismo internazionale come crimine contro l’umanità - da crimine a rilevanza internazionale a crimine internazionale dell’individuo, op. cit., Capp. 1 e 2, e amplia bibliografia ivi citata.
FOCUS DIPLOMATICO
L’Asia Centrale ex sovietica e il conflitto in Ucraina
Il recente vertice di Mosca dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO) — l’alleanza politico militare composta nel 1992 da Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizistan, Russia e Tagikistan — ha fatto emergere un interessante sfilacciamento degli alleati asiatici ex sovietici dalla «operazione militare speciale» che la Russia conduce in Ucraina. Nel comunicato finale non vi è, infatti, alcun accenno a un aiuto militare a Mosca (in realtà non esplicitamente richiesto), come all’ipotesi (forse sottintesa) di poter aiutare Putin ad aggirare le sanzioni imposte dall’Occidente. Figura addirittura un paradosso quando viene invocata una imprecisata «cooperazione pratica con la NATO», alla luce della preoccupante situazione in Afghanistan e negli altri Stati limitrofi (il riferimento è alle minacce dei talebani di attaccare il Tagikistan). Chiaro che non ci sarà nessun dispiegamento delle forze della CSTO in Ucraina e Mosca dovrà trovare un altro modo per compensare le perdite di uomini e di mezzi sul campo.
Una posizione, quella dei paesi centroasiatici, al momento ambigua che non giunge del tutto inaspettata. A New York in occasione del voto all’Assemblea generale delle Nazioni unite sulla risoluzione di condanna dell’invasione russa, Kazakhstan, Kirghizistan e Tagikistan si sono astenuti, mentre Turkmenistan e Uzbekistan non hanno votato. Nel caso del Turkmenistan, il non voto è l’applicazione del principio di neutralità permanente in politica estera, sancito nella sua Costituzione, mentre per gli altri Stati, i voti dimostrano la difficile ricerca di un equilibrio in questa situazione complessa. L’altra votazione sull’espulsione della Russia dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni unite è andata meglio per Mosca, tutti hanno votato contro il provvedimento, salvo il Turkmenistan una volta ancora assente. Ciò malgrado, vi è però un paese che si era schierato apertamente a sostegno della Russia ed è il Kirghizistan. Il presidente Sadyr Japarov aveva dichiarato che l’invasione dell’Ucraina era dovuta al mancato rispetto degli accordi di Minsk e che l’intervenuto russo era giustificato dalla necessità di Mosca di proteggere la minoranza russa nel Donbass, aggiungendo anche che il riconoscimento di uno Stato è il diritto sovrano di ogni paese (riferendosi in questo caso al riconoscimento delle entità separatiste di Donetsk e Luhansk). Negli ultimi anni la situazione in Kirghizistan è stata contrassegnata da violente vicissitudini e nell’ottobre 2020 i cittadini hanno eletto come presidente Japarov, un populista conservatore, che ha reintrodotto il sistema presidenziale, indebolito il Parlamento e inasprito il controllo sulla società civile.
Il principio che la Russia possa pretendere a territori che secondo lei fanno parte del mondo russo suona pericoloso per i paesi asiatici, molto meno per Armenia e Bielorussia, che hanno approfittato nel tempo di recidere molti legami ancora sovietici.
Le Repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale (Kazakhstan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan, e Uzbekistan) non possono rimanere del tutto indifferenti al destino dell’Ucraina, a causa del passato coloniale che
le hanno legate alla Russia dall’impero degli zar fino all’epoca sovietica e anche, malgrado l’indipendenza, dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Putin ha sostenuto, per legittimare l’invasione, che l’Ucraina sia stata creata da Lenin e quindi non sia, sostanzialmente, uno Stato sovrano. Una dichiarazione che potrebbe far avanzare altre pretese territoriali nello spazio ex sovietico. Nel 1925, non fu Lenin bensì Stalin che, raccogliendo l’eredità zarista del «grande gioco» del XIX secolo, tracciò con un righello a tavolino i confini tra le Repubbliche Socialiste Sovietiche dell’Asia Centrale, così come di altri territori appartenenti all’Unione Sovietica. Sotto l’Unione Sovietica, i popoli di queste terre furono completamente assoggettati all’autorità di Mosca e le culture indigene sottoposte a un processo di russificazione. Le lingue locali erano state bandite e sostituite dal russo, le popolazioni nomadi costrette a una vita stanziale.
Esiste il timore che, nel tentativo di riconfermarsi come grande potenza, Mosca possa avanzare delle pretese territoriali nella regione. Come abbiamo appreso dal caso ucraino, essere russi o russofoni non vuole dire sostenere Vladimir Putin, ma essere delle potenziali pedine nelle sue politiche espansionistiche. La teoria di Putin sull’artificialità dei confini ucraini potrebbe applicarsi perfettamente anche alle Repubbliche centroasiatiche, essendo tutte state create amministrativamente quasi nello stesso periodo.
Le ex Repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale si trovano in una posizione difficile. Dal crollo dell’Unione Sovietica hanno mantenuto uno stretto legame con la Russia, che ha agito da perno dell’equilibrio regionale, sia in campo economico sia logistico. I flussi migratori verso la Russia sono consistenti e le loro rimesse contano per una parte significativa del PIL dei rispettivi paesi. I prodotti esportati da questa regione, come il petrolio, passano per la rete di trasporti russi prima di raggiungere l’Europa, eccezion fatta in parte per il Kazakhstan. La regione è dunque intrinsecamente collegata allo spazio economico post-sovietico. Kazakhstan e Kirghizistan sono membri dell’Unione eurasiatica insieme a Russia, Armenia, e Bielorussia; Kazakhstan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan fanno parte dell’area di libero commercio della Comunità degli Stati indipendenti e Uzbekistan e Tagikistan, pur non essendo membri dell’Unione eurasiatica, hanno Mosca come primo partner commerciale. La Russia, oltre a essere il principale partner commerciale per questi paesi, è anche una fondamentale terra di transito, attraverso la quale le commodities centrasiatiche (dall’energia, ai prodotti agricoli, alle risorse minerarie, al manifatturiero) raggiungono i mercati europei. Va considerato poi che, pur non essendo vittima di sanzioni e parte del conflitto in atto, la Cina sta avendo un ruolo di primo piano nell’acuire il rallentamento dell’economia regionale. Gli ultimi dati, infatti, danno una riduzione della produzione economica di Pechino, con un conseguente ridimensionamento della crescita del PIL, la più bassa previsione di crescita dal 1991. Dal momento che l’Asia Centrale è sia fornitore di energia, sia consumatore di beni e sia terra di transito per le esportazioni cinesi verso i mercati occidentali, la contrazione economica sofferta dalla Cina è un fattore da tenere in considerazione quando si analizzano i rallentamenti della macroeconomia centrasiatica. Questo dato va interpretato come l’effetto nefasto che le sanzioni alla Russia stanno avendo sulle economie centrasiatiche, sommato agli ancora non del tutto assorbiti effetti della pandemia. Per la Banca Mondiale le proiezioni per la contrazione del PIL per la regione si avvicinano al 4% e ciò è dovuto principalmente all’effetto delle sanzioni che, a livello indiretto, hanno colpito la regione attraverso la Russia, il bersaglio principale.
Il Kazakhstan, che nel 2021 ha avuto una forte crescita del PIL, vede adesso le sue proiezioni diminuite all’1,5-2%, queste stime al ribasso sono in gran parte dovute proprio alle sanzioni alla Russia. Il Kazakhstan, infatti, conta sulla Russia per il 40% del suo import. A ciò si aggiunge il deprezzamento della valuta locale e la sospensione delle operazioni dell’oleodotto Caspian Pipeline Consortium, che rappresenta quasi l’80% dell’export petrolifero di Nursultan. Il conflitto in Ucraina sta poi avendo un forte impatto sulla produzione e il commercio di grano, farina, e derivati, di cui la Russia è il primo produttore mondiale. Il Governo russo per ovviare alla crisi economica creata dalle sanzioni ha imposto un divieto parziale all’export di grano e di altri cereali. I produttori e gli agricoltori del Kazakhstan (ottavo produttore) hanno, quindi, dovuto uti-
lizzare esclusivamente grano locale introducendo, a loro volta, il proprio divieto all’export. Si è così creato un aumento esponenziale dei prezzi che ha causato una reazione a catena nella regione, specie per i paesi più poveri, come per esempio il Tagikistan.
Anche il Kirghizistan sta subendo le conseguenze della guerra in Ucraina, a causa degli effetti a raggiera delle sanzioni a Mosca per i membri dell’Unione eurasiatica. Pur se sprovvisto di idrocarburi, il Kirghizistan sta pagando un alto prezzo a causa della crescente inflazione, dell’aumento dei prezzi e della bassa disponibilità di prodotti e materie prime, causando così un insostenibile aumento dei prezzi per la popolazione. Le considerazioni fatte per il Kirghizistan valgono, sommariamente, anche per il Tagikistan, specialmente per l’impatto che la
guerra sta avendo sui migranti tagiki in territorio russo e per il fatto che il 20% circa del fatturato commerciale del Tagikistan deriva da relazioni economiche con la Russia. Per quanto riguarda l’Uzbekistan, il paese centrasiatico che forse più di tutti si è espresso apertamente per una risoluzione pacifica e per il rispetto delle norme del diritto internazionale territoriale, uno dei principali problemi legati al conflitto russo-ucraino e alle sanzioni annesse è di matrice finanziaria. La Banca centrale uzbeka ha infatti introdotto una misura cautelare per invitare commercianti e banche locali a informarsi sulle condizioni legali e finanziarie delle banche russe, con cui si vuole svolgere attività economica. Questo ha fatto seguito alla sospensione delle transazioni forex, fatta eccezione per quelle in rubli. Da un punto di vista di rimesse, l’Uzbekistan dipende per il 12% da soldi mandati al paese dall’estero, in particolare proprio dalla Russia (dove risiedono tre milioni di uzbeki) e, in minor misura, dal Kazakhstan e dalla Turchia. In termini macroeconomici, il PIL uzbeko è previsto contrarsi, passando da un solido 7,4% nel 2021 a un meno ottimistico 5,6% nel 2022. In questo quadro problematico vi è però un’aspettativa positiva: che la crisi innescata dalla guerra russo-ucraina spinga ulteriormente l’Uzbekistan verso un’ulteriore apertura in termini di economia di mercato e liberalizzazioni e i prossimi mesi saranno cruciali per capire le intenzioni del Governo uzbeko al riguardo. Non è facile trovare informazioni veritiere e affidabili su quanto sta succedendo in Turkmenistan alla luce del conflitto in Ucraina, ma il paese è in qualche modo più protetto dalla crisi generalizzata dovuta alla
guerra, alla luce del carattere prettamente isolato della sua economia (a eccezione degli idrocarburi). La bilancia commerciale di Ashgabat con la Russia è positiva, non ha debito estero, le importazioni dall’Ucraina sono una cifra molto ridotta e, quindi, non vi è stata nessuna massiccia interruzione. La situazione macroeconomica, semmai, è più legata ai prezzi mondiali del gas e al volume delle esportazioni verso la Cina.
Quanto sopra non vuole assolutamente dire che gli asiatici ex sovietici si schiereranno contro Mosca sul conflitto ucraino, sono in maggioranza ancora troppo legati alla Russia e anche se lo volessero non sarebbe al momento per loro conveniente. La regione è una specie di cuscinetto tra due grandi potenze, Cina e Russia, non può litigare con nessuna delle due. La Cina temeva
il potenziale effetto destabilizzante della nascita di cinque Stati indipendenti ai confini della regione autonoma dello Xinjiang, popolata in maggioranza da popolazioni musulmane turcofone, come uiguri e kazaki. Garantire la sicurezza e la stabilità dello Xinjiang costituiva l’obiettivo prioritario della politica cinese, evitando che la minoranza turcofona degli uiguri venisse contagiata da tendenze separatiste. Per assicurare la stabilità e la sicurezza della regione e sfruttare le opportunità politiche ed economiche offerte dal nuovo contesto regionale, Pechino aveva immediatamente sviluppato con le nuove repubbliche una strategia fondata su buone relazioni transfrontaliere e crescenti legami economici. Un partenariato che ha portato a risultati importanti per quanto riguarda il campo economico. Infatti, il commercio tra
la Cina e i nuovi Stati è aumentato di oltre cento volte negli ultimi trent’anni e gli investimenti diretti cinesi hanno superato i 14 miliardi di dollari. Le Repubbliche ex sovietiche dovranno sempre districarsi tra i due potenti vicini, assumendo posizioni a volte anche ambigue per non scontentare nessuno. E il conflitto ucraino ne è oggi un esempio.
Lo scorso gennaio, l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva era intervenuta militarmente in uno Stato membro per la prima volta dalla sua nascita, inviando più di duemila soldati in Kazakhstan, per fermare le proteste che si erano scatenate nel paese. L’intervento era stato guidato dalla Russia che aveva schierato il maggior numero di militari e che, ovviamente, è il fulcro dell’Organizzazione per ragioni storiche e strategiche. Nella missione in Kazakhstan, la Federazione russa aveva voluto confermare il proprio ruolo di leader dei paesi dell’Asia Centrale, consolidando la propria egemonia nell’area. Il Kazakhstan però non solo non ha risposto appieno all’appello di Mosca, ma dopo l’aiuto ricevuto ha firmato un accordo di cooperazione militare (esercitazioni congiunte, ammodernamento di armamenti e collaborazione aerospa-
ziale) con la Turchia. Da rilevare, nel medesimo ambito del vertice, anche il rifiuto di Putin alla richiesta di Pashinyan di inviare truppe del CSTO in Armenia, per reprimere le proteste contro le aperture a delle trattative con l’Azerbaigian sul Nagorno-Karabakh.
Le truppe russe in Kazakistan (Mariya Gordeyeva/Reuters).
Giorgio Malfatti di Monte Tretto, Circolo di Studi Diplomatici
L’ambasciatore Giorgio Malfatti di Monte Tretto, laureato in Scienze politiche alla Università La Sapienza di Roma, è entrato in carriera diplomatica nel 1975. Nel corso della sua attività professionale, in qualità di Ambasciatore, ha ricoperto incarichi diplomatici presso il ministero degli Affari esteri e come Capo missione a Cuba, nel Kazachstan e in Uruguay. Nell’ultimo decennio ha ricoperto la carica di Segretario generale dell’Istituto Italo-Latinoamericano di Roma. È attualmente responsabile istituzionale di un programma europeo per il contrasto alla criminalità organizzata in America Latina.
Il Circolo di Studi Diplomatici è un’associazione fondata nel 1968 su iniziativa di un ristretto gruppo di ambasciatori con l’obiettivo di non disperdere le esperienze e le competenze dopo la cessazione dal servizio attivo. Il Circolo si è poi nel tempo rinnovato e ampliato attraverso la cooptazione di funzionari diplomatici giunti all’apice della carriera nello svolgimento di incarichi di alta responsabilità, a Roma e all’estero.
OSSERVATORIO INTERNAZIONALE
Tagikistan e Afghanistan, l’asse instabile dell’Asia centrale
Gli eventi in Afghanistan hanno fatto preoccupare fin dagli anni 90 il Tagikistan, suo vicino a nord. Il piccolo paese dell’Asia centrale, che ha vissuto una storia molto travagliata a partire dalla caduta dell’Unione Sovietica, ha una posizione geopolitica molto importante all’interno dello scacchiere asiatico, che lo rende direttamente coinvolto negli affari afghani più dei suoi vicini. Gli elementi più importanti della politica tagika nei confronti dell’Afghanistan sono l’eredità della guerra civile e in particolare il ruolo dell’opposizione, che ha avuto un’importante componente islamica, e il ruolo dell’energia idroelettrica nelle esportazioni. Da parte afghana, l’attività dello Stato Islamico nel nord è la componente che allo stesso tempo rende il Governo talebano più debole e può avere effetti anche sul suo vicino settentrionale.
Trent’anni di relazioni complicate
La presa del potere dei talebani nell’agosto del 2021 ha riportato l’attenzione dei media internazionali sulla questione afghana. Sebbene il ritiro delle truppe americane fosse stato annunciato da tempo, lo Stato afghano è imploso in maniera tanto sconcertante e sorprendente, che per gli Stati Uniti è stato definito un nuovo Vietnam. Ma se Washington ha lasciato i cocci, tocca e toccherà agli Stati confinanti cercare di rimetterli a posto senza che ci siano effetti collaterali, riaffrontando problemi vecchi di decenni.
Tajikistan, Turkmenistan e Uzbekistan hanno dovuto far fronte all’instabilità del loro vicino meridionale fin dai primi anni della loro indipendenza. Quello che però non tutti sanno è che tra questi tre stati, il Tagikistan è quello più direttamente coinvolto nella questione afghana e può essere considerato l’anello debole della sicurezza di tutti i paesi postsovietici della regione. Confinante con Kirghizistan, Uzbekistan, Afghanistan e Cina, separato dal Pakistan solo dal lembo di terra conosciuto come corridoio di Wakhan, il Tagikistan è un paese situato su due catene montuose: il Trans-Alay a ovest e il Pamir a est. Fin dai tempi del Grande Gioco tra Regno Unito e Impero zarista ha avuto un ruolo geopolitico di primo piano: controllare le montagne dell’attuale Stato significava superare l’ultimo ostacolo per raggiungere l’India per i russi e rafforzare le difese per gli inglesi. Non a caso il Pamir fu teatro di una importante crisi alla fine del diciannovesimo secolo tra i due imperi (1).
L’importanza della zona è rimasta immutata anche oggi, accresciuta da aspetti etnici e culturali che lo rendono un’eccezione rispetto ai paesi ex-sovietici dell’Asia centrale. La popolazione locale è di origine iranica e non turcomanna e la lingua, sebbene scritta con i caratteri dell’alfabeto cirillico, appartiene alla famiglia del farsi. La divisione regionale tra le due catene montuose si rispecchia al livello demografico e istituzionale: nella regione del Pamir, la popolazione ha una cultura e una lingua differente rispetto al resto del paese; da un punto di vista amministrativo la regione, conosciuta con il nome di Gorno-Badakhshan, è almeno sulla carta autonoma. Anche dal punto di vista religioso il paese è un’eccezione in Asia centrale, perché è stato il primo in cui si è avuta nella popolazione una rinascita della religione musulmana in tutta la regione (2) (la maggioranza della popolazione è sunnita, mentre nel Pamir la popolazione è sciita) (3). Tutti questi aspetti sono confluiti in un evento unico nella storia postsovietica della regione: lo scoppio della guerra civile nel 1992 e durata fino al 1997.
Il conflitto civile fu scatenato dalla presa della capitale da parte del Partito di Rinascita Islamica del Tagikistan (IRPT) e dalla reazione di un gruppo armato poi conosciuto come Opposizione Unita del Tagikistan (UTO) (4) di cui l’attuale presidente del paese Emomali Rahmon era uno dei leader. La pace fu raggiunta nel 1997 grazie a un accordo che garantiva al fronte politico formatosi attorno all’IRPT il 30% dei seggi del parlamento (5). A seguito degli accordi di pace, il IRPT è stato molto attivo nella politica nazionale, nonostante i continui tentativi di limitarne l’attività dovuti all’autoritarismo di Rahmon (6). È proprio in concomitanza con il processo di pace in Tajikistan che i talebani prendono il potere in Afghanistan per la prima volta. Da quel momento in avanti, a Dushanbe hanno iniziato a temere per i possibili effetti del regime dei talebani sul paese, vista la presenza dell’elemento religioso nei partiti di opposizione.
In particolare, l’IRPT ha mantenuto per anni un ruolo importante nella politica del piccolo paese centroasiatico, tanto che le statistiche parlavano di circa 45.000 iscritti fino al 2015 con ben 58 sezioni in tutto il paese (7). Il partito è stato definitivamente sciolto nel 2015 dal Governo tagico, nonostante negli anni avesse assunto il ruolo di rappresentante moderato dell’Islam politico (8) capace di rappresentare un’alternativa ad altri movimenti religiosi e di bloccare la possibilità che in Tajikistan potessero sorgere insurrezioni nel periodo delle Primavere Arabe. Fu solo l’ultimo atto di una lunga serie di limitazioni all’attività politica del partito. Nei quindici anni successivi agli accordi di pace, l’Islam era diventato sinonimo di opposizione politica e il Governo di Dushanbe approfittò della minaccia dello Stato Islamico in Siria in quegli anni per sbarazzarsi del tutto del partito (9).
Il timore di un Afghanistan instabile diminuì a partire dal 2001 con la caduta del primo Governo talebano, a lungo è stata lontano dai pensieri del Tagikistan, per poi accrescere nuovamente dopo l’annuncio del ritiro delle truppe americane. Nei negoziati per il processo di pace afghano stabiliti dagli accordi di Doha, il Tagikistan ha sempre tenuto una posizione «istituzionale» appoggiando il Governo di Kabul, perché mirava ad avere un vicino forte e riconosciuto internazionalmente (10). Quando invece è apparso chiaro che i negoziati stavano fallendo e i talebani si accingevano a riconquistare il potere, la prima reazione è stata quella di mettere in sicurezza i confini nazionali, mobilitando la popolazione (11) e organizzando esercitazioni militari congiunte con la Russia (12) (che fin dalla fine della guerra civile mantiene un battaglione su territorio tagico nella base di Dushanbe).
Una volta che i talebani hanno riconquistato definitivamente il potere, Rahmon ha tenuto una posizione di scontro perché richiedeva a gran voce che la minoranza tagica, che conta quasi un terzo della popolazione afghana, avesse un’adeguata rappresentanza all’interno del Governo che si stava formando (13). Lo scontro con il nuovo regime è andato avanti per settimane, con i due paesi che si scambiavano accuse a vicenda: Dushanbe sosteneva che i talebani non avessero rispettato le promesse di un Governo di rappresentanza etnica, mentre Kabul
che il Tajikistan facesse di tutto per indebolire il regime dando rifugio agli oppositori degli studenti coranici e sostenendo le milizie dell’Alleanza del Nord, guidate da Ahmad Massoud, figlio del Leone del Panjshir Ahmad Shah Massoud, oppositore dei Talebani di etnia tagica ucciso due giorni prima dell’attacco alle Torri Gemelle (14).
In questi primi mesi del 2022 la tensione si è raffreddata. I toni tra i due Governi si sono fatti meno accesi e il Tagikistan sembra aver iniziato un debole dialogo con il suo problematico vicino. Alla radice di questo cambiamento ci sono le forniture di energia a Kabul: durante gli anni dell’occupazione americana, il Tagikistan è diventato uno dei fornitori principali di energia elettrica dell’Afghanistan insieme all’Uzbekistan. Lo sfruttamento delle abbondanti risorse idriche del paese garantisce al Tagikistan di avere un surplus durante i mesi estivi che viene esportata a sud. Con il passare degli anni si è aperta la possibilità di diventare il principale fornitore regionale di energia idroelettrica e la possibilità di differenziare l’economia nazionale, fortemente basata sul settore minerario e le rimesse provenienti dai lavoratori stagionali in Russia.
Le spiegazioni delle posizioni di Dushanbe
Provare a spiegare lo sviluppo delle relazioni tra i due Stati non è cosa semplice: si possono applicare differenti teorie per ogni mossa e decisione presa da Dushanbe nel corso dei trent’anni d’indipendenza. Ciò è il riflesso delle relazioni tra i due Stati, che continueranno a essere complesse negli anni a venire.
In Tagikistan negli anni 90 sorsero molte teorie sul ruolo geopolitico regionale e continentale che il paese doveva avere. Al dibattito interno parteciparono esponenti di correnti differenti, da quelle marxiste a quelle realiste vicine al regime di Rahmon e tutte partivano dalle potenzialità derivanti dalla posizione geografica del piccolo Stato. Uno degli esponenti principali delle correnti realiste fu Abdughani Mamadazinov. Mamadazinov elaborò la sua proposta partendo dalla proiezione spaziale del paese (15). Per l’analista il Tagikistan doveva diversificare le sue proiezioni spaziali su due assi: uno nord-sud e uno est-ovest, eliminando l’elemento etnico discusso in quel periodo e preferendo nei confronti dell’Afghanistan il driver economico (16).
Applicando l’approccio di Mamadazinov, si capisce perché la tensione tra Tagikistan e Afghanistan si sia raffreddata sul tema delle forniture energetiche. A partire dal 2011 è stato sviluppato nella regione il Central Asia-South Asia Power Project, conosciuto anche come CASA-1000. Finanziato da enti internazionali (17), unisce con una rete di impianti idroelettrici e cavi per la trasmissione di energia elettrica lunga circa 1400 km in quattro paesi: Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan e Pakistan (18). Questo progetto non è strategico solo per il Tajikistan, ma anche per lo stesso Afghanistan, che ha bisogno dell’energia proveniente dai vicini settentrionali per fornire di energia parte del paese e per non peggiorare ulteriormente la situazione economica creatasi dopo il blocco delle riserve nazionali bloccate dalle sanzioni: secondo i dati della SIGAR, la mancanza di energia elettrica avrebbe ripercussioni sulle già critiche condizioni di vita di almeno dieci milioni di afghani nelle province settentrionali (19). Dushanbe quindi non vuole privarsi del suo principale cliente visto questa situazione come una leva politica da poter
utilizzare nei confronti di Kabul sia per quanto riguarda la parte economica sia per quanto riguarda il ruolo del paese negli equilibri regionali.
Un altro fattore che sta giocando a favore del mite cambiamento di postura del Tagikistan è l’attività dello Stato Islamico in Afghanistan, conosciuto come Stato Islamico nella Provincia del Khorasan (ISKP). Per comprendere meglio la minaccia rappresentata dal ISKP bisogna però fare ancora un piccolo excursus sulle relazioni tra i Talebani e le singole fazioni presenti nel paese, soprattutto nel nord. Nei vent’anni di occupazione americana, i Talebani hanno accolto alcune milizie centroasiatiche e fino allo scorso gennaio quattro gruppi erano ancora attivi: il Movimento Islamico dell’Uzbekistan (IMU), Jamaat Ansarullah (JA), l’Unione della Jihad Islamica (IJU) e la sezione afghana del Katibat Imam al-Bukhari (KIB); questi gruppi erano usati dai Talebani negli scontri con le Forze armate governative, contro le Forze americane e contro altri gruppi jihadisti, Jamaat Adsarullah sarebbe stata utilizzata dai Talebani per pattugliare i confini con il Tajikistan (20). La scelta non è casuale: il gruppo miliziano era l’ala tagica dell’IMU durante la guerra civile tagica (21). Dopo il 15 agosto 2021 l’ISKP ha iniziato a utilizzare le differenze etniche di questi gruppi di miliziani a proprio vantaggio. Partendo dall’assunto che i Talebani non sono un vero gruppo jihadista ma una milizia che cura solo gli interessi pashtun, ha iniziato una serrata campagna di reclutamento tra le minoranze del nord, tra le quali anche quelle centroasiatiche (22). L’azione dell’ISKP sarebbe così forte tra quelle popolazioni che i Talebani starebbero perdendo il controllo delle province settentrionali (23). Per i Talebani l’ascesa dell’ISKP rappresenta una minaccia alla loro legittimità politica e alla loro autorità religiosa, mentre per il Tajikistan la presenza di un gruppo di miliziani delle bandiere nere rappresenta un pericolo perché rinnoverebbe il pericolo di effetti a catena sulla sicurezza, come si è notato nelle ultime settimane (24).
Prendendo in considerazione la minaccia dell’ISKP, la spiegazione che si può dare alle posizioni di Rahmon è il suo timore per un Governo debole e troppo orientato verso i pashtun. Qui però sorge una domanda legittima: perché allora appoggiare Massoud e le sue milizie nel Panjshir fin dai giorni successivi alla presa del potere talebano? La risposta più plausibile è che mirasse a rafforzare il più importante gruppo armato della minoranza per indebolire, se non sconfiggere, i Talebani per evitare che le divisioni etniche potessero diventare l’elemento d’instabilità dal quale i gruppi islamici come l’ISKP potessero attingere. Se ripensiamo al fatto che la minaccia dell’ISIS fu sbandierata come principale ragione per lo scioglimento dell’IRPT, il problema si ricollega al timore che i gruppi islamici sono percepiti come la fonte primaria dell’opposizione politica del regime.
L’azione del Tajikistan nei confronti della questione afghana è stata differente rispetto agli altri paesi dall’Asia centrale. Turkmenistan e Uzbekistan fin dalla prima metà del 2021 hanno avuto un approccio molto più realistico e pragmatico. Il Turkmenistan, paese caratterizzato da una politica estera ufficialmente neutrale, aveva già incontrato ben prima della presa del potere i rappresentanti degli studenti coranici (25). Anche l’Uzbekistan, ha tenuto inizialmente una posizione molto meno rigida rispetto al Tagikistan. Harpviken e Tadjbakhsh hanno spiegato questo fenomeno partendo dall’assunto che i paesi dell’Asia centrale non possono avere un approccio unitario al
problema afghani a causa delle loro rivalità (come, per esempio, tra lo stesso Tagikistan e l’Uzbekistan per lo sfruttamento delle fonti idriche), dalla perdita della sovranità e dalle relazioni con le potenze esterne (26). In poche parole, dalle diverse percezioni della loro sicurezza (27). A dimostrazione di ciò, basti considerare che anche il Turkmenistan ha interessi in Afghanistan per quanto riguarda il settore energetico: la costruzione del gasdotto Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India, conosciuto come TAPI, che per Ashgabat rappresenta un progetto di primaria importanza per la differenziazione delle esportazioni di gas (28). Va inoltre evidenziato che il Turkmenistan non ha problemi di opposizione politica come il Tagikistan perché il regime dei Berdimuhamedow è uno dei più rigidi al mondo e non esiste opposizione politica nel paese, mentre, come abbiamo visto, in Tagikistan i rapporti con l’opposizione islamica sono una diretta conseguenza della guerra civile. Se si paragonano due casi, è chiaro che ad Ashgabat la sicurezza del regime passa per la produzione e la vendita di gas, fonte principale dell’economia, mentre a Dushanbe passa per l’assenza di elementi politici islamici riconosciuti come opposizione politica.
Conclusione
La postura politica del Tagikistan nei confronti della questione afghana e del regime talebano dipenderà dagli sviluppi interni dell’Afghanistan. Abbiamo visto che le relazioni tra i due paesi hanno come elementi principali il mantenimento degli interessi politici (lotta all’opposizione islamica) ed economica (export di energia) del Tagikistan e la stabilità interna (leggasi etnica) del regime talebano. Ma questi elementi rimarranno stabili o muteranno? Da parte di Dushanbe la risposta è sì, mentre da parte di Kabul bisognerà vedere la tenuta del regime, messo alla prova dalla crisi umanitaria, economica e politica, con l’ISKP che potrebbe davvero essere il grande rivale dei Talebani.
Cosimo Graziani Centro Studi Geopolitica.info, Sapienza Università di Roma
NOTE
(1) Hopkirk, P. (2004), Il Grande Gioco, Milano: Adelphi Edizioni. (2) Malashenko, A. (2012), Tajikistan: Civil War’s Long Eco, Carnegie Moscow Center, www.jstor.org/stable/resrep26714. (3) Tajikistan, Enciclopedia Britannica, www.britannica.com/place/ Tajikistan/People. (4) Gleason, G. (2001), Why Russia is in Tajikistan, Comparative Strategy, 20, 77-89. (5) Malashenko, ibidem. (6) Malashenko, ibidem. (7) Tajikistan’s Embattled Islamic Party, Central Asia Bureau for Analytical Reporting, https://cabar.asia/en/tajikistan-s-embattled-islamic-party-2. (8) Renegade General’s Forces «Surrounded» in Tajikistan, Central Asia Bureau for Analytical Reporting, https://cabar.asia/en/renegade-general-s-forces-surrounded-in-tajikistan. (9) Ibidem. (10) Afghanistan’s Abdullah Pushes Regional Support For Peace Talks In Tajikistan, Radio Free Europe/Radio Liverty, www.rferl.org/a/abdullah-rahmon-afghanpeace-tajikistan/31013827.html. (11) Local Tajiks On Afghan Border Trained To Defend Against «Taliban Attack», Radio Free Europe/Radio Liberty, www.rferl.org/a/tajiks-afghan-border-training—taliban-attack/31142093.html. (12) Tajikistan: Afghan crisis serves as opportunity to show off military might, Eurasianet, https://eurasianet.org/tajikistan-afghan-crisis-serves-as-opportunity-toshow-off-military-might. (13) Tajikistan: President demands Tajik role in running Afghanistan, Eurasianet, https://eurasianet.org/tajikistan-president-demands-tajik-role-in-running-afghanistan. (14) Imanaliyeva A., Ibragimova K., Kyrgyzstan, Tajikistan diverge on approaches to Afghanistan, Eurasianet, https://eurasianet.org/kyrgyzstan-tajikistan-divergeon-approaches-to-afghanistan. (15) Nourzhakov, K. (2013), Mackinder on the Roof of the World, in Megoran, N. e Sharapova, S., Central Asia in International Relations: The Legacies of Halford Mackinder, p. 155, C Hurst & Co Publishers Ltd. (16) Nourzhakov, ibidem, pp. 156-157. (17) Casa-1000, www.casa-1000.org. (18) The Usaid Casa-1000 Secretariat Activity Fact Sheet, United States Agency for International Development, www.usaid.gov/sites/default/files/documents/ 20211122_CASA-1000_Fact_Sheet.pdf. (19) Lillis, J., Afghanistan in hock to Uzbekistan e Tajikistan for electricity, Eurasianet, https://eurasianet.org/afghanistan-in-hock-to-uzbekistan-and-tajikistan-forelectricity. (20) Soliev, N. e Pantucci R., Central Asia, Counter Terrorist Trends and Analyses, January 2022, Vol. 14, No. 1 (January 2022), pp. 90-98. (21) Pannier, B., Northen Afghanistan and the new threat to Central Asia, Foreign Policy Research Institute, www.fpri.org/article/2022/05/northern-afghanistan-andthe-new-threat-to-central-asia. (22) Webber, L., Perspectives | Islamic State continues anti-Taliban PR push, with Tashkent in crosshairs, Eurasianet, https://eurasianet.org/perspectives-islamicstate-continues-anti-taliban-pr-push-with-tashkent-in-crosshairs. (23) Pannier, ibidem. (24) Uzbekistan Dismisses Islamic State’s Claim of Cross-Border Attack, Voanews, www.voanews.com/a/uzbekistan-dismisses-islamic-state-s-claim-of-cross-border-attack-/6535868.html. (25) Pannier, B. e Saddique A., What Happened When The Taliban Visited Turkmenistan?, Radio Free Europe/Radio Liberty, www.rferl.org/a/talibanturkmenistan/31098344.html. (26) Harpviken K. B. e Tadjbakhsh S. (2016), A Rock Between Hard Places: Afghanistan as an Arena of Regional Insecurity, Oxford: Oxfrod University Press, p. 57. (27) Harpviken e Tadjbakhsh, Ibidem, p. 2. (28) Burna-Asefi, S. N. India’s Plan to Realize TAPI, The Diplomat, https://thediplomat.com/2022/04/indias-plan-to-realize-tapi.
ITALIA Inizia l’esercitazione Mare Aperto 2022
Iniziata a maggio l’esercitazione Mare Aperto 22 (MA22), il maggior evento addestrativo della Marina Militare. Nel corso di tre settimane più di 4.000 tra donne e uomini di 7 nazioni della NATO e oltre 65 tra navi, sommergibili, velivoli ed elicotteri, hanno operato tra l’Adriatico, lo Ionio, il Tirreno e il Canale di Sicilia sviluppando attività che interessano anche i territori marittimi circostanti grazie alle capacità di proiezione su terra esprimibile dalla componente anfibia imbarcata. All’esercitazione hanno preso parte anche diversi velivoli dell’Aeronautica Militare, tra cui caccia Eurofighter «F-35B» STOVL, che ha operato da nave Cavour e assetti di comando e controllo «CAEW G-550» e per il rifornimento in volo «KC-767». L’attività, diretta dal Comando in capo della Squadra navale imbarcato su nave Cavour, ha coinvolto lo staff della Brigata Marina San Marco e quelli delle diverse Divisioni navali in cui si articola l’organizzazione operativa della Marina. Le forze in campo si sono esercitate nel dominio marittimo, i cui connotati si sviluppano anche nei contesti aereo e terrestre, e in quelli innovativi dello spazio e della cyber-security, simulando scenari ad alta intensità e in veloce mutamento attraverso cui verificare le capacita ̀ di intervento in svariate aree, dalla prevenzione e il contrasto di traffici illeciti, alla lotta contro minacce convenzionali e asimmetriche, secondo uno scenario realistico con approccio centrato sul concetto di MultiDomain Operations (MDO) ed esplorando nuove combinazioni di impiego delle forze assegnate. Tra queste l’Expeditionary Advanced Base Operations (EABO), in studio nella US Navy, per estendere il raggio di azione delle Forze marittime e controllare così zone di mare strategiche. Il forte «connotato di proiezione» dell’esercitazione è stato sostenuto dalla presenza di una Forza da sbarco composta da oltre 350 fucilieri della Brigata Marina San Marco integrata da una compagnia di Lagunari dell’Esercito italiano e due della Forza da sbarco della Marina spagnola. Analogamente alle precedenti edizioni, ben 42 studenti e docenti accompagnatori di 11 diversi centri universitari fra cui l’università degli studi di Bari, Genova, Libera Università Internazionale degli Studi Sociali di Roma, per gli stranieri di Siena, Sant’Anna di Pisa, Federico II di Napoli, Trieste, La Sapienza di Roma, Ca’ Foscari di Venezia, Alma Mater Studiorum di Bologna e Cattolica del Sacro Cuore di Milano, hanno partecipato all’esercitazione, cimentandosi in diversi ruoli a secondo del loro percorso di studi fra cui quelli di political advisor, legal advisor e addetto alla pubblica informazione, nonché tecnici. Nel più ampio quadro del rafforzamento dei legami con il cluster marittimo nazionale, hanno preso parte all’esercitazione anche la Confederazione degli Armatori (Confitarma), il Centro di Geopolitica e Strategia Marittima (CESMAR), le infermiere volontarie della Croce Rossa Italiana e appartenenti al Sovrano Ordine di Malta. Tra i principali obiettivi dell’esercitazione si annoverano anche il proseguimento della campagna di sviluppo delle capacità del nuovo velivolo di 5a generazione «F-35B», propedeutica al raggiungimento della IOC (Initial Operational Capability) nel 2024, e del processo di integrazione con le altre Forze armate e con le Marine estere.
A partire da maggio, oltre 4.000 tra donne e uomini di 7 nazioni della NATO e oltre 65 tra navi, sommergibili, velivoli ed elicotteri, hanno operato tra l’Adriatico, lo Ionio, il Tirreno e il Canale di Sicilia, partecipando all’esercitazione Mare Aperto 22 (MA22), il maggior evento addestrativo della Marina Militare.
Quarantennale della partecipazione alla missione MFO Sinai
Le unità navali della Marina Militare continuano, a distanza di 40 anni dall’istituzione dell’MFO Sinai, a far base nel porto di Sharm el-Sheikh, nel sud-est del Sinai, allo scopo di assicurare il mantenimento della pace tra la Repubblica araba d’Egitto e lo Stato d’Israele, sulla base degli accordi di Camp David del 17 settembre 1978 che sancirono la nascita della MFO (Multinational Force and Observers). La Marina Militare partecipa attivamente alla missione dal 25 marzo 1982 (con interventi di pattugliamento a partire dal mese di aprile dello stesso anno) e le unità navali del 10° Gruppo Navale Costiero hanno effettuato, dall’inizio della missione, oltre 170.000 ore di pattugliamento, di cui circa il 30% in arco notturno, in un’area di operazione ampia circa 600 miglia marine quadrate, a sorveglianza dello stretto di Tiran, in quanto «choke-point» di rilevanza internazionale, attraverso il quale transitano ogni anno oltre 1200 mercantili. Più dettagliatamente operano sotto egida della MFO tre navi da pattugliamento della classe «Esploratore» e il contingente, anch’esso della Marina, è composto da 78 militari: oltre ai tre equipaggi, vi si trova una aliquota di personale della Brigata Marina San Marco (30 militari del GaT-Gruppo a Terra) responsabile della Force Protection, personale tecnico, palombari specializzati EOD e altri militari impiegati presso la Sala operativa (Tactical Operational Center), nello staff logistico, in quello amministrativo e nel team medico, quest’ultimo impegnato a fronteggiare le esigenze sanitarie non solo del contingente italiano, ma adoperandosi a favore dell’intera base militare. Alla missione partecipano altri undici paesi e l’attività di controllo viene portata avanti da postazioni terrestri remotizzate, mobili, gli assetti navali della MM e aerei forniti dagli altri partecipanti.
Cambio al vertice per i Fucilieri di Marina
Lo scorso 20 aprile, presso la caserma Ermanno Carlotto di Brindisi si è tenuta la cerimonia di avvicendamento al Comando della Brigata Marina San Marco e del Comando del Presidio militare di Brindisi tra il contram-
A distanza di 40 anni dall’istituzione dell’MFO (Multinational Force and Observers) Sinai, le unità navali della Marina Militare continuano a far base nel porto di Sharm el-Sheikh, nel sud-est del Sinai, allo scopo di assicurare il mantenimento della pace tra la Repubblica araba d’Egitto e lo Stato d’Israele.
miraglio Luca Anconelli (cedente) e il contrammiraglio Massimiliano Giuseppe Grazioso (subentrante), presieduta dal Comandante in capo della Squadra navale, ammiraglio Aurelio De Carolis. L’ammiraglio Anconelli ha lasciato l’incarico dopo quasi due anni, durante i quali gli uomini e le donne della Brigata Marina San Marco sono stati coinvolti, in aggiunta alle attività svolte in patria, a quelle svolte in ambito internazionale, fra cui le Maritime Operations svolte dalla Squadra navale, oltre che nelle Land Operations attive nell’ambito della missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia, nel contesto della missione bilaterale italiana in Libano, nell’ operazione Prima Parthica attiva in Iraq, a Gibuti presso la base militare italiana di supporto e infine in Somalia.
ARGENTINA Consegnato ultimo pattugliatore classe «Bouchard»
L’ultimo dei quattro pattugliatori d’altura classe «Bouchard» tipo «OPV 87» ordinati al gruppo cantieristico francese Naval Group e realizzati dalla joint-venture Kership insieme ai cantieri Piriou è stato consegnato alla Marina argentina con una cerimonia tenutasi lo scorso 11 aprile presso i cantieri di Concarneau. Si tratta dell’OPV Contraalmirante Cordero (P 54) la cui consegna segna il successo di un programma che ha rispettato tutte le sue scadenze: il capoclasse Bouchard (ex L’Adroit) è stato consegnato a dicembre 2019 con due mesi di anticipo rispetto al previsto, mentre la seconda e la terza unità, rispettivamente battezzate Piedrabuena e Storni sono state consegnate ad aprile e ottobre 2021, in linea con il programma originale. Si tratta di OPV da 87 metri e 1.650 tonnellate di dislocamento caratterizzati da uno scafo rinforzato per l’impiego nelle acque dei mari estremo-meridionali e dalla capacità d’imbarcare e lanciare da postazioni poppiere due battelli veloci a chiglia rigida da 9 metri e un ponte di volo e hangar per il supporto all’impiego di un elicottero da 9 tonnellate. In grado d’imbarcare fino a 59 persone compreso l’equipaggio, queste unità dispongono di un sistema di combattimento incentrato su un sistema di comando e controllo Naval Group «Polaris» che fornisce anche un sistema data link tattico «NiDL» mentre l’armamento è incentrato su un affusto Leonardo OTO «Marlin-WS» da 30 mm.
AUSTRALIA Consegnato il primo ECCPB
I cantieri Austal hanno consegnato il primo pattugliatore della classe «Cape Evolved» o ECCPB (Evolved Cape-class Patrol Boat) alla Royal Australian Navy alla fine di marzo. Con una cerimonia tenutasi presso i cantieri Austal di Henderson, l’unità capoclasse è stata consegnata e battezzata con il nome Cape Otway (314) alla presenza del ministro della Difesa Peter Dutton. Si tratta della prima di otto unità, di cui le ultime due sono state ordinate lo scorso 18 aprile successivamente alla consegna dell’ultima capoclasse. Si tratta di pattugliatori da 58 metri che rappresentano una versione migliorata con dislocamento, dimensioni maggiorate e capacità potenziate rispetto alle unità in servizio della classe «Cape».
L’ultimo dei quattro pattugliatori d’altura classe «Bouchard» è stato consegnato alla Marina argentina lo scorso 11 aprile presso i cantieri di Concarneau, in Francia (Naval Group). I cantieri Austal hanno consegnato il primo pattugliatore della classe «Cape Evolved» o ECCPB (Evolved Cape-class Patrol Boat) alla Royal Australian Navy alla fine di marzo (Austal).
Acquisizione accelerata di nuovi sistemi d’arma
Il Governo australiano ha annunciato il 5 aprile scorso di voler accelerare l’acquisizione di nuovi sistemi d’arma per un totale di 3,5 miliardi di dollari australiani. In aggiunta ai sistemi d’arma stand-off a lunga portata Lockheed Martin Joint Air-to-Surface Standoff Missile Extended Range (JASSM-ER) per la Royal Australian Air Force, nuovi missili antinave e mine navali sono destinati a potenziare le capacità della Royal Australian Navy. In particolare, verranno acquistati sistemi Kongsberg NSM (Naval Strike Missile) in sostituzione dei missili «Harpoon II» imbarcati sulle fregate classe «Anzac» e sui caccia classe «Hobart» incrementando significativamente le capacità d’attacco a lunga portata a disposizione di queste due classi a partire dal 2024, così come le mine navali accresceranno le capacità difensive delle rotte d’avvicinamento ai porti australiani.
BAHRAIN Completato programma ammodernamento naviglio
Nel corso di una cerimonia svoltasi presso la base navale di Mina Salman, quartier generale della Royal Bahrain Navy, Leonardo ha consegnato lo scorso fine marzo l’ultima delle sei unità navali sottoposte a un esteso programma d’ammodernamento lanciato con la firma del relativo contratto nel 2015. Si tratta dell’unità Al Taweelah (23), ultima delle quattro unità classe «Ahmed Al Fateh» che insieme alle due unità classe «Al Manama» sono state sottoposte da Leonardo a un’estesa attività d’ammodernamento del sistema di combattimento che ha visto l’adozione del sistema di comando e controllo «Athena» nonché l’introduzione di nuovi sensori comprendenti un radar di sorveglianza aeronavale «SPS-732», una direzione del tiro radar/elettro-ottica «NA-25X» per il cannone da 76/62 mm OTO compatto e una direzione del tiro elettro-ottica «Medusa Mk4/B» per la gestione dell’affusto binato OTO da 40 mm. Il contratto comprendeva anche servizi d’addestramento e supporto logistico.
COREA DEL SUD Nuovo sistema missilistico antiaereo imbarcato
L’Agenzia per lo sviluppo, acquisizione e supporto di nuovi sistemi d’arma del ministero della Difesa della Corea del Sud ha ufficialmente approvato il lancio del programma per un nuovo sistema missilistico per la difesa aerea imbarcato. Secondo quanto trapelato, potrebbe essere una versione navale del sistema terrestre L-SAM sviluppato dal gruppo coreano LIG Nex1. Il sistema è destinato a essere imbarcato sui futuri caccia lanciamissili tipo DDX che disporranno di sistemi radar con antenne fisse a scansione elettronica attiva di produzione nazionale. Il relativo programma è destinato alla realizzazione di un sistema missilistico con capacità similari se non superiori a quelle della famiglia «Standard» e in particolare della munizione «SM-2» per l’ingaggio di bersagli aerei e missilistici di varia natura.
FRANCIA Prime prove a mare del «VSR 700»
La società Airbus Helicopters ha completato con successo la prima campagna a mare di decolli e atterraggi in modalità autonomo del drone «VSR 700», un sistema senza pilota in fase di sviluppo nell’ambito del programma SDAM (Système de drone aérien de la Marine), condotto dalla DGA (Direction générale de l’Armement) per la Marina francese. Le prove sono state condotte su di una piattaforma navale commerciale con ponte di volo al largo delle coste di Brest, utilizzando un velivolo a pilotaggio opzionale basato su una piattaforma ad ala rotante Guimbal «Cabri G2» modificata e dotata del sistema di decollo e atterraggio autonomo
Nel corso di una cerimonia svoltasi a fine marzo presso la base navale di Mina Salman, quartier generale della Royal Bahrain Navy, Leonardo ha consegnato l’ultima delle sei unità navali sottoposte a un esteso programma d’ammodernamento (U.S. Naval Forces Central Command / U.S. 5th Fleet).
(ATOL) sviluppato per il velivolo senza pilota «VSR 700». Questa campagna di test di volo apre la strada alla prossima dimostrazione in mare del «VSR 700», a bordo di una fregata della Marina francese. Secondo quanto riportato, questi test in condizioni di attività reale costituiscono un passo cruciale verso la campagna che l’industria condurrà con la DGA e la Marina francese in mare entro la fine dell’anno.
GERMANIA Cannoni Leonardo per le fregate «F-126»
Il gruppo cantieristico Damen, quale capocommessa per la fornitura delle fregate tipo «F-126» al ministero della Difesa tedesco, ha assegnato al gruppo Leonardo un contratto di valore imprecisato per la fornitura del sistema d’artiglieria navale OTO «127/64 LW (LightWeight) Vulcano» destinato a equipaggiare le quattro unità della classe finora ordinate, a cui s’aggiungono due unità opzionali, per la Marina tedesca. L’accordo include servizi di supporto e manutenzione, simulatori per la formazione dell’equipaggio e attività di bordo per l’integrazione e la messa in esercizio. Il nuovo contratto rafforza ulteriormente la partnership strategica di lunga data tra Leonardo — che in Germania opera con diverse attività ed è anche presente attraverso la controllata Leonardo Germany GmbH con uno stabilimento produttivo nella città di Neuss — e la Marina tedesca. I sistemi per la difesa navale di Leonardo sono già a bordo di diverse tipologie di navi tedesche, incluse le fregate classe «Baden-Württemberg», anch’esse dotate dell’OTO «127/64 LW Vulcano» con capacità di impiego delle munizioni «Vulcano». Si tratta di un sistema tecnologicamente sofisticato e completamente digitalizzato che grazie al sistema NFS (Naval Fire Support) assicura un supporto costante agli operatori e al Combat Management System di bordo per il calcolo delle soluzioni di tiro nel corso della pianificazione della missione. Unico al mondo in grado di integrare le munizioni «Vulcano» da 127 mm di Leonardo nella versione GLR (Guided Long Range) e nella versione BER (Ballistic Extended Range), oltre al munizionamento convenzionale, l’OTO «127/64 LW Vulcano» è in grado di estendere la capacità di difesa della nave fino a 85 km di distanza con precisione metrica.
GIAPPONE Iniziati i lavori di conversione della seconda unità classe «Izumo»
Lo scorso aprile sono iniziati i lavori di conversione in portaerei STOVL della seconda unità classe «Izumo» presso i cantieri Japan Marine United (JMU) di Kure. A differenza dell’unità capoclasse, su cui sono stati effettuati i lavori di protezione del ponte di volo necessari a sopportare il calore degli scarichi del sistema propulsivo del velivolo «F-35B» in versione STOVL, e soltanto in un momento successivo verranno realizzati i lavori per rendere quadrata la zona prodiera del ponte di volo oggi di forma trapezoidale, l’ammodernamento sull’unità Kaga (DDH 184) verrà effettuato con un unico ciclo di lavori. Questi ultimi saranno completati secondo il cronoprogramma in 14 mesi, a cui seguirà una seconda fase, destinata a iniziare nel marzo 2027, per la modifica degli spazi interni e l’imbarco della necessaria dotazione per la pianificazione delle missioni e la manutenzione del nuovo velivolo. Secondo quanto previsto, le prime consegne del velivolo «F-35B» alla Japan Air Self-Defense Force (JASDF) che opererà dalle unità ammodernate, inizieranno nell’anno fiscale giapponese 2024. I nuovi velivoli saranno stanziati sulla base aerea di Nyutabaru vicino Kyushu, con le prime sei macchine che arriveranno nell’anno fiscale 2024, seguite da altre due nell’anno fiscale 2025, a cui seguiranno ulteriori per raggiungere la componente di uno squadrone pari a 20 velivoli.
Il gruppo Damen ha assegnato al gruppo Leonardo un contratto di valore imprecisato per la fornitura del sistema d’artiglieria navale OTO «127/64 LW (LightWeight) Vulcano» destinato a equipaggiare le quattro fregate tipo «F-126» per la Marina tedesca, con opzione per due ulteriori unità (Damen).
General Atomics Sea Guardian per Guardia Costiera
La società americana General Atomics Aeronautical Systems è stata prescelta per supportare il programma per un nuovo sistema a pilotaggio remoto o RPAS (Remotely Piloted Aircraft System) destinato alla Guardia Costiera giapponese. Quest’ultima ha scelto il sistema «MQ-9B Sea Guardian» che inizierà a operare in supporto di quest’ultima a partire dall’ottobre del 2022.
GRAN BRETAGNA Impostata la chiglia della prima fregata «Type 31»
Con una cerimonia tenutasi presso i cantieri Babcock di Rosyth in Scozia è stata impostata la chiglia della prima delle cinque fregate classe «Inspiration» «Type 31». La cerimonia si è tenuta presso il nuovo capannone in grado di accogliere l’assemblaggio in parallelo dei moduli dello scafo di due fregate della classe. La capoclasse Venturer, la cui prima lamiera è stata tagliata nel settembre 2021, è previsto venga varata nel 2023 per entrare in servizio nel 2027. La seconda unità battezzata Active è previsto inizi l’attività costruttiva nel 2023 mentre il completamento della costruzione di tutte e cinque le fregate è prevista per il 2028, e la loro entrata in servizio seguirà nel 2030. Le nuove fregate classe «Inspiration» «Type 31» sono base sul progetto «Arrowhead 140», un’evoluzione di quelle delle fregate classe «Iver Huitfeldt» per la Marina danese, che sono state progettate dal team industriale danese OMT e adattate ai requisiti della Royal Navy dalla società Babcock e dalla società di consulenza progettuale BMT.
INDIA Costituito il secondo reparto per velivoli «P-8°»
La Marina indiana ha costituito il secondo squadrone equipaggiato con il velivolo per la lotta di superficie e antisom a lungo raggio Boeing «P-8A Poseidon». Si tratta dell’Air Squadron 316, che è stato ufficialmente costituito il 29 marzo scorso presso la base aeronavale di Hansa, vicino Goa, con i quattro nuovi «P-8°» fornito da Boeing con il secondo e ultimo contratto siglato nel 2016 e introdotti in servizio a fine dicembre 2021.
Con una cerimonia tenutasi presso i cantieri Babcock di Rosyth in Scozia è stata impostata la chiglia della prima delle cinque fregate classe «Inspiration» o «Type 31» (Royal Navy). La Marina indiana ha costituito lo scorso fine marzo il secondo squadrone equipaggiato con il velivolo per la lotta di superficie e antisom a lungo raggio Boeing «P-8A Poseidon» (Marina indiana).
OLANDA Estensione della vita operativa dei battelli classe «Walrus» …
Il responsabile del dicastero della Difesa olandese, Christophe van der Maat, ha comunicato al Parlamento nazionale che i Paesi Bassi continueranno ad assicurare una componente subacquea alla NATO e alla Comunità europea, anche alla luce della recente
Il responsabile del dicastero della Difesa olandese, ha annunciato l’estensione della vita operativa dell’attuale componente subacquea basata sui quattro battelli classe «Walrus», di cui è qui ripreso un esemplare (ministero Difesa olandese).
crisi ucraina accelerando il programma di acquisizione per i nuovi sottomarini e nel frattempo estendendo la vita operativa dell’attuale componente basata sui quattro battelli classe «Walrus». In particolare, al fine di mantenere questi ultimi in servizio fino alla metà degli anni 2030, in aggiunta a un nuovo approccio manutentivo, è previsto che un battello venga ritirato dal servizio a breve termine e successivamente un secondo nel medio termine, al fine di assicurare parti di ricambio e altri benefici tecnici alle unità rimaste in servizio.
… accelerazione del programma per i nuovi sottomarini
Sempre secondo quanto comunicato dal responsabile del dicastero della Difesa olandese, anche il programma per l’acquisizione dei nuovi sottomarini è stato sottoposto a una profonda rivisitazione con il fine di accelerare il lancio del relativo tender entro la fine del 2022 affinché i primi due nuovi battelli entrino in servizio fra il 2034 e il 2037. Il programma è stato rivisto dal punto di vista della gestione mentre la fase di supporto in servizio dei nuovi battelli verrà affrontata soltanto successivamente all’emissione della gara. Il programma prevedeva fino a ora l’entrata in servizio fra il 2035 e il 2038 ma inizialmente era stato pianificato che il primo battello entrasse in linea, al più tardi entro la fine del 2031.
Scelto il sistemi d’arma Leonardo «Lionfish Top»
La Marina olandese ha scelto e assegnato il contratto per l’acquisizione del nuovo sistema d’arma a controllo remotizzato «Lionfish» da 12.7 mm di Leonardo. Tali sistemi sono destinati a equipaggiare gli OPV classe «Holland», le unità LPD (Landing Platform Dock) classe «Johan de Witt» e JSS (Joint Support Ships) classe «Karel Doorman». A queste si aggiunge l’unita ̀ CSS (Combat Support Ship), classe «Den Helder» in fase d’allestimento. Ciascuna unità dovrebbe ricevere due sistemi anche se in almeno un caso si parla di più complessi. Il sistema della famiglia «Lionfish» prescelto è nella versione «Top» con sistema d’arma da 12.7 mm e caratterizzato da torretta con design stealth per un peso complessivo inferiore senza munizioni pari a 300 kg, equipaggiata con una suite elettro-ottica «Mini Colibrì» che comprende un sensore diurno e all’infrarosso raffreddato che consentono portate in termini di scoperta fino a 12 km.
QATAR Consegnati i primi due elicotteri «NFH-90»
I primi due elicotteri NHIndustries «NH-90» nella versione navale «NFH» sono stati consegnati alla Forza aerea del Qatar da Leonardo. La consegna, avvenuta in linea con gli impegni contrattuali, è stata effettuata il 31 marzo durante una cerimonia ufficiale presso lo stabilimento Leonardo di Venezia Tessera alla presenza di rappresentanti dell’operatore, dell’azienda e della joint
La Marina olandese ha scelto e assegnato il contratto per l’acquisizione del nuovo sistema d’arma a controllo remotizzato «Lionfish» da 12.7 mm di Leonardo (Leonardo).
venture NHIndustries. Leonardo agisce in qualità di prime contractor e con la responsabilità per la gestione del programma nonchè l’assemblaggio finale e consegna dei 12 elicotteri NH90 NFH dalla sua struttura di Venezia-Tessera, a cui s’aggiunge la consegna di 16 elicotteri «NH-90» nella versione da trasporto tattico (TTH), assemblati da Airbus Helicopters. A questi s’aggiunge la fornitura di un completo pacchetto di supporto, simulatori, sistemi e servizi di addestramento per equipaggi e tecnici addetti alla manutenzione. Gli elicotteri navali si caratterizzano per una rampa posteriore alla cabina di trasporto, motori Rolls Royce «RTM32201/9°» per l’impiego in condizioni di alte temperature e quote d’impiego nonché un sistema di trasporto esterno per carichi di diversa natura, in particolare i missili antinave MBDA «Marte ER» (Extended Range) acquistati con distinto contratto dal ministero della Difesa del Qatar. Sebbene non siano state rilasciate ufficialmente informazioni al riguardo, la suite di missione comprenderebbe un complesso di sensori aeronavali, il radar di sorveglianza e scoperta navale ENR (European Naval Radar), un sistema elettro-ottico di nuova generazione «LEOSS-T HD» di Leonardo nonché un sistema RESM (Radar Electronic Support Measures) di Elettronica. La suite antisom è fornita da Thales e comprenderebbe un sistema sonar filabile «FLASH» (Folding Light Acoustic System for Helicopters), un sistema di lancio e gestione boe acustiche ed elaborazione delle informazioni per entrambi i sistemi. La suite di missione è gestita da un massimo di due consolle installate in cabina, con equipaggiamenti di fornitura Leonardo. Le consegne continueranno fino al 2025.
Consegna la corvetta Damsah (F 102)
Con una cerimonia tenutasi presso lo stabilimento di Muggiano (La Spezia) di Fincantieri lo scorso 28 aprile è stata consegnata la corvetta Damsah (F 102), seconda unità della classe «Al Zubarah», commissio-
I primi due elicotteri NHIndustries «NH-90» nella versione navale «NFH» sono stati consegnati alla Forza aerea del Qatar da Leonardo il 31 marzo durante una cerimonia ufficiale presso lo stabilimento di Venezia Tessera (Leonardo).
nata a Fincantieri dal ministero della Difesa del Qatar nell’ambito del programma di acquisizione navale nazionale per sette unità navali. Alla cerimonia, svoltasi in formato ristretto e nel pieno rispetto delle prescrizioni anti contagio, hanno partecipato il Brigadier General Abdulla Al Mazroey, Deputy Chief della Marina del Qatar e Commander of the Flottilla, il Major General Staff Hilal Al Muhannadi, Defense Attaché del Qatar a Roma, l’ammiraglio di divisione Pierpaolo Ribuffo, Comandante marittimo nord della Marina Militare italiana, e Marco Acca, vice direttore generale della Divisione navi militari di Fincantieri.
SENEGAL Varo del primo «OPV 58S»
Con una cerimonia tenutasi presso i cantieri Piriou di Concarneau alla presenza del capo di Stato Maggiore della Marina del Senegal, ammiraglio Ouman Wade, è stato varato il primo dei tre «OPV 58S» ordinati ai cantieri francesi nel novembre 2019. Si tratta dell’OPV Walo, mentre gli altri due sono in diverse fasi di completamento e allestimento. Realizzati con il supporto e la competenza della joint-venture fra gli stessi cantieri Piriou e Naval Group, la costruzione e consegna delle tre unità verrà completata nell’estate del 2024. È inoltre previsto un periodo di supporto di diversi anni in Senegal. Le nuove unità da 62 metri disporranno di un armamento basato su sistemi missilistici di fornitura MBDA comprendente missili antinave «Marte Mk 2/N» e un sistema per la difesa aerea «SIMBAD-RC» basato su una coppia di lanciatori per missili Mistral, un armamento cannoniero incentrato su un affusto Leonardo da 76/62 mm «Super Rapido» e due sistemi a controllo remotizzato Nexter «Narwhal» da 20 mm, il tutto gestito da un sistema di comando e controllo Naval Group «Polaris».
SPAGNA Taglio lamiera per la prima fregata classe «F-110»
Con una cerimonia tenutasi lo scorso aprile presso i cantieri di Ferrol del gruppo Navantia alla presenza del primo ministro spagnolo Pedro Sanchez, è stato celebrato il taglio della prima lamiera per la fregata capoclasse di nuova generazione classe «F-110». Il programma, il cui contratto quadro è stato siglato nel 2019, prevede la progettazione, costruzione, allestimento e messa in servizio di cinque fregate, per un valore complessivo di 4,3 miliardi di euro. L’unità capoclasse Bonifaz (F 111) sarà consegnata nel 2027 e le restanti seguiranno a cadenza annuale.
STATI UNITI Battezzato il primo caccia «Flight III» classe «Arleigh Burke»
Il Chief of Naval Operations della US Navy, l’ammiraglio Mike Gilday ha preso parte alla cerimonia tenutasi presso i cantieri Huntington Ingalls di Pascagoula lo scorso marzo, con cui è stato battezzato il primo caccia classe «Arleigh Burke Flight III». Si tratta dell’unità Jack H. Lucas (DDG 125) che si differenzia rispetto ai caccia precedenti per l’adozione del radar a quattro facce fisse Raytheon «AN/SPY-6(V)1» AMDR (Air and Missile Defense Radar) e i relativi potenziamenti del sistema elettrico e di condizionamento, a cui s’aggiungono miglioramenti che potenziano le capacità di combattimento.
Impostazione della ciglia dell’ESB 6 e T-AO 207
Presso i cantieri General Dynamics National Steel and Shipbuilding Company (GD-NASSCO) di San Diego lo scorso aprile si è tenuta la cerimonia d’impostazione della chiglia della quarta unità tipo ESB (Expeditionary Sea Base). Si tratta della nave John L. Canley (ESB 6) che insieme alle sue gemelle è destinata ad assicurare una base avanzata sul mare per mol-
Con una cerimonia tenutasi lo scorso 6 aprile presso i cantieri di Ferrol del gruppo Navantia è stato celebrato il taglio della prima lamiera per la fregata capoclasse di nuova generazione tipo «F-110» (Navantia).
teplici missioni. Lo stesso giorno analoga cerimonia si è tenuta presso i medesimi cantieri GD-NASSCO per il rifornitore di squadra Earl Warren (T-AO 207), terza unità della classe «John Lewis».
L’LHA Tripoli opera quale portaerei leggera
La US Navy e il Corpo dei Marines hanno dimostrato con successo per la prima volta il concetto di «portaerei leggera» per velivoli di nuova generazione o «Lightning Carrier» fra il 30 marzo e l’8 aprile quando l’unità d’assalto anfibio Tripoli (LHA 7) ha operato con 20 velivoli da combattimento di quinta generazione «F-35B Lightning II». Previsto dai principali e più recenti documenti pianificatori del Corpo dei Marines, la dimostrazione del concetto di «Lighting Carrier» ha visto la partecipazione di 16 «F-35B» del Marine Aircraft Group 13, 3rd Marine Aircraft Wing, e in particolare velivoli del Marine Fighter Attack Squadron 225 Viking e del Marine Fighter Attack Squadron 21 Wake Island Avenger, entrambi di stanza presso la Marine Corps Air Station (MCAS) di Yuma in Arizona e quattro «F-35B» appartenenti al Marine Operational Test and Evaluation Squadron 1 di stanza presso le MCAS di Yuma e New River (Carolina del Nord). Secondo quanto riportato, la dimostrazione ha provato che il concetto di «assault carrier» può essere un’importante elemento abilitante nella capacità di proiezione del Corpo dei Marines, senza che il medesimo contribuisca a cambiare le modalità d’impiego degli Amphibious Ready Group e dei Marine Expeditionary Unit. La dimostrazione ha dimostrato la versatilità delle unità d’assalto anfibio della classe «America» in grado d’imbarcare due squadroni di «F-35B» e un detachment comando del Marine Aircraft Group oppure un Forza da sbarco basata su un battaglione del Corpo dei Marines supportato da 12 «MV-22B Osprey», 4 «CH-53E Super Stallion» e sei «F-35B».
La US Navy e il Corpo dei Marines hanno dimostrato con successo per la prima volta il concetto di «Lightning Carrier» fra il 30 marzo e l’8 aprile, quando l’unità d’assalto anfibio TRIPOLI (LHA 7) ha operato con 20 velivoli da combattimento «F-35B Lightning II» (US Navy).
Test storico per un nuovo sistema laser ad alta potenza
L’ONR (Office of Naval Research) ha annunciato lo scorso 14 aprile di aver condotto con successo il test di un sistema d’arma laser ad alta potenza completamente elettrico per abbattere un bersaglio simulante, un missile da crociera subsonico in volo. Progettato e realizzato dalla società Lokheed Martin e conosciuto come LLD (Layered Laser Defense), si tratta di un’arma multi-impiego in grado di neutralizzare un’ampia gamma di bersagli fra cui droni e imbarcazioni con un potente sistema laser, utilizzando un altrettanto potente sistema elettro-ottico di acquisizione, identificazione e verifica dei danni prodotti sui bersagli ingaggiati.
Cancellato il modulo ASW per le LCS …
La US Navy ha cancellato dai suoi piani di equipaggiamento delle unità LCS (Littoral Combat Ship) il modulo per la lotta antisom (ASW, Anti-Submarine Warfare). Secondo quanto emerso, la decisione sarebbe legata a problematiche di sviluppo e mancata soddisfazione dei requisiti fissati dalla Marina americana per il sistema sonar «AN/SQS-62» sviluppato dalla Raytheon. Sempre secondo il budget della US Navy per il FY 2023, la cancellazione del modulo porta con se anche il ritiro dal servizio di tutte e nove le unità LCS classe «Freedom» attualmente in linea.
… acquisizione di un nuovo modulo per le fregate
Non avendo l’attuale modulo ASW soddisfatto i requisiti della US Navy e poiché il medesimo era stato scelto per equipaggiare anche le nuove Fregate «FFG 62» classe «Constellation», la Marina americana ha rimpiazzato il medesimo con il sistema Thales «CAPTAS-4», anche se non sono stati rilasciati ulteriori dettagli riguardanti la configurazione. Si tratta dello stesso sistema installato a bordo delle FREMM per la Marina francese e italiana e «Type 23» e future «Type 26» per la Marina britannica e prescelto in versioni alleggerite per altri importanti programmi europei per fregate di diverse dimensioni quali le unità tipo «F-110» spagnole ed FDI Frégates de défense et d’intervention francesi.
Nuovo piano cantieristico a lungo termine
Second il piano cantieristico a lungo termine 2023-2030 presentato dalla US Navy in aprile, la medesima intenderebbe ritirare dal servizio ben 24 unità navali con il FY 2023 fra cui tutte e nove le LCS classe «Freedom» in servizio nonché i primi cinque dei 22 incrociatori lanciamissili classe «Ticonderoga» già ritirati dal servizio o in fase di ammodernamento come nel caso dell’unità Vicksburg (CG 69) che ha quasi completato tale attività, a cui seguiranno le rimanenti. Si tratta di una proposta, in particolare quella delle unità LCS, che hanno un’età compresa fra i 3 e gli 8 anni, destinata a trovare l’opposizione del Congresso americano.
Luca Peruzzi
La US Navy ha scelto e contrattualizzato il sistema sonar trainato Thales «CAPTAS-4» per equipaggiare le nuove fregate «FFG 62» classe «Constellation» (NATO Photo by CPO FRAN Christian Valverde).
CHE COSA SCRIVONO GLI ALTRI
«Lost at Sea! Never turn your back on the Ocean»
FOREIGN AFFAIRS, MARCH - APRIL 2022
Molto vivace negli Stati Uniti si presenta il dibattito sul rinnovamento della Marina militare in funzione delle attuali sfide che il paese si trova a dover affrontare. Un dibattito in cui l’autore del presente articolo, Kori Shake, direttore del prestigioso Foreign and Defense Policy at the American Enterprise Institute for Public Policy Research di Washington, entra a gamba tesa in una sorta contrappunto critico a due libri, recentemente apparsi, che affrontano proprio il tema delle sfide sul mare e l’importanza delle relazioni di potenza marittima contemporanee. Il primo, intitolato To Rule the Waves di Bruce Jones, sostiene la tesi che «gli oceani stanno rapidamente diventando la più importante zona di confronto tra i grandi attori militari del mondo», sottolineando come i modelli cooperativi del ventesimo secolo si stiano mano a mano erodendo, in maniera da preparare così il terreno per un conflitto su larga scala nel quale le lotte geopolitiche si svolgeranno in alto mare. Il secondo, The Blue Age di Gregg Easterbrook, rievoca l’epopea di come la Marina degli Stati Uniti ha creato la prosperità globale, denunciando le ragioni per cui oggi si rischia di perderla. L’interessante articolo in questione si apre con il seguente apologo storico: nel 1897, il Parlamento britannico fece pressioni sul primo Lord dell’ammiragliato, George Joachim Goschen, sulla potenziale minaccia marittima rappresentata da un’alleanza sempre più stretta tra le potenze dell’Europa continentale. Alla domanda su cosa farebbe il Regno Unito se si trovasse di fronte a più Marine europee in mare, Goschen rispose: «Fidati della Provvidenza e di un buon Ammiraglio». In altre parole, l’impero del mare britannico non aveva alcuna risposta per una sfida di tale portata! «Lo stesso si potrebbe dire degli Stati Uniti quando si tratta della minaccia di una Cina in rapida ascesa — commenta l’autore, secondo il quale — per anni, gli Stati Uniti si sono aggrappati a una convinzione quasi religiosa che man mano che la Cina diventava più prospera, sarebbe diventata più democratica e politicamente liberale. Ora che il regime autoritario di Pechino ha smentito questa teoria, sembra che il pubblico americano possa fidarsi solo dei “buoni Ammiragli della Marina degli Stati Uniti” per gestire la minaccia incombente di una Cina sempre più belligerante, anche se l’economia americana cresce sempre più dipendente da quello stesso avversario. Questo perché in una misura che molti osservatori non riescono ad apprezzare, la competizione tra Pechino e Washington diventerà sempre più una lotta per il potere navale». Tanto più che ai nostri giorni il quadro marittimo e navale degli Stati Uniti non appare affatto roseo. Nel 1950, la flotta della Marina mercantile degli Stati Uniti rappresentava il 43% del trasporto marittimo globale; nel 1994, quella quota era scesa al quattro per cento. L’attuale flotta mercantile statunitense di 393 navi è al 27° posto nel mondo. Al contrario, la Cina ha la seconda flotta mercantile più grande del mondo, e questo non include la famigerata flotta da pesca «paramilitare» che utilizza per lanciare incursioni in acque contese (di cui abbiamo già parlato nella rubrica dello scorso dicembre). E la situazione non migliora sotto il profilo navale laddove, fa rilevare l’autore non senza un pizzico di sarcasmo, la U.S. Navy aveva più navi nel 1930 di quante ne abbia oggi! Certo l’obiettivo del Pentagono rimane quello di aumentare le dimensioni della flotta (che subito dopo la fine della Guerra Fredda contava 451 navi, di cui 12 portaerei), dalle 306 unità di oggi alle 355 della data — obiettivo del 2034, «un obiettivo lontano per il quale il Congresso non ha ancora fornito finanziamenti» mentre, secondo quanto ci
prospetta l’autore, almeno nel ritmo delle costruzioni navali militari, «China supplanted the United States as the world’s largest naval power in 2020». Una Marina degli Stati Uniti in cui le sfide «operative» sono esacerbate da quelle «amministrative», tant’è che un recente rapporto del Congresso ha portato a criticare una «cultura navale» che «values administrative chores over training to fight, ship commanders that are micromanaged and an aversion to risk». Gli Stati Uniti sono peraltro «una potenza egemonica anomala» in quanto sono un «partecipante riluttante» a un ordine internazionale di propria creazione, nel senso che Washington ha guidato i negoziati che hanno portato alla Convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare (Unclos III), sviluppando «una costituzione per gli oceani» al fine di stabilire standard per l’attività marittima internazionale, ma gli stessi Stati Uniti, anche se ne rispettano de facto i termini e vogliono che gli altri paesi facciano altrettanto, de jure, pur dopo averlo firmato, non hanno mai ratificato il trattato! L’amministrazione Biden, proprio come l’amministrazione Trump, vede la Cina come la principale minaccia militare degli Stati Uniti (almeno sino all’aggressione russa all’Ucraina) e l’Indo-Pacifico, dove è più probabile che scoppi un eventuale prossimo conflitto, è un teatro marittimo. «Il bilancio della Difesa dovrà dare quindi priorità alla Marina degli Stati Uniti rispetto all’Esercito e all’Aeronautica — conclude l’autore — Garantire la forza della Marina è fondamentale: senza una Forza navale capace e ben dotata di risorse, gli Stati Uniti non saranno in grado di difendere i loro alleati in Giappone e nelle Filippine o di proteggere il teatro in modo più ampio in caso di conflitto. E a questo proposito, Jones e Easterbrook, gli autori dei due libri di riferimento, hanno assolutamente ragione: il controllo del mare sarà il fattore determinante del prossimo secolo. Se gli Stati Uniti vogliono continuare a stabilire e far rispettare le regole dell’ordine internazionale, dovrebbero prestare attenzione a qualche consiglio secolare: Never turn your back on the Ocean, non voltare mai le spalle all’oceano!».
«La menace d’une guerre nucléaire en Europe»
LE MONDE DIPLOMATIQUE, AVRIL 2022
Quel fatidico 24 febbraio, inizio dell’aggressione russa all’Ucraina, l’affermazione del presidente Putin col suo carico di minacce non è sfuggita agli analisti militari: «Non importa chi cerca di ostacolarci (…) o creare minacce al nostro paese e al nostro popolo, devono sapere che la Russia risponderà immediatamente e le conseguenze saranno tali come non ne avete mai viste nella vostra storia», dichiarazione alla quale ha fatto subito seguito la messa in stato d’allerta del sistema di deterrenza nucleare. E al possibile sotteso im-
piego di armi nucleari più recentemente, aggiungiamo, si è tornati a parlare più esplicitamente dopo il 50° giorno di guerra, sia da parte del presidente Zelensky in una intervista alla CNN (per il quale «Putin potrebbe usare ordigni nucleari tattici e il mondo dovrebbe prepararsi a questa eventualità»), sia dal capo della CIA William Burns, per il quale «non bisogna prendere alla leggera il ricorso di Putin alle armi nucleari». Il tutto mentre Pechino nel frattempo, secondo quanto riportato dal The Wall Street Journal, accelera la modernizzazione del proprio arsenale nucleare. In questo contesto Olivier Zajec, docente di Scienze politiche e relazioni internazionali presso l’Università Jean Moulin - Lione III, nell’ampio e approfondito saggio in questione, sottolinea come Putin abbia costretto l’insieme degli Stati maggiori ad aggiornare le loro dottrine, il più delle volte ereditate dalla Guerra Fredda laddove, secondo il nostro, la certezza della distruzione reciproca assicurata (MAD) non è più sufficiente a escludere l’ipotesi di attacchi nucleari tattici col rischio di innescare una escalation incontrollata.
Preannunciata da diverse crisi nell’ultimo decennio, la «terza era nucleare» potrebbe così iniziare sul serio in Ucraina nel contesto di un’operazione
«speciale» russa sempre più claudicante rispetto alle iniziali aspettative del Cremlino (da ultimo con l’affondamento dell’incrociatore lanciamissili russo Moskva, «piattaforma ideale per l’eventuale lancio di armi nucleare tattiche», secondo l’analista geopolitico Pavel Luzin, la cui presenza o meno a bordo ha innescato un vivace dibattito sulla stampa). Già nel 2018 nel libro La dissuasion au troisième Âge nucléaire, l’ammiraglio
Pierre Vandier attuale CaSM della Marine Nationale — molto opportunamente ricordato dall’autore — scriveva, interrogandosi sul futuro e sulla posta in gioco della deterrenza nucleare, che «Diversi elementi suggeriscono che stiamo entrando in una nuova era, una “terza era nucleare” che fa seguito alla “prima”, basata sulla mutua dissuasione tra i due Grandi, e alla “seconda” che [addirittura] recava la speranza di un’eliminazione totale e definitiva delle armi nucleari dopo la fine della Guerra Fredda». Una «terza era» dunque nella quale «si porranno nuove domande sulla solidità — e la pertinenza — delle regole logiche imparate nelle difficoltà, come durante la crisi dei missili a Cuba [16 - 28 ottobre 1962, quei drammatici «tredici giorni», sulle cui dinamiche politiche e strategiche l’articolo si sofferma a lungo]; in cui ci si interrogherà sulla razionalità dei nuovi attori nella messa in opera dei mezzi nucleari che possiedono; in cui sarà valutato in maniera critica il valore del tabù nucleare, che alcuni agitano ormai come un totem». Il punto di domanda cruciale che ci si deve porre ai nostri giorni — conclude l’autore — è se Putin, di fronte all’impasse della campagna militare in Ucraina armata dall’Occidente, «voglia assumersi anche la responsabilità di fronte alla storia di rompere, per la prima volta dopo Hiroshima e Nagasaki, il “tabù” relativo all’uso delle armi nucleari».
«L’Endurance, la nave riemersa dai ghiacci»
È rimasta lì dal 1915, a 3.008 metri di profondità sul fondo del gelido mare di Weddel, in Antartide: l’Endurance, il veliero di tre alberi lungo 44 mt, dotato anche di un motore ausiliario con cui l’esploratore Ernest Shackleton (1874 - 1922), già veterano delle spedizioni scientifiche nel Continente Bianco nel quindicennio precedente, era partito alla volta dell’Antartide il 1° agosto 1914, quando stavano per «tuonare i cannoni d’agosto della Grande guerra», per la sua missione trans-antartica (con l’intento di attraversare cioè via terra il Continente Antartico da ovest a est, dopo che il Polo Sud era già stato raggiunto da Roald Amundsen il 14 dicembre 1911), ma che finì però bloccata e poi lentamente stritolata nei ghiacci della banchisa, fino ad affondare. Ora, il 22 marzo 2022, è stata ritrovata come leggiamo in numerosi siti web (focus.it e thesun.co.uk): il relitto è stato localizzato dalla spedizione Endurance22, organizzata da The Falklands Maritime Heritage Trust (fmht.co.uk), un ente di beneficenza registrato nel Regno Unito che si dedica a preservare la ricca e variegata storia marinara delle Falkland e di coloro che vi sono stati associati, partita proprio con tale obiettivo. La nave per la ricerca polare S. A. Agulhas II è salpata dal Sudafrica a inizio dello scorso febbraio e, una volta arrivata nel mare di Weddel, a nord - est dell’Antartide, ha iniziato le ricerche servendosi di due robot sottomarini che hanno esplorato minuziosamente il fondale usando sonar. Quando l’Endurance è stata localizzata, sono stati dotati di telecamere ad alta risoluzione e altri strumenti per effettuare riprese e scansioni. La nave di Shackleton è apparsa così in ottimo stato di conservazione, a detta dei suoi scopritori (e a quanto si vede da immagini e video diffusi, in cui appaiono parte dello scafo, la poppa con il nome della nave e il timone, visibili su vari siti web, tipo thesun.co.uk e focus.it), merito delle temperature bassissime e dell’assenza in queste acque di organismi che degradano il legno e quindi i relitti delle navi. Il relitto dell’Endurance resta sul fondale antartico, vero monumento all’era delle esplorazioni polari e a una incredibile storia di vera sopravvivenza. Shackleton arrivò infatti in Antartide a bordo della Endurance con un equipaggio di 27 uomini, che nel gennaio 1915 restò bloccata tra i ghiacci marini in movimento; fu schiacciata a ottobre e a novembre finì per affondare. Gli uomini a bordo furono costretti a scendere dalla nave e ad accamparsi sul ghiaccio, continuando ad andare alla deriva sulla banchisa. Arrivati alle acque libere da ghiacci, salirono sulle scialuppe e raggiunsero la disabitata e inospitale Elephant island. Da lì, Shackleton e altri 5 uomini si imbarcarono su una scialuppa in un viaggio avventuroso che li portò ad approdare su un’isola della Georgia del Sud dove, raggiunta una stazione di balenieri, organizzò la spedizione di soccorso per recuperare il resto dell’equipaggio che, tra agosto e settembre del 1916, da Elephant Island venne portato in Cile. Se Shackleton aveva fallito lo scopo della sua missione, celebrata peraltro da una nutrita storiografia e più volte rievocata nella memoria filmica, dopo aver perso l’Endurance, riuscì però a trarre in salvo tutto il suo equipaggio, affrontando su una scialuppa di sette metri un mare ferocemente freddo e difficile, senza strumenti, solo un sestante, un’impresa che egli ha rievocato con afflato lirico in quello che può essere considerato il suo testamento spirituale: «Abbiamo sofferto, patito la fame e trionfato. Siamo stati umiliati ma abbiamo raggiunto la gloria. Siamo diventati migliori nella grandezza del tutto. Abbiamo visto Dio nei suoi splendori, ascoltato il testo che la Natura scrive e disegna. Abbiamo raggiunto l’anima nuda dell’uomo».
Ezio Ferrante
RECENSIONI E SEGNALAZIONI
Virgilio SPIGAI (a cura di) (prefazione di Andrea Tirondola)
Anime bianche
Romanzo autobiografico, 1907-1945
Ufficio Storico della Marina Militare Roma 2022 pp. 504 Euro 30,00
Diciamocelo pure: alla Marina italiana mancava, da un secolo, la dimensione del romanzo storico. Le eccezioni a questa regola sono poche, si contano sulle dita di una mano e sono tutte a senso unico: in pratica si sono sempre e soltanto ispirate, chi più chi meno, al Via così di Aldo Pasetti, un libro apparso nel 1947 e poi ripubblicato, vent’anni dopo, sotto il nuovo titolo di Omega 9.
Ora, finalmente, si cambia. Ed è, a parer di chi scrive, grande il debito di riconoscenza che tanto il lettore quanto la Marina Militare intesa come istituzione, servizio e tradizione devono all’autore; l’ammiraglio Virgilio Spigai, Capo di Stato Maggiore della Marina tra il 1968 e il 1970, a suo figlio Vittorio e ad Andrea Tirondola per aver tirato fuori dal cassetto e reso, infine, disponibile questo libro. Si tratta di pagine preziose, spesso intime, non peregrine né banali, ma rivelatrici di un incredibile e appassionante mondo passato e, infine, ci sia concesso, scritte molto bene. Certo, il merito del risultato fatto e finito spetta all’Ufficio Pubblica Informazione della Marina Militare (UPICOM) e all’Ufficio Storico, ma il loro contributo è, in un certo senso, «solo» editoriale e di sicuro coraggio morale, parole queste ultime che sono il sinonimo di quelle virtù (fondamentali per chi porta le stellette) rappresentata dalla onestà di intenti e dalla chiarezza militare di pensiero.
Andiamo con ordine. Il Capo ufficio Pubblica Informazione ha avuto per le mani, grazie all’iniziativa dell’avvocato — e TV (CM) — Tirondola, un grosso manoscritto. L’ho visto di persona, ingiallito dal tempo e contenuto in una vecchia cartella di cuoio. Apparentemente poco invitante, quel pacco di carta è stato sfogliato, senza diffidenza, ma con la sincera curiosità che è il marchio di fabbrica del vero editore, il quale è rimasto — inevitabilmente — preso dalle prime due pagine. Succederà lo stesso al lettore, quindi non anticipo nulla. Con mano leggera e senza una traccia che fosse una di retorica, Virgilio Spigai rende l’ambiente, lo stile, verrebbe da dire l’odore, della vita di un tempo. Sia quella che la generazione degli attuali «Anta» ha fatto ancora in tempo a conoscere, magari in visita dai nonni, sia quella, diversa, ma ugualmente tipica, degli spazi sempiterni dell’Accademia navale. Quanto al resto, il libro oggetto di queste note viene da sé una volta che si consideri un fatto, insolito ed essenziale, che spiega, più di cento inutili discorsi, cosa c’è dietro e dentro questo volume. Il testo fu infatti scritto in prigionia. Dopo, cioè, aver combattuto a Lero contro i tedeschi, tra il settembre e il novembre 1943, continuando a farlo anche successivamente alla resa che il contingente inglese affluito su quell’isola dell’Egeo (e formato dalla vecchia guarnigione di Malta degli anni dell’assedio del 1940-42), aveva sottoscritto consegnandosi ai paracadutisti, agli incursori e alla fanteria germanica. Fu un atto di puntiglio, certo, ma è proprio questo genere di cose che fa la cultura (e la sopravvivenza) dei singoli individui e delle comunità. Come scrisse un altro celebre prigioniero (ridotto dai tedeschi nelle medesime, penose e odiose circostanze di Spigai e dei suoi marinai), Giovannino Guareschi, compilando il proprio Diario Clandestino: «Sono un emiliano della Bassa, quindi non muoio neanche se mi ammazzano» riuscendo, alla fine, a tornare a casa. Spigai, nato a Spezia, ma figlio della stessa Kultur condita d’umorismo, adottò la medesima soluzione: scrivere per vivere, per sé stesso e, se le cose fossero andate male, forse per quello stesso «postero mio diletto» tanto spesso citato da Guareschi mentre era rinchiuso in un altro lager. Il sistema funzionò, traducendosi in una sincerità d’animo e in uno stile efficace e asciutto quanto il peso ponderale — a quel tempo piuttosto scarso — dell’autore. Parlare di un capolavoro suonerebbe re-
torico e celebrativo, per tacere del fatto che un simile giudizio spetta al lettore, non certo ai recensori e ai critici letterari. Dire che siamo davanti a un bel libro è, per contro, un’affermazione che nasce spontanea a testimonianza di un’opera che suscita pensieri e sentimenti. Bene ha fatto quindi UPICOM ad aprire senza diffidenza alcuna lo scartafaccio originale; il resto è stato tutto in discesa grazie, beninteso, al lavoro minuto, precisissimo e mai noioso, anche se estremamente impegnativo, di Andrea Tirondola, che ha reso così possibile scorrere tutta la vicenda umana del protagonista: dalla giovinezza agli anni in Accademia navale, a bordo delle navi in pace e in guerra fino alla maturità postbellica. Ben arrivata, quindi, questa rinnovata e ritrovata dimensione letteraria della Marina italiana. Ne beneficerà chi, magari sotto l’ombrellone, vorrà scoprire un nuovo mondo, oppure rinvenire certe sensazioni che non cambiano mai, a qualsiasi età. E ne trarrà profitto anche la marittimità nostrana, la quale ha sempre bisogno di linfa giovane per generare continuamente nuove idee. E le idee, senza i sogni, non nascono. Un buon romanzo — calato nella realtà e superbamente illustrato con 150 precisissime fotografie e illustrazioni tratte dagli album di famiglia, o provenienti dalla Fototeca dell’USMM — è il terreno di cultura necessario e sufficiente (come in matematica) per i privilegiati dello spirito.
Enrico Cernuschi
Gianmpiero CANNELLA (a cura di) (prefazione di Guido Crosetto)
L’Italia non gioca a Risiko
Il ruolo delle Forze armate nella sfida geopolitica contemporanea Historica Giubilei Regnani Editore Aprile 2021 pp. 159 Euro 13,30
«Affrontare il tema complesso del sistema Difesa in tutte le sue articolazioni e parlare di Forze armate in Italia è da sempre compito arduo. Lo è perché il nostro paese, per motivazioni storiche e culturali, ha considerato per decenni l’argomento un tabù...». Guido Crosetto, già sottosegretario di Stato alla Difesa e presidente AIAD.
Abbiamo scelto come incipit le parole con le quali Guido Crosetto ha aperto la sua prefazione a questo libro. Le abbiamo subito percepite come la premessa migliore, più eloquente, ancorché in pochissime battute, del cuore del problema che l’autore Giampiero Cannella, giornalista professionista, scrittore e già deputato nella Commissione Difesa della Camera, ha voluto approcciare. Il suo lavoro ha inteso offrire un contributo alla direzione, che speriamo almeno oggi in questi tempi bui della storia europea, stia maturando verso una inversione di tendenza, cioè la maggiore conoscenza delle nostre Forze armate, la familiarità della società italiana, e non solo di pochi addetti ai lavori, con lo strumento militare italiano, nel contesto internazionale, la sua mission, gli impieghi, la cooperazione con le industrie italiane, i progetti futuri e gli scenari. Tutto ciò viene elaborato dall’autore non sotto le luci esaltanti di una celebrazione fine a se stessa, ma mettendo in risalto la verità delle ombre, delle carenze, delle inadeguatezze, delle esigenze politiche e di bilancio sulle quali sono state lungamente, troppo facilmente e pregiudizialmente sacrificate le Forze armate. Proprio questi nuovi orizzonti, prima dei quali per la lunga pace forzata dovuta al bipolarismo della Guerra Fredda avevamo avuto in regalo «...La libertà per scontata», impongono un ammodernamento e rivisitazione degli strumenti militari, adattati alle attuali sfide strategiche e alle minacce alla sicurezza europea. L’autore descrive tutti i potenziali attentanti, nel mondo e in Europa in particolare, alla pace, le nuove esigenze e sfide future dalle quali muove senza retorica per motivare e sostenere con coraggio la sua tesi, che ormai in modo ineluttabile ci costringe a un maggiore allineamento dello strumento militare italiano ai livelli dei paesi UE e dell’Alleanza Atlantica. Malgrado gli stereotipi ancora duri a morire, Cannella ci mette di fronte a una realtà descrivendola analiticamente come ineludibile: per le nuove sfide alla sicurezza internazionale, in un Mediterraneo che sta tornando a
essere un affollato teatro di attori militari, collocati come siamo da un lato tra il «Risvegliato orso russo...la rinnovata volontà di potenza cinese che tanto preoccupa l’Occidente, il ritorno di quella che fu la Sublime porta e il nuovo protagonismo della Russia» e gli Stati Uniti dall’altra, in via di un ormai avviato disimpegno dal ruolo di poliziotto del mondo, ai nostri militari, dei quali l’autore pur riporta l’ampio riconoscimento internazionale del loro livello di professionalità, «...Manca ancora il salto di qualità da parte della classe dirigente. Negli ultimi anni il rango internazionale dell’Italia è scivolato sempre di più, insieme ai numeri nelle caselle del bilancio annuale della Difesa, difettano infatti la capacità di leggere e interpretare gli scenari geopolitici e il coraggio di dare all’Italia, che pure è una delle maggiori realtà economiche, capace di porsi come arbitro e garante mondiale, una chiara definizione politica dell’interesse nazionale e la conseguente postura di potenza regionale capace di porsi come arbitro e garante della libertà di navigazione nel Mediterraneo....capace di guidare i processi di pace nei paesi del bacino euro afro asiatico caratterizzati da elevata instabilità e conflittualità...». Letto oggi siamo stupiti dalla analisi geopolitica quasi preveggente fatta dall’autore quasi un anno prima dal conflitto odierno in Ucraina, il quale con onestà rivela come il dibattito parlamentare sulle missioni multinazionali sia stato bersaglio «...dell’onda della ideologia», nonostante fossero tutte su specifica richiesta di Washington in quanto sorta di compensazione per il minor impegno finanziario italiano. L’Italia ha dato una contribuzione al di sotto degli standard richiesti dalla NATO, e a compensazione ha garantito una massiccia partecipazione di truppe nelle missioni multinazionali, dal peacekeeping al monitoraggio, alla formazione, tutte minuziosamente descritte. L’autore ha con competenza di causa, essendo stato parlamentare di due legislature, il coraggio di aggiungere che non difetta in Italia solo l’aspetto economico ma «...quello che manca al paese è una chiara definizione politica dell’interesse nazionale da tutelare...».Quanto allo specifico del settore dotazioni Marina, l’autore evidenzia, tra le sue necessità, quella di incrementare la componente sottomarina con la costruzione di quattro nuovi U 212 NFS, prodotti in collaborazione con la Germania per i quali Fincantieri ha già siglato l’accordo per realizzare le prime due unità con consegna prevista nel biennio 2027-29, che andranno a sostituire la classe «Sauro». Detto ciò, fotografa anche «...La versione migliorata del missile superficie-superficie “TESEO” costruita da Leonardo e MBDA denominato TESEO EVO che però rivela un limite del sistema d’arma italiana nella gittata inferiore ai mille chilometri richiesti dalla marina…». Tra i molti aspetti trattati anche l’operatività nel 2022 di nave Trieste, gioiello «dual use» della cantieristica nazionale, in grado di fungere da «portaerei di riserva» della portaeromobili Giuseppe Garibaldi, pur trattandosi principalmente di una unità da sbarco.
Viene evidenziata un’altra esigenza della componente navale quale quella «… dell’ammodernamento del naviglio destinato al pattugliamento marittimo e cacciamine e lo sviluppo dei cacciatorpedinieri DDX che andranno a sostituire gli ormai anziani Duran de la Penn e Francesco Mimbelli…». Il dato positivo da segnalare è la prosa agile, semplice e adatta anche a un lettore non avvezzo a conoscenze tecniche, compito più agevole per un giornalista professionista e scrittore come Giampiero Cannella formato a «dare la notizia».
Rita Silvaggio
Alessandro FANETTI (a cura di) Russia: alla ricerca della Potenza perduta
Dall’avvento di Putin alle prospettive future di un Paese orfano dell’URSS Eiffel Edizioni Caserta 2021 pp. 374 Euro 21,00
Lo studio realizzato da Fanetti ha come oggetto un paese che in questo periodo è tornato prepotentemente protagonista dello scenario internazionale, la Russia. Altro grande primattore del saggio è il leader di quel paese, Vladimir Vladimirovič Putin.
Questo libro ha sicuramente un grande pregio: riesce a proporre una panoramica approfondita dell’evoluzione storica della Russia dalla fine della Guerra Fredda agli anni più recenti, inserendo egregiamente all’interno del periodo preso in esame la formazione culturale, professionale e i valori di riferimento di Putin, con un’attenta analisi della sua ascesa politica, da studente fino al massimo vertice del potere russo.
Nel testo, strutturato in maniera molto schematica e precisa, con una attenta divisione in punti, l’autore ha scelto di introdurre ampi stralci di discorsi e citazioni di politici russi e stranieri, integrandoli con le analisi prodotte da studiosi della Russia. Sfruttando ampie digressioni, è dato molto spazio alla descrizione e all’approfondimento dei vari temi man mano affrontati.
Pur se in certi punti la lettura può risultare poco scorrevole, essendo dedicato così tanto spazio ad argomenti collaterali al tema principale, sicuramente questa scelta ha il pregio di coprire ogni contenuto trattato.
Come detto, nel testo l’autore ha descritto ampiamente la figura e le azioni politiche di Putin. La scelta in questo senso è stata fatta ovviamente per la rilevanza che il Presidente della Federazione ha avuto e che mantiene nel determinare le scelte politiche russe, ma anche perché la sua stessa parabola è il prodotto della fine dell’Unione Sovietica e della voglia di rivalsa della Russia. Putin infatti sembra legare perfettamente la sua ascesa e la sua politica con la volontà russa di tornare a essere un paese centrale nello scacchiere internazionale.
Come ampiamente descritto nel libro, Putin ha deciso di proporre una politica volta a tutelare l’identità tradizionale russa, a ridurre le influenze straniere all’interno della Federazione e a impegnarsi per aumentare il prestigio e la proiezioni russa verso l’estero.
Ecco perché i maggiori sforzi di Putin si sono concentrati inizialmente nella riaffermazione del potere dell’autorità centrale nei confronti delle periferie della Federazione (con il caso estremo della Cecenia), limitando drasticamente il potere degli oligarchi e riportando al centro del dibattito l’orgoglio del popolo russo, con la riscoperta dei valori più tradizionali, quale la religione ortodossa.
L’analisi inserisce la parabola della Russia all’interno del nuovo contesto internazionale, con la sempre più manifesta aggressività di Mosca (es.: Ossezia del Sud), nella contrapposizione tra il globalismo di ispirazione statunitense e il multipolarismo, cioè quella visione delle relazioni internazionali che auspica una condizione in cui emergono nuove potenze in grado di erodere la supremazia americana, ruolo che si intesta chiaramente la Russia.
Partendo dalla visione russa sul mondo e dalla percezione che la Russia ha del suo ruolo nelle relazioni internazionali, sono analizzati i suoi rapporti con gli Stati Uniti, l’Europa (e quindi con la NATO) e con i vicini, soprattutto con la Bielorussia e l’Ucraina. Il merito del volume è che grazie a questa attenta ricostruzione, il lettore avrà una panoramica completa sulla Russia putiniana, così da comprendere meglio le recenti scelte russe.
Alessandro Fanetti ha quindi prodotto uno studio che permette anche al lettore non uso allo studio delle relazioni internazionali e della geopolitica di comprendere la complessità del sistema in cui si stanno muovendo le potenze mondiali, ma soprattutto garantisce gli strumenti per capire come la Russia si sia percepita fino al 2020-2021, quali fossero i suoi interessi e le sue paure. Fornisce quindi gli elementi per cercare di comprendere l’attuale scontro in Europa orientale, inquadrandolo nel più ampio contesto internazionale, ormai sempre più in evoluzione.
Giacomo Innocenti