QUI FINANZA DI MICHELE RUSSO
CARO BOLLETTA. CHE FARE? IL 2 DICEMBRE 1973 GLI ITALIANI FANNO CONOSCENZA CON L’AUSTERITY. Con lo scopo di limitare i consumi di materie prime energetiche, viene disposto il fermo del traffico privato nei giorni festivi. Potevano circolare solamente i mezzi pubblici, quelli con targa militare e (ovviamente) i mezzi non a motore. I bar chiudevano prima e la televisione (ai tempi esistevano solamente i due canali Rai) interrompeva le trasmissioni in anticipo. Il canale di Suez era chiuso dal 1967 (riaprirà solo il 5 giugno 1975) a seguito della guerra dei sei giorni e l’Opec (l’organizzazione che raggruppa i paesi produttori di petrolio, di fatto, il loro cartello) aveva unilateralmente deciso un incremento dei prezzi del greggio a cui l’occidente reagisce con l’austerity che va avanti fino all’ aprile 1974 (circolazione a targhe alterne) per poi cessare definitivamente nel successivo mese di giugno. Ha funzionato? In parte. Senza dubbio i consumi privati sono stati contenuti mentre poco è successo dal lato dell’industria. Un paese manifatturiero e privo di materie prime energetiche non può fermare le sue imprese; può fermare solo le sue auto private.
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OGGI C’È UNA
GUERRA i prezzi dell’energia salgono e pare che la soluzione “austerity” sia ancora in voga: controllare la temperatura della doccia e, dopo essersi lavati con l’acqua fredda, pensare “Putin prenditi questo!”. Non è uno scherzo; è la posizione di un politico europeo di altissimo livello. Lo stesso personaggio, in una recente intervista al quotidiano tedesco Handelsblatt, ha dichiarato che gran parte dell’industria europea si basa su “energia a bassissimo costo dalla Russia, lavoro a bassissimo costo dalla Cina e semiconduttori altamente sovvenzionati da Taiwan”, concludendo che l’Europa (ma anche il resto del mondo, si potrebbe aggiungere) è stata “avida”. Le cose, come si può facilmente immaginare, sono un po’ più complesse e uno scenario di inflazione permanente non è certo auspicabile.
Partiamo da una fotografia della situazione. Il gas non serve solamente per fare una doccia calda e per riscaldarci durante la stagione fredda. È una componente importante della nostra “bolletta energetica” in quanto viene usato nelle centrali di produzione. Quindi, per suo tramite, forniamo energia alle aziende ed alle famiglie.
IL CONSUMO DI GAS NEL 2020 È STATO DI 71 MILIARDI DI METRI CUBI, VALORE LEGGERMENTE SALITO NEL 2021 (76 MILIARDI DI METRI CUBI). Di questo ammontare, solo il 4,3% deriva da produzione nazionale, tutto il resto è importato. I due più grossi importatori sono (ovviamente attraverso le loro imprese statali, Gazprom e Sonatrach) la Russia (38,1%) e l’Algeria (27,8%) che, sommate, totalizzano la considerevole cifra del 65,9%. Seguono, a buona distanza, il Quatar e l’Azerbaigian (ambedue con il 9,4%). Dai rigassificatori (gli impianti che riportano allo stato gassoso il materiale precedentemente liquefatto per consentirne il trasporto via mare) viene solamente il 3,3% del fabbisogno. Quindi, uno stato dei fatti in cui il nostro fabbisogno è soddisfatto in maniera determinante da due soli fornitori. Non una situazione ottimale; qualsiasi imprenditore potrebbe obiettare che la platea di fornitori di una commodity dovrebbe essere il più diversificata possibile così da evitare, tra l’altro, l’esposizione al rischio di impossibilità di approvvigionamento da parte di uno di essi per motivi anche di natura geopolitica (come potrebbe avvenire a causa del conflitto in Ucraina).
IL SISTEMA NAZIONE È STATO SPROVVEDUTO? Per fare una corretta valutazione dobbiamo ricordare due date: l’undici dicembre del 2001 la Cina aderisce alla World Trade Organization; lo stesso accade per la Russia esattamente dieci anni più tardi (il diciassette dicembre 2011). Quindi, un grande paese con accesso illimitato ad energia a basso prezzo (e, non dimentichiamo, con la possibilità di esportarlo facilmente tramite gasdotti) ed uno ancora più grande con il costo del lavoro estremamente contenuto, competono direttamente con le nostre imprese sul mercato mondiale. La risposta, a meno di perdere competitività e, a seguire, reddito e posti di lavoro, non poteva che essere quella di cercare di contenere al massimo il costo delle materie prime energetiche e di trasferire nei paesi a basso costo quella quota di lavoro che rappresenta la parte meno pregiata della catena del valore. Decisioni più di politica industriale che monetaria, di cui il contenimento dell’inflazione rappresenta, forse, un effetto collaterale. La guerra in Ucraina cambia, ovviamente, lo scenario sia nel breve sia nel lungo periodo. Sempre con l’auspicio che le armi tacciano al più presto e che si possa arrivare ad una pace negoziata, bisogna prendere atto che il nostro principale fornitore di energia è diventato, improvvisamente
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e abbastanza inaspettatamente, geopoliticamente instabile. Nel secondo (l’Algeria) ad aprile del 2019, dopo una serie di moti di piazza i cui slogan erano “devono andare via tutti” (riferito ai politici) e “il paese è nostro e facciamo quello che vogliamo”, il governo ventennale del presidente Bouteflika è terminato. Insomma, non proprio una tranquilla democrazia scandinava.
CHE FARE
?
Nell’immediato non esistono soluzioni che non passino attraverso la conferma dello “status quo”. Il gas russo non è facilmente sostituibile, men che meno da quello algerino la cui capacità di estrazione è già quasi ai massimi. Quindi, la risposta di breve periodo non può che essere quella di adoperarsi per mantenere il più possibile stabili le forniture e sussidiare imprese e famiglie in caso di shock di prezzo importanti, anche tramite l’imposizione del prezzo fisso al consumatore, come accadeva per la benzina fino a qualche decennio fa. La tassazione degli extraprofitti in capo alle società petrolifere potrebbe non rappresentare una soluzione in quanto la definizione di extra profitto è, di per sé, labile e la Corte Costituzionale ha, in passato ed in riferimento ad altri contesti, espresso dei dubbi sullo strumento (sentenza numero 10 del 2015). Nel medio periodo sarà opportuno, indipendentemente dall’esito del conflitto in Ucraina, cercare di diversificare la platea dei fornitori. La produzione nazionale (che oggi conta per il 4,3% del totale) potrebbe essere spinta fino al 10%; un aiuto anche importante ma non decisivo. Il ricorso al gas liquefatto (LNG) rappresenta nel mix attuale il 3,3%. Certamente è una quota che può essere incrementata ma è decisamente più costoso di quello che riceviamo pronto all’ uso nei terminali dei gasdotti di Mazara del Vallo (dall’Al-
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geria via Tunisia) e di Tarvisio (dalla Russia). Ancora una volta: può essere un’alternativa (non decisiva per le quantità) ma molto più onerosa per i consumatori finali.
E QUINDI? Ai media è sfuggito un fatto piuttosto significativo avvenuto lo scorso 19 Maggio. Un gruppo di parlamentari europei, congiuntamente a dei membri del Congresso e del Senato degli Stati Uniti, hanno firmato una lettera alla Presidente von der Leyen ed al Presidente Biden richiedendo con forza una spinta decisiva verso le rinnovabili e l’efficientamento energetico. La lettera, per parte americana, è firmata dal senatore Sanders (noto per essere stato protagonista delle ultime primarie del partito democratico), dalla senatrice Warren (autorevole candidata alla presidenza) e da nomi che dicono poco al grande pubblico italiano ma che rappresentano la “via giovane” del progressismo U.S.A. (Alexandria Ocasio-Cortez, Ilhan Omar). Un atto squisitamente politico ma che indica la via per il futuro: una decisa spinta alle rinnovabili e all’ efficientamento energetico, unica fonte energetica di un paese senza risorse e unica strada per evitare quella che Draghi, in un discorso alla Bocconi dello scorso 25 maggio, ha definito “sottomissione per dipendenza energetica”; verso la Russia e verso qualsiasi paese straniero.