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La minaccia proveniente dal terrorismo internazionale

Introduzione

Sebbene da più di un secolo e mezzo le opinioni pubbliche mondiali parlino del terrorismo internazionale e la comunità internazionale abbia provato in vario modo a contrastarlo, e sebbene i primi due decenni di questo millennio lo abbiano chiaramente identificato come una delle maggiori minacce da affrontare, molta confusione ruota intorno a esso, tanto da non avere ancora una definizione universalmente riconosciuta. Stati, Organizzazioni internazionali, Forze armate e Forze dell’ordine, Servizi di intelligence e semplici cittadini, tutti ne parlano e provano in vario modo a prevenirlo, contrastarlo e combatterlo, o anche semplicemente a difendersi da esso, ma non è facile rispondere a una minaccia così difficile da identificare e classificare. Si tratta, tra l’altro, di una minaccia cui se ne sta sempre più prepotentemente affiancando un’altra, sicuramente non nuova, ma che mai forse aveva raggiunto i livelli attuali: quella dell’estremismo violento, che da alcuni anni vediamo affiancata al terrorismo in numerose norme internazionali.

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Per entrambi i fenomeni, terrorismo ed estremismo violento, sembrano mancare definizioni universalmente riconosciute, con il sistema onusiano che li addita come «minacce alla pace e alla sicurezza internazionale» e impone ai paesi membri diversi obblighi per prevenirli e contrastarli, ma rimanda alle legislazioni nazionali il compito di fornire una definizione (2).

Il punto di partenza di qualsiasi riflessione sul terrorismo deve allora necessariamente essere quello di capire di cosa stiamo parlando, compito ancora più difficile al giorno d’oggi, in cui si rischia di cadere in facili preconcetti e classificazioni ideologiche, oltre a fare confusione tra gruppi e movimenti, singoli radicalizzati e foreign fighter, homegrown terrorist e lupi solitari, criminali ed estremisti violenti.

Si tratta di un compito che già un secolo fa la dottrina riteneva difficile da assolvere, e restano in tal senso ancora attuali le parole con cui Sottile, nel lontano 1938, iniziava il suo corso presso l’Accademia di diritto internazionale de L’Aja: «L’intensificarsi dell’attività terroristica negli ultimi anni fa del terrorismo uno dei problemi più attuali. I crimini terroristici non solo ledono la vita e la proprietà di una personalità così determinata, ma costituiscono un attacco alla civiltà, un pericolo internazionale, perché rischiano di ledere l’ordine sociale in generale, l’ordine pubblico internazionale, la sicurezza, gli interessi fondamentali degli Stati, nonché le loro relazioni pacifiche. Coinvolgendo il più delle volte più Stati contemporaneamente, l’attività terroristica è diventata internazionale. […] All’internazionalizzazione del terrorismo non corrisponde ancora l’internazionalizzazione della repres-

Gli attentati dell'11 settembre 2001 furono una serie di quattro attacchi suicidi coordinati compiuti contro obiettivi civili e militari degli Stati Uniti d'America da un gruppo di terroristi appartenenti all'organizzazione terroristica Al Qaida (wired.it).

sione. Il terrorismo è una di quelle questioni che tutti capiscono e conoscono a prima vista, ma che, se lo studiamo a fondo, non risultano né così semplici né così facili come pensavamo a prima vista. In effetti, è un problema complesso, difficile da gestire […]» (3).

Storicamente i problemi incontrati dalla dottrina sono stati da un lato il rischio di fornire una definizione meramente tautologica o rappresentativa di una sola modalità operativa, dall’altro la difficoltà del distinguere tra i due diversi fenomeni del terrorismo come mezzo di coercizione politica adoperata dallo Stato nei confronti dei propri cittadini e del terrorismo come uso della violenza illegittima finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività, a destabilizzarne o restaurarne l’ordine (4).

Proviamo a portare un pò di chiarezza e a comprendere cosa sia questo fenomeno, che è stato, soprattutto nello scorso decennio, universalmente avvertito come uno dei maggiori pericoli che chiunque poteva correre in una qualsiasi città, ma che, ancora oggi che la minaccia sembrerebbe diminuita, resta come un rischio reale per l’intera comunità internazionale. Non dob-

Da rivista inspire AQ (autore).

biamo infatti sottovalutare né le capacità di gruppi jihadisti come Al Qaeda o l’Islamic State, che hanno dimostrato grande resilienza (5), né le spinte che arrivano da più direzioni da parte di movimenti di quello che è oggi classificato come «estremismo violento».

Chiarimenti terminologici alla luce dell’assenza di una definizione giuridica universalmente riconosciuta

Se può sembrare fin troppo ovvio che commettere un atto di terrorismo sia un crimine, due sono i grandi ostacoli che si incontrano nell’inquadrare il fenomeno da un punto di vista giuridico: da un lato, non possiamo definire il terrorismo un crimine come gli altri, essendo impossibile descrivere puntualmente dal punto di vista penale come si manifesta la fattispecie criminale, potendo esso realizzarsi con una serie praticamente infinita di modalità operative (6); dall’altro, come disse tanti anni fa uno dei massimi esperti di diritto internazionale penale, Sherif Bassiouni, «what is terrorism to some, is heroism to others» (7).

Questo secondo aspetto ci dice che l’autore di un attentato può pertanto essere considerato un criminale o un eroe, dipende dal punto di vista da cui lo si guarda. Ma è veramente così? Da giurista devo dissentire. Ma si deve superare il primo dei due ostacoli appena esaminati: quello delle oggettive difficoltà che si incontrano nella formulazione della fattispecie di reato.

È vero che a differenza di tutti gli altri reati non esiste una fattispecie specifica, potendo un atto di terrorismo essere realizzato con una metodologia pressoché infinita; analogamente, non esiste una determinata finalità che caratterizza il reato di terrorismo, potendo esso essere politicamente, ideologicamente o religiosamente motivato. Ma ci sono delle caratteristiche che lo contraddistinguono, che lo rendono diverso da tutti gli altri reati e permettono così di identificarlo in quanto tale.

Innanzitutto, che al di là della modalità operativa utilizzata, l’obiettivo che si intende raggiungere nell’immediato è spargere il terrore, e questo si ottiene spesso a prescindere dal successo dell’attacco. Terrorizzare una determinata comunità è a sua volta un modo per raggiungere il vero scopo, che si mira a realizzare in

un secondo momento, indipendentemente dai successi che si sono raggiunti nell’immediato. Ne consegue che il fine di portare terrore presso una determinata comunità si deve vedere esclusivamente come strumentale, allo scopo primario perseguito dall’organizzazione terrorista (8), e pertanto il terrorismo è da inserire nella categoria dei crimini a forma libera ed è caratterizzato da uno specifico dolo (9).

Allontanandoci un attimo da ragionamenti strettamente giuridici, da analista intelligence devo notare che si arriva alla stessa soluzione anche osservando gli attentatori nei momenti successivi ai loro attacchi. Una delle cose che dopo decenni in cui studio il fenomeno ho trovato comune per gli attentatori di ogni «tipologia di terrorismo» è che non solo non fanno di tutto per scappare e non essere identificati, ma, qualora catturati, nelle foto dell’arresto appaiono ridere, o quantomeno sorridere, felici e soddisfatti per avere evidentemente raggiunto il loro scopo, nel quale la pubblicità ha un aspetto non secondario. Il loro obiettivo è realizzato sia che l’attentato abbia avuto successo, sia che non lo abbia pienamente avuto, sia che essi siano riusciti a scappare, sia che siano stati uccisi o catturati: quello che conta è aver scatenato il terrore all’interno di una determinata comunità, in vista del raggiungimento dello scopo che intendono raggiungere.

Si tratta di un aspetto che nulla ha a che vedere con la religione, così come in realtà il terrorismo stesso, condannato da tutte le religioni e non giustificabile sulla base della corretta interpretazione di nessuna. Se si osservano le foto degli arresti, lo stesso sguardo sorridente e beffardo che compare da decenni sul volto dei terroristi palestinesi (10), così come più recentemente su quello dei jihadisti che agiscono in nome di Al Qaeda e dell’Islamic State (11), appare in quella che è forse la prima foto dell’arresto di un attentatore, un anarchico di fine XIX secolo: si tratta della foto che immortala l’arresto di Luigi Lucheni, il 10 settembre 1898, subito dopo aver colpito a morte l’imperatrice Elisabetta d’Austria, Sissi (12).

Al di là delle motivazioni che hanno spinto ad agire, delle modalità con cui l’attacco è stato realizzato e, incredibilmente, del fatto che sia riuscito o meno, per l’attentatore l’obiettivo è raggiunto nel momento stesso in cui ha pubblicità e genera terrore, perché così potrà raggiungere il vero scopo delle sue azioni, che non è una conseguenza diretta di esse. Il ladro agisce con scopo di lucro, e si ritiene pertanto soddisfatto quando riesce a impossessarsi dei beni che intende rubare, analogamente l’assassino vuole uccidere una persona e ritiene che il suo obiettivo sia stato raggiunto quando riesce a togliere la vita a tale persona, mentre il terrorista che commette un attentato è sempre soddisfatto, anche se arrestato e anche se l’obiettivo diretto del suo attentato non è stato raggiunto, purché le sue azioni abbiano prodotto il panico e dato pubblicità alla causa che egli intendeva con esse perseguire. Alla luce di queste considerazioni, è giunto il momento di provare a inquadrare il fenomeno, facendo alcune preliminari premesse sui termini che compongono l’espressione più usata e abusata degli ultimi decenni: «terrorismo» e «internazionale». Innanzitutto, la prima considerazione dalla quale risulta opportuno partire è quella secondo la quale il «terrorismo» è un «metodo», un approccio strategico che esiste da sempre. Se andiamo indietro nella storia non vi è periodo in cui non sia stato usato (13), anche a li-

il venticinquenne Luigi Lucheni subito dopo il suo arresto. Il 10 settembre del 1898 fu lui ad assassinare l’imperatrice Elisabetta d’Austria, meglio nota come Sissi (wikipedia.org).

vello statale, ma più spesso da minoranze che non avevano altri strumenti per combattere quella che è comunemente chiamata la guerra classica, e finivano per utilizzare una minaccia asimmetrica, prima ancora che qualcuno avesse inventato tale classificazione. Come già accennato, giuridicamente può essere inquadrato come «fattispecie criminosa a forma libera, attraverso la quale si mira, nell’immediato, a raggiungere l’obiettivo di spargere il terrore in una determinata comunità, per il conseguimento, in un secondo momento, di uno scopo ulteriore, che si concretizza normalmente in un cambiamento politico, sociale o religioso» (14).

Passando al secondo aspetto, ricordiamo che ancorché manchi una definizione universalmente riconosciuta, tutti concordano sul fatto che la qualificazione di «internazionale» viene data ove l’evento presenti un elemento di internazionalità, anche solo dovuto alla cittadinanza degli autori e/o delle vittime. Negli altri casi si parla di terrorismo interno, fenomeno ancora triste-

Poster con attenatatori di Parigi 2015 nella propaganda IS (autore).

mente noto in varie parti del mondo e spesso fin troppo dimenticato. Tuttavia, se il carattere internazionale del fenomeno risiede nella presenza di un elemento di estraneità rispetto a un’unica realtà statuale coinvolta, in presenza di talune circostanze l’elemento di internazionalità si presuppone, come nel caso del c.d. «terrorismo aereo», che mettendo in pericolo la regolarità e la sicurezza del trasporto aereo assume di per sé sempre carattere internazionale (15).

Inoltre, nel caso del terrorismo che ha maggiormente colpito negli ultimi decenni, che potremmo in una prima approssimazione definire di «matrice» c.d. «islamica», si è passati da un’internazionalizzazione negli ultimi decenni del secolo scorso, a una «universalizzazione» a inizio di questo nuovo millennio. E avendo l’attuale terrorismo c.d. jihadista come fine ultimo la costituzione del Califfato, che è l’opposto dello Stato westfaliano, ne deriva che la comunità da terrorizzare, per raggiungere quello che abbiamo definito «cambiamento politico, sociale o religioso», sia la comunità internazionale stessa e i valori su cui si basa (16).

L’interesse della comunità internazionale a perseguirlo e le risposte adottate davanti alla sua evoluzione

Venendo all’interesse della comunità internazionale nel perseguirlo, si deve sottolineare come storicamente il terrorismo sia nato come un fenomeno a rilevanza interna e per secoli è stato perseguito a livello statale anche quando presentava elementi di estraneità rispetto allo Stato. Tale situazione è rimasta immutata fino a quando, nella seconda metà del XIX secolo, iniziò a emergere l’interesse della comunità internazionale per la repressione al terrorismo in seguito al contenzioso nato dopo uno dei numerosi attentati a Napoleone III. Si tratta di quello che venne compiuto nel settembre del 1854 da Celestino e Giulio Jacquin, che subito dopo si rifugiarono in Belgio: la Francia ne chiese l’estradizione, ma il Belgio, applicando la legge che vietava l’estradizione per reati politici, si vide costretto a rispondere negativamente.

Nacque allora la c.d. Clausola belga, che, introdotta dalla legge belga del 22 marzo 1856 e recepita ben presto in una serie di trattati bilaterali di estradizione, previde

Attentato di Monaco 1972 (autore).

la restrizione della nozione dei delitti politici escludendo da essi, e quindi dal divieto di estradizione per gli autori di tali crimini, gli attentati contro i capi di Stato o i membri delle loro famiglie (17). Enorme fu l’importanza storico-giuridica di tale principio, che ha segnato il primo passo del diritto internazionale contro il fenomeno del terrorismo e al tempo stesso la prima limitazione di un diritto dovuta alla lotta contro di esso (18).

Tale clausola fu di fatto la solo risposta di carattere internazionale che gli Stati continuarono a dare al terrorismo in tutto il periodo a cavallo tra il XIX e il XX secolo, che fu caratterizzato da una lunga scia di attentati anarchici, cui si continuò a rispondere a livello di diritto penale interno.

Fu tra le due guerre mondiali che si sviluppò la consapevolezza dell’impossibilità di uno Stato di combattere da solo il terrorismo internazionale: dopo l’attentato che nel 1934 costò la vita ad Alessandro di Jugoslavia e al ministro degli Esteri francese Barthou, la Società delle Nazioni iniziò i lavori che portarono all’adozione delle due Convenzioni di Ginevra del 1937, per la prevenzione e la repressione del terrorismo e per la costituzione di una corte penale internazionale, che per una serie di ragioni legate anche all’imminente scoppio della Seconda guerra mondiale non entrarono mai in vigore (19).

Ancora incapace di trovare una definizione del terrorismo, la comunità internazionale a partire dagli anni Sessanta, davanti alle nuove modalità operative di volta in volta utilizzate dal terrorismo con attentati quasi sempre legati alla c.d. «causa palestinese», rispose mediante l’elaborazione di convenzioni settoriali. Sebbene ognuna di esse volesse essere la risposta a una singola modalità operativa utilizzata (es. dirottamenti aerei, uccisione di personale diplomatico), si venne a disegnare uno standard normativo comune che consentì di superare i limiti connessi all’approccio settoriale (20).

Fu solo dopo gli attacchi dell’11 settembre, che la comunità internazionale cambiò passo, approvando a livello di Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite risoluzioni ex Capo VII della Carta che hanno a oggetto il terrorismo internazionale «di per sé», e non comportamenti di alcuni Stati (21), e arrivando a elaborare anche una Strategia Globale contro di esso (22), pur mancando ancora una definizione del fenomeno.

Negli ultimi anni, poi, ci si è concentrati su nuovi aspetti. Innanzitutto, sul contrasto al c.d. terrorismo «fai da te», e quindi su come prevenire gli attacchi condotti in Occidente in modo più o meno autonomo da giovani radicalizzati in nome del c.d. jihad, su come controllare i foreign fighter di ritorno dai teatri di crisi, e su come impedire che la propaganda online radicalizzi nuovi homegrown terrorist. Vi è poi stata la lotta «militare» al c.d. Califfato autoproclamato da Al Baghdadi, con l’Islamic State che in modo fin troppo rapido e avventato dopo aver conquistato ampi territori aveva provato a realizzare quello che da sempre era stato il sogno di Al Qaeda. Infine, davanti all’incapacità delle risposte militari nell’arrestare la diffusione di idee radicali di vario titolo, che stanno prendendo sempre più piede tra i giovani e ottenendo ampio consenso popolare anche in mancanza di gruppi ben strutturati alle loro spalle, l’attenzione si è focalizzata anche sul c.d. «estremismo violento», concetto nato con riferimento all’estremismo islamista ma che è maggiormente utilizzato per i movimenti di estrema destra e quelli motivati da ragioni etniche e razziali (23).

Manca ancora, tuttavia, una definizione di terrorismo giuridicamente riconosciuta a livello internazionale, perché ai problemi storicamente incontrati anche dalla dottrina sin dai primi decenni del XX secolo, si sono sommati ostacoli che forse oggi si dovrebbe essere in grado di superare, alla luce dell’universale condanna del terrorismo e delle azioni dei gruppi jihadisti. Ma, da un lato, permane in alcuni Stati la paura che approvando una determinata definizione possano in futuro essere condannate le proprie azioni, magari condotte per rispondere alla violenza di Stati o non-state actor o durante c.d. interventi umanitari. D’altro lato, la sensibilità di alcuni paesi a maggioranza islamica verso definizioni che possano in qualsiasi modo accostare la propria religione al terrorismo, o far ricadere in tale categoria le azioni di chi combatte per la causa palestinese, finisce per costituire ancora il maggior impedimento a un consenso verso una qualsivoglia definizione. 8

NOTE

(1) Le opinioni appartengono all’Autore e non corrispondono necessariamente a quelle delle Amministrazioni di appartenenza. (2) Più facile è stato trovare il consenso intorno ad alcune definizioni a livello regionale grazie all’uniformità culturale dei paesi membri. (3) Sottile A., Le terrorisme international, in Recueil des cours de l’Académie de droit international de La Haye, 1938, 91. (4) Per una ricostruzione completa delle vicende storico-giuridiche legate all’elaborazione di una definizione di terrorismo, si veda Quadarella Sanfelice di Monteforte L., Il terrorismo internazionale come crimine contro l’umanità-da crimine a rilevanza internazionale a crimine internazionale dell’individuo, Napoli, 2006. (5) Quadarella Sanfelice di Monteforte Laura, Il ritorno dei talebani al potere in Afghanistan farà rinascere Al Qaeda? In realtà il gruppo non è mai stato sconfitto. AQ e i suoi venti anni di resilienza, in Mediterranean Insecurity, agosto 2021. (6) Ricordiamo, per esempio, nel nostro Codice Penale le fattispecie introdotte nel febbraio 2015 con gli articoli 270 bis e seguenti. (7) Tra i numerosi libri in cui l’espressione è ampiamente analizzata, si veda Bassiouni M.C., International Terrorism: Multilateral Conventions (1937-2001), New York, 2001. (8) Ciò spiega perché nella maggior parte dei casi gli attacchi terroristici si svolgono in modo scenografico. In tal senso: Jenkins B. M., Il terrorismo internazionale: una rassegna, in Ferracuti M.R. (a cura di), Forme di organizzazioni criminali e terrorismo, Milano, 1988, 187ss. e Guillaume G., Terrorisme et droit international, in Recueil des cours de l’Académie de droit international de La Haye, 1989, III, 305. (9) Panzera A.F., Attività terroristiche e diritto internazionale, Napoli, 1978, 185ss. (10) Si veda Ganor B., Israel’s Counterterrorism Strategy: Origins to the Present, Columb. Univ., 2021. (11) Si veda Quadarella Sanfelice di Monteforte Laura, Perché ci attaccano. Al Qaeda, l’Islamic State e il terrorismo «fai da te», Aracne Editrice, Roma, seconda edizione, 2017. (12) Per le analogie tra il terrorismo anarchico e quello jihadista si veda, da ultimo, Cohen N., Is Islamist terrorism a crime wave, or are we fighting a war?-Rather than being seen as a civilisational threat, Islamism is now seen as comparable to the anarchist movement at the turn of the last century-which eventually withered away, in The Jewish Chronicle, 20 January 2022. (13) Per una ricostruzione storica, cfr.: AA.VV., Encyclopedia of World Terrorism, vol. 1, New York, 1997; Panzera A.F., voce Terrorismo, b) Diritto internazionale, in Enciclopedia del Diritto, vol. XLIV, Milano, 1992, 370ss.; Laqueur W., The Terrorism Reader. A Historical Anthology, New York, 1978; Laqueur W., Storia del terrorismo, Milano, 1978; Quadarella Sanfelice di Monteforte L., Il terrorismo internazionale come crimine contro l’umanità-da crimine a rilevanza internazionale a crimine internazionale dell’individuo, op.cit., Cap. 1; Zlataric B., History of International Terrorism and its Legal Control, in Bassiouni (ed.), International Terrorism and Political Crimes, op. cit., 474ss. (14) Quadarella Sanfelice di Monteforte L., Il terrorismo internazionale come crimine contro l’umanità-da crimine a rilevanza internazionale a crimine internazionale dell’individuo, op.cit., 6. (15) In tal senso: Panzera A.F., voce Terrorismo, b) Diritto internazionale, in Enciclopedia del Diritto, op. cit., 371; Quadarella Sanfelice di Monteforte L., Il terrorismo aereo, in Rivista Aeronautica, n. 4, settembre 2010, 116ss. (16) Per il terrorismo fai da te si veda, Quadarella Sanfelice di Monteforte Laura, Perché ci attaccano. Al Qaeda, l’Islamic State e il terrorismo «fai da te», op.cit.; per il Califfato come organizzazione politico-religiosa cui mirano i gruppi jihadisti, Quadarella Sanfelice di Monteforte L., Vivere a Mosul con l’Islamic State. Efficienza e brutalità del Califfato, Mursia, Milano, 2019. (17) Tra l’ampia dottrina, cfr. Ancel M., Le crime politique e le droit pénal du XXe siècle, in Revue d’histoire politique et constitutionnelle, 1938, n. 1, 89; Cochard, Le terrorisme et l’extradition en droit belge, in AA.VV., Réflexions sur la définition et la répression du terrorisme, Actes du colloque, Université libre de Bruxelles, 19 et 20 mars 1973, Bruxelles, 1974, 210. (18) Tema che sarebbe divenuto di estrema attualità con la c.d. «guerra al terrore» seguita agli attacchi dell’11 settembre. (19) Convention for the Prevention and Punishment of Terrorism, Geneva, 16 November 1937 (LN Doc. C.546.M.383.1937); Convention for the Creation of an International Criminal Court, Geneva, 16 November 1937 (LN Doc. C.546.M.383.1937 Annex). (20) Cfr.: Panzera A.F., La disciplina normativa sul terrorismo internazionale, in Ronzitti N. (a cura di), Europa e terrorismo internazionale-Analisi giuridica del fenomeno e Convenzioni internazionali, Roma, 1990, 18; Gioia A., Terrorismo internazionale, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, in Rivista di Diritto Internazionale, n. 1/2004, 5ss.; Quadarella Sanfelice di Monteforte L., Il terrorismo internazionale come crimine contro l’umanità-da crimine a rilevanza internazionale a crimine internazionale dell’individuo, op. cit., Cap. 2. (21) Vi erano già state risoluzioni adottate ex Capo VII della Carta, ma erano rivolte contro uno Stato determinato e con un fine circoscritto o un limite temporale (come quelle contro il regime di Gheddafi del 1992 sul caso Lockerbie, la ris. 731 che intimò alla Libia di estradare i sospetti autori dell’attentato e la 748 che stabilì l’applicazione di sanzioni contro la Libia per il suo rifiuto di estradarli). Dalle risoluzioni 1368 e 1373 del settembre 2001, le disposizioni sono rivolte a tutti gli Stati per la lotta alle attività di ogni gruppo terrorista e il terrorismo è condannato di per sé. (22) UN Global Counter-Terrorism Strategy (A/RES/60/288), adottata dall’Assemblea generale l’8 settembre 2006, è dotata di meccanismo di revisione biennale. (23) Ricordiamo che nel 2016 l’Assemblea Generale dell’ONU nell’adottare la Quinta Revisione Biennale della Global Strategy (A/RES/70/291) recepì un altro documento «strategico», presentato dal Segretario Generale alcuni mesi prima: il «Plan of Action to Prevent Violent Extremism» (A/70/674), visto come una grave minaccia contro la pace. Il documento, inteso come sviluppo pratico della precedente strategia del 2006, cui faceva esplicito riferimento, aveva lo scopo di prevenire l’estremismo violento, considerato e affrontato «come, e quando, tendente al terrorismo» («violent extremism as and when conducive to terrorism»). Era spiegato che l’esigenza di affrontare il fenomeno derivava dall’attività svolta da alcuni «gruppi terroristici come lo Stato islamico in Iraq e il Levante (ISIL), Al-Qaeda e Boko Haram», che aveva «ridisegnato la nostra immagine di estremismo violento e acceso il dibattito su come affrontare questa minaccia».

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