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L’importanza di una capacità anfibia nazionale

Filippo Colucci

Negli ultimi decenni in ambito globale le fasce costiere hanno subìto un incremento dell’attenzione geopolitica. Come manifestamente noto, le attività produttive e commerciali sono concentrate in zone litorali che hanno sbocco diretto sul mare al fine di facilitare e velocizzare la movimentazione delle merci sulle decisive vie di comunicazione primarie, cioè quelle marittime. Inoltre, le stesse aree costiere si sono rivelate spesso sede di giacimenti di risorse energetiche di interesse crescente, quali per esempio il gas naturale, come nel caso del Mediterraneo orientale. In generale è possibile notare che si sia verificato un

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Tenente di vascello, nato a Bari il 5 dicembre 1988. Ha frequentato l’Accademia navale con il Corso Ares (2007-12). Al termine del Corso di Abilitazione anfibia, dal 2013 ha assunto molteplici incarichi presso i comandi della Forza da sbarco. Ha frequentato l’All Arms Commando Course presso lo UK Royal Marine Commando Training Center di Exeter, UK, e l’Expeditionary Warfare School presso la US Marine Corps University di Quantico, Stati Uniti. Attualmente è il Comandante del cacciamine Chioggia.

popolamento esponenziale dei grandi centri urbani costieri e delle coste in generale. Da notare inoltre come il conseguente incremento della densità abitativa si combina all’alta dinamicità delle società del terzo millennio, nelle quali, grazie alle reti informatiche e alla larga diffusione dei social network, risulta immediata la possibilità di riverbero di notizie o di condivisione di informazioni, anche veicolate con fini politici. In condizioni del genere, nuovi e imprevedibili impulsi di carattere sociopolitico possono portare, negli scenari più critici, a repentini cambiamenti radicali e fenomeni destabilizzanti di difficile controllo. I litorali sono diventati, quindi, aree di interesse strategico, sempre più spesso oggetto di attenzione da parte delle potenze regionali, o aspiranti tali.

Per quanto riguarda le zone di mare costiere, alcune nazioni, dimostrano sul mare un atteggiamento di crescente aggressività, volto soprattutto a guadagnare il controllo sulle aree geografiche soggette a controverse rivendicazioni, tramite un ritorno a strategie sempre più orientate al sea denial (1), cioè la negazione del controllo degli spazi marittimi. Tali strategie, al giorno d’oggi irrobustite da sistemi d’arma tecnologicamente avanzati e fortemente integrati nei diversi domini operativi delle operazioni militari (terrestre, marittimo, aereo, spaziale e cibernetico) sono note come Anti Access e Area-Denial (A2/AD) (2) e rendono il mare, fino a poco tempo prima considerato area di libera circolazione, un ambiente sempre più conteso. Le misure

Mezzi d’assalto anfibi AAV7 in navigazione. Ship to shore movement.

Sbarco logistico di Veicoli Tattici Leggeri Multiruolo tramite mezzo da sbarco GIS, lanciato da unità navale da sbarco anfibia.

A2/AD creano delle vere e proprie «bolle di inibizione», la cui efficacia può essere indebolita con operazioni di piccola entità, svolte in maniera distribuita da piccoli «pacchetti di forze» dotati di notevoli capacità di combattimento.

Per uno Stato dalla dominante connotazione marittima, quale è l’Italia con la maggior parte dei suoi confini rivieraschi e che è geograficamente il fulcro del Mediterraneo, è fondamentale disporre non solo di una solida capacità di difesa delle acque nazionali ma anche della capacità di poter influenzare gli equilibri nelle aree dove si proietta l’interesse nazionale comprese quelle litorali. Lo strumento marittimo italiano deve essere in grado di tutelare, anche nell’ambito di un approccio sistemico alla sicurezza collettiva, gli interessi del Paese ovunque essi si manifestino. È necessario andare oltre la visione geografica di intervento, quindi assume particolare rilevanza strategicae, in aggiunta alla difesa dei confini nazionali, la caratteristica di una spiccata e rapida proiettabilità (concetto di expeditionary) e di permanenza in mare (capacità sea based), per cui occorrono sia il Gruppo portaerei sia il Gruppo anfibio, entrambi dotati di unità di scorta, sommergibili, supporto logistico e specialistiche di settore idrografiche e cacciamine. Con particolare riguardo alle zone di mare cosiddette litorali, occorre avere una concreta capacità di deterrenza e dissuasione grazie alla disponibilità di uno strumento di proiezione di forza e di combat power dal mare verso la terraferma, ovvero uno strumento militare capace di pianificare e condurre in maniera efficace, forse le più complesse tra le operazioni aeronavali: le operazioni anfibie. Tali operazioni devono poter essere, in base all’esigenza, svolte in maniera flessibile in diverse proporzioni, in modo tale da poter garantire dall’intervento a piccola scala per il contrasto A2/AD all’intervento ad ampia scala per la deterrenza strategica o la stabilizzazione di aree di interesse.

Assalto anfibio di fucilieri di Marina con inserzione tramite battelli pneumatici.

LE OPERAZIONI ANFIBIE

Le operazioni anfibie sono operazioni militari lanciate dal mare da una Forza anfibia, inquadrata in un dispositivo navale, al fine di proiettare una Forza da sbarco a terra in un ambiente che può variare in tutto il range delle operazioni militari da permissivo a ostile. L’integrazione e lo stretto coordinamento di diverse capacità caratterizzano quelle anfibie come operazioni militari tra le più complesse, che richiedono elevati standard di preparazione professionale, addestramento, mezzi ed equipaggiamenti prestanti e un alto livello di interoperabilità e flessibilità. Esistono diversi tipi di operazione anfibia: • assalto, prevede l’imposizione di una forza esterna sulla terraferma con la successiva permanenza della forza sbarcata o l’avvicendamento con altra forza amica; • raid, comporta una fulminea incursione o una occupazione temporanea di un obiettivo seguita da un reimbarco pianificato; • dimostrazione, condotta per ingannare il nemico con una esibizione di forza tale da confonderlo e condurlo a scegliere una linea d’azione a esso più sfavorevole (potrebbe quindi anche non prevedere l’effettivo sbarco); • ripiegamento, comporta l’estrazione via mare della forza a terra, da una costa ostile o potenzialmente tale, con una manovra ordinata e lineare; • supporto ad altre operazioni, comprende le operazioni militari diverse dalla guerra che possono essere svolte grazie alla spinta flessibilità della Forza anfibia (evacuazioni di personale non combattente, personnel recovery, soccorso da calamità naturale, operazioni di sostegno e mantenimento della pace). Non vi è una categorizzazione gerarchica tra le tipologie di operazione anfibia, né tantomeno tali operazioni vengono identificate in base all’intensità dell’azione o delle forze messe in campo, ma piuttosto sulla base della tipologia di azione da svolgere.

ALCUNI ESEMPI STORICI

- Nel 1944 l’operazione «Overlord» includeva l’assalto anfibio con il quale le Forze alleate sono sbarcate in Normandia per le successive operazioni terrestri di contrasto all’occupazione nazista. - Nel 1982 nell’ambito della guerra delle Falkland, con l’operazione «Corporate» il corpo di spedizione britannico ha eseguito un raid al fine di ristabilire il controllo territoriale dell’arcipelago occupato dalle Forze argentine. - Nel 1990, durante l’operazione «Desert Shield», gli Stati Uniti condussero una serie di dimostrazioni anfibie, con sbarchi su spiagge di nazioni amiche nel Golfo Persico con una imponente Forza anfibia al fine di persuadere il Governo iracheno a ritirare le truppe di occupazione dal Kuwait. - Nel 1995, il 26° Gruppo navale italiano prese parte alla missione «Ibis III» per il ritiro del contingente di pace delle Nazioni unite dalla Somalia tramite ripiegamento anfibio. - Nel 2010, in seguito al catastrofico terremoto che colpì lo stato di Haiti, con l’operazione «White Crane» l’Italia ha dispiegato una Forza anfibia nel Mar dei Caraibi al fine di garantire la dovuta assistenza umanitaria alla popolazione civile.

Navigazione in formazione dei veicoli d'assalto anfibio AAV7 della Marina Militare in fase di avvicinamento alla costa.

Questo strumento di proiezione, la Forza anfibia, è un dispositivo militare composto da una componente aeronavale e da una Forza da sbarco, che si integrano con strutture di comando variabili in base alla missione assegnata. La Forza anfibia è necessariamente rapida, flessibile e fortemente expeditionary. Infatti, le Marine militari dispongono, per loro stessa natura, della possibilità di proiettare forze e sviluppare potenza combattiva dal mare verso la terraferma. Grazie alla possibilità di sfruttamento delle acque internazionali per trasferimenti rapidi e difficilmente contrastabili, da sempre gli Stati sovrani hanno impiegato le navi per la proiezione di forze e di influenze fuori dai confini territoriali, dotandole anche di marinai addestrati, in maniera sempre più spinta e specifica, all’uso dell’arma da fuoco individuale e al combattimento a terra (la cd. Forza da sbarco).

In Italia la Marina Militare italiana è detentrice della capacità anfibia a livello nazionale per derivazione storica e per attitudine intrinseca. La derivazione storica affonda le sue radici nelle marinerie preunitarie, dominanti per secoli nel mar Mediterraneo, di cui la Marina Militare è la naturale erede. La Marina ha, infatti, consolidato secoli di tradizione marinaresca e di spirito anfibio (cd. amphibiousity), incrementando di decennio in decennio il bagaglio di conoscenze ed esperienze nell’ambito delle operazioni anfibie, aggiornandolo costantemente e adeguandolo al cambiare dei tempi e dei contesti operativi. L’attitudine intrinseca si esplicita nella attuale struttura organica della Squadra navale, che vede alle sue dipendenze tutti gli elementi necessari a generare la capacità anfibia: Terza Divisione navale, Brigata Marina San Marco e reparti aerei. Questi costituiscono un dispositivo, denominato Forza Anfibia della Marina Militare (FAMM), che rappresenta un unicum nel panorama della Difesa. I suoi tre elementi costituiscono un sistema di combattimento modulare, in grado di interagire sulle tre dimensioni (subacquea, su-

Fuciliere di Marina durante un assalto anfibio, avanza dal ciglio di fuoco con la copertura di un mezzo anfibio AAV7.

Inserzione di operatori RECON a mezzo elicottero con tecnica Helo Duck.

perficie — marittima e terrestre — e aerea) per la proiezione di forze, per il supporto di fuoco alla manovra e per il sostegno logistico, operando in tutto il range delle operazioni militari. La spinta integrazione dei tre elementi e il comune spirito di appartenenza agli stessi colori di Forza armata, combinati con la innata tendenza della Marina all’ammodernamento e all’innovazione tecnologica, fanno della Forza anfibia MM uno strumento di proiezione moderno, flessibile, scalabile ed efficace.

La FAMM possiede la capacità di operare autonomamente per almeno trenta giorni prima di essere rifornita, o, all’esigenza, avvicendata da un altro dispositivo, ed è in grado di proiettare in sicurezza le proprie unità in territori non permissivi o privi di adeguate infrastrutture, assolvendo compiti anche molto eterogenei tra loro. Potendo sfruttare al meglio come spazio di manovra tutto il litorale, includendo sia la fascia di mare sia la fascia terrestre, la FAMM è in grado di operare in scenari cinetici di qualsiasi intensità, adottando il concetto del combined arms, ovvero una tipologia di combattimento che ha lo scopo di integrare la potenza di fuoco e la mobilità delle forze operanti a terra con quelle aeronavali, al fine di costringere il nemico davanti a un dilemma nella scelta delle sue linee d’azione e ridurne contestualmente le capacità combattive. Di fatto, la FAMM si adatta allo scenario, sviluppando e combinando tra loro, in maniera adeguata, le diverse funzioni operative del combattimento: comando e controllo, manovra, fuoco di supporto, logistica, intelligence, protezione delle forze e operazioni informative. Combinata alle capacità sea based nazionali, la Forza anfibia moltiplica la portata massima delle operazioni eseguibili e la propria autonomia logistico-operativa per tempi più estesi, confermandosi come una capacità di valore strategico-operativo senza eguali per il decisore politico.

Squadra di fucilieri di Marina appartenenti al 2° Reggimento San Marco su battellone d'assalto per attività di Boarding.

LE FUNZIONI DEL COMBATTIMENTO NELLE OPERAZIONI ANFIBIE

Le funzioni del combattimento sono categorie funzionali con le quali si classificano le capacità impiegate durante le operazioni militari per generare gli effetti desiderati. • C4I. Esercizio del comando e controllo di tutte le forze assegnate sfruttando al meglio i sistemi di comunicazione aeronavali e della Forza da sbarco, strutturalmente integrati, resilienti e ridondanti. • Intelligence. Mantenimento costante della contezza operativa (cd. situation awareness) attraverso la raccolta di dati con l’impiego dei sensori aeronavali e della Forza da sbarco e la successiva valorizzazione delle informazioni per la tempestiva distribuzione. • Manovra. Impiego efficace delle forze sfruttando la loro mobilità in combinazione con il fuoco di supporto, impiegando il mare e le aree costiere antistanti come unico spazio di manovra per raggiungere una posizione di vantaggio. • Fuoco di supporto. Impiego efficace del fuoco delle sorgenti organiche e di quelle in supporto (includendo anche guerra elettronica e cibernetica), ai fini di moltiplicare la capacità di combattimento e porre la manovra in una posizione di vantaggio rispetto al nemico, coordinando il ciclo di targeting (la selezione degli obiettivi) e sincronizzandolo con il momentum e le necessità imposte dalla missione assegnata. • Sostentamento. Coordinamento di tutte le capacità di logistica di aderenza disponibili in modo da garantire alla forza un’autonomia operativa prolungata nella AOA (Area di Operazioni Anfibia) in termini di rifornimenti di tutte le categorie (acqua, viveri, carburante, munizionamento, pezzi di rispetto, ecc), di manutenzione e di supporto medico. Il supporto logistico, in base alla situazione tattica, può essere dislocato sia a terra che a bordo delle UU.NN., assicurando in maniera sinergica le vitali funzioni di sostentamento sopracitate. • Force protection. Garanzia di adeguati livelli di protezione della Forza da sbarco e del dispositivo aeronavale, in considerazione della minaccia e del livello di rischio accettabile. • Attività di informazione. Capacità di condizionare il comportamento e le scelte del nemico o degli altri attori che interagiscono nella AOA (Area di Operazioni Anfibia), grazie all’impiego dei flussi e i sistemi informativi ordinari per influenzare percezioni e interpretazioni. Possono comprendere le attività di PsyOps e di Pubblica Informazione e sono solitamente coordinate con le Comunicazioni Strategiche (STRATCOM) dei livelli operativo e superiori.

Squadra di Fucilieri di Marina durante un assalto anfibio con mezzi d’assalto anfibio AAV7.

Operatori della compagnia nuotatori paracadutisti durante la ricognizione del canale di sbarco.

Consapevole dell’importanza di questo strumento, la Marina Militare ha recentemente approvato una pubblicazione relativa alla capacità anfibia di Forza armata, la SMM-ANF-001. Questo documento ha l’ambizione di essere il fondamento della cultura anfibia nazionale. In esso, la Marina ha idealmente cristallizzato il corposo bagaglio conoscitivo ed esperienziale nell’ambito delle operazioni anfibie e litorali, integrando i princìpi fondamentali della dottrina alleata con l’esperienza acquisita nella pluricentenaria storia della fanteria di Marina e della componente aeronavale della Forza Armata.

La parte prima della pubblicazione è un compendio sulla dottrina alleata e nazionale delle operazioni anfibie, con una ampia dissertazione sulle tipologie e le fasi delle stesse, sulla relazione con le operazioni fluviali e lacustri (cd. riverine operation) e con una panoramica sullo spettro di operazioni che una Forza anfibia o una Forza da sbarco possono compiere oltre alle classiche operazioni anfibie (tra le quali Maritime Interdiction Operation, difesa delle basi terrestri, supporto alle operazioni speciali, concorso alle operazioni terrestri).

La parte seconda approfondisce gli elementi che costituiscono la FAMM e come essi si integrano tra loro adeguandosi alla missione assegnata in modo da poter dispiegare un’efficace task force anfibia, vero fulcro della capacità anfibia nazionale. Ciascun capitolo è dedicato a uno dei tre elementi, descrivendo il dettaglio delle tipologie dei gruppi di unità navali che possono essere poste alle dipendenze del Comando della Terza Divisione Navale, il quale è il Commander of Amphibious Task Force (CATF) nazionale, la poliedricità e la flessibilità della Forza da sbarco composta dalle unità della Brigata Marina San Marco, il cui comandante assume funzione di Commander of Landing Force (CLF) nazionale, e il fattore moltiplicatore legato agli indispensabili supporti delle Forze aree della Marina.

Con la nuova pubblicazione SMM-ANF-001, la Marina Militare pone finalmente una pietra miliare per l’amphibiousity nazionale. Le informazioni trattate nel documento sono filtrate attraverso la duratura esperienza degli uomini e delle donne che nel tempo hanno fatto parte della componente anfibia della Marina. Essi infatti, oltre a essere professionisti del settore, vivono da sempre un contatto diretto e continuativo con le principali realtà anfibie straniere. Un processo «osmotico» costituito da importanti occasioni di scambio e confronto. Tra queste ultime si annoverano i corsi di formazione specialistica e avanzata nelle prestigiose scuole dello United States Marine Corps e della UK Royal Marine Commando Brigade, le posizioni permanenti del personale della Forza da sbarco presso diversi enti NATO e/o internazionali, le posizioni di scambio presso gli staff della Spanish Italian Amphibious Force (SIAF) e Spanish Italian Landing Force (SILF), oltre che i numerosi eventi addestrativi e operativi a cui la componente anfibia e la Brigata Marina San Marco hanno partecipato e continuano a partecipare, includendo anche la SIAF-SILF e il circuito dell’European Amphibious Initiative (EAI). Proprio l’Iniziativa Anfibia Europea ha visto la FAMM impegnata come European Amphibious Battle Group di turno a fine 2020.

Il documento appena approvato permette quindi allo strumento militare italiano di potersi dichiarare preparato ad affrontare le sfide geopolitiche del XXI secolo sia per mare che per terram.

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NOTE

(1) L’abilità di negare l’uso del mare a una forza avversaria contro di noi. (2) Impedire a un avversario di portare le proprie forze in una regione contesa o impedirgli di operare liberamente massimizzando la propria potenza.

La flotta da battaglia austro-ungarica a Pola prima della Grande guerra. La parte più moderna di quella Marina rappresentò la preda più ambita nell’Adriatico del 1918-20 (USMM).

(*) Capitano di vascello del Genio Navale (arq), sommergibilista, storico e critico d’arte moderna e contemporanea. Ha frequentato l’Accademia navale di Livorno conseguendo la Laurea in Ingegneria navale meccanica presso l’Università degli studi di Genova. Ha ricoperto molteplici incarichi di Forza armata fra cui: direttore di macchina del sommergibile Nazario Sauro, direttore di macchina della fregata Grecale, vice direttore dell’Ufficio tecnico navale di Genova, Capo sezione presso il 1° reparto della Direzione degli armamenti navali e capo Ufficio Storico della Marina Militare. Nel 2014 la città di Milano gli ha conferito il Premio Stella al Merito Sociale per meriti storico-culturali. (**) Laureato in giurisprudenza, vive e lavora a Pavia. Studioso di storia navale ha dato alle stampe, nel corso di venticinque anni, altrettanti volumi e oltre 500 articoli pubblicati in Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia dalle più importanti riviste del settore. Tra i libri più recenti Gran pavese (Premio Marincovich 2012), ULTRA - La fine di un mito, Black Phoenix (con Vincent P. O’Hara), Navi e Quattrini (2013), Battaglie sconosciute (2014), Malta 19401943 (2015), Quando tuonano i grossi calibri (2016), L’ultimo sbarco in Inghilterra, 1547 (2018), Venezia contro l’Inghilterra, 1628-1649 (2020) e 200 anni di italiani in guerra (2022).

Cent’anni dopo

Esauritesi, ormai, le celebrazioni dei cent’anni dalla Grande guerra, è possibile tirare le somme. Dal punto di vista storico oggi conosciamo molto di più rispetto a quanto comunemente noto fino a poco tempo fa. Continua, però a mancare — a nostro modesto avviso — il quadro generale di quella guerra e di ciò che successe allora dando forma, in fin dei conti, al mondo di oggi.

È noto, per esempio, che il Governo italiano contrastò immediatamente, nel luglio 1914 alle pretese austroungariche contro la Serbia. D’altra parte lo stesso scenario aveva avuto luogo nel 1913, quando Roma e Berlino si erano subito opposte, con ragione, a qualsiasi avventura austro-ungarica contro Belgrado. E fu proprio per questo motivo che il Regio Governo apprese soltanto dai giornali, il 24 luglio 1914, dell’avvenuta consegna del provocatorio ultimatum di Vienna alla Serbia. Si trattava di un documento volutamente offensivo, inaccettabile e di materialmente impossibile attuazione mediante il quale il Governo asburgico cercava di riprendere il controllo di quel paese balcanico. Vienna aveva, infatti, perso, nel 1903, il proprio tradizionale protettorato serbo in seguito a un colpo di Stato organizzato dalla potente famiglia Karageorgevic e culminato nell’assassinio del re Alessandro Obrenović e della regina, giudicati entrambi troppo filoaustriaci. Proprio per questo il Governo asburgico pretendeva, nel luglio 1914, perfino l’occupazione, sia pure temporanea, della capitale serba a titolo di garanzia.

È meno noto, per contro, il fatto che sin dal 28 luglio 1914 (giorno della dichiarazione di guerra austro-ungarica alla Serbia), il piccolo, ma efficiente Servizio informazioni (1) dell’allora re d’Italia, Vittorio Emanuele III, aveva avvisato Roma in merito al fatto che l’apparente (e insolito) letargo inglese nel corso di quella nuova crisi europea nascondeva, in realtà, una precisa volontà d’intervento contro la Germania da parte di un’influente fazione del governo di Sua Maestà britannica. L’unica condizione (di per sé necessaria e sufficiente) per poter arrivare alla partecipazione diretta del Regno Unito a una guerra continentale era quella di poter dimostrare, davanti all’opinione pubblica d’oltremanica la prova, evidente, di una colpa palese imputabile senz’altro ai tedeschi. Le cause ultime di questa scelta, al di là di in-

negabili contrasti geopolitici in essere, ormai, da oltre 10 anni, ma che non avevano comunque compromesso la pace mondiale, erano, tutto sommato, banali. Il 15 giugno 1914, infatti, la Germania e la Gran Bretagna avevano sottoscritto un accordo economico di immensa portata in vista della spartizione della Mesopotamia turca. Mediante quell’atto, Berlino cedeva a Londra, pur di arrivare a un’intesa tra il Secondo Reich e l’Impero britannico, un’intera generazione di cospicui investimenti teutonici tra il Tigri e l’Eufrate a fronte del mero rimborso, diluito per di più in comode rate annuali, senza interessi e protratte per oltre mezzo secolo, delle sole spese sostenute fino a quel momento. La scelta germanica volta a porre fine, una volta per tutte, alla pericolosa spirale della tensione internazionale con l’Inghilterra, si era addirittura spinta al punto che Berlino svendette, oltre ai propri apprezzabili investimenti, anche quelli, parimenti più che consistenti, che gli austro-ungarici avevano fatto per oltre mezzo secolo in quella medesima area senza prendersi neppure il disturbo d’interpellare i propri soci di minoranza asburgici (2). Secondo le notizie raccolte dal Servizio personale di Vittorio Emanuele III e tosto trasmesse a Roma, tuttavia, nel corso del luglio 1914 alcuni influenti imprenditori britannici avevano pensato bene di risparmiare il pagamento del prezzo pattuito (a sua volta pari, dopotutto, a un anno circa del Prodotto Interno Lordo del Regno Unito) e di approfittare dell’imprevedibile crisi che l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 aveva offerto loro su un piatto d’argento, liquidando il credito germanico nei confronti della City mediante una breve e facile Lovely War che russi e francesi avrebbero combattuto pour les beaux yeux de l’Angleterre come al tempo delle guerre settecentesche e napoleoniche.

Sempre a partire dal 24 luglio del 1914, il ministro degli Esteri Antonio Paternò Castello, marchese di San Giuliano, aveva cominciato a sua volta a trattare con Vienna per i compensi territoriali (previsti dall’articolo VII del Trattato della Triplice Alleanza in caso di guerra o di allargamento territoriale nei Balcani dei sottoscrit-

Venezia, 1o dicembre 1916. Re Vittorio Emanuele III imbarca sulla torpediniera 24 OS del

comandante Manfredi Gravina, Squadriglia Cavagnari, per una navigazione lungo la costa. Nella pagina precedente: una caricatura dell’allora tenente di vascello Manfredi Gravina di Ramacca. Esponente della più alta aristocrazia europea e imparentato con metà del mondo che contava, quest’ufficiale dalla fama un po’ snob, anche se fu ricordato come molto pignolo a bordo, brillò sempre per le proprie doti di comandante valoroso, asso del Reparto informazioni ed eccellente diplomatico (g.c. Istituto centrale per la Storia del Risorgimento).

tori di quel patto) chiedendo il Trentino, salvo cozzare, sin dal principio, con un ostinato (e neanche cortese) «nein» asburgico. A questo punto, data la poco incoraggiante risposta austro-ungarica ed essendo ben consapevoli dei rischi legati a una crisi mondiale, i ministri del Regio Governo si erano affrettati ad ammonire già il 29 luglio, e per iscritto, Berlino in merito alle notizie apprese dall’intelligence italiana, informando ufficialmente il Reich in merito al fatto che, in caso di guerra, «[…] l’Inghilterra vi prenderà parte» (3). Si trattò di una scelta lungimirante e coraggiosa in quanto, in quel momento, il principale informatore del Re, il tenente di vascello Manfredi Gravina di Ramacca (4), stava ancora attraversando in auto, a rotta di collo, la Francia, dopo essere sbarcato a Calais, allo scopo di portare di persona al Re, in quel momento nella residenza reale di San Rossore, le prove di quanto aveva appena appreso a Londra. I tedeschi, tuttavia, preferirono non credere agli italiani. La notte tra il 30 e il 31 luglio Manfredi Gravina arrivò, dopo un viaggio a tempo di record, a Pisa e la mattina dopo l’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, recatosi nella residenza toscana dal sovrano portando personalmente sotto il braccio, data la delicatezza dei documenti in parola, una grossa borsa contenente gli ordini di mobilitazione per la Regia Marina, provò notevole sorpresa, quando il Re gli disse che l’Italia non

sarebbe entrata in guerra e che Berlino e Vienna erano già state informate quella stessa mattina, incaricando — anzi — l’Ammiraglio, nella sua qualità di Capo di Stato Maggiore, di sostituire, il giorno dopo, in occasione della riunione del Consiglio dei ministri, il titolare del dicastero, ammiraglio Enrico Millo (da alcuni giorni malato) spiegando al Governo che l’Italia poteva sì combattere una (breve) guerra navale contro la Francia, ma non certo un conflitto, inevitabilmente di lunga durata, contro la Gran Bretagna (5).

A questo punto conviene riassumere i termini essenziali, maturati per il 30 luglio 1914, di quell’intricata vicenda internazionale sfociata, infine, nella Grande guerra.

Mentre in Italia, grazie anche all’opera dell’intelligence della Regia Marina, veniva fatto un corretto punto di situazione circa l’evoluzione della crisi, a Londra la situazione era, in effetti, ancora in fase di evoluzione. I 19 componenti del gabinetto del primo ministro Herbert Asquith risultavano infatti divisi, ancora il 31 luglio, in merito al da farsi. Nove ministri erano nettamente contrari a qualsiasi idea di una guerra inglese anche nel caso di un’invasione germanica del Belgio. Otto si dichiaravano, per contro, indecisi — incluso lo stesso Asquith — e soltanto due (il ministro degli Esteri Edward Grey e il Primo Lord dell’Ammiragliato Winston Churchill) dichiaravano apertamente di essere a favore del conflitto (6). In merito allo spirito battagliero e ambizioso di Churchill nessuno aveva motivo di stupirsi. La posizione di Grey, per contro, era molto più delicata e decisiva. Convinto da oltre 10 anni in merito al fatto che la salvezza dell’ordine sociale inglese passasse per una Germania sconfitta dai russi e dai francesi, tanto da favorire, quando era ancora un semplice deputato, il riavvicinamento di Londra dapprima con la Francia tra il 1904 e il 1907 e, subito dopo, l’inedita e, fino a quel momento, impensabile intesa inglese con la Russia (di per sé un vero e proprio capovolgimento di alleanze dopo quasi un secolo di reciproca ostilità tra Londra e San Pietroburgo punteggiato, oltre che da frequenti crisi, anche da vere e proprie guerre, sia dichiarate — come ai tempi della Crimea — sia per procura, come il recentissimo conflitto tra lo zar e l’imperatore del Giappone terminato a Tsushima e a Mudken meno di due anni prima), sir Edward cercò di raddrizzare i numeri palesatisi quel 31 luglio nel seno del gabinetto di Sua Maestà, mediante una serie di iniziative a dir poco audaci. Tanto per cominciare quel ministro degli Esteri riuscì a strappare ai propri colleghi, al termine della seduta e mentre tutti stavano andando a colazione, un’affermazione di principio in base alla quale il Regno Unito non avrebbe permesso che la Marina tedesca penetrasse nel Mare del Nord o nella Manica con intenzioni ostili nei confronti dei francesi. In quel caso, infatti, la Marina britannica avrebbe dato tutta la protezione possibile al traffico. Si trattava, in effetti, di un’affermazione di principio abbastanza generica e ambigua che il ministro degli Esteri di Sua Maestà si affrettò a riferire di persona, pochi minuti dopo, all’ambasciatore francese Cambon (7). In seguito lo stesso Grey telefonò, quello stesso giorno, all’ambasciatore germanico a Londra, Lichnowsky, rassicurandolo circa la buona volontà britannica nei confronti di Berlino, spiegando altresì che «[…] l’Inghilterra può ancora trattenere la Francia, se la Germania si impegna a non attaccare né la Francia né la Russia. L’ambasciatore Lichnowsky, che non ha bene afferrato le parole di Grey (il quale, secondo, la buona abitudine oxfordiana, ha balbettato in fretta e in termini velati) crede che l’eventuale impegno tedesco si riferisca alla sola Francia e in tal senso telegrafa a Berlino» (8). In altre parole non sarà mai possibile dimostrare, visto che tutto avvenne (contrariamente a qualsiasi buona prassi diplomatica) per telefono, senza verbali e senza testimoni, se Grey abbia davvero detto, come poi scrisse in sede di memorie, che la Germania non avrebbe dovuto attaccare né la Francia né la Russia a pena di un intervento inglese contro Berlino, oppure se la garanzia di Londra valesse solo a beneficio di Parigi lasciando, per contro, mani libere ai tedeschi nei confronti dell’impero dello zar. Il 4 agosto 1914, infine, la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania dopo che Grey aveva debitamente rassicurato il Parlamento affermando, il giorno prima, che mai e poi mai il piccolo Esercito britannico sarebbe andato a combattere in Francia (9). Si trattò, evidentemente, di un altro «misunderstanding», in quanto gli accordi tra Londra e Parigi in vista dell’invio nel continente della British

Expeditionary Force risalivano al 1912 e i relativi ordini di radunata e imbarco erano già stati emanati prima ancora che il parlamento di Westminster, in quel momento in vacanza, fosse convocato d’urgenza.

Rispetto a questo quadro, già di per sé così complesso e contradditorio, oggi sappiamo qualcos’altro. Nel 1912 il primo ministro Asquith, compagno di partito di sir Edward Grey, aveva iniziato una compromettente relazione con la giovane (quarant’anni in meno rispetto ad Asquith) e bellissima Venetia Stanley, a sua volta discendente di un’illustre omonima famiglia seicentesca più volte ritratta dall’amico di famiglia Antoon Van Dick. L’idillio tra i due amanti scoppiò in Sicilia durante una visita agli scavi intrapresi sull’isola di Mozia (nel comune di Marsala) da Joseph Whitaker, proprietario del celebre stabilimento vinicolo. Il tutto era avvenuto sotto gli occhi imbarazzati del loro ospite e quelli, comunque discreti e professionali, del commissario Giovanni Gasti, elemento di spicco della Polizia appena rientrato dalla Svizzera, dove aveva meritato un elogio dal ministero della Marina «Per l’iniziativa e l’intelligenza con le quali il commissario di Pubblica Sicurezza dottor Giovanni Gasti aveva assolto una missione a Zurigo» (10) e che era stato incaricato, in quell’occasione, di sovraintendere alla sicurezza di quell’illustre ospite britannico.

La sempre preziosa collaborazione tra la Marina italiana e il ministero degli Interni integrò così, alla fine del luglio 1914, il quadro informativo appena descritto, e oggi ribadito con autorevolezza dagli stessi britannici, i quali documentano e ammettono senza difficoltà sia l’opera di persuasione e di indebita influenza politica svolta dalla bella Venetia Stanley nei confronti del bonario Asquith a favore delle tesi belliciste sia i gravi danni che la sicurezza britannica ebbe a subire in seguito a questo stato di cose. Lo stesso Grey, infatti (evidentemente pronto a influenzare in maniera decisiva il proprio governo, ma non a tradire i segreti del suo paese) riprese severamente quella aristocratica, in quanto gli inevitabili controlli cui quella dama veniva periodicamente sottoposta avevano registrato contatti anche col bel Manfredi, dal quale la separavano, dopotutto, solo 4 anni di differenza anziché i 40 del Prime Minister (11).

Le curiose vicende inglesi del 1914 appena narrate non si esauriscono, però, qui. Un nuovo e significativo filone di ricerche è in-

fatti emerso recentemente, rivelandosi, di per se stesso, tanto più interessante in quanto imbastito sui canoni del più puro Potere Marittimo coinvolgendo in prima persona la Marina italiana, i suoi uomini e, se è possibile dirlo — data l’epoca — le sue donne.

Accanto: Venetia Stanley. Al centro: il Primo ministro inglese Herbert Asquith. In basso: il ministro degli Esteri britannico, sir Edward Grey (wikipedia).

L’uscita di sicurezza

Vienna, entrata in guerra convinta di poter compensare la propria oggettiva inferiorità (12), rispetto alla somma di Russia e Serbia (e con i tedeschi impegnati al 90% in Occidente), mediante una rapida serie di brillanti e vittoriose battaglie d’annientamento (kesselschlachten), si era già pentita, per il settembre di quello stesso anno, dell’errore compiuto.

Nel giro di due mesi era andato, infatti, perduto, tra morti, feriti e prigionieri, un terzo dell’Esercito imperiale, battuto sul campo sia dai russi sia (e ciò era politicamente intollerabile) dai serbi, depennando, per di più, dai ruoli oltre metà degli ufficiali in servizio permanente effettivo. Data la mala parata, la duplice monarchia accusò, a questo punto, la Germania di egoismo, perfidia e perfino di mendacio, mentre i tedeschi, more solito, parlavano di incompetenza, arroganza e intrinseca debolezza del loro alleato meridionale. Il ministro degli Esteri austro-ungarico, conte von Berchtold, si spinse a sua volta a minacciare apertamente Berlino, l’8 settembre 1914, prospettando una pace separata asburgica nel caso non fossero arrivati subito gli aiuti militari chiesti con urgenza da Vienna alla Germania (13).

Non si trattò, in effetti, di parole a vuoto, anche se non proprio nel senso utilizzato dal Governo austroungarico. La frazione boema del Servizio segreto austro-ungarico, il potente Evidenzbureau aveva infatti concepito, nell’autunno 1914, una possibile via d’uscita dal guaio in cui il Governo austro-ungarico era andato improvvidamente a cacciarsi. I vertici dell’Evidenzbureau, attivi a Praga, proposero di avvicinare i propri colleghi britannici in vista di una possibile pace separata tra l’Austria-Ungheria e l’Intesa, essendo il Regno Unito il riconosciuto leader dell’alleanza venutasi a formare con Parigi e San Pietroburgo. A questo scopo i Servizi austro-ungarici chiesero e ottennero di favorire il passaggio in Occidente, con regolare passaporto emesso «per motivi di salute» e passando attraverso l’Italia, dei due capi, riconosciuti e autorevoli, dell’autonomia ceca e morava: Thomas Masaryk ed Edvard Beneš (14). In realtà il piano concepito a Praga (e ben presto fatto proprio da Londra) era un altro.

Si trattava, infatti, di dar vita a una Repubblica slava meridionale formata da quelle che sarebbero diventate, alla fine, la Cecoslovacchia, la Slovenia e la Croazia, tra loro unite da un corridoio di 200 chilometri di lunghezza e 80 di larghezza coincidente, in pratica, col territorio del Burgenland, prevalentemente popolato, a sua volta, da mezzo milione tra austriaci e ungheresi, a parte una minuscola minoranza slava. Anche la moderna Marina austro-ungarica sarebbe finita, secondo i piani concordati infine a Londra, nelle mani del nuovo Stato continuando, in questo modo, ad assicurare nel tempo quell’ipoteca adriatica che tanto aveva pesato, dall’Unità in poi, in capo all’espansione economica e navale italiana nel Mediterraneo e oltre.

Se, infatti, la componente croata poteva assicurare i porti (in primo luogo Cattaro e Fiume e, si sperava, anche Pola e Trieste) e il personale necessario, soltanto le imprese ceche potevano permettersi di pagare le cospicue spese di questo programma assicurando, nel contempo, il necessario appoggio tecnologico e industriale.

Fino al 1917, comunque, questi sogni (pubblicizzati sin dal 1915 sulla stampa, corridoio incluso, da Masa-

Mappa di quella che avrebbe dovuto essere l’Unione slava nel 1918. Questo progetto fu perseguito, in pratica, fino al 1920 (wikipedia.it/ rielaborazione di Arianna Cernuschi).

ryk e Beneš) non ebbero l’appoggio della maggioranza degli abitanti della Boemia e della Moravia, per tacere della perplessità manifestate dagli slovacchi.

Il crescente peso militare (e, quindi, politico) conseguito in Occidente degli indipendentisti cecoslovacchi, dall’estate 1917 in poi, grazie alla formazione ed entrata in linea di 5 divisioni reclutate in Russia, Francia e Italia avvalendosi — in primo luogo — di volontari raccolti tra i prigionieri dell’Esercito asburgico e la fame che stava dilagando ormai da anni attraverso l’Impero austro-ungarico, stretto dal blocco navale, contribuirono al maturare di una nuova situazione politica in vista della creazione, dopo le ostilità, di quel vagheggiato superStato slavo esteso da Praga fino alla Dalmazia.

Nella primavera 1918, dopo il fallimento degli ultimi tentativi di pace (a spese dell’Italia) che i francesi e gli inglesi avevano intavolato con l’imperatore Carlo d’Asburgo sin dal febbraio dell’anno precedente, gli Stati Uniti riconobbero, il 29 maggio, il comitato cecoslovacco insediato a Parigi elevandolo, a tutti gli effetti, al livello di un vero e proprio governo alleato. A quest’atto pubblico e formale deciso in vista dell’ormai scontato, futuro smembramento dell’Impero asburgico, seguirono analoghi scambi diplomatici che coinvolsero la Francia, la Gran Bretagna e l’Italia.

Nessun riconoscimento fu invece accordato, da parte dell’Intesa e degli Stati Uniti, alla Jugoslavia, sia che si trattasse dello Stato degli sloveni, croati e serbi creato il 29 ottobre 1918 nell’ambito dell’Impero asburgico sia che con questo termine ambivalente s’intendessero, viceversa, i noti programmi d’espansione di Belgrado culminati infine, il 1° dicembre 1918, nella creazione del nuovo Regno SHS (serbi, croati e sloveni) subito governato, con mano di ferro, da Belgrado.

Tantomeno fu riconosciuto, allora e in seguito, dai Quattro grandi (il presidente statunitense Wilson, il primo ministro Lloyd George e i presidenti del Consiglio Clemenceau e Vittorio Emanuele Orlando) quel corridoio ceco che pure Praga cercò di ottenere, in tutti i modi, a Versailles nel 1919.

In effetti, nel corso di tutto questo lungo arco di tempo, Roma aveva seguito passo per passo il progetto, a lei sommamente sgradito, di uno Stato slavo esteso da Praga all’Adriatico. Quella nuova realtà internazionale avrebbe, infatti, riproposto, una volta di più, il solito tema di una potenziale minaccia navale in quel mare.

Quanto all’intelligence navale, anche se non era riuscito nel proprio intento giovanile di entrare in Marina, dobbiamo introdurre, a questo punto, la figura del mantovano Marchese Gaetano Benzoni (celebre cavaliere e sovraintendente delle scuderie reali, oltre che esploratore e agente segreto a tempo perso). Costui era rimasto legato all’ambiente prima di essere assassinato, nel 1909, nello Yemen in circostanze mai chiarite. Sua figlia, la marchesina Giuliana, appena diciannovenne, si era resa disponibile, nel 1915, sulle orme dei trascorsi paterni, a collaborare di buon grado, in qualità di corriere insospettabile, tra i Governi italiano, inglese e francese in occasione delle trattative di carattere navale e coloniale che sfociarono, infine, nel Patto di Londra dell’aprile 1915 (15).

Splendida amazzone, Giuliana s’innamorò perdutamente, l’anno successivo, di Milan Rastislav Štefánik, un illustre astronomo prestato alla politica nonché capo riconosciuto dei patrioti slovacchi, aviatore e artefice delle legioni indipendentiste in corso di reclutamento in Italia tra i prigionieri austro-ungarici.

I due si rividero nella primavera 1918 e Giuliana Benzoni presentò Štefánik a re Vittorio Emanuele. Il sovrano appoggiò, a sua volta, sia la formazione di un Corpo d’armata cecoslovacco in Italia, sia i programmi di quell’affascinante aviatore e politico di stampo dannunziano che era ben deciso a ottenere, se non l’indipendenza, quantomeno una concreta autonomia dei suoi compatrioti (cattolici) rispetto ai cechi (protestanti), in quanto giudicati, sin da allora, alla stregua di una versione non gran che migliore dei precedenti oppressori austro-ungarici. La giovane marchesa continuò, per il seguito, la propria opera di corriere segreto (16) nel comune interesse di Italia e Slovacchia mentre quello che allora si chiamava il 4° Reparto dello

La marchesina Giuliana Benzoni durante la Grande guerra (wikipedia.it).

Stato Maggiore della Regia Marina provvedeva, agli ordini del capitano di vascello Spiridione Bellavita, a monitorare con discrezione il prosieguo della trama in corso, sin dal 1914, tra Londra e i vertici cecoslovacchi. Quel che successe dopo è infine riassumibile mediante una semplice cronologia.

Giorno per giorno

Il 24 ottobre 1918, giornata d’inizio della vittoriosa battaglia decisiva di Vittorio Veneto, 51 divisioni italiane, 3 britanniche, 2 francesi e 1 cecoslovacca, attaccarono 72 divisioni austro-ungariche ormai stremate da anni di blocco navale. Il 26 ottobre, le prime notizie della mala parata sul Piave spinsero gli equipaggi delle navi da guerra asburgiche a incominciare ad ammutinarsi a partire dalle corazzate. Il 31 ottobre l’imperatore Carlo cedette la Marina imperiale (kaiserliche und königliche Kriegsmarine) allo Stato degli sloveni, croati e serbi facente parte del proprio impero (modificato, a sua volta, in una struttura federale il 17 ottobre di quello stesso anno ponendo sotto la corona degli Asburgo i regni d’Austria, Ungheria e jugoslavo). Si trattava, volendo limitarsi alle sole unità di superficie moderne e in armamento, di 3 navi da battaglia monocalibro e di 3 corazzate pre-dreadnought di base a Pola assieme a un esploratore e a 2 cacciatorpediniere della classe «Tatra», oltre al naviglio minore, mentre nelle Bocche di Cattaro era riunita la divisione veloce formata dai 3 esploratori della classe «Helgoland» in compagnia di altri 6 «Tatra». Il passaggio di consegna delle unità alla nuova Marina degli slavi del sud doveva essere perfezionato per le 8 del mattino del giorno successivo, ma quasi un’ora e mezzo prima di quella cerimonia, la moderna nave da battaglia Viribus Unitis fu affondata dal mezzo d’assalto S 2, la c.d. «Mignatta», penetrato la notte precedente all’interno delle ostruzioni di Pola a opera del maggiore G.N. Raffaele Rossetti e del tenente medico Raffaele Paolucci.

Quest’impresa accelerò ancora di più i tempi dell’abbandono, già in atto, delle navi di quella Marina da parte dei loro equipaggi. Il pomeriggio di quello stesso giorno Vienna apprese poi, con orrore, che il neonato Stato degli slavi del sud (contrariamente alle attese e nonostante le ripetute, recenti ed enormi concessioni asburgiche che pure avevano compreso non solo l’affrancamento dall’Ungheria, ma anche l’ulteriore regalo rappresentato dalla città di Fiume fino all’aggiunta finale dalla flotta) si considerava indipendente e neutrale, disconoscendo Carlo e il suo impero. A conferma di quest’inatteso, nuovo stato di cose, il 1° novembre i croati comunicarono da Cattaro agli inglesi, via radio e in chiaro, alle ore 21.45, di aspettare con gioia l’arrivo delle navi britanniche, francesi e statunitensi.

Milan Rastislav Štefánik, padre dell’indipendenza slovacca. Il suo volto appare anche sulle monete da 2 euro di quella nazione (wikipedia.it).

Pola, 1o novembre 1918. L’affondamento della nave da battaglia VIRIBUS UNITIS.

Nella pagina accanto: il mezzo d’assalto, detto «Mignatta», utilizzato per l’attacco all’unità, oggi custodito nel Museo Tecnico Navale della Spezia (USMM).

Il mattino del 3 novembre 1918, i britannici risposero, da Malta, in tranquilla violazione delle clausole armistiziali elaborate di comune accordo, a Parigi, dall’Intesa e dagli Stati Uniti sin dal 31 ottobre e comunicate la sera di quello stesso giorno a Villa Giusti, confermandole poi il 2 novembre, che le unità della flotta di base a Pola, Cattaro e Sebenico potevano concentrarsi a Corfù. L’armistizio prevedeva, viceversa, la consegna a Venezia, per il 6 novembre, delle 3 dreadnought in compagnia di altrettanti esploratori e di 9 cacciatorpediniere, 12 torpediniere e 1 posamine, oltre alla cessione della base di Pola e dei sommergibili.

Si trattava, in pratica, del completamento della lunga e paziente trama tessuta tra Praga e Londra sin dal 1914: il trasferimento a Corfù della flotta già kaiserliche und königliche Kriegsmarine mirava, infatti, alla conservazione della ex Marina austro-ungarica a beneficio del futuro, nuovo Stato slavo (una volta che fosse stato riconosciuto in base al principio di effettività, ovvero al concreto controllo del proprio territorio) legando, in tal modo, le mani — una volta di più — all’Italia vincolandola, come in passato, in Adriatico. In effetti, la sera del 2 novembre il presidente del Consiglio italiano Vittorio Emanuele Orlando, in quel momento a Parigi, cadde in pieno nella trappola finendo per ordinare a Thaon di Revel di uniformarsi al volere degli alleati.

Il Capo di Stato Maggiore della Marina, essendo perfettamente al corrente di quanto bolliva davvero in pentola, elevò una formale protesta per iscritto (come era suo diritto) e obbedì, prendendosi però tutto il tempo necessario per dar corso a quella disposizione.

Consapevole del fatto che le ore stavano lavorando contro di lui (e contro gli interessi italiani), il Capo di Stato Maggiore della Marina aveva, infatti, già risposto, la sera del 1° novembre, a un appello trasmesso (sempre per radio e in chiaro) da Pola (città in quel momento in preda al caos e alle sparatorie e che invocava l’arrivo degli ex nemici per riportare l’ordine tra i cittadini e disarmare gli sbandati) in vista dell’invio a Venezia di una torpediniera parlamentare «jugoslava» battente bandiera bianca.

Subodorando correttamente il caos che doveva regnare oltre Adriatico, Thaon di Revel accettò la richiesta comunicata da Pola indicando, contemporaneamente, la rotta che quella nave parlamentare avrebbe dovuto seguire «a causa degli sbarramenti minati», facendola così intercettare, già alle ore 13.00 del 3 novembre, dalla torpediniera italiana 56 AS all’altezza dello scoglio di San Giovanni in Pelago, a sud di Rovigno. In questo modo l’incontro tra la delegazione italiana e quella proveniente da Pola in nome del nuovo (e da nessuno ancora

Venezia, febbraio 1917. L’ammiraglio Thaon di Revel, appena tornato Capo di Stato Maggiore della Marina, e il suo Aiutante di bandiera, Manfredi Gravina (g.c. Istituto centrale per la Storia del Risorgimento).

Venezia, inverno 1915-16. Da sinistra a destra: Manfredi Gravina, osservatore e, in seguito, pilota di idrovolanti assieme ai capitani (GN) Luigi Bresciani, Roberto Prunas e al TV François Emery, uno dei piloti dell’aristocratica squadriglia francese di Nieuport di base al Lido dal 1915, praticamente l’ultimo

reparto della Royale borbonica (USMM).

riconosciuto) Stato jugoslavo con capitale Zagabria, anticipò di diverse ore l’uscita da Cattaro del cacciatorpediniere Dukla. La partenza per Corfù di quest’ultima silurante (con a bordo un’altra delegazione jugoslava arrivata da Zagabria fino a quel porto la mattina del 3 novembre e incaricata di mettere sotto la protezione britannica la flotta ex asburgica) era stata infatti fissata per le ore 14.00 di quello stesso giorno 3 ed era nota a Venezia sin dalle ore 10.00 del medesimo 3 novembre in base ad alcuni radiogrammi trasmessi da Cattaro a Corfù e puntualmente intercettati dagli specialisti TLC del 4° Reparto diretti da Manfredi Gravina.

A bordo della 56 AS il comandante Alessandro Ciano, plenipotenziario italiano, informò i parlamentari croati e sloveni che, sempre a causa delle mine, nessun movimento di navi era possibile se non dopo 48 ore di preavviso e con una scorta assicurata, per comprensibili motivi di sicurezza, dalle unità italiane. Un volontario dalmata del 4° Reparto, appositamente imbarcato per l’occasione sulla 56 in uniforme da marinaio, ebbe poi modo di ascoltare quanto dicevano tra loro gli inviati, appurando così che la maggioranza del personale che formava gli equipaggi delle navi della ex k. und k. Kriegsmarine aveva già lasciato i propri bastimenti per tornare a casa e che gli stessi marinai croati presenti a bordo delle unità ancora in armamento non ammontavano, tra tutto, che a poche centinaia di elementi, oltretutto con pochissimi ufficiali tra loro. Non c’era, pertanto, la possibilità materiale di trasferire le navi ex asburgiche a Corfù e, in tal modo, il rischio di ritrovarsi tra i piedi, dall’altra parte dell’Adriatico, una rinnovata, grossa Marina potenzialmente ostile era da considerare, ormai, scongiurato.

I francesi, gli inglesi e gli americani (presenti, questi ultimi, a Corfù con una ventina di piccoli cacciasommergibili in legno) furono immediatamente informati, non appena la torpediniera italiana comunicò, col fanale a trappola, a un cacciatorpediniere più al largo, un segnale convenuto in precedenza, circa l’avvenuto incontro della 56 AS con la delegazione a bordo della nave parlamentare uscita da Pola. Quegli inviati diventavano, così, automaticamente l’unico interlocutore riconosciuto proveniente dalla flotta austro-ungarica in rivolta.

In tal modo, e per il seguito, la Regia Marina avrebbe adempiuto alle incombenze già previste dallo strumento di armistizio concordato in precedenza con gli alleati e che assegnavano a Roma tutti gli oneri necessari per far rispettare l’armistizio sottoscritto quello stesso pomeriggio a Villa Giusti.

Dopo questo colpo di mano il Governo di Parigi (dimostratosi sempre molto più saggio dei propri generali e ammiragli presenti nei Balcani) abbozzò. Quello di Londra cercò, per contro, di replicare, ma ormai c’era poco da fare. L’Ammiragliato britannico fece comunque sapere, a ogni buon conto, che contava in inviare una propria unità a Pola per sovraintendere alle operazioni di disarmo. Thaon di Revel accettò rammaricandosi solo del fatto che le recenti mareggiate avessero strappato dalle loro ancore molte delle oltre 9.000 mine posate dalle due parti in Alto Adriatico. Di conseguenza, non potendo — date le circostanze — assicurare le necessarie rotte di sicurezza, qualunque nave da

guerra inglese che si fosse inoltrata laggiù sarebbe stata, naturalmente, benvenuta, ma avrebbe navigato a proprio rischio e pericolo.

Non disponendo, a Brindisi e a Corfù, di altre unità pronte e adatte alla bisogna, la Royal Navy fu costretta, a questo punto, a inviare d’urgenza a Venezia (dove giunse il 4 novembre) soltanto la piccola e vecchia torpediniera TB 071, un’unità da 60 tonnellate con un’immersione di meno di 2 metri, destinata a imbarcare, nella città lagunare, il plenipotenziario britannico sir Henry Plunkett. La minuscola e vecchia TB 071 non poté, però, giocare, nei giorni successivi, al cospetto delle corazzate della Regia Marina, alcun ruolo di rilievo, nonostante il prestigio della White Ensign, priva com’era, tra l’altro, di adeguati mezzi di comunicazione.

La torpediniera 3 PN che stava riportando, quello stesso giorno, sir Henry da Trieste a Venezia subì, inoltre, un’avaria di macchina, perdendo di conseguenza diverse ore prima di arrivare a destinazione, tanto che sir Henry non poté fare altro, una volta giunto finalmente a Pola, che limitarsi a inviare, nel corso dei giorni successivi, un’ininterrotta serie di rapporti di protesta inoltrati, a mezzo bolgetta e posta ordinaria, al Governo inglese.

Sempre il 4 novembre, inoltre, subito dopo un rifornimento celere di combustibile, chiesto immediatamente dal comandante della TB 071 e subito ottenuto, quell’unità sottile fu inviata a Umago per proteggere, a causa di «urgenti e gravi necessità», una non meglio precisata, ma evidentemente importante, aristocratica britannica rimasta tagliata fuori in Istria dallo scoppio della guerra e che aveva fortunosamente comunicato di aver bisogno di aiuto immediato da parte di un’unità della Royal Navy nell’interesse sia dei suoi compatrioti sia dell’Intesa. Il testo del messaggio riferito evidenziava, a sua volta, una non episodica conoscenza dei contatti e degli accordi intervenuti tra Praga e Londra, inclusi gli ultimissimi sviluppi maturati in ottobre.

Si trattava della marchesina Benzoni, perfettamente bilingue, che si mosse agilmente, al posto di quella Lady, nell’ambiguo mondo dell’intelligence, dove non si sa mai chi lavori davvero per chi.

L’intraprendente aristocratica era stata portata in Istria poco tempo prima con un idrovolante della Regia Marina facendosi «scoprire», poco dopo, nell’ambito di un’intricata rete di doppi e tripli giochi tra i (pochi) fedeli dell’Evidenzbureau che intendevano servire fino all’ultimo il loro imperatore, gli jugoslavi e cecoslovacchi combinati, i britannici e, non ultimi, gli italiani irredenti.

La TB 071 non poté però giungere in tempo al salvataggio, a Umago, della propria presunta informatrice e garante degli impegni britannici in quell’area a causa di una malaugurata collisione verificatasi in mare col Regio Sommergibile Atropo. Quest’ultimo incidente causò, infatti, qualche danno all’unità sottile britannica, tanto da costringere quella torpediniera a rientrare. A Umago andò, per contro, lo stesso Atropo, poi sostituito, il giorno successivo, da un altro sommergibile italiano, l’F 12.

Nessuno, però, trovò la vera Lady, garante personale degli accordi anglo-slavi e riapparsa dopo tre settimane trascorse «per accertamenti» in un convento. Furono solo rinvenute numerose tracce rappresentate da strisce di sterline d’oro mediante le quali erano state tacitate o convinte, a seconda del caso, le varie fazioni che cercavano di influire, in quei giorni turbinosi, in capo al destino della defunta kaiserliche und königliche Kriegsmarine.

D’altra parte, come si sa, i sommergibili sono invisibili sotto le onde e, all’alba, possono emergere ovunque. A questo punto i britannici, capirono l’antifona e, repentinamente la loro stampa, fino a quel momento peggio che fredda nei confronti della vittoria italiana, cambiò improvvisamente registro nel corso di una notte uscendo, dal 5 novembre 1918 in poi, con titoli e articoli di tutt’altro genere volti a esaltare il successo italiano e il fatto che l’Adriatico era stato il terreno di caccia della Regia Marina, così come il Mare del Nord e la Manica erano stati dominati dalla Royal Navy mentre i francesi venivano bellamente dimenticati.

Porto Corsini. Un idrovolante dell’Aviazione navale italiana tipo «Macchi L1». Velivoli di questo tipo furono utilizzati per operazioni di infiltrazione e recupero di informatori in Adriatico (USMM).

Ancona 1918. Sommergibili classe «F». Ancora oggi i battelli subacquei sono i mezzi ideali per recuperare personale inviato oltre i confini (USMM).

Thaon di Revel, riconoscente, lasciò trapelare, a sua volta, un proprio telegramma all’Ammiragliato britannico mediante il quale dichiarava, infine, di gradire la presenza delle navi da guerra inglesi in Alto Adriatico, fatto questo che indignò, peraltro, i francesi, sentitisi esclusi, mettendo ancora una volta Parigi contro Londra tanto da neutralizzare, in pratica, a nord di Cattaro e fino alla firma del Trattato di Versailles, entrambe quelle potenze. Un incrociatore leggero britannico arrivò così a Pola il 12 novembre, quando però tutti i giochi erano fatti (17).

Il 5 novembre le navi italiane erano infatti entrate a Pola e l’ammiraglio Cagni, dopo aver risposto duramente al comandante in capo della neo flotta slava, il capitano di Fregata Metodije Koch (promosso, nel giro di una notte, al rango di ammiraglio a opera del Consiglio di Zagabria e che cercò, vanamente, di sostenere che la flotta già asburgica apparteneva, ora, a uno Stato neutrale ed era, pertanto, da considerare intangibile da parte dell’Italia), liquidò la situazione con militare chiarezza. A partire da quello stesso giorno i forti della piazza cominciarono a essere occupati dai marinai italiani. Seguirono, il 9 novembre, le corazzate, ormai in evidente stato di abbandono da giorni. Il 10 novembre le navi francesi, italiane e britanniche assunsero il controllo delle Bocche di Cattaro. Quanto alla divisione leggera già asburgica di base laggiù, essa continuò a issare la neonata bandiera jugoslava fino al 28 di quello stesso mese, giorno in cui quelle unità furono abbandonate dagli ultimi marinai ex austro-ungarici ancora a bordo venendo prese in custodia dai francesi.

Tra il 10 e l’11 novembre i marinai croati rimasti a Pola e che non avevano ancora disertato (tra tutti meno di un migliaio rispetto agli oltre 5.000 presenti ancora il primo di quel mese) se ne andarono, con l’assenso di Cagni, da Spalato salpando a bordo delle pre-dreadnought Radetzky e Zrinyi e delle torpediniere TB 12 e 52. Quelle navi inalberarono dapprima la bandiera jugoslava e, una volta in mare, quella statunitense, essendo stata Spalato assegnata al controllo americano. Prese in carico dall’US Navy il giorno 14, le unità in parola furono infine abbandonate, il 20 novembre, dagli ultimi marinai slavi rimanendo, per il seguito, sotto la custodia statunitense.

Il 19 dicembre 1918 Thaon di Revel rilasciò un’intervista mediante la quale chiariva che: «[…] noi possiamo sentirci finalmente tranquilli in casa nostra e, grazie a questa tranquillità assicurata, ridurre al minimo indispensabile gli armamenti navali con inestimabile vantaggio dell’economia nazionale e della prosperità mercantile di tutti i popoli che nell’Adriatico avranno i loro sbocchi commerciali […]. In nessun caso, nessuna unità, nessun elemento di carattere militare dovranno, come strumenti bellici, passare a nazionalità della costa opposta» (18).

Nell’aprile 1919, mentre Praga insisteva per ottenere il «corridoio» concepito nel 1914, Belgrado chiese «come minimo» 4 esploratori, 17 cacciatorpediniere, 27 torpediniere, 20 sommergibili (più altri 17 in costruzione), 150 aerei e diverse unità minori ex austro-ungariche.

In pratica il grosso era rappresentato dalle navi di Cattaro sotto custodia francese, ma questa richiesta fu respinta in base al concorde parere di Roma e Parigi.

Dopo la firma, il 10 settembre 1919, del Trattato di pace di Saint-Germain, Praga dovette rinunciare, in apparenza, al sospirato «corridoio», mentre la questione della spartizione della flotta già asburgica veniva rinviata al 9 dicembre 1919, salvo trascinarsi, da allora, fino all’ottobre 1920.

In effetti fu costituito, dopo Versailles, un indipendente Banato di Leithania che corrispondeva, in pratica, al famoso «corridoio». La sicurezza di quell’area fu assunta dal corpo d’occupazione italiano inviato, sin dall’inizio del 1919, in Carinzia per gestire la situazione creata dai continui scontri in atto in quell’area tra austriaci e jugoslavi, dato lo stato d’incertezza delle frontiere, ancora da definire.

Nel maggio 1920 Belgrado tornò alla carica reclamando, sempre col supporto di Praga, 2 vecchi incrociatori protetti da adibire a navi scuola, oltre a 6 cacciatorpediniere, 30 torpediniere, 4 sommergibili e 25 idrovolanti. Anche questa domanda fu respinta e, alla fine, la Jugoslavia (che era stata riconosciuta come tale solo nel settembre 1919) ottenne la corazzata predreadnought Kronprinz Erzherzog Rudolf (varata 33 anni prima, adibita a nave deposito dal 1903 e demolita, infine, nel 1922) più 16 torpediniere (metà delle quali vetuste) e alcune navi ausiliarie. Tutte queste unità furono consegnate, infine, a Cattaro, nel marzo 1921 alla neonata Marina jugoslava in condizioni di efficienza nulla, dopo tanti anni di abbandono, e prive di armi (19). Quanto alle due pre-dreadnought di Spalato, esse furono assegnate all’Italia il 31 maggio 1920 e tosto demolite.

Alla fine, su un totale di 17 unità tra navi da battaglia, corazzate, esploratori e cacciatorpediniere moderni ex austro-ungarici, alla Gran Bretagna spettò il solo scout Admiral Spaun (subito demolito, dato anche il suo malriuscito apparato motore), mentre alla Francia pervennero un esploratore e un cacciatorpediniere; tutto il resto passò all’Italia, la quale riarmò due esploratori e, in pratica, solo 5 cacciatorpediniere «cannibalizzandone» altri due per rimettere in efficienza il resto di quella squadriglia.

Il 14 agosto 1920, a ogni modo, Praga e Belgrado, sempre tenaci, avevano firmato un trattato navale che permetteva alla Cecoslovacchia di costruire e armare in Adriatico proprie navi da guerra; si trattava, peraltro, di un’eventualità del tutto teorica, data la pratica mancanza di cantieri navali, a Spalato e a Porto Baross, fino all’inizio degli anni Trenta.

A questo patto seguì, nel dicembre 1920, un piano volto ad acquistare e trasferire a Cattaro la c.d. Flotta di Wrangel, ovvero le navi da guerra russe armate in precedenza, nel Mar Nero, dai bianchi controrivoluzionari, ormai sconfitti e raminghi tra la Turchia e Biserta dopo la recente perdita della Crimea. Una volta che si prescinda dalle unità vetuste e ausiliarie, si trattava di un complesso formato da una moderna nave da battaglia, la General Alekseyev, dalla portaidrovolanti Almaz e da 6 recenti e grossi cacciatorpediniere, oltre a 4 sommergibili.

Il Governo italiano, non appena venne a sapere in merito a questo programma, fece presente a Parigi l’inopportunità di una simile idea e, alla fine, non se ne fece nulla, lasciando le unità ex zariste ad arrugginire in Tunisia fino alla loro demolizione, intrapresa dal 1924 in poi.

Nell’ottobre 1920, dopo che gli italiani avevano abbandonato poco prima il mancato «corridoio» ceco, l’Austria invase il Banato di Leithania spartendolo, il mese successivo, con Budapest.

Risolta così l’ultima possibilità di realizzare il tanto sognato collegamento territoriale tra la Cecoslovacchia e la Jugoslavia, Praga abolì, infine, nell’agosto 1922, quel sottosegretariato della Marina

L’esploratore ex austro-ungarico NOVARA affondato per cedimento del

fasciame a Brindisi, il 29 gennaio 1920, mentre veniva rimorchiato a Biserta. Le navi asburgiche erano state abbandonate a Cattaro, dal novem-

bre 1918 in poi, senza manutenzione. Il NOVARA, recuperato tre mesi dopo, divenne infine il THIONVILLE francese; fu radiato nel 1932 (USMM).

inserito nel proprio ministero della Guerra che aveva creato, coltivando tante speranze, quattro anni prima al momento della fine degli Asburgo (20).

Epilogo

Milan Štefánik morì il 4 maggio 1919, venti giorni prima delle nozze con la marchesina Benzoni, in un incidente aereo mentre stava volando da Campoformido a Praga. Scomparso lui, la Slovacchia perse non solo la prospettiva dell’indipendenza, ma anche quella dell’autonomia. Giuliana Benzoni divenne, sin da prima della Seconda guerra mondiale, la confidente della principessa di Piemonte Maria José e la sua guida riconosciuta nel mondo democratico dell’antifascismo (a partire da Luigi Einaudi e Ivanoe Bonomi) nel tentativo, esperito tra l’ottobre 1941 e l’agosto 1943 e, infine, fallito non per colpa sua o della Principessa, di trovare una via d’uscita indolore, o quasi, per l’Italia durante quel conflitto.

Manfredi Gravina divenne nel 1914 l’aiutante di bandiera di Thaon di Revel, violò il porto di Trieste, al comando della torpediniera 24 OS, la notte sul 20 maggio 1916; inoltre fu osservatore dell’Aviazione navale e proseguì la propria attività informativa diventando, tra l’altro, l’apripista italiano, nel 1920, dei rapporti con l’Unione Sovietica. Lasciò il servizio nel 1923 venendo nominato, in seguito, Alto Commissario della Società delle Nazioni (in pratica governatore) di Danzica tra il 1929 e il 1932, quando morì, lasciando in quella città un ottimo ricordo dopo i 10 anni della precedente occupazione inglese. Fu inoltre il primo, in Italia, a scoprire e segnalare al Governo il «fenomeno Hitler».

Lady Venetia Stanley proseguì, fino al 1948, la propria vita avventurosa diventando, tra l’altro, una celebre aviatrice e una recordwoman.

Gli altri nomi di queste vicende: Grey, Asquith, Masaryk, Beneš, Churchill, Thaon di Revel e così via, appartengono, per contro, alla storia ben nota. Tutto però è sempre racchiuso (si tratti di personaggi illustri o di non meno importanti, ma sempre discreti protagonisti attivi sullo sfondo) nell’ambito del cerchio silenzioso e decisivo del Potere Marittimo, notoriamente tanto più efficace quanto meno rumore fa. 8

NOTE

(1) Cfr. M.G. Pasqualini, Carte segrete dell’Intelligence Italiana 1861-1918, Roma 2006. (2) Giacomo Aula, Diplomazia e petrolio, ed. Tigullio, Santa Margherita Ligure 2004, pagine 34-35. (3) Antonio Salandra, La neutralità italiana, ed. Mondadori, Milano 1928, pagina 94. (4) Personaggio uscito apparentemente dalla penna di un romanziere, il comandante Gravina, discendente del palermitano ammiraglio Federico Gravina (saggio, eroico e focoso comandante della flotta spagnola ferito a Trafalgar e morto, l’anno dopo, a causa del colpo ricevuto) era tedesco (e perfettamente bilingue) da parte di madre, a sua volta discendente della celebre e discussa Cosima Liszt in Von Bulow, poi diventata moglie di Wagner. Faceva parte dell’élite dell’aristocrazia europea e, per questo motivo, aveva tutte le porte aperte. Buon marinaio, aviatore, eccellente letterato e anticonformista per eccellenza, meritò 2 medaglie d’argento al valore e una di bronzo, oltre a una promozione per merito di guerra. Gettò inoltre le basi, nel 1916, del servizio crittografico della Marina italiana. (5) Ezio Ferrante, Il Grande Ammiraglio Paolo Thaon di Revel, Supplemento della Rivista Marittima, agosto-settembre 1989, pagine 53-54. (6) Niall Ferguson, The Pity of War, ed. Basic Books, New York 1999, pagina 160. (7) Idem, pagina 161. Per la verità Cambon riferì quest’affermazione al proprio governo venerdì 31 luglio, mentre i verbali britannici riportano che la questione relativa a un’eventuale attività navale tedesca contro la Francia, fatto questo che la Gran Bretagna avrebbe trovato intollerabile rispetto alla propria signoria dei mari, fu discussa soltanto domenica 2 agosto. Probabilmente si trattò di un misunderstanding rispetto all’ordine del giorno fissato, venerdì 31 luglio, per la prima riunione del Consiglio dei ministri successiva al week end, incontro poi anticipato a causa dell’ultimatum tedesco al Belgio consegnato a Bruxelles il 2 agosto. (8) Mario Silvestri, La decadenza dell’Europa Occidentale, Vol. II, ed. Einaudi, Torino 1978, pagina 16. (9) Dwight R. Messimer, U-Boats’Lost Opportunity, MHQ The Quarterly Journal of Military History, Spring 2003. (10) Raffaele Camposano, Storia dei rapporti tra la Polizia di Stato e la Marina Militare, Supplemento Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, dicembre 2013, pagina 213. (11) Cristopher Andrew, The Secret World, A History of Intelligence, ed. Penguin, Londra 2018, pagina 511. (12) Nel 1914 il Prodotto Interno Lordo pro capite austro-ungarico era pari, per esempio, a 57 dollari annui rispetto ai 108 italiani, ai 153 francesi e ai 244 britannici. Paul Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, ed. Garzanti, Milano 2001, pagina 346. (13) Holger H. Herwig, Disjointed Allies. Coalition Warfare in Berlin and Vienna, 1914, The Journal of Military History, 54, July 1990. (14) Albert Pethö, I Servizi segreti dell’Austria-Ungheria, ed. LEG, Gorizia 1998, pagine 325 e 326. (15) Sergio Tazzer, Banditi o eroi? Milan Rastislav Štefánik e la Legione cecoslovacca, ed. Kellermann, Vittorio Veneto 2013. (16) Caroline Moorhead, Inis Origo, Marchesa of Val d’Orcia, ed. David R. Godine, Boston 2002. (17) Guglielmo Imperiali, Diario 1915-1919, pubblicato per il Senato della Repubblica da Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2006, pagine 592 e 597. (18) Maffio Maffii, La Vittoria sull’Adriatico, ed. Alfieri e Lacroix, Milano 1919, pagina 173. (19) Milan Vego, The Yugoslav Navy, Warship International, No. 4, 1982. (20) Rene Greger, Yugoslav Naval Guns and the Birth of the Yugoslav Navy 1918-1941, Warship International, No. 4, 1987.

BIBLIOGRAFIA

Ambrogio Viviani, Servizi Segreti italiani, ed. Adnkronos, Roma 1985. Camillo Manfroni, I nostri alleati navali, ed. Mondadori, Milano 1927. Giulia Caccamo, L’occupazione italiana della Carinzia, Italia Contemporanea, n. 256-257 settembre-dicembre 2009. Michael Brock ed Eleanor Brock, Margot Asquith’s Great War Diary 1914-1916. The View from Downing Street, Oxford University Press, Oxford 2014. Scritti di Manfredi Gravina (a cura di Tommaso Sillani), ed. La Rassegna italiana, Roma 1935. Ufficio Storico della Regia Marina, La Marina italiana nella Grande guerra, Volume VIII, ed. Vallecchi, Firenze 1942.

FOCUS DIPLOMATICO

Quale lezione trarre dalla crisi ucraina?

L’evoluzione della crisi ucraina, con l’invasione russa che molti non si aspettavano — almeno in queste proporzioni — pone due ordini di problemi. Il primo è come uscirne, nel rispetto del diritto internazionale, evitando che la situazione sfugga di mano e permettendo a tutti di salvare la faccia; il secondo è avviare una riflessione su cosa ci ha portati fino a questo punto. Questa Lettera vuole formulare alcune osservazioni preliminari su questo secondo aspetto. Una riflessione va fatta, per cercare di capire come si possa prevenire in futuro crisi così drammatiche e come neutralizzare — per quanto sia ancora possibile — gli effetti di

quella attuale. A prescindere dall’esito dei negoziati tra Mosca e Kiev, prima o poi un dialogo stabile con la Russia dovrà riprendere (magari partendo da uno Stato neutrale come la Svizzera o attraverso i buoni uffici della Santa Sede). Se la diplomazia è l’arte di prevedere le crisi e le situazioni critiche, qui ha evidentemente clamorosamente fallito. Se è anche l’arte di risolvere i conflitti è ora che si rimetta all’opera. Non si può dialogare solo quando si è sicuri che i propri interessi (e non quelli degli altri) saranno salvaguardati. La porta al dialogo va sempre lasciata aperta perché parlarsi è sempre meglio della guerra, e se la guerra è in corso, non parlarsi può solo peggiorare le cose. Come sappiamo è molto facile raggiungere punti di non ritorno e questo va assolutamente evitato.

La guerra in Ucraina è di gran lunga il più grave scontro tra paesi occidentali e Russia dalla dissoluzione dell’ex Unione Sovietica. Ci si è arrivati perché negli ultimi quindici anni c’è stata incomunicabilità tra l’Occidente e la Russia. Non credo di peccare di ingenuità se dico che questa crisi, una volta avviata a soluzione, dovrebbe costituire per noi il pretesto per voltare pagina e superare il clima di rissa permanente che ha caratterizzato negli ultimi anni i rapporti tra l’Occidente, Unione europea e Stati Uniti da una parte, Russia di Putin dall’altra. Un clima che ci ha portati dove siamo ora. La storia è piena di esempi di guerre che sono scoppiate senza che nessuno lo volesse veramente o di incidenti che hanno portato a conflitti non desiderati. Il meccanismo che ha portato alla Prima guerra mondiale lo conosciamo tutti: un concatenarsi di mobilitazioni generali che ha avuto come conseguenza una guerra che tutti pensavano sa-

rebbe finita prima di Natale e invece sono stati quattro i Natali passati al fronte. Oggi rifiutare l’ineluttabilità della guerra e lavorare per la pace deve essere ancora più esplicito: con l’abolizione della coscrizione obbligatoria le guerre sono diventate più facili da fare; più facili, ma non meno letali, soprattutto per l’elevato numero di civili coinvolti e le enormi distruzioni che comporta. Certo il punto al quale siamo arrivati rende tutto più complicato anche perché, se è vero che va evitata una «escalation» difficile da controllare, è altrettanto vero che per essere credibili dobbiamo essere uniti.

Non sono in grado di dire se all’epoca della riunificazione della Germania ci fu un’intesa verbale con Gorbaciov in base alla quale i paesi occidentali — Stati Uniti in primis — si sarebbero impegnati a non allargare il perimetro della NATO, evitando di includere sia gli ex satelliti europei dell’Unione Sovietica sia gli Stati che avevano fatto parte dell’Unione Sovietica prima della sua dissoluzione. Comunque sia le cose sono andate di-

versamente e oggi, di trenta Stati membri della NATO, quasi la metà sono ex appartenenti al blocco comunista. Fuori dalla sfera della NATO e ai confini o in prossimità dei confini dell’Unione europea sono rimaste la Bielorussia, la Moldavia, l’Armenia, l’Azerbaigian, la Georgia e appunto l’Ucraina. Anche se non abbiamo certezza di un impegno a non allargare la NATO fino a lambire i confini della Russia, si tratta pur sempre di un impegno plausibile. Tutti ricordiamo che allora molti, a cominciare dalla Francia, temevano una Germania unita. Un timore ben sintetizzato dalla famosa battuta di Andreotti (che peraltro parafrasava una frase detta anni prima dal francese Mauriac): «Amo talmente la Germania che ne preferivo due». Se non ci fu una decisione politica in tal

senso, questa però era nella logica delle cose, per non dire nell’interesse dell’Occidente. D’altronde era viva la speranza che il crollo dell’Unione Sovietica avrebbe potuto avviare una inedita fase di collaborazione con la Russia per costruire un mondo di pace e privo dalla minaccia di guerra nucleare che aveva caratterizzato gli anni seguenti alla fine della Seconda guerra mondiale. L’invito al presidente Eltsin di partecipare al G7 di Napoli (1994) e il Vertice NATO di Pratica di Mare con la firma della Dichiarazione di Roma (2002) rientravano in questa logica e facevano ben sperare, anche perché non avendo sciolto la NATO, qualcosa andava fatto. Qualcuno si è domandato: perché la NATO non si è dissolta, visto che la sua ragion d’essere era venuta meno con la fine del Patto di Varsavia? In realtà la storia ci insegna che le Organizzazioni internazionali tendono a perpetuarsi e non scompaiono a meno che non ci sia un evento drammatico, come una guerra mondiale. D’altro canto nuove minacce alla sicurezza si profilavano e lo strumento NATO appariva idoneo a far fronte ai rischi per la sicurezza di un mondo non più bipolare. Infine un ipotetico scioglimento della NATO avrebbe rischiato di spezzare quel legame transatlantico diventato elemento fondante della politica estera della maggior parte dei paesi europei. Qualcosa si è inceppato in quella che doveva essere la nuova era dei rapporti con Mosca. Da un lato la Russia, passato lo stordimento iniziale seguito al crollo dell’Unione Sovietica, ha cercato di recuperare un ruolo di grande potenza sullo scacchiere mondiale; dall’altro i paesi occidentali, in primis gli Stati Uniti, hanno voluto stravincere (corsi e ricorsi della storia: si pensi alla pace di Versailles) o voluto dare l’impressione di stravincere, il che non cambia molto. Nei fatti si è rea-

lizzata una politica tendente a ignorare e a emarginare la Russia, relegata a rango di «potenza regionale», per usare l’infelice espressione del presidente americano e Premio Nobel per la pace, Obama (certe cose si possono pensare, ma perché dirle?). Emblematica a tale riguardo è la posizione presa dall’Europa e dagli Stati Uniti allo scoppio delle crisi balcaniche. Certo c’era una Russia debole, ma si è fatto la scelta di ignorarla nonostante i rapporti storici che aveva nella regione, in particolare con la Serbia.

Dal mancato coinvolgimento della Russia, si è passati a una politica di contrapposizione che sta rischiando di portarci a una situazione di non ritorno, anche per l’improvvida decisione di Putin di invadere l’Ucraina (cosa diversa dalla Crimea). Gli storici avranno modo di valutare come si è arrivati fino a questo punto. Poco importa vedere di chi è la colpa (o la colpa maggiore) di questa situazione. Quello che invece importa è salvare la pace e mettere in piedi mec-

canismi e prassi che non ci portino più vicini a una guerra con la Russia, o comunque a una guerra in Europa. Magari esaminando, dossier per dossier (e sono tanti!), tutte le questioni che ci separano dalla Russia. Più complessa di quanto si possa pensare è anche l’adozione di sanzioni, che si prendono quando non si vuole fare la guerra. Le sanzioni si sono rivelate sovente uno strumento poco efficace, colpiscono prevalentemente le classi sociali meno favorite e danneggiano gli stessi paesi che le promuovono e alcuni più di altri (nel caso di specie, gli Stati Unti molto meno dei paesi europei e questi ultimi non nella stessa misura). Il problema è che al punto al quale siamo arrivati le sanzioni, almeno nell’immediato, appaiono l’unica vera risposta realistica alla Russia, in attesa di una apertura di negoziati.

A prescindere dall’Ucraina, vale la pena interrogarsi sulle conseguenze di anni di incomprensione e di contrapposizione tra Russia e Occidente. Mi limito qui a citarne due. Una prima è il riavvicinamento di Mosca a Pechino. I rapporti tra la Russia e la Cina hanno avuto alti a bassi nella storia, ma i due grandi paesi, quando hanno voluto, sono riusciti sempre a trovare un’intesa, come avvenne con i Trattati di Nercinsk (1689) e di Kiachta (1727) che definirono i confini tra i due paesi e introdussero il libero commercio, cosa che in Europa era di là da venire. Fu il genio di Kissinger a spezzare quello che durante la Guerra Fredda era un vero e proprio incubo per gli occidentali, l’alleanza tra due grandi paesi comunisti, uno armato fino ai denti, l’altro il più popoloso paese della terra, allacciando relazioni diplomatiche con Pechino. Invece oggi abbiamo fatto un favore alla Russia e alla Cina, aiutandole a uscire dal loro rispettivo isolamento. Gli Stati Uniti, che dopo il crollo dell’Unione Sovietica erano riusciti a evitare il sorgere di una nuova potenza euroasiatica, si trovano ora a dover combattere (per il momento solo in senso metaforico) su due fronti: quello europeo e quello del Pacifico. Una seconda conseguenza è la crescente assertività della Russia in politica estera. Mosca, avendo pessimi rapporti con l’Occidente, gioca a tutto campo, sentendosi più libera di muoversi in autonomia sullo scacchiere internazionale e scegliendo di volta in volta i suoi partner. Meritano una riflessione a parte i rapporti Russia-Turchia, un paese quest’ultimo sovente rivale della Russia, ma nei confronti del quale Mosca è riuscita a instaurare una sorta di modus vivendi con un almeno ap-

parente reciproco vantaggio. L’impegno di Russia e Turchia in Libia e Siria sono a tale riguardo eloquenti. Mario Giro, parafrasando Papa Francesco ha scritto: «Lo schiamazzo bellico sposta l’ordine delle priorità globali». Al di là dei lutti e dei danni che comporta un conflitto, sia pur limitato, e delle conseguenze anche psicologiche che ingenera e che si perpetuano per anni a conflitto terminato, il rischio è che una guerra metta tutto in secondo piano, esattamente il contrario di quello di cui il mondo di oggi ha bisogno. La pandemia ci dovrebbe aver insegnato che non possiamo più fare tutto da soli e che vanno rilanciati dialogo, multilateralismo (purché serio ed efficace) e cooperazione internazionale. Le grandi sfide internazionali — cambiamento climatico, lotta alle diseguaglianze, sa-

lute, migrazioni — ci impongono di collaborare anziché distrarci con inutili conflitti.

È fin troppo evidente che l’apertura in futuro di un dialogo e di un negoziato a tutto campo con la Russia, a cominciare dalla riduzione degli armamenti che sembra finita nel dimenticatoio, partirà a dir poco in salita. Non abbiamo però altra scelta. Da dove cominciare? La prima cosa da fare sarà abbandonare quel linguaggio da Guerra Fredda che per troppi anni ha caratterizzato le nostre relazioni con Mosca: da una parte gli Stati democratici, dall’altra gli Stati autoritari. Non dobbiamo dimenticarci che tra i dodici Stati fondatori della NATO c’era il Portogallo del dittatore Salazar (mentre la Spagna pur facendo di fatto parte del blocco occidentale è entrata nella NATO nel 1982). Tra gli Stati autoritari, a parte la Russia e la Turchia (che è

membro della NATO), oggi annoveriamo la Cina che più che uno Stato autoritario è una vera e propria dittatura retta da un partito unico. Sono membri dell’Unione europea, Stati, come la Polonia e l’Ungheria, che definire modello di democrazia sarebbe un pò troppo. Si potrebbe continuare all’infinito. Quello che conta non è vedere chi ha ragione e chi ha torto, ma ridare voce alla diplomazia e ascoltare di meno chi propone opzioni militari. D’altronde in politica estera non vi sono buoni e cattivi, vi sono interessi confliggenti che vanno composti con pazienti e faticosi negoziati. Ci vuole però una politica estera puntellata da forti consensi interni e da una «deterrenza credibile». Meglio ancora una deterrenza accompagnata da un «soft power», basato su un’apertura al mondo, contrapposta alla chiusura nella quale ci siamo fatti imprigionare dalla pandemia, e caratterizzata da un impegno più generoso e lungimirante nei confronti degli Stati meno favoriti (a cominciare dalla riduzione del debito e dalla lotta al cambiamento climatico). In questo modo la stessa Unione europea diventerà sempre di più un interlocutore indispensabile in campo internazionale.

Infine, abbiamo bisogno di una diplomazia discreta, non «urlata». Quest’ultima è la peggiore perché mira a venire incontro agli umori dell’opinione pubblica distraendola dai problemi di politica interna, oltre a essere generalmente sprovvista di strategie per il futuro. L’opinione pubblica va coinvolta, ma non come faceva Trump per compiacere gli operai della «rust belt», bensì spiegandole bene e motivando perché dalla collaborazione internazionale tutti ci guadagniamo.

Si sente spesso parlare di «grandi questioni di principio» che vanno a ogni costo salvaguardate: io credo che la questione di principio più importante sia quella di evitare nuove guerre. Anche se siamo convinti che il nostro modello di società sia superiore (ma qual è il nostro modello, quello cosiddetto «renano» o quello nordamericano?), dovremmo rifuggire dalla tentazione — o dal dare l’impressione — di imporlo; la cosa veramente importante è che non impongano a noi modelli di società che non ci piacciono.

Senza avere neanche lontanamente la pretesa di essere esaustivo, a prescindere dalla crisi ucraina, i vantaggi di un dialogo con la Russia sono molteplici. In primo luogo, c’è la questione cinese. La Cina di oggi non è quella povera e rinchiusa in sé stessa di Mao. È un paese

che compete con gli Stati Uniti nei settori ad alta tecnologia e che appare destinato a diventare in pochi anni la prima potenza economica mondiale e in prospettiva militare. Soprattutto la Cina compete con successo in settori che sono fondamentali per lo sviluppo dell’industria del futuro, a cominciare dalle energie rinnovabili, dalla digitalizzazione, dall’intelligenza artificiale, dalle automobili elettriche. In questo contesto una solida intesa sino-russa potrebbe essere un serio problema. Noi abbiamo bisogno di concentrarci sul rinnovamento del nostro apparato industriale, raggiungere l’autonomia strategica in settori che giudichiamo essenziali per la nostra economia e la nostra sicurezza e non dimostrarci impreparati di fronte a grandi sfide come la transizione energetica che a loro volta hanno implicazioni geopolitiche (basti solo pensare alla disponibilità di terre rare).

In secondo luogo la politica di contrapposizione alla Russia, se sembra aver compattato la NATO e gli europei, a lungo andare potrebbe far emergere quelle divisioni che l’acuirsi della crisi ucraina ha fatto passare in secondo piano. Ne risentirebbero le relazioni transatlantiche ritornate in auge dopo l’eclisse trumpiana. Finora il fronte anti russo è rimasto solido, ma non è detto che sarà così in futuro. Già oggi in Italia i «filo Putin» o «filo russi» che dir si voglia, scomparsi all’inizio della crisi, cominciano piano piano a far capolino ponendo dei distinguo. Non possiamo dimenticare che Germania e Italia hanno bisogno più di altri, di fonti energetiche sicure e la Russia è primaria fornitrice di gas, idrocarburo indispensabile nella fase di transizione verso le energie rinnovabili (il gas emette meno CO2 del petrolio che a sua volta ne emette meno del carbone).

In terzo luogo, la mancanza di dialogo con Mosca ha lasciato libera la Russia di perseguire azioni di politica estera che a loro volta si stanno rivelando un volano di destabilizzazioni regionali. Dovunque si apra uno spazio, Mosca tende a riempirlo. La Francia ha abbandonato l’operazione Barkhane in Mali, necessaria per contrastare il terrorismo e l’immigrazione clandestina — temi che preoccupano in primis l’opinione pubblica europea — lasciando il campo ai mercenari russi della Wagner. In Libia è successo lo stesso, e accanto a russi e turchi sono intervenuti i loro comprimari non europei.

In quarto luogo, qual è l’interesse dell’Unione europea? E quello della NATO? L’Unione europea non può certo tornare indietro nel processo di allargamento, ma ha veramente interesse ad allargarsi fino a comprendere l’Ucraina? Abbiamo interesse a far diventare membri paesi che finiscono con il minare il processo di integrazione europea e costarci un sacco di soldi? Volendo potremmo sempre aiutarli con accordi ad hoc di cooperazione. Lo stesso dicasi per la NATO: un’eventuale inclusione dell’Ucraina ci farebbe importare insicurezza, mentre l’apporto delle Forze armate ucraine alla nostra sicurezza sarebbe minimo. Si tratta di questioni che non appaiono più all’ordine del giorno, ma che fino allo scoppio della crisi ucraina aleggiavano creando un clima di incertezza sulle relazioni internazionali. Per converso la crisi ucraina offre l’opportunità all’Unione europea di dimostrare che non soltanto dal 1945 in poi è stata in grado di evitare la guerra tra i suoi membri, ma sa essere un continente che esporta pace, oltre a essere un punto di riferimento per i valori che incarna: economia sociale di mercato, rispetto delle libertà fondamentali, rifiuto della pena di morte.

Non è poi affatto detto che in prospettiva l’interesse dell’Ucraina sia di legarsi strettamente alla UE e alla NATO, ma potrebbe essere quello, per esempio, di replicare il modello Finlandia in voga durante la Guerra Fredda. Kiev avrebbe tutto da guadagnare da rapporti sereni con il suo grande vicino una volta risolto il contenzioso delle regioni russofone. Certamente la mossa

di Putin rimette tutto in discussione. Gli accordi di Minsk, oltre a non essere stati attuati, erano imperfetti. Si era pensato a un modello Alto Adige per il Donbass. Si tratta però di operazioni finanziariamente costose e nel caso ucraino la popolazione che avrebbe potuto essere coinvolta, quella delle regioni di Donetsk e di Lugansk, è effettivamente numerosa (mentre gli altoatesini sono meno dell’1% della popolazione italiana). Però pensare a modelli che tutelino i diritti, a cominciare da quelli economici, culturali e linguistici, delle minoranze, potrebbe essere utile in altri contesti geografici prima che si presentino situazioni come quella che abbiamo vissuto con l’Ucraina.

Da una ripresa del dialogo ci guadagnerebbe sicuramente la Russia. Ha un forte esercito, è ricca di materie prime di cui il mondo ha assoluto bisogno, ma ha un’economia che non è riuscita a rinnovarsi come avrebbe dovuto e una popolazione in declino. Gli stessi numeri elevati di morti per Covid-19 sono indice di un sistema sanitario con molte falle. Quindi anche la Russia ha bisogno di normalizzare i rapporti con l’Occidente e non potrà contare certo sulla sola Cina che, fra l’altro, a lungo andare rischia di fagocitarla. Inoltre la Cina non ha interesse, come non lo aveva Mao Zedong, ad appiattirsi sulle posizioni di Mosca, fra l’altro rischiando di mettere a repentaglio i suoi ambiziosi disegni di penetrazione economica e commerciale a livello mondiale. È stato scritto che la Russia ha bisogno di esportare gas più di quanto l’Europa abbia bisogno di importarlo. Vero o non vero, uno dei problemi della mancata modernizzazione dell’economia russa risiede proprio nella eccessiva dipendenza dalle esportazioni di materie prime. Le privatizzazioni attuate in Russia non hanno contribuito a sviluppare un’industria moderna e ad attrarre cospicui investimenti occidentali come sono riusciti a fare gli ex satelliti dell’Europa orientale (sia pure fortemente aiutati dai fondi strutturali europei). La Russia ha bisogno dell’Europa e degli Stati Uniti, a meno che non voglia tornare alla logica del confronto est-ovest, che è finito come è finito, e soprattutto partiva da basi ideologiche diverse da quelle attuali (il consolidamento del «socialismo in un solo paese» come premessa per la sua esportazione nel resto del mondo).

La Russia avrà bisogno però di sentirsi rassicurata e non circondata dalla NATO o da paesi potenzialmente ostili o ritenuti tali. Non andrà isolata. Avrà bisogno di sentire che conta ancora nel mondo, che viene coinvolta sulle grandi decisioni e che la sua voce è ascoltata. Due invasioni da ovest, Napoleone e Hitler, hanno lasciato il segno. La sindrome dell’accerchiamento, giusta o sbagliata che sia, dura dall’epoca degli zar. Tutto è possibile, ma riesce difficile prevedere che Putin, con la sua nostalgia di una Russia, allora Unione Sovietica, che pesava nel mondo quasi alla pari con gli Stati Uniti, voglia riprendere la politica espansionista che è stata di Lenin e che Stalin ha proseguito e realizzato con lo scellerato patto Ribbentrop-Molotov. Del resto, un’occupazione permanente dell’Ucraina oltre ad avere degli effetti devastanti e del tutto imprevedibili sul piano internazionale, sarebbe troppo costosa in termini di perdite per i russi, che non dimenticano che fu proprio tra gli ucraini che le truppe tedesche di invasione trovarono sostegni che avrebbero potuto essere ben maggiori senza la politica della terra bruciata realizzata da Hitler (parimenti i russi non si sono dimenticati che se ne sono dovuti andare via dall’Afghanistan anche a causa delle perdite elevate e ritenute non più sopportabili tra le loro truppe).

La Russia dovrebbe riflettere sulle conseguenze di un prolungarsi del conflitto in Ucraina, non soltanto dal punto di vista economico e finanziario (crollo del rublo e della borsa di Mosca, rischi per gli investimenti russi nel mondo e freno agli investimenti stranieri nell’eco-

nomia russa, ecc.). L’opinione pubblica internazionale ha reagito in maniera inaspettata alla guerra: manifestazioni in tutto il mondo con centinaia di migliaia di manifestanti solo a Berlino, mentre la Comunità di Sant’Egidio dal canto suo ha organizzato veglie di preghiera e manifestazioni dove è presente con le proprie comunità (persino in Africa: Burundi, Mali, Lesotho, Malawi, Sudafrica, Mozambico, ecc.); le sanzioni oltre ad avere un impatto sui portafogli di chi viene colpito hanno anche un impatto simbolico, in termini di immagine negativa per i russi; vi sono poi delle sanzioni che potremmo definire «informali», che nascono da reazioni spontanee della società civile: a titolo di esempio, il Teatro la Scala che si rifiuta di accogliere l’orchestra di Mosca; la finale di Champions League che da San Pietroburgo viene spostata a Parigi; Sotheby’s che non vuole più lavorare con i russi, ecc. Tutti fattori che impattano su una Russia che non è la Corea del Nord (e nemmeno l’Unione Sovietica) e che ha una opinione pubblica informata e abituata a viaggiare (le città d’arte italiane, come Roma e Firenze, sono penalizzate soprattutto dalla scomparsa dei ricchi clienti russi…). Lo stesso fronte interno russo, compresa la dirigenza, starebbe mostrando delle crepe (qui dovremmo forse già porci il problema dell’incognita di una destabilizzazione del regime russo: forse è meglio il diavolo che si conosce…). Le manifestazioni di protesta contro la guerra che si sono svolte in Russia, persino a Novosibirisk, sono eloquenti in proposito.

Guardando agli europei, le conseguenze immediate della crisi ucraina potrebbero essere: un’accelerazione della diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico (Stati Uniti, Qatar) e in Italia una riduzione dei tempi biblici per le autorizzazioni a realizzare impianti eolici e fotovoltaici (speriamo!); un rinnovato interesse per una politica europea di difesa, a cominciare dalla standardizzazione degli armamenti (che presuppone una politica industriale che avrebbe il duplice vantaggio di interessare settori ad alta tecnologia e potrebbe avere ricadute positive sulla modernizzazione dell’industria europea); una politica di maggiore attenzione verso la Cina, non monopolizzata però dalle questioni economiche; un rafforzamento dei legami tra Francia, Germania e Italia. Quest’ultimo punto non è da poco, anche perché da una rinnovata intesa tra questi paesi — dopo la Brexit e alla luce del Trattato del Quirinale — potrebbe partire quella spinta che da tempo attendiamo per un rilancio del processo di integrazione europea che tenga però seriamente conto, più del passato, dei bisogni e delle aspettative di una opinione pubblica resa vulnerabile da una globalizzazione non controllata.

La diplomazia italiana, nell’ambito delle alleanze delle quali fa parte, avrà le sue carte da giocare come paese tradizionalmente vocato al dialogo e attento all’ascolto. Aiuta, come si diceva, un’opinione pubblica tradizionalmente avversa alla guerra (lo era anche nel giugno del 1940, ma purtroppo le cose sono andate in altro modo). La società civile, a prescindere dalla questione russo-ucraina, è sensibile al tema della pace. Si è svolto nei giorni scorsi a Firenze un incontro dei sindaci e dei vescovi del Mediterraneo. Il focus era sul Mediterraneo, altra regione martoriata dai venti della guerra, ma quello che è interessante notare è che tale evento si è tenuto sulla falsariga dei Colloqui Mediterranei che Giorgio La Pira lanciò alla fine degli anni Cinquanta. La Pira fu considerato un visionario, quasi un pazzo, però non si lasciò scoraggiare e il suo esempio, dialogare con chi detestiamo, potrebbe servirci oggi.

Giuseppe Morabito, Circolo di Studi Diplomatici

L’ambasciatore Giuseppe Morabito, Nasce a Roma nel 1953 e si laurea in Scienze politiche alla Università La Sapienza. Dal 1978 al 1981 è corrispondente dall’Italia e dalla Santa Sede del settimanale brasiliano Istoè. In carriera diplomatica dal 1981 al 2018. Ambasciatore di grado. A Roma si è occupato di paesi dell’est, di PESC e di Consiglio d’Europa. Successivamente è stato responsabile dell’UTC (Unità Tecnica Centrale) e vice direttore generale alla Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo, e direttore generale dei paesi dell’Africa sub-sahariana. È stato ambasciatore a Beirut e a Lisbona.

Il Circolo di Studi Diplomatici è un’associazione fondata nel 1968 su iniziativa di un ristretto gruppo di ambasciatori con l’obiettivo di non disperdere le esperienze e le competenze dopo la cessazione dal servizio attivo. Il Circolo si è poi nel tempo rinnovato e ampliato attraverso la cooptazione di funzionari diplomatici giunti all’apice della carriera nello svolgimento di incarichi di alta responsabilità, a Roma e all’estero.

La privatizzazione delle guerre: i «contractors»

Le guerre moderne, almeno finora, non sono globali ma tendono a essere locali e vengono definite dagli esperti con i termini «conflitti a bassa intensità», «guerre asimmetriche», «proxy war» a seconda delle condizioni, degli interessi e delle finalità che muovono le ostilità. Ai nuovi conflitti si è accompagnata una conseguente smobilitazione degli eserciti regolari, che ha favorito la nascita e la proliferazione delle cosiddette “compagnie militari private”. Si è giunti così al moderno fenomeno della privatizzazione della guerra. Con questo non si è tornati ai secoli dove la guerra la facevano solo i mercenari, ma sul campo accanto a eserciti nazionali possono esserci anche quelli senza bandiera a pagamento.

Negli ultimi due decenni, la generalizzata ristrutturazione delle Forze armate e la parallela riduzione dei bilanci della difesa nella maggior parte dei paesi ha comportato una profonda trasformazione dei settori militari, che ha favorito la creazione di eserciti professionisti e reso necessario il ricorso a mezzi che presentino una maggiore efficienza economica, tramite un’outsourcing delle attività militari. Ciò ha anche portato sul mercato una nutrita schiera di ex militari, che ha contribuito all’espansione del fenomeno delle compagnie militari private, consentendo alla spregiudicatezza commerciale di accompagnarsi al pensiero strategico degli Stati.

Con il termine «compagnie militari private» si intendono società di natura privata che offrono prestazioni legate strettamente all’ambito militare e a quello della sua sicurezza, funzioni tradizionalmente svolte dallo Stato. Armano e dotano i loro dipendenti di equipaggiamenti sofisticati e stipulano contratti con Governi che vogliono portare avanti operazioni militari all’estero, con compiti di supporto all’esercito regolare. Nel riferirsi a queste compagnie si utilizza il termine generico di «contractors». La guerra è un compito complesso che richiede, malgrado i progressi negli armamenti, una grande quantità di persone da dispiegare tanto in prima linea quanto nel supporto logistico. Quando un paese decide di entrare in guerra per aumentare il numero dei suoi effettivi si trova di fronte a due opzioni: ricorrere alla coscrizione militare o ai contractors. I conflitti odierni sono così diventati anche una partita giocata in prima linea da aziende private, guidate da manager e costituite da consulenti, tecnici, combattenti, tutti con contratti da onorare. Questo è il contesto nel quale proliferano le «Private Military and Security Companies», ovverosia i contractors. Sia gli attori statali sia quelli non statali hanno spesso fatto — e fanno — affidamento sui loro servizi, poiché queste società sono più flessibili, più economiche, meno responsabili e, a volte, più efficaci delle Forze armate regolari. Le compagnie private che offrono diversi servizi nel settore della sicurezza (dall’intervento diretto sul campo alla gestione di operazioni di sorveglianza, logistica e addestramento) rappresentano, in qualche modo, l’evoluzione moderna del fenomeno del mercenariato. Un sistema in crescita, che può rivoluzionare, se non l’ha già fatto, il modo di fare la guerra. I contractors non sono più semplici mercenari al soldo di qualche piccolo emirato o qualche signore della guerra. Queste organizzazioni paramilitari sono ormai delle vere e proprie Forze armate parallele, sempre più utilizzate anche dalle superpotenze per gestire i conflitti in cui non vogliono, o non possono, impiegare i propri soldati, ma anche per controllare aree di interesse strategico in cui le autorità degli Stati hanno difficoltà a farlo.

Sgombrato il campo da questioni di natura etica (che ogni utilizzo di questi uomini implica), va ormai compreso che non possano più essere ritenuti secondari nella comprensione delle guerre. Il loro uso è non solo assodato, ma anche, in certi teatri bellici, piuttosto consistente. L’industria che è stata creata con il loro impiego (un giro d’affari vicino ai quattrocento miliardi di dollari) conferma l’importanza di un mondo che ha assunto un valore

politico, diplomatico ed economico assimilabile a quello di vere e proprie forze parallele. I conflitti del nostro secolo, in particolare in Afghanistan, Iraq, Ucraina e Siria hanno visto le società private militari coinvolte in supporto logistico alle operazioni ad alta intensità.

La compagnia di contractors mediaticamente più nota è la russa Wagner. In Russia i motivi della nascita delle organizzazioni di sicurezza private risalgono alla gestione del trapasso dall’Unione Sovietica allo Stato federale, dove, per forza di cose, si dovette ridimensionare l’organigramma dell’esercito. In questo contesto, pur garantendo la conservazione di alcuni simboli e di un’ideale discendenza dall’Armata Rossa, il Cremlino licenziò migliaia di militari, molti dei quali aprirono le prime compagnie di mercenari. Nel 1998 erano presenti cinquemila compagnie di vigilantes, ovverosia di sicurezza private. Dato arrotondato per difetto, visto che molte per motivi fiscali o legali erano ufficialmente registrate come club sportivi.

La Russia post-sovietica ha seguito la tendenza alla privatizzazione della sicurezza militare relativamente tardi, principalmente a causa della resistenza interna delle Forze armate nonché delle difficoltà economiche. Mentre ci sono migliaia di società di sicurezza private che operano nel paese, sorvegliano le infrastrutture e forniscono servizi di protezione personale, le società militari private non possono ancora essere stabilite legalmente sul territorio della Federazione Russa. Ciò non le ha impedito di diventare negli ultimi anni uno strumento essenziale con cui Mosca espande la sua influenza nel mondo per difendere i suoi interessi economici, senza esserne direttamente coinvolta. Attualmente si registra una presenza di mercenari russi in almeno trenta paesi, il che mostra l’estensione di questo fenomeno. Sebbene le iniziative mercenarie siano tecnicamente illegali secondo la Costituzione russa, la verità è che sono diventate una componente chiave nella strategia della «guerra ibrida» di Mosca, offrendole un mezzo per realizzare i suoi obiettivi politici nel mondo, senza intervenire direttamente.

La partecipazione occulta a scenari bellici non è nuova per il Cremlino. Nel periodo della Guerra Fredda, l’Unione Sovietica ha inviato specialisti militari sotto la copertura di «consiglieri» in molti conflitti in tutto il mondo. Consiglieri sovietici e dei paesi del bocco socialista hanno svolto un ruolo importante nella modernizzazione delle Forze armate di Siria, Egitto, Libia e in numerosi altri Stati. Non c’è pertanto da stupirsi se negli anni recenti «volontari russi» hanno partecipato ai conflitti separatisti in Moldova (Transnistria) e Georgia (Ossezia e Abkhazia), mentre Mosca negava ufficialmente il suo coinvolgimento nei conflitti, etichettandoli come guerre civili.

Il gruppo Wagner è la compagnia di contractors più importante e ha iniziato la sua attività in Europa nel 2014, nel contesto del primo conflitto ucraino. L’organizzazione ha sede in Argentina ed è stata fondata all’incirca nel 2013 da Dimitri Utkin, ex colonnello di origine ucraina delle Forze speciali russe dal nome di battaglia Wagner (da cui la denominazione del gruppo) e da Yvgenij Prigozhin, un discusso uomo di affari nel settore del catering, ritenuto molto vicino al Cremlino (i giornali russi lo chiamano lo «chef di Putin») e accusato dagli Stati Uniti di aver organizzato una campagna di troll online per interferire nelle elezioni presidenziali del 2016. Utkin, ritiratosi dall’esercito, aveva messo in piedi assieme ad altri veterani i «Corpi slavi», una struttura paramilitare andata senza successo in Siria a sostenere il regime di Bashar al-Assad, ciò che lo ha spinto a rifondare l’organizzazione ribattezzandola, appunto, Wagner. La sede legale del gruppo si trova a Buenos Aires, in quanto la Costituzione russa stabilisce che le questioni di sicurezza e difesa sono appannaggio esclusivo dello Stato. La sede operativa del gruppo, però, è a Molkino, nel distretto di Krasnodar, dove avviene il reclutamento e l’addestramento dei mercenari, generalmente ex militari dell’esercito regolare russo.

L’ambiguità giuridica sullo status del gruppo è interessante. La Russia non è la sola al mondo a servirsi di contractors nelle operazioni militari, ma è l’unica che non li riconosce legalmente, negando poi ovviamente non solo il suo coinvolgimento ma addirittura la loro stessa esistenza.

Malgrado ciò, il gruppo Wagner appare strettamente connesso al Cremlino, tanto che da poter essere considerato come una ulteriore sezione dell’apparato militare di Stato russo, piuttosto che come una compagnia privata indipendente. Tra i due, infatti, esiste un rapporto esclusivo: la Russia è l’unica fruitrice dei servizi offerti dal gruppo. La sede operativa del gruppo a Molkino è situata all’interno della base del «Direttorato principale per l’informazione (GRU)», l’intelligence militare russa di cui lo stesso Utkin faceva parte. In diverse occasioni, poi, la compagnia ha utilizzato infrastrutture e trasporti appartenenti al ministero della Difesa russo e i due fondatori, Utkin e Prigozhin, sono vicini al Presidente Putin.

La prima missione ufficiale del gruppo Wagner è stata a marzo del 2014, quando un buon numero di contractors furono impiegati a fianco delle forze militari russe nell’operazione di invasione della Crimea. Dal 2015 il personale del gruppo si è poi spostato nel Donbass, a supporto delle repubbliche separatiste di Donets’k e Luhans’k, dove, tra l’altro, operano anche miliziani (caucasici e balcanici) a pagamento ucraini.

È pressoché certa la partecipazione dei mercenari della Wagner anche all’invasione russa in corso dell’Ucraina. Secondo la stampa internazionale, sarebbero a Kiev e dintorni, con l’obiettivo di uccidere il presidente Zelensky, il sindaco di Kiev Vitalij Klitschko e altre figure di alto profilo istituzionale e militare. Al contrario delle forze convenzionali militari, si mescolano tra i civili o si travestono da soldati ucraini, con anche il compito di organizzare attacchi fasulli e pretestuosi a soldati russi per giustificare eventuali ritorsioni.

Quanto avvenuto e sta avvenendo in Ucraina costituisce un caso emblematico di applicazione della dottrina della guerra ibrida da parte della Federazione Russa. Secondo questo modello, il contingente militare statale è integrato da mercenari ingaggiati da compagnie militari private. Un principio applicato in numerosi conflitti, come quelli in Medio Oriente e Africa.

Dal 2015 in Siria combattono migliaia di contractors del gruppo Wagner insieme all’esercito regolare russo. Tra le principali missioni dei mercenari, c’è la messa in sicurezza delle infrastrutture energetiche, indispensabili al regime di Assad per riconquistare il controllo sul territorio. Tra gli scenari in cui opera il gruppo, poi, c’è anche il conflitto in Libia, dove i mercenari sono stati impiegati a sostegno del generale Haftar. In Africa subsahariana per conquistarsi le risorse minerarie, la Russia ha poi voluto incrementare la propria presenza nella regione e il compito, non a caso, è stato affidato alla Wagner, che ha iniziato a collaborare con diversi Stati africani. In Sudan, un gruppo di specialisti riconducibili alla compagnia di Prigozhin ha scritto il programma di riforme politiche ed economiche, che il presidente Omar al-Bashir ha proposto nella sua campagna per la rielezione. In Madagascar, l’attuale presidente, Andry Rajoelina, ha vinto le elezioni grazie al sostegno della Wagner che si occupa, tra le altre cose, di realizzare e distribuire il più venduto giornale dell’isola. Nella Repubblica Centrafricana, paese poverissimo ma importante esportatore di diamanti, l’esercito del presidente Tuoderau, alleato di Mosca, è supportato

da «truppe» russe. In Mozambico, tuttavia, un’operazione simile è stata un fallimento. I mercenari del gruppo Wagner, arrivati nel 2019 per sostenere il governo di Maputo nella sua lotta contro i jihadisti a Cabo Delgado, sono andati incontro a forti perdite e di conseguenza hanno dovuto rinunciare alla propria missione. Sono stati poi sostituiti da un’altra azienda di contractors, la sudafricana Dyck Advisory Group. Da ultimo si avverte la presenza della Wagner in Mali, dove i militari, nel maggio 2021, si sono impadroniti del potere e hanno invitato le truppe francesi a lasciare il paese. Non solo Medio Oriente e Africa, ma anche in America Latina agisce la Wagner. In Venezuela circa quattrocento «mercenari russi» sarebbero arrivati alla fine del 2018, per collaborare a garantire la sicurezza di Maduro e del suo entourage. La notizia è stata data dalla Reuters e poi clamorosamente confermata da fonti anonime russe. Tuttavia, l’ambasciatore russo a Caracas l’ha definita una «barzelletta».

I contractors sono usati dalla Russia per diverse ragioni. I loro servizi sono più flessibili ed economici di quelli delle Forze militari regolari e le morti dei mercenari non vengono conteggiate tra quelle dei soldati russi. I contractors costituiscono quindi un importante mezzo con cui la Russia può espandere la propria influenza economica e militare all’estero, garantendo al Governo la facoltà di dichiararsi formalmente estraneo a qualsiasi azione illecita. Il gruppo Wagner concorre alla realizzazione degli interessi nazionali russi senza coinvolgere direttamente lo Stato. In questo modo Mosca si garantisce la pressoché totale immunità di fronte alla comunità internazionale: la mancanza di responsabilità dello Stato rende impossibile le sanzioni in casi di evidente violazione del diritto internazionale. Per la strategia russa della guerra ibrida i contractors sono un elemento essenziale. Con il loro utilizzo il Cremlino può apparentemente ridurre la propria presenza militare in numerosi conflitti, consentendo una presenza di Forze armate russe sul campo molto più numerosa di quanto ufficialmente risulti. Un elemento importante per l’immagine della Russia di fronte alla comunità internazionale, perché le permette di negare il suo coinvolgimento in territori dove il suo esercito non è formalmente presente.

La Russia non è però l’unico Stato a servirsi di eserciti privati.

Gli Stati Uniti utilizzano la Blackwater (o Academi) per alcune operazioni all’estero. Una delle braccia armate anche delle monarchie del Golfo, che possono contare sui soldi e non sugli uomini, per combattere le loro guerre. La Blackwater, è stata creata nel 1997 a Reston, dove ha la sede ufficiale, in Virginia. A fondarla è stato un ex Navy Seal, Erik Prince, che poi, nel corso degli anni, decise di cambiare nome spesso alla sua società, fino all’approdo al nome odierno di Academi. I suoi dipendenti sono ex-militari, con un background nella protezione del personale diplomatico in zone di guerra. Ne vengono formati circa trentacinquemila all’anno, nelle speciali strutture di addestramento e nei poligoni di cui la società dispone. Poco dopo la sua nascita, la Blackwater si è conquistata una certa nomea grazie alla partecipazione nelle guerre in Iraq e Afghanistan nel 2004. Le operazioni a cui i suoi contractors presero parte si distinsero subito per la particolare efferatezza, con metodi che mettevano a rischio i civili. Emblematica la strage di Nisour Square, la piazza di Baghdad dove, nel settembre 2007, quattro uomini di Blackwater al servizio di protezione dell’ambasciata americana aprirono il fuoco sulla folla uccidendo diciassette civili innocenti. Il clamore suscitato dall’episodio costrinse Washington a processare e condannare i responsabili della strage, poi graziati da Trump con uno dei suoi ultimi atti da presidente.

Gli Stati Uniti da tempo hanno impostato una strategia, ma ben differente a quella russa, che prevede un certo uso delle compagnie militari private nella gestione degli scenari di guerra, dove Washington non ha interesse ad avere una presenza massiccia di truppe. La più lunga convivenza tra contractors e soldati ha avuto luogo in Afghanistan. I combattenti delle agenzie private impiegati dal Governo americano sono stati migliaia, e migliaia soprattutto i morti. Il numero di vittime tra i contractors al servizio degli Stati Uniti è stato di molto superiore a quella dei militari, raggiungendo la cifra record di quasi quattromila caduti. Un numero rilevante se si pensa alla pochissima pubblicità che viene data allo sfruttamento di queste compagnie da parte del Pentagono, ma che dimostra come il metodo della «privatizzazione» della guerra

non sia qualcosa da considerare avulso dalla strategia militare statunitense. Del resto, una compagnia privata costa meno rispetto alle forze regolari (un battaglione di fanteria in guerra costa centodieci milioni di dollari all’anno, mentre un’unità militare privata novantanove) e un suo «dipendente» morto non pesa nell’opinione pubblica quanto un regolare soldato.

Il paese che, al momento, utilizza i contractors in maniera accorta è la Cina. Il gigante asiatico impiega le compagnie militari private per difendere i propri investimenti esteri. La «Belt and Road Initiative (BRI)» ha portato Pechino ad assoldare una grande quantità di contractors, per sorvegliare l’implementazione degli ambiziosi progetti infrastrutturali legati alla BRI. La caratteristica principale degli uomini arruolati da Pechino è che essi non hanno il permesso di essere armati o di aprire il fuoco. L’utilizzo di armi è consentito dalla Repubblica Popolare Cinese solo in casi di estrema necessità, proprio per evitare un evidente coinvolgimento di Pechino negli affari interni degli altri paesi. Negli anni recenti vi è stato un netto cambiamento nell’utilizzo delle società militari private. Mentre prima venivano usate in larga parte aziende estere, perché i contractors cinesi erano considerati inesperti, ora viene preferito l’impiego di compagnie private cinesi e in questo modo si evita che i dollari investiti dai cinesi finiscano in un fiume generalmente collegato ad altre potenze (Stati Uniti e Russia in primis). Una delle principali compagnie di sicurezza private impiegate è la DeWe, che di base a Pechino è specializzata in evacuazione di personale in situazioni di pericolo. Nel luglio del 2016 ha effettuato un’operazione di salvataggio nel sud del Sudan, evacuando a Nairobi il personale della China National Petroleum Corporation. Indubbiamente anche la Cina utilizza i contractors con l’intento di nascondere le proprie ingerenze in paesi esteri, ma ciò viene fatto in maniera discreta.

Nell’ambito delle compagnie di sicurezza è da citare la maggiore al mondo per i suoi introiti: la G4S. È una multinazionale con sede a Londra, attiva dal 2004, che offre un’ampia gamma di servizi, tra cui la messa a disposizione sul campo di personale specializzato. La Gran Bretagna se ne è servita per la sorveglianza di alcune sue prigioni e centri di immigrati. Una collaborazione che non è durata a lungo, per le polemiche susseguenti a maltrattamenti inflitti ai detenuti, da parte dal personale della G4S. Non risulta che Londra abbia impiegato la società all’estero, ma il suo fatturato annuo e le ottantacinque filiali sparse nel mondo, molte delle quali in aree a rischio, ne fanno a tutti gli effetti una compagnia di contractors.

L’America Latina prolifera da tempo in strutture private di sicurezza. Si tratta di organizzazioni paramilitari nate per la difesa di privati cittadini contro la criminalità, che poi sono state utilizzate da alcuni Stati per combattere i movimenti terroristici insurrezionali, come avvenuto negli anni Novanta soprattutto in Perù e Colombia (FARC, Sendero Luminoso). Con la fine di questi movimenti alcune strutture paramilitari sono rimaste, diventando delle polizie private o mettendosi al soldo dei narcotrafficanti. Questo tipo di contractors ha sempre agito all’interno dei paesi e malgrado disponga di una potenzialità non tanto dissimile a quella della Wagner o della Blackwater nessun governo ha mai fatto ricorso ai loro servizi.

Anche la Francia è stata sospettata di ricorrere a mercenari, soprattutto in Africa, ma la Legione straniera non ha nulla a che vedere con i contractors. È parte regolare delle Forze armate transalpine — anche se il suo reclutamento avviene in maniera anomala (può essere arruolato anche un cittadino straniero) — e i suoi comandanti in capo sono tutti espressione della catena di comando ufficiale.

Giorgio Malfatti di Monte Tretto, Circolo di Studi Diplomatici

L’ambasciatore Giorgio Malfatti di Monte Tretto, laureato in Scienze politiche alla Università La Sapienza di Roma, è entrato in carriera diplomatica nel 1975. Nel corso della sua attività professionale, in qualità di Ambasciatore, ha ricoperto incarichi diplomatici presso il ministero degli Affari Esteri e come Capo missione a Cuba, nel Kazachstan e in Uruguay. Nell’ultimo decennio ha ricoperto la carica di Segretario generale dell’Istituto Italo-Latinoamericano di Roma. È attualmente responsabile istituzionale di un programma europeo per il contrasto alla criminalità organizzata in America Latina.

Il Circolo di Studi Diplomatici è un’associazione fondata nel 1968 su iniziativa di un ristretto gruppo di ambasciatori con l’obiettivo di non disperdere le esperienze e le competenze dopo la cessazione dal servizio attivo. Il Circolo si è poi nel tempo rinnovato e ampliato attraverso la cooptazione di funzionari diplomatici giunti all’apice della carriera nello svolgimento di incarichi di alta responsabilità, a Roma e all’estero.

OSSERVATORIO INTERNAZIONALE

Biden rilascia la nuova strategia indo-pacifica. Un nuovo tassello nell’approccio alla competizione con Pechino.

L’insediamento nel gennaio 2021 dell’amministrazione guidata da Joseph Biden è avvenuto in un clima di notevole incertezza per quanto riguarda la politica estera. In una campagna elettorale pesantemente segnata dal tema Covid-19, infatti, Biden si era astenuto dal commentare dal dibattito di politica estera. Ça va sans dire, il dossier che, almeno per la politica internazionale, catturava maggiormente le attenzioni degli analisti e dei commentatori era l’approccio strategico che il nuovo inquilino della Casa Bianca avrebbe tenuto verso la Repubblica Popolare Cinese (RPC). I pochi mesi che ci separano dal gennaio 2021 sono, ovviamente, insufficienti per stabilire quale sia l’approccio strategico dell’esecutivo dell’ex vice-presidente che ha prodotto solo un documento strategico provvisorio. Tuttavia, la pubblicazione nel febbraio 2022 di una nuova Indo-Pacific Strategy ha chiarito la visione di politica estera dell’amministrazione e si è aggiunta ad alcuni interessanti libri bianchi già pubblicati nonché ai discorsi dei principali funzionari, prima e dopo l’insediamento.

Vale la pena menzionare che da presidente eletto, Biden aveva più volte rimproverato Trump di aver scaricato alleati europei e asiatici che sarebbero potuti, invece, essere fondamentali in funzione anti-cinese. In uno dei suoi primi comunicati da eletto, Biden aveva accolto con piacere i messaggi di congratulazioni arrivatigli dai leader dei paesi asiatici e del Pacifico e, in una mossa inaspettata, si era riferito all’area strategica come Indo-Pacifico, termine attribuitole principalmente dall’amministrazione Trump (1). In questo modo, il Presidente-eletto sembrava condividere l’orizzonte geopolitico dell’amministrazione precedente e richiamare il concetto trumpiano (mutuato da quello di Shinzo Abe) (2) di Free and Open Indo-Pacific che ribattezzava come «Indo-Pacifico sicuro e prospero». L’allora primo ministro del Giappone Yoshihide Suga aveva dichiarato anche che Biden, durante una telefonata, gli avrebbe garantito l’applicabilità della clausola di mutua difesa del Trattato nippo-americano anche per le isole Senkaku, che la Cina rivendica da decenni. Durante la campagna, il candidato democratico aveva, inoltre, espresso in più occasioni posizioni piuttosto severe riguardo alla Cina, definendo Xi Jinping un «delinquente» (3) verso cui la nuova amministrazione avrebbe dovuto adottare un approccio più duro (4). Inoltre, Biden si era scagliato duramente contro Pechino, accusandola di «genocidio» nei confronti degli uiguri nello Xinjiang (5), termine che neanche l’amministrazione Trump, fortemente critica del trattamento riservato alla popolazione turcofona, aveva mai utilizzato.

Una volta in carica, Biden stesso sembrava aver pochi dubbi sulla natura e l’intensità della sfida posta dalla Cina alla sicurezza statunitense quando già nel febbraio 2021 riconosceva che gli Stati Uniti erano impegnati in una «competizione estrema» (6) con la RPC. La valutazione sarebbe stata ripetuta in diverse occasioni da altri membri dell’esecutivo americano come il segretario alla Difesa Lloyd Austin. Il segretario di Stato Antony Blinken ha aggiunto anche Pechino costituirebbe il «principale test geopolitico» del XXI secolo (7). D’altronde, si ricordi che l’amministrazione di Barack Obama e Joe Biden era stata l’artefice di quel ribilanciamento militare, politico-diplomatico, economico-commerciale verso l’Asia-Pacifico conosciuto come Pivot to Asia (8). A tal scopo, l’America del ticket

Copertina del documento ufficiale (whitehouse.gov).

U.S. Indo-Pacific Command Joint Force conduce operazioni a doppia portaerei nel Mar Cinese Meridionale (navy.mil).

Obama-Biden aveva avviato il progressivo disimpegno dal Mediterraneo e dall’Europa in favore di una crescente attenzione strategica verso l’Estremo Oriente. Per l’amministrazione Obama, gli Stati Uniti dovevano «coinvolgere ma limitare» la RPC, trattandola come uno strategic partner, ricercando in grandi accordi multilaterali la fonte della stabilità regionale e accompagnando tali iniziative a un potenziamento della presenza politico-militare nella regione. Pur promuovendo ancora una «relazione costruttiva» con Pechino, allo stesso tempo la National Security Strategy del 2015 aveva introdotto maggiori elementi di confronto. Il nuovo approccio strategico americano costruito intorno al Pivot to Asia ambiva, quindi, a «gestire la competizione [cinese] da una posizione di forza, insistendo affinché la Cina si conformasse alle norme e alle regole internazionali» (9). Militarmente, il Pivot to Asia si era tradotto nell’Air Sea Battle poco dopo ribattezzato come Joint Concept for Access and Maneuver in the Global Commons, un concetto operativo che enfatizzava la necessità di garantire libertà di manovra e accesso dove questi fossero interdetti da bolle A2/AD, in primis nel Pacifico occidentale. La Quadriennal Defense Review 2014 ribadì che «negli anni a venire, paesi come la Cina continueranno nel loro tentativo di contrastare la potenza americana tramite approcci A2/AD e utilizzando tecnologie nel dominio cyber e in quello dello spazio» (10). La nomina di Kurt Campbell, la mente dietro il Pivot obamiano, a coordinatore del desk Indo-Pacifico in seno al Consiglio nazionale per la sicurezza dell’esecutivo Biden, ha confermato che l’ascesa cinese era il cruccio principale della nuova presidenza. A seguire nel luglio 2021, al roster di Biden si è aggiunto il nuovo Assistant Secretary of Defense for Indo-Pacific Security Affairs Ely Ratner, già vice-consulente di Biden nel secondo mandato obamiano. Da tempo Ratner era una delle voci prominenti in tema di politica estera americana verso la Cina proponendo una «competizione differenziata con Pechino, una in cui la rivalità si sviluppi dossier per dossier» assumendo quando necessario «la forma del containment», altre volte una «difensiva» o una «focalizzata sul potere nazionale all’interno del paese» (11).

La Interim Guidance (White House, 2021) del marzo 2021 ha, pertanto, riassunto la visione strategica della presidenza Biden. Nel contesto di «crescente rivalità con Cina e Russia», gli Stati Uniti riconoscono nello «Indo-Pacifico» (12) il quadrante geografico prioritario di azione. Mentre «la distribuzione del potere nel mondo sta cambiando e creando nuove minacce» (pp. 7-8), Pechino, tra gli attori che stanno ingaggiando Washington in una «competizione strategica» (p. 20), è l’unica «potenzialmente in grado di combinare le proprie capacità […] per montare una sfida costante a un sistema internazionale stabile e aperto» (p. 8).

Contemporaneamente alla Guidance, il National Intelligence Council ha rilasciato il suo annuale Threat Assessment. In esso, Pechino è presentata senza mezzi termini come un attore spasmodicamente alla ricerca della parità — convenzionale e strategica — con Washington, impegnato nella ricerca di «un potere globale» (13) nonché nel tentativo di «influenzare la democrazia americana» e insidiare l’alleanza tra i paesi occidentali. A maggio 2021, Politico rivelava come fonti nel Pentagono confermavano che la nuova formula per descrivere le relazioni sino-americane nell’amministrazione fosse «competizione strategica» (14).

Alla luce di ciò si possono, dunque, leggere le principali iniziative di politica estera verso la Cina e la regione indo-pacifica realizzate dall’esecutivo Biden nonché la nuova strategia rilasciata nel febbraio 2022.

In primis, Washington ha promosso una rivitalizzazione del QUAD, il dialogo di sicurezza tra Australia, Giappone, India e Stati Uniti, attestandosi in questo modo in scia di quanto fatto già da Trump, ma ampliando il mandato della cooperazione (15). Il QUAD nasce «come iniziativa giapponese orientata alla creazione di un concerto di potenze marittime capaci di bilanciare la proiezione navale cinese negli oceani Pacifico e, in misura minore, Indiano» (Ivi, p. 39). Sotto Biden, l’Asia tsar Kurt Campbell ha sostenuto una nuova enfasi su settori non propriamente di sicurezza, puntando a gestire le sfide del XXI secolo, tra cui l’avvento di una quarta rivoluzione industriale, e la necessità di ridurre la dipendenza dei paesi del sudest asiatico dalla diplomazia dei vaccini della Cina. Non solo qualitativamente, la Casa Bianca ha cercato di aumentare il raggio del QUAD anche dal punto di vista quantitativo, per esempio sponsorizzando un ingresso della Corea del Sud, almeno a livello informale, nel gruppo. Nonostante ciò, Washington si è trovato di fronte al rifiuto di Seul, che si è smarcata da questo tipo di richieste, limitandosi ad alcune concessioni a livello bilaterale, ma non in seno al QUAD. Per la prima volta nella storia del dialogo, i presidenti degli Stati membri del QUAD si sono incontrati di persona nel settembre 2021 per avviare una cooperazione anche in numerosi nuovi settori quali la lotta al cambiamento climatico, la cyber-security, le infrastrutture strategiche, lo spazio, l’educazione e gli scambi culturali.

In un secondo momento, assieme a Canberra e Londra, Washington ha anche siglato AUKUS, una partnership rafforzata di sicurezza che permetterà all’Australia di dotarsi di sottomarini a propulsione nucleare, strumento cruciale di deterrenza e difesa, nonché di alcune tecnologie emergenti e dirompenti. L’iniziativa è da subito stata interpretata come un chiaro monito a Pechino nonché il nuovo tassello di una più comprensiva strategia di contenimento della RPC, stavolta fondata su alleanze e accordi mini-laterali piuttosto che su un’unica, monolitica alleanza come fatto durante la Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica. Si noti, infatti, che nonostante la copertura mediatica abbia enfatizzato — e a tratti distorto (16) — l’importanza della componente sottomarina, l’accordo va ben oltre quest’ultima, espandendo la cooperazione in settori cruciali come, tra gli altri, l’intelligence — su cui l’accordo va oltre di quanto già previsto dall’alleanza Five Eyes — l’industria della difesa, la protezione degli asset strategici, l’intelligenza artificiale.

Infine, vale la pena menzionare che a oggi l’amministrazione Biden ha mantenuto i dazi imposti dalla precedente amministrazione Trump su prodotti cinesi per un totale di 350 miliardi di dollari.

Non è, quindi, inspiegabile il tono di cordiale sospetto con cui si è tenuto il tanto atteso incontro tra Joseph Biden e il presidente cinese Xi Jinping nel novembre 2021. Alla fine, il summit si è concluso con poco o nulla, facilitato sicuramente dalla conoscenza pregressa che i due presidenti avevano l’uno dell’altro ma ostacolato da

un oggettivo deterioramento in atto delle relazioni bilaterali sui principali dossier internazionali.

È in questo contesto che nel febbraio 2022, la Casa Bianca ha rilasciato la sua nuova Indo-Pacific Strategy che afferma senza mezzi termini che la Cina «sta perseguendo l’obiettivo di una sfera di influenza nell’IndoPacifico» per, infine, «diventare la potenza più influente del mondo» (17). Non a caso, pertanto, il raggio della capacità coercitiva cinese è oramai «globale» seppur il suo nucleo centrale sia ancora da ricercare nell’Indo-Pacifico. I dossier principali nell’area sono chiari alla Casa Bianca: la coercizione economica operata nei confronti dell’Australia, il conflitto lungo la «Linea di controllo effettivo» con l’India, la crescente pressione su Taiwan e «l’intimidazione dei vicini nel Mar Cinese orientale e meridionale» (ibid.). L’azione cinese non sarebbe solo mirata a intimidire gli Stati della regione, ma più in generale a modificare lo status quo esistente in Asia e nel mondo, una postura evidentemente revisionista secondo Biden che, quindi, riecheggia quanto già sostenuto dal suo predecessore (18). Rispetto a questa minaccia, Washington non avrebbe più l’obiettivo «di cambiare la RPC» ma, piuttosto, di «plasmare l’ambiente strategico in cui essa opera» per costruire «un equilibrio di influenza» favorevole «agli Stati Uniti, ai [loro] alleati e partner» (ibid.). A questo scopo e probabilmente in maniera diversa da quanto fatto dall’amministrazione Trump, l’attuale inquilino della Casa Bianca e il suo gabinetto si ripropongono di dare maggiore enfasi ad «alleanze modernizzate» e «partnership flessibili» (p. 10).

Il testo giunge come primo documento strategico vero e proprio dell’esecutivo precedendo la National Security Strategy definitiva nonché la National Defense Strategy e suggerendo che queste rifletteranno — e non viceversa — la priorità attribuita da Biden e la sua amministrazione al quadrante indo-pacifico e alla Cina. Se è vero che quando la Casa Bianca e il Pentagono rilasceranno i propri libri bianchi sarà possibile inquadrare la politica estera verso la Cina in un più ampio framework globale, non è neanche da escludere che il Consiglio di sicurezza nazionale o il Dipartimento di Stato producano documenti specifici sulla Cina in linea con quanto fatto dall’esecutivo guidato da Trump (19).

In conclusione, l’amministrazione Biden sembra aver sposato la linea muscolare inaugurata dall’esecutivo precedente dando una valutazione realista dello stato delle relazioni bilaterali con la Cina. Ciononostante, i documenti e le dichiarazioni dei funzionari di Pennsylvania Avenue, Foggy Bottom e il Pentagono hanno arricchito la postura americana di una rinnovata attenzione ai consessi multilaterali — o, piuttosto, minilaterali — e ai partner e agli alleati nell’Indo-Pacifico. Tutti considerati cruciali per prevalere nella competizione strategica con la RPC.

Lorenzo Termine Centro Studi Geopolitica.info, Sapienza Università di Roma

NOTE

(1) Si veda bit.ly/3v5FLXZ. (2) Si veda Dell’Era, A. (2021). Il Giappone e il QUAD-Intervista al prof. Giulio Pugliese (EUI-Oxford). Consultabile su bit.ly/3p6FFeY. (3) Si veda bloom.bg/33EICf2. (4) È il senso del suo articolo su Foreign Affairs del marzo 2020 consultabile su: fam.ag/3v41r6R. (5) Si veda bit.ly/3v7BUtf. (6) Le parole sono tratte dall’intervista su «Face the Nation». Si veda qui bbc.in/33OujV0. (7) Citato in fam.ag/3ILiApr. (8) Si veda bit.ly/3tnrQKv. (9) White House (2015) National Security Strategy. Consultabile su bit.ly/34HrVzS, p. 24. (10) Department of Defense (2014). Quadriennal Defense Review. Consultabile su bit.ly/33qZ96r, p. 6. (11) Fontaine, R. e Ratner, E. (2020). The U.S.-China confrontation is not another Cold War. It’s something new. Consultabile su wapo.st/34YQKYH. (12) White House (2021). Interim National Security Strategic Guidance. Consultabile su bit.ly/3AgAkWL, p. 9. Interessante notare la continuità nell’utilizzare la nozione di Indo-Pacifico in luogo dell’obamiano Asia-Pacifico. (13) US Director of National Intelligence (2021). Annual Threat Assessment. Consultabile su bit.ly/3r7d4Yi, p. 6. (14) Si veda qui politi.co/32JDAxm. (15) Pugliese, G. (2021). Il Dialogo di Sicurezza Quadrilaterale nell’Indo-Pacifico. Focus Euroatlantico, XII, 37-51. (16) Si veda a tal proposito stanford.io/3H7Sls0. (17) White House (2022). Indo-Pacific Strategy. White House. Consultabile su bit.ly/3LpXizT, p. 5. (18) Sul tema del revisionismo si veda Termine, L., & Natalizia, G. (2020). Gli «insoddisfatti». Le potenze revisioniste nella teoria realista delle Relazioni Internazionali. Quaderni di Scienza Politica, 27(2-3), 331-357 e sul revisionismo nel caso cinese Natalizia, G., & Termine, L. (2021). Tracing the modes of China’s revisionism in the Indo-Pacific. Italian Political Science Review/Rivista Italiana di Scienza Politica, 51(1), 83-99. (19) White House (2020). US strategic approach to the People’s Republic of China. Consultabile su bit.ly/3tKlKWa; Department of State (2020). The elements of the China challenge. Consultabile su bit.ly/3nJ3dWh.

FILIPPINE Acquisito il missile antinave supersonico «Brahmos»

Il dipartimento della Difesa delle Filippine ha assegnato alla società Brahmos Aerospace un contratto del valore di 18,9 miliardi di peso (375 milioni di dollari americani) per la fornitura di tre batterie per la difesa costiera equipaggiate con missili antinave supersonici «Brahmos», in aggiunta ad addestramento, supporto logistico e manutentivo. Il reggimento per la Difesa costiera del Corpo dei Marine delle Filippine riceverà il sistema, a partire dall’inizio del 2023. Grazie a un accordo governativo in tema di difesa siglato fra l’India e le Filippine nel 2017, seguito più recentemente da un altro nel marzo del 2021, queste ultime diventano il primo cliente export del sistema grazie al quale intende esercitare una capacità di deterrenza nei confronti dell’espansionismo cinese nella regione.

FINLANDIA Programma per nuovi dragamine

Il Comando logistico delle Forze armate finlandesi ha bandito una gara per l’acquisizione di due piattaforme contromisure mine destinate a rimpiazzate le due unità delle classi «Kiiski» e «Kuha». I requisiti della gara, riguardano l’acquisizione di nuove capacità nel settore del dragaggio mine, comprese nuove piattaforme dedicate con capacità autonome d’impiego autonome e in controllo remoto, oltre all’imbarco di sistemi analoghi, nonché sistemistica per il dragaggio a influenza magnetica; le nuove piattaforme dovranno poter operare con capacità di dragaggio meccanico nei confronti di mine ad attivazione acustica, magnetica ed elettrica. Le unità misurano circa 24 m e hanno sufficiente spazio sulla coperta per l’equipaggiamento antimine meccanico nonché capacità d’impiego prolungato e in condizioni climatiche rigide con cambusa, cucina, spazi comuni e di assistenza sanitaria.

Il dipartimento della Difesa delle Filippine ha acquisito il sistema missilistico supersonico antinave BrahMos per impieghi di difesa costiera.

Il contratto assegnato alla joint venture indo-russa BrahMos Aerospace

prevede l’acquisizione di tre batterie missilistiche su mezzi mobili (BrahMos Aerospace). Il Comando logistico delle Forze armate finlandesi ha bandito una gara per l’acquisizione di due piattaforme contromisure mine destinate a rimpiazzate i due dragamine ancora in servizio delle classi «Kiiski» e «Kuha» (Marina finlandese).

FRANCIA Nuova strategia per la difesa dei fondali marini

Il Ministro delle Forze armate francesi, Florence Parly e il capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Thierry Burkhard, hanno presentato il 14 febbraio la nuova «Strategia per la difesa dei fondali marini» che mira ad ampliare le capacità di sorveglianza e di azione della Marine Nationale fino a 6.000 m di profondità. Con la seconda più grande Zona Economica Esclusiva (ZEE) al mondo, «la Francia vuole poter garantire la libertà di azione delle sue forze e proteggere la sua sovranità, le proprie risorse e infrastrutture anche nelle profondità oceaniche», ha affermato il ministro della Difesa Parly, a fronte dell’ampliarsi delle azioni da parte di alcuni Stati per appropriarsi di risorse (minerarie, biologiche o fossili) o di aree marittime rispetto alla situazione geopolitica dell’area. Per espandere le proprie capacità investigative e di azione fino a 6.000 metri di profondità, «la Francia si doterà di capacità militari esplorative d’alto mare, composte da droni subacquei autonomi (AUV, Autonomous Underwater Vehicle) e teleguidati (ROV, Remotely Controlled Vehicle)». In tale ambito, la Marine Nationale e il ministero della Difesa stanno lavorando affinchè il CEPHISMER (CEllule Plongée Humaine et Intervention Sous la MER) diventi un centro di competenza in grado di implementare una capacità militare complementare allo SLAMF per profondità superiori a 300 metri. Per quanto riguarda gli sviluppi tecnologici e capacitivi, i piani prevedono principalmente il supporto all’innovazione nello sviluppo di sensori a bordo di AUV e ROV per impieghi d’altura, e lo studio delle particolari modalità di propagazione acustica a bassissima frequenza. Sul fronte della legislazione, la Francia sta lavorando al completamento del progetto di revisione della normativa nazionale sulla posa dei cavi sottomarini (piano di autorizzazione nel mare territoriale e di avviso nella ZEE), all’integrazione delle attività di «nave autonoma/droni marittimi» nei regolamenti collegati ai compiti dello Stato nel dominio marittimo mentre un’apposita ordinanza emessa dal Primo Ministro francese servirà a definire le aree di tutela degli interessi di difesa nazionale ai fini della ricerca scientifica marina. Infine, la Francia supporterà l’elaborazione di una strategia per lo sviluppo di un cluster tecnologico e industriale della Difesa di settore, avvalendosi di soluzioni sviluppate per esigenze civili e in linea con il piano Francia 2030.

GRAN BRETAGNA Difesa contro le nuove minacce missilistiche

Il ministero della Difesa britannico ha confermato i piani per l’introduzione di una capacità di difesa contro i missili balistici (BMD, Ballistic Missile Defence) a bordo dei sei caccia lanciamissili «Type 45» della Royal Navy per la fine del presente decennio. Queste unità sono dotate del sistema missilistico «Sea Viper» che rappresenta la variante britannica del sistema missilistico superficie-aria PAAMS (Principal Anti-Air Missile System) sviluppato in cooperazione fra Francia, Italia e Gran Bretagna dal consorzio EUROPAAMS fra Eurosam e MBDA UK. Il sistema «Sea Viper» condivide lo stesso munizionamento «Aster 15» e «30» nonché i relativi lanciatori verticali «Sylver» del sistema PAAMS (E) in servizio con le Marine francese e italiana, ma si differenzia da quest’ultimo per l’impiego del radar multifunzionale BAE Systems «Sampson» e un sistema di comando e controllo (C2) specifico per le esigenze inglesi. En-

Il ministero della Difesa britannico ha confermato i piani per l’introduzione di una capacità di difesa contro i missili balistici a bordo dei sei caccia lanciamissili «Type 45» della Royal Navy per la fine del presente decennio (Crown copyright).

trambi le versioni del PAAMS dispongono del radar a lunga portata «S1850M». L’intenzione di procedere con l’aggiornamento del sistema «Sea Viper» è stata dichiarata per la prima volta nel documento «Defence Command Paper» presentato al Parlamento britannico nel marzo 2021. In una recente risposta al report emesso dalla Camera dei Deputati sulla necessità di dotarsi di una Marina più capace, pubblicato il 25 febbraio, il Ministero della Difesa ha specificato che il sistema «Sea Viper» è sottoposto a un programma di potenziamento delle capacità denominato SVE (Sea Viper Evolution) entro la fine del presente decennio. Si tratterebbe della capacità difensiva principalmente diretta contro missili balistici antinave (ASBM, AntiShip Ballistic Missile). Secondo il programma SVE Capability 1 già finanziato dal ministero della Difesa, il sistema missilistico «Aster 30» verrà aggiornato allo standard «Block 1» che si caratterizza per l’adozione di una testa in guerra «duale» in grado di offrire una capacità per la difesa contro i missili balistici in aggiunta a quella d’ingaggio di minacce aeree e missilistiche convenzionali. Sempre secondo quanto divulgato, la Royal Navy procederà anche a una fase preparatoria e di valutazione della capacità SVE Capability 2, per incrementare ulteriormente le capacità BMD, sfruttando la nuova munizione «Aster 30 Block 1 NT» (New Technology) in fase di messa a punto. Unitamente al potenziamento delle capacità del munizionamento sarà necessario un aggiornamento del software/firmware del sistema radar così come del sistema C2 del sistema missilistico per la scoperta e tracciamento di minacce particolarmente sfidanti e complesse come i missili balistici antinave, da associare a modifiche al sistema di comando, controllo e combattimento (CMS, Combat Management System) delle unità classe «Daring» «Type 45». Con separato programma denominato Sea Viper-CAMM (SVCAMM), la Royal Navy sta procedendo a installare e integrare sui caccia classe «Daring», il sistema missilistico MBDA CAMM (Common Anti-Air Modular Missile) e in particolare 24 nuove celle di lancio verticale a prora delle 48 celle del VLS «Sylver» per missili «Aster», unitamente a un aggiornamento tecnologico del C2 del sistema «Sea Viper».

INDIA Consegnato ultimo «P-8I»

Il gruppo Boeing ha annunciato la consegna del dodicesimo esemplare del velivolo da pattugliamento «P8» nella versione per la Marina indiana. Si tratta del quarto e ultimo esemplare di «P-8I» appartenente al lotto supplementare di macchine ordinato dal ministero della Difesa indiano nel 2016. Il «P-8I» fa parte integrale della componente navale della Marina indiana con oltre 35.000 ore di volo dall’entrata in servizio nel 2013.

INTERNAZIONALE Svoltasi l’esercitazione «Dynamic Manta 2022»

Dal 21 febbraio al 4 marzo, la NATO ha condotto l’esercitazione «Dynamic Manta 2022» nel Mediterraneo centrale, al largo delle coste orientali della Sicilia. Pianificata e condotta annualmente dal Comando Marittimo della NATO (MARCOM), l’obiettivo di Dynamic Manta è fornire a tutti i partecipanti un addestramento complesso e stimolante per migliorare l’interoperabilità e le competenze nella lotta antisom e di superficie. «Esercitazione come quest’ultima, insieme all’addestramento regolare tra le unità delle Marine alleate e le nostre forze navali permanenti multinazionali, sono un moltiplicatore di forze che contribuiscono alla creazione di una componente multinazionale ed interoperabile, pronta a lavorare insieme come componente marittima della VJTF (Very High Joint Readiness Task Force)», ha affermato il contrammiraglio Stephen Mack, comandante delle Forze subacquee della NATO in una videoconferenza all’inizio dell’esercitazione. «È un grande onore per l’SNMG2 (Standing NATO Maritime Group 2), partecipare all’esercitazione di punta della NATO per quest’anno. Grazie a Dynamic Manta 22, ancora una volta, la NATO coglie l’occasione per coordinare gli sforzi in modo sinergico, contribuendo in modo decisivo a mostrare la coesione tra gli alleati e ad affinare tattiche, tecniche e procedure», ha affermato il contrammiraglio italiano Mauro Panebianco, comandante dell’SNMG 2, che ha guidato le forze coinvolte nell’esercitazione «Dynamic Manta 2022», a bordo dell’ammiraglia dell’SNMG 2, la fregata Margottini della classe «Bergamini». Secondo informazioni e immagini dell’inizio esercitazione, DYMA 2022 ha visto il coinvolgi-

Dal 21 febbraio al 4 marzo, la NATO ha condotto l’esercitazione antisom «Dynamic Manta 2022» nel Mediterraneo centrale, al largo delle coste orientali della Sicilia. Pianificata e condotta annualmente dal Comando Marittimo della NATO (MARCOM), quest’ultima si è svolta quest’anno sotto il controllo del Comando dell’SNMG2 (Standing NATO Maritime Group 2) - (MARCOM).

mento di tre piattaforme subacquee rappresentate da un battello «U212A» classe «Todaro» italiano, un battello «Tipo 214» classe «Papanikolis» greco e un sottomarino d’attacco nucleare della Marina francese non meglio identificato. La componente di superficie ha compreso le fregate Margottini (ammiraglia SNMG 2) e Carabiniere (classe «Bergamini»), Aegean (classe «Elli») greca, Goksu (classe «G») turca, Montreal (classe «Halifax») canadese, Alvaro De Bazan e Blas De Lezo (classe «Alvaro De Bazan») nonchè Navarra (classe «Santa Maria») spagnole, Auvergne (classe «Aquitaine») francese e il pattugliatore d’altura Trent (classe «Batch 2 River») inglese, l’unità rifornitrice Stromboli, affiancata dalla nave per il supporto logistico Robert E Peary (classe «Lewis e Clark»). Identificati dalle nazioni partecipanti, gli otto pattugliatori marittimi ad ala fissa provenivano dal Canada («CP-140 Aurora»), Francia, Germania («P-3C Orion»), Grecia, Stati Uniti e Regno Unito («P-8A Poseidon»). Fra i velivoli ad ala rotante identificati erano presenti assetti forniti dall’Italia («EH-101») e dal Regno Unito («Merlin»). «DYMA 22 è stata concepita per fornire formazione avanzata alle unità partecipanti, affinare le loro capacità ASW e dare l’opportunità di esercitarsi e condividere nuove tattiche e metodologie d’impiego per migliorare la loro interoperabilità», ha affermato il contrammiraglio Vito Lacerenza, comandante delle Forze sottomarine italiane, parlando durante una videoconferenza anticipatoria dell’esercitazione.

ISRAELE Qualificato il sistema «C-Dome»

Secondo quanto annunciato dalle Forze di Difesa israeliane e dal gruppo Rafael Advanced Defence Systems, unitamente all’Israeli Missile Defense Organization (IMDO), facente parte della direzione per la ricerca e lo sviluppo del ministero della Difesa israeliano, sono stati completati con successo una serie di tiri reali del sistema «C-Dome». Si tratta della versione navale del sistema di difesa missilistico «Iron Dome» che fa parte del sistema di combattimento delle nuove corvette classe «Sa’ar 6». L’unità capoclasse Magen e il suo equipaggio hanno condotto con successo i tiri reali in una serie di scenari complessi contro molteplici minacce particolarmente sfidanti, fra cui razzi, bersagli simulanti missili da crociera e UAV. Secondo quanto annunciato, questa campagna di lanci rappresenta una pietra miliare nella messa in servizio del sistema e dimostra la capacità operativa della Marina israeliana di difendere le risorse strategiche e gli interessi vitali dello Stato di Israele dalle minacce attuali e in evoluzione. Congratulandosi con i diversi attori coinvolti nella campagna valutativa del sistema, il Ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha sottolineato che i sistemi in fase di sviluppo quale parte integrante del sistema di difesa missilistica multilivello di Israele, consentono alla Nazione di operare contro i paesi alleati dell’Iran nella regione e di difendere la medesima

Le Forze di Difesa Israeliane hanno annunciato di aver completato con successo una serie di tiri reali del sistema missilistico «C-Dome». Si tratta della versione navale del sistema di difesa missilistico Rafael «Iron Dome», che fa parte del sistema di combattimento delle nuove corvette tipo «Sa’ar 6» (Rafael).

dai loro sistemi d’arma, che vengono costantemente aggiornati. Il sistema navale per la difesa missilistica «C-Dome» si basa sul sistema di difesa «Iron Dome» sviluppato da Rafael, e il sistema di comando e controllo sviluppato dalla società mPrest. Per poter portare a termine la sua missione, il sistema «C-Dome» si interfaccia con il radar a quattro facce fisse a scansione elettronica attiva Elta/IAI «Adir».

ITALIA Varo tecnico per il quarto PPA

Con una cerimonia tenutasi presso il cantiere di Riva Trigoso lo scorso 12 febbraio è stato celebrato il varo tecnico del quarto Pattugliatore Polivalente d’Altura (PPA). Si tratta dell’unità Giovanni delle Bande Nere (P 434), che ha preso il nome dal condottiero italiano del Rinascimento e membro della famiglia Medici (Forlì 1498 - Mantova 1526). Alla cerimonia erano presenti il Vicesegretario Generale/Vice Direttore Nazionale degli Armamenti, ammiraglio Dario Giacomin, il Direttore di NAVARM, l’ammiraglio ispettore Massimo Guma, e il Direttore di OCCAR-EA amm. (ris) Matteo Bisceglia. Il dottor Giuseppe Giordo per Fincantieri e l’ing. Gabriele Pieralli per Leonardo rappresentavano il consorzio tecnico, responsabile dello sviluppo, costruzione e futuro supporto nave. Il varo della quarta unità della classe «Thaon di Revel» rappresenta una tappa decisiva e fondamentale per il programma PPA. L’unità sarà la prima della classe nella sua configurazione «completa» o «PPA Full», e quindi caratterizzata dalla dotazione completa in termini di elettronica e sistemi d’arma nonché la prima della classe a montare i gruppi elettrogeni di Isotta Fraschini Motori. La nave dispone della suite DBR (Dual Band Radar) con i radar a quattro facce fisse con antenna a scansione elettronica attiva in banda «C» e «X» mentre il sistema di sorveglianza elettro-ottico/IR DSS-IRST e la suite integrata per la guerra elettronica fornita dal

Lo scorso 12 febbraio, presso il cantiere Fincantieri di Riva Trigoso, è stato celebrato il varo tecnico del quarto Pattugliatore Polivalente d’Altura (PPA). Si tratta

dell’unità GIOVANNI DELLE BANDE NERE (P 434), che rappresenta il primo Pattugliatore Polivalente d’Altura (PPA) nella configurazione «Full» (Fincantieri).

gruppo Elettronica sono nella configurazione completa così come la piattaforma sarà dotata del sonar a elemento rimorchiabile Leonardo WASS ATAS. L’armamento comprende il sistema missilistico MBDA SAAM ESD PPA con due VLS a otto celle per missili «Aster 15» e «30», il cannone da 127/64 mm LW (LightWeight) con munizionamento «Vulcano» e il cannone da 76/62 mm «Sovraponte» con munizionamento DART e «Vulcano». I due «PPA Full» sono contrattualmente predisposti per l’impiego dei missili antinave MBDA Italia «Teseo Mk2/E», la cui versione risulta in fase di sviluppo. La consegna dell’unità è prevista per il 2024.

Conseguimento della SDR per l’U212 NFS

Il programma per lo sviluppo, costruzione, messa in servizio e supporto della nuova classe di battelli «U212 NFS» (Near Future Submarine) ha conseguito e superato con successo un’altra importante tappa e verifica fondamentale rappresentata dalla SDR (System Design Review) in conformità ai rigorosi principi di «system engineering» adottati per questo progetto. Il superamento di questa importante tappa è stata un’attività molto impegnativa, che ha richiesto un notevole sforzo da parte delle parti interessate, tra cui la divisione del programma NFS di OCCAR, i principali attori industriali coinvolti e rappresentati da Fincantieri e Leonardo oltre alla filiera industriale nazionale. Tutti gli sforzi sono stati volti a completare le attività richieste entro i tempi e le scadenze previste al fine di rispettare il cronoprogramma lavori del progetto. Sebbene l’Italia sia attualmente l’unico paese partecipante, il programma U212 NFS è secondo OCCAR, un catalizzatore per il potenziamento delle competenze tecnologiche per i paesi dell’UE ed extra UE.

Rientra in linea il caccia Duilio (D 554)

A seguito di un ciclo manutentivo della durata di diciassette mesi presso l’Arsenale Militare di Spezia, il caccia lanciamissili Caio Duilio (D 554) della classe «Doria» (tipo Orizzonte) è tornato in servizio operativo all’inizio del mese di febbraio. Nonostante i vincoli COVID-19, le attività si sono concluse con successo rispettando i tempi, e il sistema PAAMS è stato dichiarato pienamente operativo dalla MM. Nel corso di tale periodo, la Divisione di programma FSAF/PAAMS di OCCAR ha gestito in contemporanea diverse attività complesse: la manutenzione preventiva e la revisione completa (MOH, Major Overhaul) rispettivamente del sistema radar a lunga portata «S-1850M» LRR (Long Range Radar) realizzata dalla società Thales Nederland nei Paesi Bassi e del sistema di lancio verticale (VLS MOH, Vertical Launching System Major Overhaul) per i missili

Il programma per lo sviluppo, costruzione, messa in servizio e supporto della nuova classe di battelli «U212 NFS» (Near Future Submarine) per la MM ha conseguito e superato con successo un’altra importante tappa e verifica fondamentale rappresentata dalla SDR (System Design Review) - (OCCAR).

«Aster 15» e «30» svolta dal consorzio Eurosam comprendente Thales, MBDA Francia e Italia. Sono state inoltre svolte attività di manutenzione preventiva e correttiva e controlli dell’intero sistema missilistico «PAAMS (E)» incentrato sulla famiglia di munizioni Aster e il radar a scansione elettronica passiva «EMPAR» di Leonardo al fine di garantire all’utilizzatore finale la prontezza operativa richiesta. Le attività sono state svolte in Italia (La Spezia) e Olanda (Hengelo) con il coinvolgimento di attori industriali nazionali e locali. L’utilizzo congiunto del contratto per il supporto integrato (ISS, In-Service Support) «FSAF/PAAMS 16.ISS.01» con Thales Nederland per l’esecuzione del contratto «S1850M LRR MOH», «FSAF/PAAMS 18.ISS.01» con Eurosam per l’VLS MOH e del contratto 19.ISS.01 per la fornitura di materiali di consumo e servizi, ha efficacemente risposto alle esigenze, dati i vincoli di tempo e risorse. Inoltre, l’efficiente cooperazione franco-italiana tra MARICOMLOG (Comando Logistico MM) e l’omologo SSF (Service de Soutien de la Flotte) della Marina Nationale, nella condivisione di pezzi di ricambio e informazioni è stata decisiva per raggiungere l’obiettivo in tempo utile, ridurre i costi e creare ottimizzazione.

Cambio del Comando Tattico dell’«Operazione Mare Sicuro»

A bordo del caccia Luigi Durand De La Penne, ormeggiato al pontile NATO della Base Navale di Augusta, si è volta lo scorso 22 febbraio, la cerimonia di avvicendamento del Comando dell’«Operazione Mare Sicuro» (OMS). Alla presenza del comandante in capo della Squadra navale, ammiraglio Aurelio De Carolis, il contrammiraglio Riccardo Marchiò ha ceduto l’incarico di Comandante Tattico al contrammiraglio Lorenzano Di Renzo. Il dispositivo aeronavale impegnato nella 48^ rotazione dell’«Operazione Mare Sicuro», nei 57 giorni di attività, ha pattugliato le acque antistanti la Tripolitania, la Cirenaica, lo Stretto di Sicilia e il Mar Ionio, contribuendo in maniera fattiva al contrasto alle attività illecite e deterrenza nei confronti di organizzazioni criminali in quelle zone, operando a tutela degli interessi nazionali per la protezione delle linee di comunicazione, delle navi commerciali e delle piattaforme off-shore nazionali.

Brevetto per otto nuovi palombari

Con una cerimonia tenutasi presso il Comando Subacquei e Incursori «Teseo Tesei» (COMSUBIN) della Marina Militare, alla presenza del sottosegretario alla Difesa, senatrice Stefania Pucciarelli, del presidente della commissione Difesa della Camera onorevole Gianluca Rizzo, del sottocapo di stato Maggiore della Marina Militare, ammiraglio di squadra Giuseppe Berutti Bergotto e di autorità civili e militari, è stato conferito il brevetto da palombaro a otto allievi del corso ordinario Palombari «Kraken» 2021. Grazie anche alla possibilità offerta dal concorso per

Con una cerimonia tenutasi presso il Comando Subacquei e Incursori «Teseo Tesei» (COMSUBIN) della Marina Militare, è stato conferito il brevetto da palombaro a otto allievi del Corso ordinario palombari «Kraken» 202.

Volontari in Ferma Prefissata di un anno (VFP1), numerosi giovani sono stati selezionati per affrontare l’impegnativo corso formativo della durata di circa un anno che ha permesso al Gruppo Scuole di brevettare otto operatori che hanno ricevuto una preparazione di altissimo livello fisico e professionale di base necessaria per essere impiegati in ogni operazione subacquea complessa e intervenire su qualsiasi ordigno esplosivo rinvenuto in un contesto marittimo.

Attività addestrativa per la Seconda Divisione navale

Nel corso della seconda settimana di febbraio si è tenuta un’intensa settimana di attività addestrativa in mare sotto la guida del comandante della Seconda Divisione navale, l’ammiraglio Vincenzo Montanaro. L’attività, svoltasi nelle acque del Golfo di Taranto, ha visto la partecipazione dei principali assetti operativi della Squadra navale fra cui la portaerei Cavour, la portaeromobili Garibaldi, il caccia lanciamissili Doria, le navi anfibie San Giorgio e San Marco, la fregata Marceglia, il rifornitore Stromboli, il pattugliatore Foscari, il cacciamine Alghero e il sommergibile Scirè. Anche il caccia lanciamissili della US Navy classe «Arleigh Burke Flight IIA», ha partecipato alle attività addestrative pianificate dalla Seconda Divisione, consentendo di confermare l’interoperabilità con gli assetti delle marine alleate, nonché di affinare le procedure operative in uso.

QATAR Consegnato l’OPV Musherib

Il primo dei due OPV realizzati da Fincantieri per le QENF (Qatar Emiri Naval Forces) è stato consegnato al nuovo utilizzatore. Si tratta dell’unità Musherib, il cui equipaggio proseguirà l’addestramento e la qualifica operativa in Italia, sotto l’egida della Marina Militare italiana.

RUSSIA Taglio lamiera per due nuovi sottomarini «Progetto 677»

Presso i cantieri dell’Ammiragliato di San Pietroburgo si è svolta lo scorso 14 febbraio la cerimonia congiunta del taglio lamiera del quarto e quinto battello del «Progetto 677», classe «Lada». A seguito della consegna e delle attività di prova e valutazione condotte prima e dopo di quest’ultima, i cantieri costruttori e il team di progetto Rubin stanno procedendo all’aggiornamento del sistema di controllo della piattaforma e di combattimento, del sistema propulsivo e di navigazione dei successivi battelli.

STATI UNITI Battesimo per il primo prototipo LDUUV

Con una cerimonia tenutasi presso la base navale di Newport, è stato battezzato il primo dei prototipi dei veicoli subacquei autonomi di grandi dimensioni o LDUUV (Large Displacement Unmanned Undersea Vehicle) tipo «Snakehead». Alla cerimonia

Il primo dei due OPV realizzati da Fincantieri per le QENF (Qatar Emiri Naval Forces), rappresentato dal-

l’unità MUSHERIB, è stato consegnato a queste ultime. L’equipaggio dell’unità proseguirà l’addestra-

mento e la qualifica operativa in Italia, sotto l’egida della Marina Militare italiana (Fincantieri).

La US Navy ha battezzato il primo dei prototipi dei veicoli subacquei autonomi di grandi dimensioni o LDUUV (Large Displacement Unmanned Undersea Vehicle) tipo «Snakehead» (US Navy).

hanno preso parte i rappresentanti del Naval Undersea Warfare Center (NUWC) e del Program Executive Office for Unmanned and Small Combatants (PEO USC) della US Navy. Si tratta di velivoli subacquei modulari e riconfigurabili multi-missione di diverso diametro, lunghezza e dislocamento, destinati a essere utilizzati sia da piattaforme di superficie che subacquee equipaggiate con batterie al litio di ultima generazione e dotati di una suite di sensori e sistemi per la navigazione e le operazioni autonome in supporto alle piattaforme pilotate.

IOC per il convertiplano «CMV-22B»

Secondo quanto annunciato dalla US Navy, il convertiplano Bell/Boeing «Osprey» nella versione «CMV-22B» destinato a fornire il supporto logistico (COD, Carrier Onboard Delivery) a bordo delle portaerei della US Navy in sostituzione del velivolo ad ala fissa imbarcato «C-2A Greyhound», ha raggiunto la capacità operativa iniziale a seguito del completamento del primo dispiegamento a bordo della portaerei a propulsione nucleare Carl Vinson (CVN 70). Quest’ultima ha visto la partecipazione quest’estate di un nucleo di «CMV-22B» del Fleet Logistics Multi-Mission Squadron (VRM 30) quale parte integrante del Carrier Air Wing imbarcato.

Taglio lamiera per la 14a unità classe «San Antonio»

Con una cerimonia tenutasi il 28 gennaio presso i cantieri Huntington Ingalls Industries (HII) di Ingalls, è stata tagliata la prima lamiera della quattordicesima unità da trasporto anfibio tipo LPD classe «San Antonio». Si tratta della futura unità Harrisburg, che rappresenta la prima piattaforma del «Flight II» della classe «San Antonio». Le unità che appartengono a questa nuova sottoclasse sono destinate a rimpiazzare le unità classe «Whidbey» (LSD 41/49).

Con una cerimonia tenutasi il 28 gennaio presso i cantieri Huntington Ingalls Industries (HII) di Ingalls, è stata tagliata la prima lamiera della quattordicesima unità da trasporto anfibio tipo LPD classe «San Antonio» (HII).

Primo Triton IFC-4 per la US Navy

Il gruppo Northrop Grumman ha consegnato il 1 febbraio alla US Navy, il primo velivolo senza pilota a lunga autonomia e capacità d’impiego ad alte quote «MQ-4C Triton» nella configurazione per l’intelligence multi-missione specificatamente sviluppata per le esigenze della Marina americana.

TURCHIA Prime prove in mare per l’ammiraglia della Marina turca

La nuova nave d’assalto anfibio tipo LHD (Landing Helicopter Dock) Anadolu, destinata a diventare l’ammiraglia della Marina turca una volta che entrerà in servizio, ha effettuato le prime prove in mare alla fine del mese di febbraio, operando dai cantieri costruttori Sedef Shipyard sul mare di Marmara. A seguito dell’estromissione da parte del programma «F-35», i piani del ministero della Difesa turco prevedono l’imbarco di velivoli senza pilota armati. Questi ultimi, in fase di sviluppo e realizzazione da parte della società Baykar e denominati «TB3» sono stati specificatamente progettati per l’impiego imbarcato. A seguito di tali importanti cambiamenti, non è ancora noto ufficialmente quando l’unità verrà consegnata.

Luca Peruzzi

Il gruppo Northrop Grumman ha consegnato all’US Navy all’inizio di febbraio, il primo velivolo senza pilota a lunga autonomia e capace d’impiego ad alte quote

«MQ-4C Triton» nella configurazione per l’intelligence multi-missione (Northrop Grumman).

SCIENZA E TECNICA

I grandi tecnici della Marina Militare: l’ingegner Cesare Laurenti - 1a Parte

In questa rivista abbiamo dedicato una serie di articoli ai grandi tecnici e scienziati della Marina Militare, esaminando in particolare le figure di Benedetto Brin, Giancarlo Vallauri, Giuseppe Rota, Domenico Chiodo, Umberto Pugliese, Vittorio Cuniberti, Edoardo Masdea, Ugo Tiberio, Gian Battista Magnaghi, Umberto Cagni, Angelo Scribanti, Gioacchino Russo, Francesco Rotundi e Nello Carrara. Tratteremo ora dell’ingegnere del Genio Navale Cesare Laurenti, brillante progettista navale che operò, prima all’interno della Regia Marina e poi nell’industria privata, nel settore della progettazione e realizzazione dei sommergibili. Cesare Laurenti nacque a Terracina il 15 luglio 1865 da Gioacchino e da Teresa Castaldi. La famiglia si trasferì pochi anni dopo a Civitavecchia, dove avviò un’agenzia di spedizioni marittime, ancora oggi attiva. Iniziò gli studi superiori a Siena e in seguito si trasferì a Roma. Nel 1885 prestò servizio militare come soldato del Regio Esercito, e successivamente frequentò la Regia Scuola di applicazione per gli ingegneri di Roma, laureandosi il 27 novembre 1889 in ingegneria civile. Nella stessa scuola ricoprì il ruolo di assistente per alcuni mesi, fino a quando entrò per con-

corso nel corpo del Genio Navale della Regia Marina, dove fu nominato ingegnere di 2a classe il 13 novembre 1890. Quindi fu destinato a Genova, dove frequentò per 18 mesi i corsi della Regia Scuola Superiore Navale (RSSN), per specializzarsi e completare la sua istruzione professionale conseguendo la laurea in ingegneria navale nel giugno 1892 con una tesi basata sul progetto di un ariete torpediniere, conseguendo la votazione di 69/70 per lo scritto e 70/70 per l’orale. Nell’ambito dei numerosi progetti di ammodernamento della flotta italiana voluti dal generale Benedetto Brin quando era ministro della Marina, venne realizzato presso il Regio Arsenale della Spezia il Delfino, il Cesare Laurenti in divisa da maggiore del genio navale (archivio autore). primo sottomarino italiano, impostato nel 1889/90 su progetto del generale del Genio Navale Giacinto Pullino (1), realizzato anche come risposta a un analogo progetto francese, il Gymnote, costruito quattro anni prima. Ricordiamo che, all’epoca, la politica estera e militare italiana era caratterizzata dal confronto con la Francia. Il Delfino era un battello sottomarino spinto da un motore elettrico alimentato da accumulatori, dotato di timoni orizzontali ed eliche verticali per le manovre in immersione, con la visione esterna assicurata da oblò, non essendo dotato di periscopio. Subito dopo il varo avvenuto nel 1892, Brin affidò la direzione tecnica dei collaudi e delle prove del sottomarino al giovane ingegner Laurenti, che documentò alcune di queste iniziali esperienze nel campo dei battelli subacquei nell’articolo «Motore elettrico per torpediniere sottomarine» pubblicato nel 1896 sulla Rivista Marittima; l’articolo riportava la descrizione del motore impiegato a bordo del Delfino, pur senza citarlo

Il sottomarino francese GYMNOTE (immagine d’epoca, dalla Rivista Marittima, 1901).

Il sottomarino DELFINO, costruito dal Regio Arsenale della Spezia (immagine d’epoca, dalla Rivista Marittima, 1901).

Il sommergibile DELFINO dopo i lavori di trasformazione (foto d’epoca, dalla Rivista Marittima, 1995).

esplicitamente, con anche un esame critico sulla scelta del tipo di motore, e riportava i risultati delle prove di collaudo al banco del motore stesso.

Nel 1895 Laurenti fu promosso ingegnere di 1a classe e trasferito presso l’arsenale militare di Taranto, dove, fra l’altro, diresse la costruzione della nave Puglia (2). Il 3 ottobre 1898 fu imbarcato sulla corazzata Lepanto (3) per circa un anno, come era prassi allo scopo di far acquisire ai giovani ingegneri familiarità con le navi e la vita di bordo. Il 1° settembre 1899 fu comandato al ministero della Marina a Roma e frequentò il corso di elettrotecnica presso la Regia Scuola di applicazione per gli ingegneri riportando la votazione finale di 90/100.

All’inizio del XX secolo si ebbe un’accelerazione nello sviluppo delle unità subacquee, passate da essere puri sottomarini, mezzi, come il Gymnote, il Delfino nella configurazione originaria o i primi mezzi statunitensi, dotati della sola propulsione elettrica e idonei a operare solo in immersione con autonomia molto bassa, a essere dei sommergibili (o, come si diceva all’epoca, delle «torpediniere sommergibili»), mezzi dotati di doppio impianto di propulsione e idonei a effettuare navigazioni in superficie, come una torpediniera convenzionale dell’epoca, per immergersi solo quando richiesto dalla situazione operativa. Anche in Italia il nuovo secolo risvegliò l’interesse per l’utilizzo militare dei mezzi subacquei: il ministro della Marina, l’ammiraglio Giovanni Bettolo, bandì un concorso per il progetto di una torpediniera sommergibile.

Laurenti nel 1900 pubblicò sulla Rivista Marittima l’articolo «La navigazione subacquea a scopo di guerra», in cui illustrò i progressi tecnici raggiunti da varie marine straniere e affrontò quindi in dettaglio i requisiti richiesti ai sottomarini, visti da Laurenti come la naturale evoluzione delle torpediniere. Laurenti si occupò, fra l’altro, dell’utilizzo nei sommergibili dei differenti tipi di motori, a benzina, a vapore ed elettrici, propendendo per questi ultimi, ritenuti i più affidabili, nella navigazione subacquea e per motori a vapore con combustibile liquido in emersione. Laurenti evidenzia anche la mancanza di una strumentazione affidabile per la navigazione in immersione. Nelle conclusioni egli prevedeva che il sommergibile sarebbe divenuto un mezzo bellico in grado di rivoluzionare del tutto la guerra navale, anche se al momento lo considerava un’arma prettamente difensiva.

L’articolo suscitò una vivace discussione sulle pagine della rivista, con una risposta del Tenente di Vascello Giovanni Sechi (4) che contesta quanto affermato da Laurenti, giudicando il sottomarino o sommergibile impossibilitato a svolgere il compito delle torpediniere, e relegandolo ad un ruolo di difesa statica dei porti; nel settembre 1900 nella rubrica «lettere al direttore» Laurenti, in risposta a quanto scritto da Sechi, affronta vari argomenti, dalla situazione nella lotta tra cannone e corazze alla tattica d’impiego dei sommergibili in particolare per l’attacco con il siluro alle unità maggiori, mettendo in luce una notevole verve polemica nei confronti di chi lo aveva contraddetto.

In un successivo articolo, «La navigazione subacquea nel secolo XIX» (Rivista Marittima, giugno 1901), Laurenti espose la storia dei primi tentativi di realizzare un sommergibile, sia a uso mercantile e scientifico che per fini militari, fino all’inizio del ‘900. Si tratta di un bell’articolo, di ampio respiro e corredato di varie illustrazioni e disegni, oltre che di una serie di tabelle con le principali caratteristiche di tutti i som-

Immagine di un motore elettrico oggetto di un articolo di Cesare Laurenti nel 1896 sulla Rivista Marittima, che probabilmente rappresenta il motore installato sul DELFINO.

mergibili realizzati, basato su di una profonda conoscenza della materia, che conclude delineando le linee guida che avrebbe seguito negli anni successivi nella progettazione e costruzione dei sommergibili, realizzati per l’Italia e per le principali marine straniere.

Nel luglio 1901 pubblica un breve articolo sulla Rivista Marittima «L’antidoto dei sottomarini», in risposta a un articolo apparso in Inghilterra che annunciava la realizzazione di un’arma efficace contro il nuovo e terribile mezzo bellico, asserendone la totale inconsistenza.

Nel Dicembre 1901 Laurenti pubblica sulla Rivista Marittima un articolo su «Il trasporto dell’energia elettrica a bordo delle navi da guerra» nel quale propugna la diffusione di macchinari ausiliari elettrici in sostituzione dei precedenti ausiliari a vapore a bordo delle grandi navi da guerra (corazzate ed incrociatori), esaminando anche gli impianti di distribuzione (all’epoca in corrente continua) e la relativa tensione (al massimo si arrivava a 160V) e i sistemi di generazione, per concludere ipotizzando l’impiego dell’elettricità anche per la propulsione, soluzione che sarà adottata per la prima volta solo una decina d’anni dopo su alcune unità della US Navy a iniziare dalla corazzata USS New Mexico. Nell’agosto 1902 seguì un articolo su «Installazione elettrica a terra negli stabilimenti della marina francese», nel quale Laurenti esamina l’impiego dell’energia elettrica nelle officine degli arsenali francesi, ma con un occhio anche agli stabilimenti italiani, in sostituzione dei sistemi di trasmissione del moto, a partire da una macchina a vapore, mediante alberi e cinghie.

Il 27 gennaio 1902 Laurenti e Giacchino Russo depositano in Gran Bretagna la richiesta di brevetto GB190202165A relativa al cleptoscopio. Si trattava di un primo tipo di periscopio, detto anche apparato «Russo-Laurenti» dal nome dei due ufficiali del Genio Navale, coetanei e compagni di studi presso la Regia Scuola Superiore Navale di Genova, che ne depositarono il brevetto (5). Il brevetto fu concesso il 27 febbraio 1903. In Italia il brevetto era stato depositato il 28 luglio 1901 e perfezionato il 4 settembre 1901. In questo periodo venne quindi risolto, anche grazie al contributo del Laurenti e di Giacchino Russo, il problema della visione esterna, essenziale per l’azione bellica dei sommergibili.

Nel 1902 venne deciso di riarmare e modificare il Delfino. Il primo sommergibile italiano, tra il 1902 e il 1904, sotto la direzione di Laurenti subì una radicale trasformazione: fu installato un motore a benzina per la navigazione in emersione, venne aggiunta la torretta su cui fu applicato il cleptoscopio, furono eliminate le

eliche verticali. In pratica il battello, che era nato come un sottomarino puro, cioè un mezzo ideato per operare solo in immersione, venne trasformato in sommergibile, cioè mezzo idoneo a operare in emersione come una nave convenzionale oltre che di immergersi.

Nel giugno del 1903 uscì sulla Rivista Marittima un articolo dal titolo «Sull’impiego dei sottomarini» firmato dal tenente di vascello F. Marulli. L’autore, dopo una trattazione teorica delle diverse possibilità di attacco di unità subacquee contro unità di superficie, esamina i risultati di esercitazioni svolte recentemente dalla marina francese nella rada di Cherbourg, per concludere auspicando che i futuri sottomarini italiani siano «marini», rapidamente sommergibili e rapidamente manovrabili, e che si sacrifichino tutte le altre prestazioni a favore della velocità di attacco, ed evidenziando comunque i limiti dei sottomarini, impiegabili solo per la difesa ravvicinata costiera, e anche in questo caso senza lasciarsi «trascinare dalla moda»; in sintesi Marulli appare alquanto scettico sulle reali possibilità d’impiego dei mezzi subacquei al di fuori di alcuni limitati casi. Laurenti nel giugno 1903 risponde a Marulli con una «lettera al direttore» nella quale pur esprimendo apprezzamento per l’articolo, ne modifica le conclusioni in senso favorevole all’impiego del sommergibile per la difesa delle coste; in questa lettera Laurenti evidenzia anche chiaramente la distinzione tra i sottomarini ed i sommergibili, ed esprime l’opinione che il futuro è di questi ultimi.

Nell’Agosto 1903 pubblica sulla Rivista Marittima ancora un breve articolo di argomento elettrotecnico, e cioè «Le motrici a combustione interna nelle stazioni centrali di produzione di energia elettrica», nel quale esamina l’impiego, in alternativi al vapore, dei motori a combustione interna.

Dal 1° novembre 1904 Laurenti fu destinato al Regio Arsenale di Venezia. Per aggiornarsi e confrontarsi con i progressi tecnici delle altre marine, in particolare nel settore dei sottomarini e sommergibili, Laurenti, compì alcuni viaggi in Gran Bretagna e in Germania fra il 1904 e il 1905. Dal 16 giugno 1905 al 15 maggio 1906 fu imbarcato di nuovo sul Delfino, che provvide a migliorare ulteriormente.

Incaricato del progetto di una nuova classe di sommergibili, la prima realizzata in Italia dopo lo sperimentale Delfino, Laurenti elaborò un progetto nuovo, completamente differente da tutti gli altri, il quale prese il suo nome, cioè «sommergibile tipo Laurenti». Il Glauco, progettato da Laurenti quando era Maggiore del Genio Navale e impostato sotto la direzione dello stesso Laurenti presso il Regio Arsenale di Venezia, fu il secondo sommergibile costruito in Italia, tra il 1903 e il 1905; in questo progetto la falsatorre era molto spostata in avanti, mentre nei modelli successivi venne gradatamente spostata a centro nave. Il Glauco era ancora, di fatto, un’unità sperimentale, e, come il resto della classe (Squalo, Narvalo, Otaria e Tricheco), ebbe un ruolo più addestrativo più che operativo, non solo per il personale della nascente specialità sommergibilista, ma per gli stessi stati maggiori della nostra marina, ancora poco convinti dell’utilità del nuovo mezzo. Gli ultimi articoli del Laurenti sulla Rivista Marittima, pubblicati nel 1904, 1905 e 1907, sono dedicati a incidenti che hanno portato alla perdita di sommergibili. Nel 1904 nell’articolo «La perdita del sottomarino inglese A-1», dedicato all’affondamento del sommergibile britannico A-1 al largo di capo Nab per urto con un transatlantico, alle sue cause e alle sue conseguenze; Laurenti esprime l’opinione che, nonostante i danni riportati nell’urto, sarebbe stato possibile per l’equipaggio (composto da 11 persone, tra cui 2 ufficiali, tutte perite nell’incidente) salvare il battello e la loro stessa vita con opportuni provvedimenti, che però non furono adottati per le condizioni del personale, fe-

Il sottomarino britannico A1, affondato per urto contro un transatlantico (foto d’epoca, dalla Rivista Marittima, 1896).

Ricostruzione, effettuata da Cesare Laurenti, dell’incidente che ha causato

la perdita del sottomarino britannico A1 (foto d’epoca, dalla Rivista Marittima, 1896).

rito e stordito dall’urto. Inoltre Laurenti critica il tipo di battello (tipo Holland di progetto statunitense), per la sua impossibilità a immergersi verticalmente, e le caratteristiche tecniche del periscopio, in particolare l’arco di vista limitato a 45°.

Nel 1905 nell’articolo «I disastri dei sottomarini» Laurenti passa in rassegna i maggiori incidenti verificatisi nel settore delle unità subacquee, e in particolare quelli più recenti del sommergibile britannico A-8 (affondato l’8 giugno 1905 all’uscita dal porto di Plymouth) e del francese Farfadet (affondato il 7 luglio 1905 nel porto di Biserta). Secondo Laurenti tutti gli incidenti esaminati rientrano nelle categorie dell’allagamento o dell’esplosione di gas (idrogeno prodotto dalle batterie al piombo o vapori di benzina) e sono stati causati da errore umano, in particolare da parte dei Comandanti dei battelli; Laurenti evidenzia che, per la particolare complessità dei sommergibili e per la loro concezione, commettere errori è più facile che non sulle unità di superficie, e che le conseguenze di questi errori possono essere molto più gravi, e di conseguenza il personale destinato all’imbarco sui mezzi subacquei deve essere selezionato con cura. Dal punto di vista tecnico Laurenti trae dall’esame degli incidenti la convinzione che nei nuovi battelli debbano essere adottati, per consentire una maggiore sicurezza, quattro provvedimenti: il doppio scafo, la zavorra esterna distaccabile, la compartimentazione interna con paratie stagne e una razionale disposizione delle aperture dello scafo per accesso e ventilazione.

Nel 1907 esce un ultimo breve articolo del Laurenti sulla Rivista Marittima intitolato «La catastrofe del Lutin» dedicato alle cause dell’affondamento del sommergibile francese Lutin, della stessa classe del già citato Farfadet, e affondato nei pressi di Biserta nell’ottobre 1906 con la perdita dei 16 membri dell’equipaggio. Secondo Laurenti il sommergibile aveva il difetto di essere stato concepito con le lamiere interne dei doppi fondi piane (e non cilindriche come sui sommergibili che progetterà lo stesso Laurenti), e quindi con resistenza limitata alla pressione esterna; nel caso del Lutin, la presenza di una pietra impedì la chiusura

Schema della suddivisione dei battelli francesi del tipo del Lutin, affondato al largo di Biserta (Tunisia) il 16 ottobre 1906 (foto d’epoca, dalla Rivista Marittima, 1907).

di una valvola di allagamento del doppio fondo prima di un’immersione, e il doppio fondo stesso, sottoposto alla pressione esterna, cedette determinando l’allagamento e la perdita del battello. Laurenti in conclusione auspica l’adozione di sottomarini che, anche a scapito della velocità massima raggiungibile, navighino in immersione con una grande riserva di spinta, a differenza di quanto avveniva sui sottomarini dell’epoca, dotati di riserva di spinta negativa (i battelli francesi) o di una riserva di spinta positiva molto piccola (i battelli di altre nazioni tra cui gli italiani).

Laurenti fu insignito di medaglia d’oro di prima classe per l’incremento apportato alle scienze nautiche con i suoi studi sui sommergibili. Il 16 luglio 1906 si congedò dalla Regia Marina e fu collocato nella riserva con il grado di Maggiore del genio navale. Già cavaliere della Corona (1892), fu insignito dal re il 21 luglio 1906 della croce di cavaliere dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro. Assunse quindi la direzione dei cantieri navali Fiat S. Giorgio del Muggiano, fondati nel 1907 con capitale Fiat e Odero proprio per la produzione di sommergibili. Il cantiere spezzino divenne, sotto la sua direzione, un centro d’eccellenza mondiale nella costruzione dei sommergibili, primato che conservò per alcuni decenni, anche se a partire dal 1918 fu oggetto di vari cambi di denominazione e di proprietà. Nell’epoca in cui era direttore Laurenti, la società era dotata di una sede a Torino, per la produzione di tubi lanciasiluri e altri apparati, nella sede che diventerà poi la Fiat Grandi Motori.

Il primo sommergibile progettato da Laurenti dopo il congedo fu il Foca, prodotto alla Spezia, impostato nel 1907 e consegnato alla Regia Marina nel 1909. Il progetto, derivato da quello del Glauco, era caratterizzato da soluzioni innovative per l’epoca, come per esempio la propulsione su 3 assi con 2 motori a benzina per asse e un motore elettrico solo sugli assi esterni, ove i motori degli assi esterni, accoppiando opportunamente i due giunti posti a monte e a valle dei motori elettrici potevano trascinare le dinamo per ricaricare le batterie oppure l’elica mentre il motore centrale era connesso al solo propulsore, o le pompe assetto e i compressori connessi agli assi delle eliche per economizzare sul peso. Dopo qualche tempo il Glauco fu modificato con l’abolizione dell’asse centrale, per assumere una più tradizionale configurazione su due assi.

Nel 1907 Laurenti depositò negli Stati Uniti due richieste di brevetto, le prime di una serie abbastanza numerosa. La prima richiesta (brevetto US985911 concesso nel 1911) era relativa al progetto di massima di un sommergibile con scafo esterno a libera circolazione nella parte superiore dello scafo; si trattava del concetto base dei primi sommergibili tipo Laurenti, applicato in particolare al Foca. La seconda richiesta (brevetto US934192 concesso nel 1909) era invece relativa a un sistema di lancio per siluri subacqueo con coperchio esterno del tubo lanciasiluri azionabile dall’interno.

Un battello gemello del Foca (HSwMS Hvalen) fu ordinato dalla Reale Marina Svedese e confermò la propria affidabilità percorrendo, dopo la consegna nel 1909, l’intero percorso dall’Italia alla Svezia con i propri mezzi, mentre un altro battello più piccolo (HDMS Dykkeren) dotato alla consegna solo di propulsione elettrica (successivamente venne aggiunto un motore a benzina) venne ordinato dalla Marina Danese e consegnato sempre nel 1909.

Nel 1908 Laurenti depositò negli Stati Uniti una richiesta di brevetto (US922298 concesso nel 1909) relativo a una superficie orizzontale posizionata sopra la poppa di un sommergibile, in modo da aumentare la resistenza idrodinamica nei confronti delle variazioni d’assetto; lo stesso apparato venne brevettato anche in Australia (brevetto AU1121408A richiesto sempre nel 1908).

Nel 1908-1910 Laurenti concepì anche il progetto di un sommergibile con una velocità subacquea attorno ai 15-16 nodi, elevatissima per l’epoca. Questo progetto, sviluppato in varie versioni con dislocamenti tra le 250 e le 1000 tonnellate, era dotato di apparato motore unico pneumatico a combustione ideato dall’ingegner Del Proposto (6). Non erano presenti batterie, dinamo e motori elettrici, ma solo bombole di aria compressa, e su ognuno dei 2 assi erano calettati un motore diesel e un motore pneumatico reversibile. In immersione l’aria compressa evoluiva nel motore pneumatico e quindi, a pressione ridotta, alimentava come comburente il motore diesel.

....... segue nel prossimo.

CHE COSA SCRIVONO GLI ALTRI

«I Nuovi Dopoguerra» e «The Putin Doctrine»

ASPENIA, N.94/2021-FOREIGN AFFAIRS, VOL. 101, N. 1,

JANUARY-FEBRUARY 2022

Dopo aver varato il concetto di «pace fredda» (che abbiamo illustrato nella rubrica dello scorso settembre), nell’Editoriale del numero in parola, sempre firmato da Roberto Menotti e Marta Dassù, come chiave esegetica per spiegare la realtà contemporanea si introduce il paradigma di «nuovi dopoguerra». «Stiamo vivendo due difficili dopoguerra-ammettendo che la battaglia contro il Covid-19 sia sotto controllo e che il ritiro dall’Afghanistan concluda le “forever wars”, le guerre infinite in cui gli Stati Uniti e i loro alleati si sono impegnati con esiti diversi da parecchi decenni a questa parte. C’è un “dopoguerra economico”, che ricorda ad alcuni gli anni Trenta del secolo scorso, mentre ad altri evoca invece i vecchi anni Settanta, con il rischio di pressioni inflattive. E c’è un “dopoguerra geopolitico”, legato almeno in modo simbolico al ritiro americano e della NATO dall’Afghanistan: segno, per alcuni, del progressivo declino occidentale, all’ombra di un’America che, anche con Joe Biden, si concentra a casa e sulla competizione con la Cina e con l’indicazione, per altri, che la coesione fra democrazie liberali continua a scricchiolare, a tutto vantaggio dei regimi autoritari». I «dopoguerra» avvengono in un sistema internazionale che definiamo multipolare, ma che non sappiamo più come governare, precisano gli autori. In entrambi i casi infatti — cioè ripresa economica postpandemia e gestione delle conseguenze del ritiro dall’Afghanistan — c’è l’esigenza, e anche l’opportunità di una «ricostruzione», ossia di uno sforzo creativo per sviluppare idee nuove, con effetti diretti e indiretti delle decisioni che stiamo prendendo, che saranno probabilmente profondi e di lungo periodo. Nella fitta e dettagliata disamina critica che ne segue, due punti rimangono centrali: il dopoguerra economico, basato su una rifondazione del capitalismo stesso e il dopoguerra geopolitico, non possono essere disgiunti. Di qui uno sferzante appello all’Unione europea, di cui si stigmatizzano «le divisioni fra Stati nazionali in politica estera; l’assenza di una cultura e di una visione strategica condivise; l’abitudine ormai patologica a delegare la nostra sicurezza; la riluttanza a investire nello strumento militare pensando che basti la potenza civile. Non basta — concludono gli autori — se la dura lezione afghana deve servire, e se l’Europa vuole diventare un attore centrale dei due dopoguerra, deve finalmente capire che ripresa economica e strategia geopolitica vanno combinate. E derivarne scelte conseguenti, non solo parole. Su questo siamo in estremo ritardo». Per quanto attiene poi la crisi ucraina, attualmente in corso mentre si scrive, viene esaminata da Marta Dassù nell’articolo «Il dialogo con Putin non sarà una Yalta 2», apparso sulle colonne del quotidiano La Repubblica del 10 gennaio scorso, laddove si ribadisce che il pacchetto negoziale proposto da Putin (in estrema sintesi, «gli Stati Uniti non stabiliranno basi militari nel territorio degli Stati dell’ex Unione Sovietica che non sono membri della NATO» ed «eviteranno l’adesione di Stati dell’ex Unione Sovietica alla NATO, impedendo una sua ulteriore espansione a est»), non è accettabile né per gli Stati Uniti, né per la NATO, né per gli europei nel loro insieme, «per quanto divisi possano essere sulla gestione del problema Russia». «Putin sembra voler riannodare il filo della storia. Punta al riconoscimento di una sfera di influenza della Russia, con una sorta di Yalta 2, che in qualche modo ripari la sconfitta nella Guerra Fredda, tolga dal tavolo ulteriori allargamenti della NATO (Ucraina e Georgia) e precluda lo spiegamento militare della NATO verso est». Rovesciare l’esito della Guerra Fredda non sarà però possibile, sottolinea l’autrice, per gli Stati Uniti e l’Europa si tratta

di stabilire un equilibrio tra principi da difendere, inclusa la libertà dei paesi democratici di scegliere le proprie alleanze e l’interesse a evitare nuove guerre alla periferia del vecchio continente. «La prospettiva, quindi, non è la Yalta 2 cui sembra aspirare Putin. Potrebbe essere forse — ma è un grande forse — l’avvio di un dialogo alla Helsinki 2 sulla sicurezza europea [al pari di quello del 1975]. Se i paesi europei si muoveranno in tale direzione ai tavoli internazionali, il loro peso diventerà importante invece che marginale». Sulla strategia del presidente Putin approfondita è l’analisi che ci presenta sulle pagine del bimestrale Foreign Affairs (che quest’anno festeggia i suoi primi cento anni!) Angela Stent-Senior Fellow presso la Brookings Institution, ex ufficiale dell’intelligence statunitense e autrice del libro (2019), nell’articolo «The Putin Doctrine. A Move on Ukraine Has Always Been Part of the Plan», nel quale avanza la tesi che l’attuale crisi tra Russia e Ucraina è una vera e propria «resa dei conti» che è stata portata avanti per trent’anni. «Si tratta di molto più dell’Ucraina e della sua possibile adesione alla NATO. Si tratta del futuro dell’ordine europeo creato dopo il crollo dell’Unione Sovietica». Durante gli anni Novanta dello scorso secolo, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno progettato infatti un’architettura di sicurezza euro-atlantica in cui la Russia non aveva un chiaro impegno o interesse, e da quando il presidente russo Vladimir Putin è salito al potere, la Russia ha sfidato quel sistema. Putin si è regolarmente lamentato del fatto che l’ordine globale ignora le preoccupazioni per la sicurezza della Russia e ha chiesto che l’Occidente riconosca il diritto di Mosca a una sfera di interessi privilegiati nello spazio post-sovietico. Ha organizzato incursioni negli Stati vicini, come la Georgia, che sono usciti dall’orbita della Russia per impedire loro di riorientarsi completamente. Putin ha ora fatto un ulteriore passo avanti con questo approccio, sostiene l’autrice, sta minacciando un’invasione dell’Ucraina molto più completa dell’annessione della Crimea e dell’intervento nel Donbass effettuato nel 2014, un’invasione che minerebbe l’ordine attuale e potenzialmente riaffermerebbe la preminenza della Russia in quello che insiste prefigura come il suo posto «legittimo» nel continente europeo e negli affari mondiali (evento che purtroppo, come noto, nonostante gli sforzi della diplomazia occidentale, si è verificato con l’attacco iniziato alle ore 5.45, ora di Mosca del 24 febbraio scorso). Chiamatela pure «la dottrina Putin», suggerisce la Stent, il cui elemento centrale è convincere l’Occidente a trattare la Russia come se fosse l’Unione Sovietica, una potenza da rispettare e temere, con diritti speciali nel suo vicinato, nel suo estero-vicino e una propria voce in ogni seria questione internazionale. La dottrina sostiene che solo pochi Stati dovrebbero avere questo tipo di autorità, insieme alla completa sovranità. Implica la difesa dei regimi autoritari in carica e l’indebolimento delle democrazie. Una dottrina legata invero all’obiettivo generale di Putin: invertire le conseguenze del crollo sovietico, dividere l’alleanza transatlantica e rinegoziare l’accordo geografico che ha posto fine alla Guerra Fredda! Ma la convinzione di fondo di Putin è che l’Occidente abbia ignorato quelli che ritiene «legittimi interessi» della Russia, determinata com’è a riaffermare il suo diritto di limitare le scelte sovrane dei suoi vicini e dei suoi ex-alleati del Patto di Varsavia (in una sorta di riedizione della dottrina brezneviana della «sovranità limitata»), costringendo l’Occidente ad accettare questi limiti, sia con la diplomazia che — appunto — con la forza militare. Gli Stati Uniti, dal canto loro, afferma in conclusione l’autrice, dovrebbero continuare a perseguire con la Russia un dialogo sul doppio binario della diplomazia-deterrenza, cercando di creare un modus vivendi che sia accettabile per entrambe le parti «senza compromettere la sovranità dei

loro alleati e partner». Allo stesso tempo, dovrebbero continuare a coordinarsi con gli europei — che invero ancora una volta si sono presentati all’appuntamento ucraino sempre più in ordine sparso, espressione tangibile di un’Unione che non riesce a pensarsi se non come potenza economica senza tradurla in potere diplomatico e strategico — per rispondere alla sfida russa e onerosi con pesanti sanzioni alla Russia in caso di uso illegittimo della forza (come puntualmente si è verificato!). Il tutto, mentre si rafforza l’asse sino-russo con la dichiarazione congiunta rilasciata da Putin e Xi Jinping in occasione dell’apertura delle Olimpiadi invernali di Pechino, nella quale si accusa — incredibile dictu — la NATO e i paesi occidentali di «destabilizzare» l’equilibrio internazionale, esprimendo la propria opposizione a un ulteriore allargamento della NATO verso est e invitando l’Alleanza Atlantica ad abbandonare i propri atteggiamenti ideologici da Guerra Fredda! Ed è ovvio che quando Xi parla di Ucraina e di NATO pensa in realtà a Taiwan e alla cosiddetta «NATO asiatica», cioè al QUAD (Quadrilateral Security Dialogue) e all’AUKUS (acronimo dei tre paesi firmatari), le due alleanze cioè stipulate tra Washinton con le democrazie asiatiche più Australia e Regno Unito. Uno dei prezzi della crisi ucraina sono infatti i rapporti sempre più stretti tra Mosca e Pechino per contrastare Washington e i suoi alleati su due fronti: l’Atlantico- Mediterraneo e l’Indo-Pacifico, anche se poi di fatto, nella crisi ucraina, Pechino sinora si è mossa con molta cautela. E intanto, come negli anni 50 e 60 del secolo scorso all’epoca di Kruscev, col discorso «incendiario» di Putin del 24 febbraio sulle «conseguenze inimmaginabili» in caso di intervento militare occidentale (al quale ha fatto da accorato pendant quello del presidente ucraino Zelensky) lo spettro dell’uso delle armi nucleari ritorna nel cuore dell’Europa.

«A Maritime Strategy to Deal with China»

USNI PROCEEDINGS, FEBRUARY 2022

La strategia riguarda come mettere a disposizione risorse limitate nello spazio e nel tempo per raggiungere i propri obiettivi contro un possibile concorrente, esordisce con piglio didascalico Thomas G. Mahnken. I suoi elementi essenziali sono la razionalità (l’esistenza di obiettivi politici e un piano per raggiungerli) e l’interazione con un concorrente che cerca, per lo meno, di raggiungere obiettivi diversi. La strategia è sempre «situazionale», nel senso che si sviluppa una strategia contro un particolare avversario. Inoltre, una solida valutazione netta dei relativi punti di forza e di debolezza di un concorrente è fondamentale per qualsiasi strategia di successo. Per il prossimo futuro, lo sviluppo di una strategia per competere con la Cina dovrebbe avere la massima priorità. Qualsiasi strategia per competere con la Cina nel «Pacifico occidentale e oltre» sarà, per definizione, una strategia marittima: le azioni dentro, attraverso e dai mari giocheranno un ruolo centrale. Una strategia che sfrutta la geografia marittima che circonda la Cina, utilizzando una combinazione di forze interne ed esterne al fine di scoraggiare o sconfiggere l’aggressione cinese, è la tesi sostenuta dall’autore, presidente e AD dell’autorevole Center for Strategic and Budgetary Assessments di Washington e membro della National Defense Strategy Commission. Una strategia marittima per la Cina dovrebbe cercare di affrontare i «quattro elementi» del comportamento cinese che sono di maggiore preoccupazione per gli Stati Uniti e i loro alleati. Il primo riguarda l’approccio cinese agli affari esterni, definito «predatorio e corrosivo per gli interessi degli Stati Uniti»; la seconda preoccupazione riguarda l’orientamento geopolitico della Cina che, negli ultimi decenni, ha adottato sempre più un orientamento marittimo, con l’obiettivo di negare la tradizionale forza degli Stati Uniti di proiettare la potenza militare da lontano; la terza preoccupazione, legata alle due precedenti, deriva dalla crescente insoddisfazione della Cina per lo status quo internazionale e, infine, un’ultima ruota attorno al sistema politico interno della Cina, il cui Governo autoritario e il disprezzo per i diritti umani e la libertà personale hanno causato tensioni con gli Stati Uniti e i loro alleati nella regione Asia-Pacifico e oltre. Se la strategia deve concentrarsi su un particolare avversario, deve essere anche estremamente attenta alla geografia, tanto più che le principali preoccupazioni territoriali della Cina — Taiwan, il Mar Cinese Meridionale e il Mar Cinese Orientale — sono molto più vicine a Pechino che agli Stati Uniti. Una strategia marittima dovrebbe cercare di sfruttare la geografia a tutto vantaggio degli Stati Uniti, utilizzando la geografia del Pacifico occidentale per limitare l’accesso della Cina agli oceani aperti in tempo di crisi o in guerra. Vista da Pechino, la Prima Catena di Isole limita l’ingresso cinese nel grande Pacifico e nell’Oceano Indiano, attraverso solo una manciata di Stretti e, quindi, proprio la Prima Catena di Isole oggi dovrebbe essere considerata un’area — chiave che gli Stati Uniti devono controllare con una strategia di pressione marittima basata su due elementi che si sostengono a vicenda: forze interne (con l’impiego di una rete di sensori aerei, marittimi e terrestri per aumentare il controllo situazionale) ed esterne (costituite principalmente da Forze aeree e navali, in grado di fornire un elemento flessibile e agile per supportare le suddette forze interne lungo la First Island Chain e sfidare, all’occorrenza, le forze cinesi nei tempi e nei luoghi che saranno ritenuti più opportuni, massimizzando così la propria efficacia e offrendo, in caso di conflitto, una difesa in profondità anche lungo la Seconda Catena di Isole). Questa, in punto di massima generalizzazione, la proposta avanzata dall’autore, articolata in dettaglio in funzione dei vari scenari ventilati. Il dato più importante che l’arti-

colo pone in risalto è che «Gli Stati Uniti oggi soffrono di un deficit critico nel pensiero strategico sulla sfida più importante dell’era attuale: l’ascesa della Cina e la minaccia che rappresenta per gli interessi degli Stati Uniti nel Pacifico occidentale e oltre — ragion per cui, sostiene l’autore — Affrontare tale deficit è una questione della massima importanza e urgenza».

«L’arte di pensare la guerra» e «Perchè la storia è maestra di vita»

LA REPUBBLICA, 5 E 18 GENNAIO 2022

Gianni Riotta, noto giornalista e scrittore, in un incisivo elzeviro richiama l’attenzione del lettore sull’arte di pensare la guerra, «un’arte che, grazie a Dio, gli europei hanno dimenticato da decenni — anche se — per millenni i nostri antenati hanno vissuto coniugando vita, pensieri, politica e tecnologia, sulla guerra, non sulla pace» in un contesto storico in cui «la cultura dei popoli è stata forgiata dal modo di combattere», per dirla con Hans Delbrück nella sua monumentale Storia dell’ arte della guerra nel contesto della storia politica. Dopo un impressionistico excursus storico, l’autore continua affermando come «nel XXI secolo ci illudevamo, speravamo, che la guerra fosse diventata tabù del passato», ma purtroppo di fronte all’attualità dobbiamo ammettere che non è così. I venti di guerra in Ucraina, Taiwan e nel Sahel ci costringono a un duro esame di coscienza e purtroppo i nostri figli potrebbero vedersi costretti di nuovo a «pensare la guerra» e non bisogna lasciarli impreparati. Quando chiesero a uno stratega tedesco perché lo Stato Maggiore italiano fosse stato sorpreso a Caporetto nel 1917, rispose «perché non studiano Clausewitz!». Di qui una rapida disamina delle crisi attuali che potrebbero portare a un conflitto, tipo l’inasprirsi dei toni di minaccia di Xi Jinping nei confronti dell’indipendenza di Taiwan, la «provincia ribelle», «Putin (che) sa pensare bene alla guerra, (perché) al Kgb, dove si è formato, era materia di studio. Con gli attacchi in Georgia, Siria, Crimea e Ucraina, ha messo l’Occidente sulla difensiva per 22 anni e sa di avere ora il tempo giusto per il raid contro Kiev (e purtroppo proprio così è stato!) — e infine — nel Sahel, dal Mar Rosso all’Atlantico, lambendo milioni di essere umani, sconvolti dal cambio climatico, emigrazione e

guerre civili, i combattenti locali vivono la guerra come solo modo di essere». Sebbene abitualmente non ci si pensi, l’Europa non è mai stata così vicina a essere coinvolta in un conflitto. «Budget militari dell’Unione, eserciti, investimenti, tecnologia, sono temi che noi europei ignoriamo a nostro rischio. Se non torneremo a “pensare la guerra” – è la conclusione dell’autore - sarà la guerra a pensare a noi». In occasione poi del 90° anniversario della nascita di Umberto Eco, celebre semiologo e scrittore di successo, alla ripubblicazione di molte delle sue opere da parte di varie case editrici, il quotidiano romano ci ripropone l’intervento a difesa della storia tenuto dallo scrittore alle Nazioni unite nel 2013 in un appello accorato nel contesto culturale attuale. «I mass media sono principalmente interessati al presente. Accade sempre più spesso che in Italia i giovani (inclusi molti studenti universitari), quando interrogati sui fatti che riguardano, la Seconda guerra mondiale, non sanno come definire personaggi storici come Badoglio, Churchill o Roosevelt — o che pensino (come è realmente accaduto) — che Aldo Moro fosse il leader delle Brigate Rosse. O peggio ancora, non sono in grado di raccontare qualcosa di preciso su eventi avvenuti dieci anni prima della loro nascita. Purtroppo, una tale perdita di memoria si sta verificando anche nel mondo degli eruditi». Non ignorare la storia ci permette di «non reinventare continuamente l’acqua calda» nella vita quotidiana, nel mondo della cultura e nelle grandi decisioni strategiche. Se Hitler avesse letto qualcosa su Napoleone — ci ricorda Eco — o almeno Guerra e Pace di Tolstoj, avrebbe compreso che è piuttosto difficile per un esercito conquistare Mosca prima dell’arrivo dell’inverno, spingendo così i russi a venire a patti. Parimenti se il presidente Bush jr. avesse letto racconti storici documentati sui tentativi inglesi e russi di vincere una guerra in Afghanistan, avrebbe sospettato che quel paese presenta molte caratteristiche orografiche e sociali che rendono assai difficile sottometterne il territorio. E allora? Il vecchio detto «historia magistra vitae» è molto più serio e attuale di quanto comunemente si pensi, visto che nessuna «civiltà» (nel senso più profondo del termine) può sussistere e sopravvivere senza una memoria collettiva.

Ezio Ferrante

RECENSIONI E SEGNALAZIONI

Giancarlo Elia Valori (a cura di)

Intelligenza artificiale tra mito e realtà

Motore di sviluppo o pericolo imminente?

Rubbettino Editore Soveria Mannelli (CZ) 2021 pp. 207 Euro 17,10

Il professor Giancarlo Elia Valori non ha di certo bisogno di presentazioni alcune (1), essendo egli uno dei grandi protagonisti della geopolitica contemporanea. Il libro è impreziosito da due autorevolissime prefazioni di altrettanti chiarissimi professori universitari come Oliviero Diliberto (2) e Sergio della Pergola (3); mentre una introduzione è stilata da Pasquale Forte (uno dei maggiori esperti, se non forse il massimo esperto, di Intelligenza Artificiale).

Al fine di dare contezza al lettore, la struttura della monografia appare suddivisa de facto in tre parti come segue.

Una prima parte è costituita da brevi capitoli di natura prettamente storica e come tali introducono alla tematica, partendo dagli esordi dell’informatica fino all’alba dell’Intelligenza Artificiale (in sigla ormai nota come «AI»). Così abbiamo, in sequenza: cosa è l’intelligenza artificiale. Come si è passati dal computer veloce ma «stupido» alle reti neurali (pp. 25-29); storia. Alan Turing e il problema dell’Imitation Game (pp. 31-35); come si sviluppa l’Intelligenza Artificiale nell’ultimo mezzo secolo (pp. 37-41); il Machine Learning può sostituire il cervello umano? (pp. 43-48); l’algoritmo definitivo e il Reverse Engineering (pp. 49-52); il Machine Learning nel gioco dell’imitazione (pp. 5360); il percorso evolutivo dell’Intelligenza Artificiale (pp. 61-67); dall’Intelligenza Artificiale debole all’Intelligenza Artificiale forte. Dal Machine Learning al Deep Learning (pp. 69-75).

Una seconda parte si incentra su come l’Intelligenza Artificiale sia declinabile nei suoi vari aspetti. L’autore parte da un quadro generale di riferimento (intitolato Lo stato dell’arte. Le principali applicazioni contemporanee dell’intelligenza artificiale, pp. 77-92), per poi scendere nel dettaglio con i capitoli che successivi, quali: l’Intelligenza Artificiale nell’intelligence e nella previsione dei fenomeni sociali e politici (pp. 93-130); la nuova frontiera: il Quantum Computing (pp. 131-138); la geopolitica dell’Intelligenza Artificiale (pp. 139-144); il domani della geopolitica: l’Intelligenza Artificiale e la Cina (pp. 145-160). In breve, questi capitoli illustrano le ricadute geopolitiche dell’AI, con particolare riferimento alla Cina, che si propone di diventare leader nel settore, sfidando così ancora una volta, l’egemonia statunitense nel settore.

Segue quindi una terza parte che si potrebbe definire come conclusiva; in essa l’autore afferma apertamente la sua con due «capitoli» intitolati: abbiamo un quadro del presente. E il futuro? (pp. 161-176); dal gioco dell’imitazione al gioco della sostituzione (pp. 177-188).

Ma il libro non termina qui; in fatti l’autore offre al lettore tre interessanti «Appendici»: cyberspazio e politica mondiale (pp. 189-194); intelligence e geopolitica del dopo-Afghanistan (pp. 195-200); l’egemonia della conoscenza e il nuovo ordine mondiale. Gli USA e il resto del mondo (pp. 201-206). Quindi il volume termina con una bibliografia (p. 207).

Leggendo questa fatica del professor Valori si ha subito l’impressione che questa non sia una semplice monografia su un tema così affascinante, bensì un vero e proprio manuale, il cui merito, è quello di introdurre il lettore — con un linguaggio semplice e accessibile — a temi quanto mai rilevanti e complessi. Ancora una volta Giancarlo Elia Valori colpisce nel segno, anzi nel segno dei tempi, poiché realizza una vera e propria bussola d’orientamento. Parimenti, vi è un sottile fil rouge che sembra legare tutti i capitoli, ovvero la dimensione geopolitica che l’AI sottintende e attua. In poche parole questo libro

ci fa comprendere come lo «spazio» dell’AI sia oggi al centro degli interessi delle grandi potenze e come questa competizione sia appena iniziata, ma i cui effetti segneranno il futuro dell’umanità senza ombra di dubbio alcuna. Il testo è quindi una sorta di vero e proprio «caleidoscopio» (per riprendere una immagine citata da Oliviero Diliberto nella sua prefazione) che aiuta a comprendere cosa sia l’AI e quali siano gli impatti, le dinamiche e anche i pericoli.

Il presente libro esprime un vero e proprio percorso, direi di apprendimento, di informazione, in una parola di conoscenza dello «stato dell’arte». Ma soprattutto è un libro che «svela» il significato etico che l’AI dovrà necessariamente avere. Questa infatti non è più un mito, ma una realtà, seppur in fieri, con cui andremo a confrontarci sempre di più nei prossimi anni (teniamo presente che l’AI è già nella nostra vita, si pensi per esempio al mondo finanziario). Dunque, in merito alla dimensione etica, l’autore osserva che: «Un uomo agisce perché “lo vuole”. Una macchina si attiva, lavora e agisce in funzione di un preciso risultato perché gli viene ordinato» (p. 183). Questo mi sembra l’intimo senso, o meglio il limite, dell’AI che tutti dovranno tenere presente. Infatti poche righe più avanti l’autore conclude che: « (…) l’intelligenza artificiale è e resterà “al servizio” dell’uomo e non sarà mai una minaccia se usata correttamente dall’uomo. Potremo insegnare a un drone a uccidere un uomo. Ma non saremo mai capaci di insegnargli a provare rimorso o a pentirsi di quello che ha fatto. La differenza è e resterà tutta qui» (p. 186).

Giancarlo Elia Valori si conferma, ancora una volta, come un autore con la «A» maiuscola e la Rivista Marittima esprime particolari felicitazioni e rallegramenti per questa sua ultima fatica. Questo è un libro che coglie, ancora una volta, i problemi della contemporaneità ma che guarda al futuro. Un futuro in cui tale tecnologia e scienza sarà sempre più impattante sulle vite di tutti e con essa egli ci ricorda il monito — ovvero il limite — che è e deve essere etico, senza il quale ogni cosa umana (dall’accensione del fuoco all’energia atomica) può diventare elemento distruttivo per l’umanità stessa.

Danilo Ceccarelli Morolli

NOTE

(1) A titolo di cronaca (e in modo molto succinto), egli è Honorable de l’Academie des Sciences de l’Institut de France; Vice Presidente dell’Istituto Weizmann di Parigi; membro dell’Advisory Board School of Business Administration College of Management di Israele. Parimenti egli è: Cavaliere del Lavoro della Repubblica Italiana e Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine del Merito della Repubblica Italiana; Ufficiale della Legion d’Onore (Francia); Cavaliere di Gran Croce al Merito Melitense (SMOM). (2) Ordinario dell’Università «Sapienza» di Roma, è stato ministro di Grazia e Giustizia (1998-2000); dal 1999, insieme al prof. Sandro Schipani, è stato fautore dell’ingresso del diritto romano nella Repubblica Popolare Cinese; attualmente è anche preside dell’Istituto Italo-Cinese oltre che della facoltà di Giurisprudenza dell’Università «Sapienza», nonché direttore del Corso di alta formazione in diritto romano e diritti dell’antichità (sempre presso la predetta università). (3) Professore emerito di studi sulla popolazione dell’Università Ebraica di Gerusalemme.

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