I.QUALITY n.34

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IT z 10,00 - AUT e 15,00 - BE e 15,00 - D e 19,00 - PTE CONT. e 14,00 - E e 14,00 - UK £ 10,00 - USA $ 20,00

COVER STORY Giuggiù di Angela Caputi VIAGGI DEL TUCANO Uzbekistan GREAT EXHIBITION Diana Vreeland DESIGN Baroni FOOD COUTURE Grana Padano SICILY FOOD&WINE Saro D’amico ed Enzo Alagna

ANNO VI - N° 34 - Marzo/Maggio 2012 doppio numero e 10,00 - Bimestrale




CONTENTS 6

Parola di Presidente

I GRANDI VIAGGI DEL TUCANO VIAGGIO IN UZBEKISTAN. ALLA FIERA DELL’EST «…nelle città delle trecento moschee e delle cento madrase, mi accoglie ancora la voce di Ibn-sina… e la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano… » Di Cristina Bava

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QUALITY TRAVEL

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FOOD COUTURE

I CAMPI FLEGREI: GLI INCANTI E I SAPORI DELLA TERRA ARDENTE Di Giancarlo Roversi CIPRO Di Lamberto Selleri

UN FIRMAMENTO DI STELLE PER GRANA PADANO Di Roberta Filippi IL MONDO LATINI Di Roberta Filippi

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WINE COUTURE

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SICILY FOOD&WINE

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COVER STORY

ANGELO SABBADIN Di Roberta Filippi

SARO D’AMICO E ENZO ALAGNA AMBASCIATORI DEL BUON GUSTO DI MARSALA E PANTELLERIA Di Giancarlo Roversi

ANGELA CAPUTI GIUGGIÚ Di Antonio Bramclet

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GREAT EXHIBITION

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NEW BRAND

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DESIGN

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CHARITY

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REPORTAGE

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ECO FRIENDLY

DIANA VREELAND AFTER DIANA VREELAND Una grande mostra organizzata a Palazzo Fortuny 10 marzo- 26 giugno 2012 (Venezia) da Judith Clark e Maria Luisa Frisa permette per la prima volta in Italia di ammirare la genialità, le scelte editoriali e curiatoriali di una delle donne più importanti della moda del novecento. Di Lamberto Cantoni

D’ALMA Il romanzo di una Collezione Di Federica Melani

GIORGIO BARONI. CASA: FORME E COLORI Di Claudia Pelizzari

TIBET, DUEPUNTI DI VISTA Di Francesca Flavia Fontana

ISRAELE: 64 anni di vita con 4000 anni di storia alle spalle Di Lamberto Selleri

SICURLIVE GROUP. Con la vita non si scherza. Di Anna Serini

182 Ovunque mi porti la cucina di Daniele Bendanti Di Blue G.

186 IL POTERE DELLA FOTO DI MODA Di Lamberto Cantoni

La nostra struggle of life quotidiana La struttura dei dati definitivi riguardo l’economia degli ultimi mesi non è ancora disponibile. Tuttavia da ciò che si è letto sulle vendite natalizie, possiamo dire che in generale il mercato in Italia non sembra funzionare bene. Fanno eccezione pochi privilegiati settori. A ciò si aggiunge la pressione fiscale più alta che il nostro Paese abbia mai avuto. Direi che non abbiamo nessun motivo per guardare al futuro con fiducia. Le aziende soffrono, la comunicazione pubblicitaria ristagna o prende l’autostrada delle TV, il consumatore si nasconde. Insomma dopo le crisi del 2001 e del 2007/2009 ci ritroviamo in una recessione che sembra non finire mai, responsabile di avere buttato fuori dal mercato migliaia di aziende. In un contesto così drammatico, ce la faranno le aziende veramente complete. Brave cioè a coprire tutti gli aspetti dell’efficienza aziendale: la creatività, il marketing, la finanza, la distribuzione, la vendita, la cura del cliente. Aggiungerei una ulteriore qualità che a mio avviso dovrebbero evidenziare le aziende che ci faranno uscire dall’inferno della crisi: nuovi modi per contattare i clienti, che significa soprattutto, nuove strade per la comunicazione pubblicitaria. Io penso che il vecchio modo di pianificare le risorse disponibili sia stato estinto dalla duplice tenaglia crisi – web. Il consumatore oggi non subisce più passivamente le pubblicità devastanti del passato. Fugge sistematicamente dai programmi, dai media che propongono ancora la vecchia ricetta “maggiori quantità della stessa soluzione”. Anche in questo campo emergeranno le aziende creative, capaci di rovesciare le regole del gioco e di inventarsi la comunicazione là dove nessuno si aspetta di trovarla. Io con I.Quality penso di andare nella direzione giusta. Più che informazioni a me piace proporre al lettore delle narrazioni. Nelle narrazioni ho sempre trovato umanità, genialità e bellezza. E’ chiaro che si tratta di narrazioni minime a forte dominante visiva, ma pur sempre capaci di farci cogliere l’emozione di un prodotto, di un personaggio, di una azienda. Ma anche con le idee giuste se non si rispettano le altre variabili del mercato editoriale la strada per il successo oggi si è fatta molto stretta. Per chi lavora con la carta stampata nel 2012 sarà sempre più difficile reperire le risorse per finanziare la crescita del proprio prodotto. E mi sembra di capire che i lettori comincino ad avere il fiato molto corto. Fur di metafora, tra tasse e aumenti indiscriminati del costo di tutti i beni primari (benzina, acqua, luce, gas), la voglia di prendersi un prodotto editoriale bello e costoso forse si trova rinviata a data da destinarsi. C’è da chiedersi che razza di vita sia quella incatenata alla soddisfazione dei beni primari. La risposta chiedetela ai Professori al Governo che hanno spinto il Paese nelle paludi della recessione. Per quanto mi riguarda ho fiducia che comunque vada una attenzione per la bellezza e la creatività, seppur accerchiate dal realismo dei numeri, rimarrà come telos di molte persone. Sarà grazie alla loro voglia di continuare a sognare che usciremo dalla crisi.

190 Dalla storia di antiche Maison francesi che aprono nella città eterna, al futuro della moda ‘Made in Rome’. Di Fabiola Cinque “Formaggio in Villa”. La nobilitazione del formaggio. Di Roberta Filippi

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Giovanni Pacciotti PRESIDENTE DI I.QUALITY

Antonio Bramclet, Roberta Filippi

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I GRANDI VIAGGI DEL TUCANO

Viaggio in Uzbekistan Alla fiera dell’Est

«…nelle città delle trecento moschee e delle cento madrase, mi accoglie ancora la voce di Ibn-sina… e la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano… » Di Cristina Bava

Khiva, le spettacolari mura di argilla che cingono la città foto di Carla Milone

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Samarcanda, la medersa di Sher Dor che si affaccia nel Registan, la “Piazza della sabbia” foto di Angelo Tondini

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da sinistra: Corsa di cavalli durante il tradizionale Kupkari, Bukhara, l’ora della preghiera di fronte alla moschea del Venerdì, Veduta della struttura urbana di Khiva dall’alto di un minareto; foto di Carla Milone

Il cavallo morde il freno, la bocca schiumante, e strabuzzando gli occhi galoppa a precipizio verso la tribuna; poi si arresta in una nuvola di polvere, tra le grida eccitate dei cavalieri che si affollano intorno in una mischia rumorosa e folle. Arrivano frustate che fanno scartare gli animali per allontanarli dalla preda, e i cavalli si scontrano continuamente formando e scogliendo gruppi in nuvole di energia pura, violenta, ancestrale. Come in un dipinto di Paolo Uccello, ma qui i cavalieri non incrociano le lunghe lance, non c’è clangore di armi, ma scambio di sguardi complici e fieri: non è la Battaglia di San Romano, è piuttosto la Caccia Notturna. Non c’è minaccia nelle movenze, è simulazione di una guerra; non correrà sangue ma seguirà una festa in onore del vincitore che sarà riuscito a conquistare la preda contesa, una carcassa di montone. Siamo al kupkari, un gioco maschio e violento, che in Uzbekistan è sport nazionale e in Afghanistan si chiama buskashi. Pare di assistere ad una giostra medievale, ad un torneo a cui Timur-i-lang, il Grande Emiro Tamerlano forse partecipava, sognando l’impero che presto avrebbe creato sottomettendo i popoli dal Mediterraneo all’India. Del resto un viaggio in Uzbekistan è per certi versi un salto indietro nel tempo che ci porta ad attraversare deserti di onirica immensità, lungo i fiumi e le terre che nutrirono gli antichi imperi, verso città meravigliose che hanno inciso la storia degli uomini. I nomi di Samarcanda, Khiva, Bukhara, misteriose e fascinatrici carovaniere lungo la “via della seta”, si insinuano nel nostro cuore quasi con un brivido, e richiamano alla mente non già città di palazzi e di strade, I.QUALITY • 10

ma luoghi quasi immateriali, inaccessibili e lontani; città-guida lungo un tracciato che conduce, di carovana in carovana, di mercato in mercato, verso oriente, verso la favolosa Xi’an, dove il prezioso filo di seta veniva convogliato dalle regioni vicine ed iniziava il suo percorso naturale, da oriente verso occidente. Samarcanda evoca più di un’emozione. Il suo nome ha indicato per secoli i limiti della geografia conosciuta. Sede di un impero che sfiorò con il suo terrore l’Europa, Samarcanda nel VI secolo prima della nostra era fu Maracanda, capitale di un popolo iraniano, i sogdiani, raffinato e colto. Conquistata dagli Arabi nel 712, distrutta dalle orde di Gengis Khan nel 1220 risorse con il sanguinario Tamerlano, che la popolò di artisti ed artigiani, matematici e letterati, calligrafi persiani fatti prigionieri nella varie parti dell’impero, che trasformarono questa città di fango in un tripudio di colori, per essere lo specchio del mondo, la prima città dell’Asia. Di quella che un tempo era stato il centro del mondo, ora non restano che le architetture spettacolari delle mederse e dei minareti, palcoscenici di un’antica spiritualità. Il mattone interseca con i suoi toni caldi il turchese, il blu intenso, il morbido giallo delle piastrelle che decorano le belle cupole innervate, mentre i loro intradossi e i capitelli a mukarna – il caratteristico nido d’ape islamico – riecheggiandosi reciprocamente, non sono fatti per sostenere pesi materiali, ma solo il colore del cielo. Lo sguardo indugia sulle geometrie labirintiche e cerebrali delle maioliche e nel golfo d’ombra creato nei grandi iwan delle mederse: è il rinascimento timuride, che ha attraverato i secoli. I.QUALITY • 11


Khiva, la regina del deserto, architetture in mattone e pisé e superbe maioliche foto di Angelo Tondini

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Buchara è la più misteriosa e fascinatrice delle città carovaniere che la Via della Seta nutriva lungo il suo percorso. Attraverso le sue porte transitavano verso est ambra, miele e pellicce, cavalli e vetro, mentre seta, gioielli e giada vi giungevano da oriente per essere quindi risospinti verso il ricco Mediterraneo. Era la fine del X secolo, l’epoca d’oro di Buchara, quando la forza vivificatrice della cultura persiana richiamò intorno alla sua corte letterati e sapienti, matematici e geografi: al-Biruni, che calcolò il raggio della terra, il poeta Rudaki, lo scienziato Idn-Sina, Avicenna, che scrisse duecentoquarantadue trattati scientifici che rimasero per secoli come testi capitali nell’Europa cristiana. Non c’è che un edificio risalente ai tempi più antichi, a Buchara, sopravvissuto alla distruzione di Gengis Khan: il minareto di Khalan, un tessuto di terracotta risparmiato per i suoi cinquanta metri di altezza, sì da diventare punto di orientamento per le carovane durante i loro viaggi notturni. Alla dinastia di epoca shaybanide, del XVI secolo, appartiente la maggior parte dei monumenti di Buchara, la città dei caravanserragli, delle università coraniche, dei mercati coperti, degli splendidi pilastri tortili decorati di maioliche e delle cupole turchesi, che inondano il cielo con il loro blu di Persia… Verso Sud, oltre il grande deserto di Kara Kum, la città morta di Nisa, con i suoi bastioni alti venti metri, era capitale dell’impero dei Parti, distrutta dai mongoli, ora giace inghiottita dalla terra, che si impadronisce dei suoi contorni. Nel cuore di un deserto ostile, l’oasi di Khiva è come un miraggio. Il suo rinascimento coincide con il secolo XVI e con la dinastia shaybanide, che concepì un khanato indipendente da Buchara, e Khiva ne divenne la capitale. Mercanti d’Asia, di Persia e d’Arabia, ne fecero la ricchezza, artisti ed artigiani ne dichiararono l’unicità: spettacolari sono le sue architetture in mattone e pisé, superbe le sue maioliche, rigorosamente bianche e blu. Intrepidi mercanti, viaggiatori ed esploratori hanno percorso il cuore dell’Asia Centrale e noi lo sentiamo ancora pulsare, ne sentiamo la forza vitale che nei secoli ha lasciato tracce ovunque, arricchendo di nuove cognizioni e sapienza l’Asia come l’Europa.

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IL NOSTRO VIAGGIO Uzbekistan – Lungo le vie dei mercanti

Samarcanda, sontuosi arabeschi e labirintiche geometrie foto di Angelo Tondini

GIORNO PER GIORNO … 1° giorno: Italia – Tashkent 2° giorno: Tashkent – Urgench – Khiva 3° giorno: Khiva - Bukhara 4° giorno: Bukhara 5° giorno: Bukhara – Sachr-i Sabz - Samarcanda 6° giorno: Samarcanda 7° giorno: Samarcanda – Tashkent 8° giorno: Tashkent - Italia

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I colori del mercato a Samarcanda foto di Angelo Tondini

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Il Tucano Viaggi Ricerca propone un’ampia scelta di viaggi in Asia e in Oriente, presentati nei cataloghi India; Tibet, Mongolia e Paesi Himalayani; Medio Oriente, Asia Centrale e Cina; Lontano Oriente e Giappone. Il Tucano Viaggi Ricerca Piazza Solferino 14/G 10121 Torino – Tel. 011 561 70 61 info@tucanoviaggi.com www.tucanoviaggi.com

Mederse e minareti sul palcoscenico del Registan, nel cuore di Samarcanda Archivio Il Tucano

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QUALITY TRAVEL

I CAMPI FLEGREI: GLI INCANTI E I SAPORI DELLA TERRA ARDENTE

Di Giancarlo Roversi

«I dintorni di Napoli sono i più meravigliosi del mondo. La distruzione e il caos dei vulcani inclinano l’anima a imitare la mano criminale della natura... «Noi - dissi alle mie amiche somigliamo a questi vulcani e le persone virtuose alla monotona e desolata pianura piemontese.» (Donatien Alphonse François de Sade)

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Gli italiani, come ripeteva un ritornello del Ventennio molto amato dal Capo, sono un “popolo di poeti, inventori, santi e di eroi” ma anche di “navigatori”, ossia di instancabili viaggiatori. Tutti animati dall’insaziabile sete di scoprire il mondo e le sue meraviglie, sia della natura che della creatività umana. E di conoscere la gente che lo affolla, i suoi costumi, le sue tradizioni, i cibi di cui si nutre. Non per nulla gli Italiani si sono distinti dall’antichità fino ai nostri giorni come grandi valicatori degli oceani alla scoperta di nuove terre o come esploratori dei continenti vicini e remoti. E anche come protagonisti dei grandi viaggi della mente sgorgati da una messe illustre di filosofi, letterati, scienziati, pensatori, filantropi. Ma questo è un altro discorso. Anche oggi gli Italiani amano vedere quanto di bello e di emozionante si cela negli altri Paesi e vanno in deliquio di fronte ai superbi templi indù, alla Grande Muraglia cinese, alle Piramidi egizie o Azteche, alla Reggia di Versailles, al Partenone, ai megaliti di Stonehenge. Il guaio è che molti ignorano che meraviglie altrettanto intriganti e sbalorditive le teniamo in serbo in casa, nella nostra Italia, scrigno ineguagliabile di tesori lasciati dall’armoniosa sedimentazione delle civiltà che si sono succedute nella Penisola durante i secoli e che tutti ci invidiano. Vere e proprie mirabilia che non provano alcuna soggezione rispetto alle meraviglie consacrate all’odierno turismo di massa e che vennero celebrate con stupore anche dai viaggiatori stranieri del Grand Tour, calati in Italia dal secolo XVII alla metà del XIX. Come i Campi Flegrei, la terra del mito, inquieta e ardente, a nord di Napoli, situata in

Agnano, le “Terme Puteolane” a Pozzuoli e le antiche “Stufe di Nerone” (I sec. d.C.) a Lucrino, già Terme Silviane (da non perdere una sosta nel sottostante “Lido Nerone – Lo scoglio” dove è possibile immergersi nelle acque roventi in apposite vasche installate sulla spiaggia. Insomma non tutto ma di tutto...se il Paradiso non è questo poco ci manca.

quella che gli antichi romani avevano battezzato Campania Felix, per esprimere l’incanto di un ambiente unico. “La regione più meravigliosa del mondo col terreno più infido sotto il cielo più puro”: così descrive i Campi Flegrei il grande Johann Wolfgang Goethe che vi mise piede nel 1787. Una regione che mantiene intatto il suo appeal e che ogni italiano dovrebbe visitare.

Proprio a causa dei fenomeni vulcanici la zona venne chiamata “Campi Flegrei”, ossia ardenti (da flègo=brucio). Ad affibbiare il nome furono i greci, i quali credevano che nel sottosuolo vivesse il dio del fuoco mentre gli antichi romani legarono a questa terra miti dell’oltretomba immaginando che qui, nella caldera vulcanica del Lago di Averno,vi si aprisse l’ingresso all’Ade, il mondo degli inferi, mentre il Lago di Lucrino era considerato la palude dell’Acheronte dove, si credeva fossero stati sepolti i Titani sconfitti dagli Dei dell’Olimpo dopo una drammatica battaglia che causò violentissimi terremoti nel bacino del Mediterraneo.

Qui i patrizi dell’antica Roma venivano a fare le cure termali Tutti conoscono Napoli e il suo fascino ineffabile, ma dopo una sosta nel suo clima umano elettrizzante basta fare pochi km per immergersi in un ambiente favoloso, inimmaginabile: un cocktail inebriante di attrattive, naturalistiche, archeologiche, storiche, paesaggistiche che si amalgamano felicemente fra loro. Un luogo di delizie intense, ieri come oggi, e che quindi merita un soggiorno mirato, ma senza la fretta inculcata dal turismo di massa, bensì con la lentezza del Grand Tour per coglierne tutte le vibranti emozioni ambientali, culturali e socioantropologiche. Senza dimenticare di gustare la suadente tradizione gastronomica locale, che affonda le sue radici nell’età greco-romana, e i sapidi vini carichi di energia vulcanica. Per poi abbandonarsi al relax procurato dalle escursioni sulla riva del mare o dei laghi vulcanici ma anche dai trattamenti di benessere nelle stazioni termali flegree, già frequentate dai ceti benestanti della Roma imperiale per le loro virtù terapeutiche: quelle di Baia, di

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La Solfatara di Pozzuoli: benvenuti sulla Luna, ma attenzione a dove mettete i piedi ! Per una full immersion in questa terra dal fascino sottile venato di mistero è di rigore la visita alla grande Solfatara di Pozzuoli, un ambiente piacevolmente terrificante che evoca suggestioni infernali dantesche a causa delle emissioni sulfuree a 160° che esalano dal suolo e della fanghiglia bollente (attenzione a dove si posano i piedi !). E mentre uno si aspetta di vedere uscire da un anfratto un’inquietante schiera di demoni falciuti, si trova di fronte l’abile cuoco di un vicino ristorante che arrostisce su una graticola dell’ottimo pesce spargendo per l’aria deliziose fragranze, che contribuiscono ad attenuare la tensione emotiva e a stimolare l’appetito. Anche perchè un sistema di cottura più ecologico di questo non esiste, ma anche economico perchè favorisce il risparmio energetico ! La Solfatara ha fatto da avvincente scenario ad alcuni famosi film di Totò, tra cui Totò all’inferno e 47 morto che parla, come pure alle sequenze vulcaniche per il film Live in Pompei dei Pink Floyd.

Il “supervulcano” più grande e minaccioso d’Europa (ma per fortuna sonnecchia) Tutta l’area flegrea, che si estende anche sotto il mare, verso le isole di Capri e Ischia, e comprende almeno 24 fra crateri e impianti vulcanici, nel suo complesso costituisce un “supervulcano”, ancora attivo seppure a livello secondario con fenomeni di emissioni gassose ed effusive e di bradisismo. Un “supervulcano” potenzialmente molto pericoloso perchè quando magma e acqua si uniscono, si possono avere effetti di gran lunga più devastanti rispetto a quelli prodotti da una eruzione famosa come quella del non lontano Vesuvio che distrusse Pompei. A parere degli scienziati un improvviso risveglio di questo mostro sonnolento potrebbe provocare problemi all’intera Europa in quanto avrebbe una potenza di duecento volte superiore a quella del vulcano islandese che con la sua nube tossica imperversò sui nostri cieli nel 2010. I.QUALITY • 25


Per fortuna attualmente il supervulcano continua a dormire, semmai russando un po’, e ci permette di scoprire il fascino e le attrattive di una terra fra le più magiche del mondo grazie all’incanto “lunare” della Solfatara e dei laghi che occupano le antiche caldere vulcaniche: quello di Fusaro (su un isolotto si ammira la bella Casina Vanvitelliana fatta costruire nel sec. XVIII da Ferdinando IV di Borbone per sostarvi durante gli intervalli della pesca e della caccia alle folaghe), quello di Miseno e quelli di Lucrino e di Averno, che in epoca romana ospitarono un porto militare. La Piscina Mirabilis: anche da sola merita un viaggio Fra i superbi monumenti del glorioso passato greco-romano che l’area flegrea porge a piene mani ce n’è uno che da solo merita un viaggio. E’ la colossale Piscina Mirabilis di Bacoli, che si snoda col suo alternarsi di ambienti grandiosi nel ventre della roccia a breve distanza dal Lago Miseno. Si tratta di un’immensa cattedrale sotterranea, un autentico prodigio artistico e architettonico, creato nel periodo Augusteo e interamente scavato nel tufo. Era destinata in origine per rifornire di acqua i marinai della Flotta Pretoria ormeggiata nel Lago Miseno. Scendere nella cavità della terra, percorrere immensi tunnel e grandi saloni offre un’emozione indimenticabile. Purtroppo l’esistenza di questa meraviglia è conosciuta da pochi italiani che semmai sono andati in deliquio nelle viscere

vista del golfo di Pozzuoli dall’Hotel gli Dei

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della Cisterna Imperiale di Istanbul, ignorando la piscina flegrea che non ha nulla di meno imponente, anzi. Sempre nei pressi di Bacoli, famosa per l’arte del ricamo e per i suoi vini deliziosi, si trova un altro complesso di cisterne antiche di notevole interesse, quello delle Cento Camerelle, popolarmente chiamato “Prigioni di Nerone”. Approvvigionava d’acqua una delle più splendide ville di Baia, quella dell’oratore Ortensio Ortalo, poi passata alla madre dell’imperatore Claudio. Bacoli e le sponde del lago Miseno furono anche uno dei luoghi di soggiorno preferiti di Plinio il Veccio e di Nerone attratti dalla bellezza dei paesaggi. Per ammirarli comodamente dal lago si può salire sullo trimarano Roof & Sky, munito di motori ad energia solare che gli consentono di planare sulle acque offrendo scorci panoramici sempre differenti agli ospiti che possono disporre di un lounge bare degustare ottimo sushi di pesce flegreo e champagne, ostriche, formaggi e salumi scelti. (info: www.astecoecielo.it).

Teatro greco-romano (ph. Marina Sgamato); Parco Sommerso Baia

Anfiteatro Flavio (ph. Marina Sgamato)

Cozze e vini che sanno di fuoco vulcanico sotto il segno della Sibilla Cumana Non lontano dalla Piscina Mirabilis è d’obbligo una gita in mare sui caratteristici gozzi dei “cuzzucari” di Casevecchie, un tipico borgo peschereccio, che conducono i turisti a vedere gli allevamenti di cozze, particolarmente saporite grazie alla natura vulcanica dei fondali. Non manca alla fine una buona degustazione di cozze crude servite con limone e accompagnate da una eccellente Falanghina ricavata dai vigneti sulle sponde del lago di Bacoli. Altri vini ammalianti sono quelli che sgorgano dal vigneto storico Mirabella sui versanti del Lago d’Averno, vicino ai ruderi di un impianto termale di epoca romana, più noto come Tempio di Apollo. Vi sono ancora coltivate viti centenarie, scampate all’epidemia della filossera che devastò la viticoltura europea alla fine dell’800, grazie all’origine vulcanica del suolo che consentì la sopravvivenza dei due vini tipici quali la Falanghina e il Piedirosso. Si possono ancora gustare in tutta la loro carica secolare di sapore all’ombra degli alberi del vigneto Mirabella con una magnifica vista sul lago, abbinati a fragranti piatti tradizionali a base di prodotti raccolti nel vicino orto. Semmai concludendo l’escursione con la visita a un luogo ricco di magia, la Grotta della Sibilla Cumana, un oracolo fra i più celebri dell’antichità, consultata soprattutto dai guerrieri. A svelarne i segreti è una guida d’eccezione, l’ottantaduenne Santillo, la cui famiglia, dall’inizio del ‘900, è la gelosa custode dell’antro. Al suo interno vengono ambientati numerosi spettacoli rievocativi fra cui l’Antrumm Immane, una rappresentazione in costume, liberamente tratta dal VI Libro dell`Eneide. (info: cell. 3332417629). Altre spettacolarizzazioni curate da associazioni e cooperative di giovani si tengono all’interno della vicina Foresta di Cuma, recuperata di recente grazie ad un progetto di riqualificazione, promosso dal Parco Regionale dei Campi Flegrei. Il programma delle iniziative è quanto mai vario e allettante: visite naturalistiche, teatro all’aperto fra i lecci, laboratori didattici per bambini, cene a lume di candela, degustazioni dei pregiati vini D.O.C. dei campi Flegrei, passeggiate notturne illuminate dalle danze delle lucciole. L’anfiteatro Flavio di Pozzuoli e la città sommersa di Baia D’obbligo una visita a Pozzuoli, antico porto di Roma verso l’Oriente, impreziosita da pregevoli vestigia di epoca classica, fra cui il Tempio

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di Augusto, grandi strutture termali, necropoli monumentali e l’antico mercato (Macellum) noto come “Tempio di Serapide” che rappresenta il “misuratore” del bradisismo a Pozzuoli: quando è in fase passiva, il suolo scende leggermente sotto il livello del mare e il piancito del tempio viene ricoperto dall’acqua, offrendo nuove suggestioni alla vista. A testimoniare l’antico spessore economico della città sono i due anfiteatri, in particolare quello di Flavio, il terzo d’Italia per dimensioni dopo quelli di Roma e Capua. I suoi sotterranei fungono oggi da scenario a rievocazioni teatrali che fanno rivivere i fasti puteolani di 2000 anni fa. Degno di una visita anche il “Rione Terra”, nella parte alta di Pozzuoli, che racchiude fra le sue pietre tutto il percorso storico della città. L’attività bradisistica che trasforma inesorabilmente il paesaggio trova la sua espressione più intensa a Baia, luogo di villeggiatura prediletto dagli imperatori e dai patrizi romani per l’incanto del paesaggio e l’ampia disponibilità di acque termali. Lungo tutto il litorale è tangibile lo sprofondamento avvenuto negli ultimi 1500 anni che ha fatto sommergere gli edifici eretti in età romana. Per vederli basta salire sull’imbarcazione Cymba, un battello con fondo trasparente, che consente di osservare stando comodamente seduti i resti delle ville romane (info: cell. 3208350145). Per chi ha più dimestichezza con le attività acquatiche ci sono invece numerosi centri diving autorizzati, che permettono di fare immersioni subacquee o semplicemente snorkeling (info: tel.081/8531563). E per concludere in gloria l’escursione niente di meglio che una sosta a tavola nel porto di Pozzuoli in uno dei tanti ristoranti di cucina marinara ospitati nei vecchi “malazè”, i casotti che un tempo servivano da riparo alle barche e spesso agli stessi pescatori. Per i palati più esigenti c’è il ristorante Bobò, dove si possono gustare invitanti specialità ittiche con tanti prelibati antipasti tradizionali, gustosi primi piatti e pietanze a base dei saporiti pesci del golfo di Pozzuoli, proposti in diverse versioni (info: www.ristorantebobo.com). Di ottimo livello e molto fantasiosa anche la cucina di Abraxas Osteria & Wine Bar, situata a Pozzuoli Lucrino sul ciglio della collina che domina il Lago d’Averno, che propone specialità tipiche di terra e di mare, seguendo la stagionalità dei prodotti. (info: www.abraxasosteria.it). Invece nei pressi dell’acropoli si segnala il Ristorante Vinaria, dove è possibile mangiare all’interno di grotte di epoca romana, recentemente ristrutturate. (info: www.villaeubea.it) Tutte queste emozioni e altre ancora sono offerte dal soggiorno ai Campi Flegrei. Approdarvi, oltre a un’occasione di svago e di acculturazione, è un viaggio dell’anima e della mente nel cuore stesso delle vicende di tempi lontani e vale più della lettura di dieci libri di storia antica.

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Due vedute dell’Anfiteatro Flavio

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I malazè: un multievento archeo-eno-gastronomico da non perdere I malazè da originari stambugi in cui i pescatori di Pozzuoli ponevano i loro attrezzi, sono stati oggi trasformati in ristoranti, bar e pub. Ma “Malazè” è oggi il nome della manifestazione che si tiene ogni anno, a settembre nei Campi Flegrei. Un appuntamento archeo-eno-gastronomico molto opportunamente varato da Comtur, l’azienda speciale di promozione del turismo e delle attività commerciali della Camera di Commercio di Napoli. Si tratta di una manifestazione polivalente da non lasciarsi sfuggire che coinvolge ristoratori, albergatori, aziende agricole, cantine e associazioni culturali di tutte le località dei Campi Flegrei per la valorizzazione del patrimonio archeologico, della gastronomia e dei vini doc locali (Falanghina e Piedirosso). Il cartellone contempla rievocazioni teatrali e altre animazioni nei luoghi storici e nei siti archeologici più suggestivi, accompagnati da degustazioni di allettanti specialità flegree. Durante l’evento nella Solfatara di Pozzuoli viene riproposto un tipo di cucina molto antica, quella geotermica. Il procedimento è molto semplice, nella bocca principale della Solfatara viene scavata una buca entro cui sono riposte delle teglie di alluminio sigillate contenenti pesce azzurro. Il risultato è magnifico perché la cottura è uniforme, ma ad accrescere la suggestione è l’opportunità di cenare al centro del vulcano, con il sole al tramonto fra le ombre della notte che cala. Il pesce azzurro utilizzato nella Solfatara come nei ristoranti è quello tipo del golfo con la sua ricca gamma di specie: l’aguglia, l’alaccia, l’alice, il cicerello, la costardella, il lanzardo, il pesce sciabola, la sardina, lo sgombro, lo spratto e il suro. E anche altri pesci locali che non hanno nulla in comune con “gli azzurri” come l’alalunga, l’alletterato, il biso, la lampuga, la palamita, il pesce spada e il tonno. (info: www.malaze.org)

Tempio di Serapide (ph. Marina Sgamato)

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Cipro Nord: In vacanza nell’isola cara ai romani e ai veneziani Di Lamberto Selleri

Kyrenia - Girne e il mare visti dal castello di Sant’Hilarion

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ottenne l’indipendenza dal Regno Unito. Nell’isola tradizionalmente si parlano due lingue, il greco ed il turco, il che ha consentito la nascita di due repubbliche. Noi abbiamo visitato Cipro Nord, abitata dalla popolazione turco cipriota. Queste due repubbliche si sono spartite il territorio e la capitale Nicosia. Per transitare da una repubblica all’altra non è necessaria alcuna formalità: è sufficiente un documento di identità. Lo sviluppo di Cipro Nord si deve alla lungimiranza del primo ministro Irsen Kucuk che considera il turismo attività di primaria importanza per il progresso economico del paese. La politica è quella di preservare integre le bellezze naturali e artistiche di Cipro Nord. Infatti non è stato concesso ai mega alberghi grattacielo di deturpare i panorami. Il turista avverte immediatamente a Cipro Nord un evidente equilibrio tra l’urbanistica tradizionale e le nuove infrastrutture alberghiere che offrono servizi di ottima qualità. Cipro è l’isola dove i turisti possono soggiornare tranquillamente 10 mesi all’anno, avendo a disposizione un clima confortevole anche durante i mesi invernali. L’ospitalità ed il confort degli alberghi a 4 o 5 stelle sono di primordine. Sono molti quelli che si sono dotati di piscine e di centri benessere,Spa, per consentire ai clienti di usufruire di massaggi ,cure estetiche e coccole. Le strutture alberghiere circondate dalla macchia mediterranea confinano con spiagge ospitali, lambite da un mare piacevolmente caldo. Il turista può dedicarsi ad escursioni culturali, praticare il trekking o camminare a piedi in pianura o in montagna. I sentieri, tutti segnalati e mappati, sono una vera ragnatela che copre l’intera Cipro Nord. Inoltre si può praticare il golf e il parapendio, in cui tutti

da sinistra: Nicosia caravanseraglio, Interno abbazia di Bellapais, Famagosta cattedrale gotica ora moschea, esterno della Abbazia gotica Lusignana di Bellapais

Clima temperato, mare cristallino, coste rocciose, chilometri di spiagge sabbiose guardate a vista dalle dune. Questo è Cipro Nord. Andare in vacanza in una località di mare che abbia anche un risvolto naturalistico e culturale di primaria importanza, come Cipro Nord, è senz’altro attraente. Se esaminiamo il passato dell’isola, notiamo che è di fatto un archivio storico che conserva le testimonianze delle civiltà del mediterraneo che qui approdarono. Famosi sono i personaggi coinvolti nelle vicende di questa isola: Afrodite, la dea dell’amore, l’apostolo Andrea, Giulio Cesare, Augusto, Catone, Carlo Magno, Riccardo Cuor di Leone e Leonardo da Vinci. Esiste un rapporto culturale diretto che unisce l’Italia a Cipro: i romani succedettero nell’isola ai greci nel 58 a.C. e l’apostolo Andrea vi approdò per predicare il cristianesimo e sradicare i culti pagani, in primis quello di Afrodite. Fu di 358 anni la permanenza romana sull’isola, i cui reperti archeologici sono un po’ dappertutto. Poi subentrarono i bizantini (Impero Romano d’Oriente) che conclusero la loro presenza sull’isola nel 1191. Dopo un intervallo di un anno, durante il quale Cipro cadde in balia dei Templari e di Riccardo Cuor di Leone (il propugnatore della terza crociata), vi regnò la dinastia franca dei Lusignano. L’ultima regina di questa progenie regale, Caterina Cornaro, nel 1489 vendette l’isola ai veneziani e andò a vivere regalmente nel Veneto ad Asolo. Dopo 87 anni di incontrastato dominio della Repubblica Veneziana, nel 1571 prevalse l’impero ottomano e contemporaneamente il popolo cambiò anche religione e subentrò quella islamica. Nel 1878 la Gran Bretagna assunse la gestione di Cipro. Solo nel 1960 Cipro

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possono cimentarsi volando con l’istruttore, oppure ci si può dedicare agli sport marini e subacquei. La cucina locale è intrigante e vale la pena conoscerla: il pasto inizia con le “Meze”, gli antipasti locali caldi e freddi a base di yogurt, sesamo, menta, cetrioli, olive, intingoli di ogni genere crudi e fritti, e il famoso formaggio locale “hellim”. A tutti questi stuzzichini, che possono anche raggiungere il numero di venti, seguono i secondi, di carne o pesce, molto appetitosi e saporiti. I golosi riusciranno ad assaggiare i dolci solo se saranno stati parchi nello spilluzzicare gli antipasti. Ciò che caratterizza Cipro Nord è l’assenza del turismo mordi e fuggi, del turismo invasivo o chiassoso, e del turismo che veste prevalentemente capi firmati. È invece frequentato da turisti che amano una vacanza slow all’insegna della tranquillità, del benessere, della buona tavola e della cultura. Nicosia, Famagosta, Salamis, Kirenia e la penisola di Kirpasa, che guarda la Siria, sono luoghi che conservano gelosamente resti emozionanti delle civiltà greca, romana, bizantina, francese, veneziana, ottomana ed inglese che nei secoli si sono succedute nell’isola. Nella capitale Nicosia Nord, circondata da mura veneziane, la cattedrale cattolica in stile gotico francese, Santa Sofia, fu costruita nel XIII secolo dai Lusignano e nel 1571 venne trasformata nella moschea di Selimiye. All’interno le immagini e le scritture sono state tolte e le pareti sono state imbiancate come prescrive la cultura islamica. L’architettura gotica interna della cattedrale non ha però perso il suo splendore originario. All’esterno una coppia di minareti svetta nel cielo per indicare inequivocabilmente la confessione a cui oggi appartiene questo tempio.

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porto di Girne o Kyrenia

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da sinistra: il mare di Kyrenia visto dall’Hotel Oscar, Primo Ministro Irsen Kucuk, Nicosia interno gotico oggi moschea Selimiye, penisola di Karpaz monastero dell’Aapostolo Andrea

Nicosia Nord conserva in ottimo stato un raro caravanserraglio costruito dai turchi ottomani nel 1572. Veniva utilizzato come ristoro per gli uomini e gli animali e come luogo di contrattazione delle merci :oggi tutto il complesso monumentale è occupato da attività artigianali locali. Nella città vecchia di Nicosia ci sono il bazar e il mercato in un susseguirsi di stradine strette che invogliano a fare acquisti a prezzi contenuti. Famagosta, città portuale, capitale durante la permanenza veneziana sull’isola, oggi è sede universitaria. La città vecchia è circondata completamente da possenti mura ottimamente conservate che i veneziani ampliarono (sono alte 15 metri, hanno uno spessore di 8 m. e sono lunghe km.4) per contrastare gli attacchi ottomani. È su una torre delle mura di Famagosta che si consumò la leggendaria tragedia di Otello tramandataci da Shakespeare. A Famagosta siete in linea d’aria a 3000 km dalla Francia eppure, aggirandovi per il centro storico, ad un certo punto vi trovate catapultati a Reims: ai vostri occhi apparirà infatti in tutto il suo splendore la facciata di una cattedrale gotica intitolata a San Nicola. La costruzione risale al 1326. È il più prezioso esempio di architettura gotica in tutto il mediterraneo. Per entrarvi è necessario togliersi le scarpe perchè state entrando sì nella”cattedrale” ma ora essa è la moschea Lala Mustafa Pasa. Nel golfo di Famagosta avrete la piacevole sorpresa di incontrare i resti della città greco -romana di Salamis (Salamina). Potrete conoscere la città percorrendo le strade in lastricato romano. Vi imbatterete in un interessante anfiteatro, utilizzato oggi anche per pieces teatrali, vedrete le colonne che un tempo reggevano i templi ergersi solitarie verso

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il cielo, noterete i pavimenti in mosaico che circondano i perimetri delle case, i bagni pubblici e sognerete di immergervi nei calidarium e frigidarium delle terme di cui i romani erano assidui frequentatori. A Salamis vi è anche da visitare il monastero dell’ apostolo Barnaba, la cui costruzione è un tipico esempio dello splendore dell’arte bizantino-ortodossa. Poco distante si trova la cappella che conserva i resti dell’apostolo Barnaba. Keryneia o Girne (in turco) è la più affascinante città di mare di Cipro, arroccata attorno al porto: fondata dai greci nel X secolo a.C,oggi è vocata al turismo. Nel castello al centro della città, che i veneziani restaurarono, sono conservati i resti lignei di un relitto della barca più antica al mondo rinvenuta in mare e risalente al 300 a.C. Trasportava anfore e mandorle anch’esse esposte. Poco fuori città si trovano gli struggenti e imponenti resti dell’Abbazia Bellapais in stile gotico francese, costruita 8 secoli fa, nella cui chiesa è un susseguirsi di splendide icone. Il castello di St.Hilarion, arroccato sulle montagne che guardano Girne, fu costruito durante le crociate ed è un tipico esempio di architettura medioevale. Si trova ad una altezza di 732 m e da lassù si gode la visione di un panorama stupendo. L’apostolo Pietro portò il cristianesimo a Roma mentre suo fratello, l’apostolo Andrea, lo diffuse anche a Cipro dove nella punta estrema della penisola di Karpaz, a Capo Zafer, edificò un monastero ,sulle cui fondamenta oggi sorge un importante luogo di culto cristiano-ortodosso. A Karpaz si può anche sostare nella splendida spiaggia dove le tartarughe di mare Carretta Carretta e le Verdi in primavera vanno a depositare fino a 100 uova anche 3 volte

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in una stagione. Cipro Nord vive di turismo e lo incentiva promuovendo agevolazioni. Il tour operator “I Viaggi delle Pleiadi” di Imperia ha aderito a questa iniziativa inserendo nel catalogo soggiorni vantaggiosi (prezzo ridotto), per il contributo a favore del turismo sostenuto da Cipro Nord. Le strutture prescelte si trovano a Girne: Resort Hotel Oscar e l‘attiguo albergo Vuni Palace. Complessivamente i due alberghi limitrofi dispongono di 5 stupende piscine che guardano il mare e si confondono nella lussureggiante vegetazione mediterranea che avvolge i due complessi alberghieri, ognuno dei quali dispone di attrezzati centri benessere che propogono massaggi tradizionali, antistress, aromaterapici, all’olio di oliva, indiani, asiatici, balinesi, anticellulite e anche riflessologia. L’ospitalità è di primordine, camere spaziose con tutti i confort e ricchi pasti sono serviti a buffet. Tutti i giorni sono in programma escursioni per visitare l’isola. Alla sera sono previsti intrattenimenti musicali.

penisola di Karpaz spiaggia

INFO Tour operator I Viaggi delle Pleiadi tel. 0183 299283 www.viaggidellepleiadi.com. Resort Hotel Oscar 4* www.oscar-hotel.com Vuni Palace 5* www.vunipalacehotel.com

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FOOD COUTURE

Un firmamento di stelle per Grana Padano Di Roberta Filippi

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Monografie, ricettari, mensili, rubriche e trasmissioni di cucina: in questi anni è scoppiata una vera e propria food mania. Gli scaffali delle librerie si sono riempiti di volumi dedicati a quella che potremmo definire la “sesta arte”, ma mai nessuno, finora, aveva riunito ventotto stelle del firmamento gastronomico italiano. Il Consorzio per la Tutela del Formaggio Grana Padano, dopo oltre tre anni di lavoro, ci è riuscito e - a dicembre 2011 – è stato pubblicato il libro: “Taglio Sartoriale 28 grandi chef interpretano Grana Padano”, edito da Mondadori. I grandi della cucina si sono riuniti per dar vita al progetto Grana Padano Taglio Sartoriale creando ricette inedite a base del formaggio D.O.P. più consumato al mondo. Con questa iniziativa il Consorzio mette al servizio della creatività e della fantasia degli chef tre stagionature, tre gusti diversi per esaltare al meglio i loro piatti. Negli anni, Grana Padano è, diventato così, un ingrediente indispensabile per dar vita alle ricette della vera cucina d’autore, proprio come un prezioso tessuto per l’alta sartoria. Le pagine di questo libro lo dimostrano. Creazioni inedite e ritratti personali degli chef presentati da chi li conosce davvero bene, il critico enogastronomico Allan Bay. Un percorso alla scoperta di accostamenti e abbinamenti, a volte apparentemente azzardati, tutti accomunanti da un ingrediente principe: il Grana Padano. Dal nord al sud, il meglio della ristorazione italiana è racchiuso in queste pagine ricche di gusto e passione per un prodotto unico che esalta al meglio i piatti della grande tradizione italiana e internazionale. Ecco tutti e ventotto gli chef presenti nel libro: Marcello Trentini – Ristorante Magorabin a Torino, Claudio Vicina - Ristorante Guido per Eataly Casa Vicina a Torino, Davide Scabin – Ristorante Combal.Zero a Rivoli (TO), Christian e Manuel Costardi - Hotel Cinzia a Vercelli, Carlo Cracco – Ristorante Cracco a Milano, Eros Picco e Tommaso Arrigoni – Innocenti Evasioni a Milano, Andrea Provenzani – Il Liberty a Milano, Claudio Sadler – Ristorante Sadler a Milano, Fabrizio Ferrari - Roof Garden Restaurant a Bergamo, Enrico e Roberto Cerea – Ristorante Da Vittorio a Brusaporto (BG), Fabio Granata – Ristorante l’Arsenale a Cavenago d’Adda (LO), Enrico Bartolini – Devero Ristorante a Cavenago di Brianza (MB), Davide Oldani – Ristorante D’O a Cornaredo (MI), Ilario Vinciguerra – Ilario Vinciguerra Restaurant a Gallarate (VA), Matteo Scibilia – Osteria della Buona Condotta a Ornago (MB), Andrea Tonola – Ristorante Lanterna Verde a Villa di Chiavenna (SO), Paolo Donei – Ristorante Malga Panna a Moena (TN), Cristian Bertol – Hotel Orso Grigio a Ronzone (TN), Herbert Hintner – Ristorante Zur Rose a San Michele Appiano (BZ), Christian Zana – Trattoria all’Isola a Cogollo del Cengio (VI), Nicola Portinari – Ristorante La Peca a Lonigo (VI), Emanuele Scarello – Ristorante Agli Amici a Udine, Heinz Beck – Ristorante La Pergola a Roma, Davide Mazzoni – Enoteca al Parlamento a Roma, Niko Romito Ristorante Reale a Casadonna a Castel di Sangro (AQ), Rosanna Marziale – Ristorante Le Colonne a Caserta, Alfonso ed Ernesto Iaccarino – Ristorante Don Alfonso a Sant’Agata dui Due Golfi (NA), Antonella Ricci e Vinod Sookar – Ristorante Al Fornello da Ricci a Ceglie Messapica (BR).

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I relatori, da sinistra: Alessandro Scorsone, Allan Bay, Elisabetta Serraiotto, Nicola Cesare Baldrighi

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Il Mondo Latini

Di Roberta Filippi

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Nel 1888 Settimio Latini si trasferisce con la famiglia da Jesi, dove era nato, nella campagna di Osimo, sempre in provincia di Ancona, nelle Marche, in qualità di fattore di alcuni poderi di proprietà di un nobile locale. In quei tempi, fonda anche la sua azienda. Negli anni successivi seguendo la tradizione, il figlio Enrico prende il suo posto ma soprattutto intuisce una nuova strada: scegliere varietà di grano che potessero resistere alle avversità e alle malattie, che producessero un raccolto di maggiore resa e di migliore qualità, riuscendo finalmente a mettere d’accordo gli agricoltori che le coltivavano con i mugnai che poi le lavoravano. Negli anni ‘50 ancora un cambio generazionale: la gestione passa a Secondo, figlio di Enrico e papà di Carlo. Quando nel 1984 Carlo incontra Carla, subito si trovano d’accordo nell’intento di elevare alla massima qualità tutta la produzione dell’azienda, mettendo a frutto i dati e le esperienze tramandate da tre generazioni. L’incontro e la collaborazione con il Prof. Cesare Maliani è determinante per le ricerche di varietà di grano duro che Carlo ha in mente di approfondire. Cesare Maliani continuava a Recanati il lavoro del padre Cirillo che era stato l’allievo prediletto e il principale divulgatore delle opere di Nazareno Strampelli, padre della moderna Cerealicoltura mondiale. La scoperta che ogni varietà ha un suo colore e un suo sapore, un suo profumo e una sua consistenza è come una rivelazione, sono emozionati e carichi di un rigenerato entusiasmo. É il 1988, Carlo crea i primi campi sperimentali dell’Azienda Agraria Latini, a 100 anni dalla sua fondazione. Da allora, ad ogni raccolto, riesce a produrre per i suoi studi più di 50 varietà di grano duro da analizzare e testare nei suoi campi sperimentali. É di Carla l’idea di trasformare in pasta, le migliori tra le varietà di Carlo, ispirata anche dalle vecchie annotazioni di Nonno Enrico che negli anni ‘30 faceva fare ai panifici e pastifici locali delle prove con le varietà di grano derivate dalle sue coltivazioni. É l’estate del 1990 e per interi giorni Carla cucina ben 27 spaghetti ottenuti da altrettante varietà di grano duro. Osserva il loro colore, sente il loro profumo mentre stanno ancora bollendo nell’acqua, li assaggia dopo 5 minuti, dopo 8, 10, 12, senza condimento. Un test che, alla fine, permette di stabilire la selezione per nobilitare la Pasta Italiana. Carlo ricordava di una pasta buonissima, che sapeva davvero di grano: quella fatta a mano dalla nonna che da bambino rubava scolata. Voleva fare una pasta buona come quella! La pasta Latini doveva essere fuori dal comune, da riconoscere a prima vista, per il suo aspetto, le sue forme e naturalmente per il suo sapore unico. Ne parla a lungo con Carla e poi la decisione: usare trafile di bronzo per rendere la superficie della pasta ruvida e porosa, perfetta per assorbire qualsiasi tipo di condimento, ed essiccarla a bassa temperatura 40°/45° C, per circa 24-48 ore, secondo i formati. Solo così si conserva intatta la struttura molecolare degli amidi e si mantiene il colore, il profumo, il sapore e la consistenza dei migliori grani duri, che nel frattempo stava selezionando nei suoi campi sperimentali. Certamente non poteva usare il Sistema Industriale, dominante fin dagli anni ’60, che ha sostituito le trafile di bronzo con quelle di teflon (in plastica) con cui si ottiene una pasta liscia che non assorbe il condimento ed ha alzato la temperatura di essiccazione fino a 85°/100° C, per ridurre la durata dell’essiccazione a solo 3-4 ore, aumentando la produttività a discapito della qualità. La pasta comune industriale risulta vetrificata, perché l’alta temperatura di essiccazione fonde la molecola delle proteine con quella degli amidi, distruggendo gli aromi e i sapori del grano duro. I.QUALITY • 64

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Mancava soltanto una cosa: la scelta dei formati ideali. Nell’aprile del 1990 Carlo progetta le trafile, dedicando ai formati uno studio molto particolare. Si lascia guidare dai suoi gusti ed anche da quelli di Carla, dalla storia della gastronomia italiana ma soprattutto da un desiderio: fare in modo che i formati della pasta Latini non assomiglino a nessun formato standard presente nei cataloghi dei trafilai. E’ per questo che la Pasta Latini si riconosce nel piatto, ancor prima di essere assaggiata. É seguito un appassionato e maniacale lavoro di selezione e affinamento sui grani duri, rigorosamente coltivati in Italia, per ottenere sempre, di anno in anno, le migliori miscele e che ha portato Carlo, nel 1992, ad inventare la pastificazione in purezza. E’ di quel anno infatti l’esordio della linea Senatore Cappelli, prima pastificazione in purezza al mondo, cui è seguita nel 2000 la linea Taganrog. Nate entrambe dal recupero e dalla pastificazione in purezza di antiche varietà di grano duro dalle eccezionali caratteristiche organolettiche. Da un lavoro di selezione e affinamento, iniziato nel 1994, nasce nel 2002 la linea Farro Gourmet, sola ed unica fra le paste di farro ad avere un sapore gradevole e ad essere disponibile nei formati classici della tradizione, poiché si possa abbinare ad ogni tipo di condimento. La Linea Farro si evolve nel Novembre 2009 grazie al progetto realizzato in collaborazione con la Camera di Commercio di Monza, la Coldiretti della Brianza e il Consorzio Cuochi di Lombardia. 70 ettari di coltivazioni in Brianza. Le coltivazioni più a Nord d’Italia. Ultima della Famiglia Latini è la Linea all’ Uovo che rientra nella filosofia che da sempre anima il Pastificio Latini: la pasta non è solo un mezzo per accompagnare il condimento ma un ingrediente unico ed essenziale per la tavola di gourmet e grandi cuochi. Il suo motto: è meglio di quella fresca! Consigli per la cottura di Carla Latini Se la pasta comune non scuoce mai, perché precotta dall’alta temperatura con cui viene essiccata, la Pasta Latini scuoce naturalmente perché è essiccata a bassa temperatura, veramente! Quindi, in cucina, va trattata come una pasta fresca con pochi semplici accorgimenti ed un po’ di attenzione. L’essiccazione a bassa temperatura (40°-45°), a differenza di quella ad alta temperatura usata per la pasta industriale, non fonde le molecole delle proteine con gli amidi, pertanto la Pasta Latini non viene vetrificata come accade a quella comune. Prova a mettere il naso sopra la pentola con l’acqua che bolle e dopo un po’ che hai buttato la pasta: sentirai il profumo intenso di mollica di pane. Fai la stessa prova con una pasta comune: sentirai solo l’odore dell’acqua che bolle. Per realizzare una perfetta cottura, segui questi miei semplici consigli: utilizza almeno 1 litro di acqua per ogni etto di pasta e aggiungi sale a piacere; attieniti ai tempi di cottura indicati sulla confezione, ma ricorda che possono variare leggermente. Il tempo di cottura dipende dal calcio, dal magnesio, dal cloro, insomma dai sali minerali contenuti nell’acqua e dall’altezza sul livello del mare. Quando l’acqua bolle butta la pasta e mescola quando si è idratata con un cucchiaio o un forchettone di legno: il miglior tempo di cottura lo determina sempre e comunque l’assaggio. Sottrai un paio di minuti al tempo consigliato, assaggiala e valuta con il tuo dente quando sarà il momento di scolarla Tieni a mente che dopo scolata la nostra Pasta continuerà la sua cottura ancora per una trentina di secondi.

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Pastificio Azienda Agraria Latini srl, via Maestri del Lavoro 19, 60027 Osimo Ancona Tel. 0039 071 7819768 fax 0039 071 7211049, info@latini.com - www.latini.com

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WINE COUTURE

Angelo Sabbadin Miglior Sommelier d’Italia 2011

Testo di Luca Olivan Intervista di Roberta Filippi

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Angelo Sabbadin diplomato nel 1997 vanta esperienze di prestigio in importanti strutture, ultima in ordine di tempo dal luglio 2006 presso il ristorante 3 stelle Michelin Le Calandre dei fratelli Alajmo con la qualifica di sommelier al terzo livello. Gestisce la cantina del Top Ristorante che censisce circa 15.000 bottiglie mentre il numero delle etichette sono circa 1.100 di cui 350 francesi più 120 Champagne con annate che vanno fino al 1834. Ha ottenuto il premio Duca di Salaparuta “Il Sommelier dell’anno 2011” Guida de l’Espresso Quando è stata la tua prima volta? Intendo a quanti anni hai iniziato a bere? La prima volta che ho capito cosa fosse veramente il vino è stato a 19 anni durante il militare. Già a 16 anni lo bevevo ma non gli davo troppa importanza, era solo un accompagnamento al cibo. Nell’85/86, invece, quando andavamo a fare i distaccamenti a Bracciano andavamo in una cantina a comprare il vino “da tutti i giorni” e il proprietario ci faceva assaggiare vari vini…iniziavamo a scoprire anche i primi Chardonnay che mi hanno aperto gli occhi. Ho capito che c’era qualcosa di più del solo accompagnamento del cibo. Quelle persone erano per me pionieri della qualità. E pensare che vivono al di fuori del mondo, in montagna a ridosso della Slovenia. Dopo il militare sono stato 2 anni a Milano a lavorare e ho avuto la fortuna di incontrare due clienti che mi hanno fatto appassionare al “bere bene”. Ho cominciato in sordina lavorando nei locali ma ho avuto la fortuna di vivere l’era del vino circondato da persone interessate e interessanti a cui a volte dovevo tener compagnia per notti intere mentre loro raccontavano di vitigni e annate. Una cosa che non dimenticherò mai, percepivo il loro piacere nel decantare. Tu hai vissuto il prima e il post “boom del vino”. Quale differenza hai notato? Una delle differenze principali è che una volta si guardava prima l’annata e poi il resto. Il vino oggi si è trasformato in merce di lusso. Il prezzo viene fatto ormai dal mercato e non più dall’annata e dalla qualità. Una decina di anni fa si vendevano grandi vini a prezzi più calmierati, poi il vino è diventato un bene che volevano tutti anche a causa dei media. Oggi ovunque ti volti, ogni canale in tv parla di vino. Molti oggi giorno si improvvisano intenditori richiedendo bottiglie di cui purtroppo ne sono rimaste poche e che personalmente preferirei dare ai veri intenditori, coloro che conoscono in prima persona il vino e che non se lo sono solo fatto raccontare o l’hanno visto in televisione. C’è stato un produttore di vino che ti ha particolarmente affascinato? Forse è riduttivo farti solo due nomi ma sicuramente Angelo Gaia e il Marchese Piero Antinori. Di Angelo Gaia ricordo l’estremo amore per il territorio in cui si trova: il Barbaresco. Quest’amore è nato dai suoi predecessori, il nonno e il padre. Del Marchese Antinori mi affascina l’abilità di saper parlare di tutti vini, indipendentemente dal prezzo, con estrema cura e maniacale passione Quali sono per te i brand italiani principali? Indubbiamente Tenuta dell’Ornellaia, Marchese Antinori, Angelo Gaia Guardiamo oltralpe. Il modo di vendere tra Italia e Francia. Quali sono le differenze che noti, sempre che secondo te ci siano. La Francia ha saputo sfruttare al massimo quello che la natura gli ha dato facendo grandi quantità dove si poteva e piccole quantità dove era meglio I.QUALITY • 76

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essere parsimoniosi, settorializzando il vitigno, cosa che attualmente in Italia non succede. Si pianta in maniera disordinata, magari facendo anche delle prove ma con risultati non sempre soddisfacenti: se loro non piantano uno Chardonnay a Bordeaux ci sarà un motivo. A tuo avviso le bollicine sono vini da servire a tutto pasto o hanno dei tempi e uno spazio ben preciso? In Italia finché ci sono stati i brand più conosciuti e famosi le bollicine venivano servite soprattutto durante l’aperitivo. Pian piano che si sono conosciuti anche altri marchi si è imparato ad apprezzarli anche a tutto pasto. E devo dire che non hanno nulla da invidiare agli altri. Come vedi il futuro del vino? I consumi sono in calo. Si beve meno, ma forse (si spera) meglio. Anche il vino deve imparare ad essere usato con criterio, essere più raffinato ed elegante rispettando il vitigno da cui proviene. Speriamo che raggiunga quei tocchi armonici ed eleganti che tanto ricerco quando ne assaggio uno.

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Il segreto di un oste è… Fare poche proposte ma selezionate. Far capire ai propri clienti che ogni vino è stato ragionato e pensato. Un vino verrà proposto perché più sapido, l’altro più caratteristico, l’altro perché è una tendenza. L’oste o chi propone il vino, deve sentirlo veramente, sia in rapporto al tipo di offerta economica ma anche per l’amore e la passione che il vino gli trasmette. Inviterei i proprietari dei locali ad andare a scoprire, magari durante il giorno di chiusura, cantine anche meno conosciute. Potrebbero trovare il grande amore. Il segreto di un sommelier è… servire il vino al suo apice. Il vino quando esce dalla cantina ha una vita da 1 giorno a X anni e fa una curva evolutiva, arrivando fino a 100. Tanto più il sommelier riesce a servire il vino “al top”, al massimo della sua curva, tanto più è bravo. E direi che Angelo Sabbadin ha le idee molto chiare su quale vino servire, e soprattutto quando. Cin cin.

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SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE di Luca Olivan Avevo deciso di farmi del male, di non volermi più bene, bevevo tanto, troppo, di tutto ma soprattutto male. La mia ragione di vita era bere e mangiare qualsiasi cosa senza pensare o preoccuparmi di cosa fosse, qualunque cibo o vino per mè erano tutti uguali, senza differenze. Un giorno uscito dal ristorante dove ero solito abbuffarmi mi appoggiai al muro barcollando e notai qualcosa di diverso dal solito, al posto del muro c’era una vetrina con un’insegna “enoteca”, all’interno si scorgevano dei tavoli attorno ai quali persone degustavano il vino con attenzione, agitando il bicchiere come fosse un rito, non avevo mai visto niente di simile. Decisi di entrare in questo luogo mai visto anche se ero appena uscito dal ristorante, all’interno vidi scaffali ovunque piene di bottiglie esposte come fossero trofei, avevo paura a guardarle, mi intimorivano non avrei mai saputo sceglierne una, quindi dopo 2 giri degli scaffali mi fermai davanti ad una tenda da dove uscì all’improvviso una signora che guardandomi sembrava avesse già capito cosa cercassi. Mi fece accomodare ad un tavolo, io la seguii intimorito e lei si sedette di fronte a mè. Sul tavolo c’era una candela, un calice, un piatto coperto da un tovagliolo e una bottiglia di vino, la aprì con fare solenne, portò il tappo al naso e poi ne versò un calice. Prima lo annusai, poi lo assaggiai, mi disse chiudi gli occhi e descriverlo , fui colpito da quel liquido che non sembrava più il vino di cui abusavo solitamente ma una pagina bianca dove scrivere le mie sensazioni. Accostai ancora quel vino al naso senza mai stancarmi, ciliegia, prugna…poi le more, ma anche la cannella, i chiodi di garofano, la noce moscata e per ultimi sbuffi di vaniglia e menta. Al palato il vino aveva un ingresso dolce e morbido seguiti da una giusta freschezza e tannini di trama finissima. Era un peccato berlo da quanto era buono. L a signora poi scoprì il piatto dove c’era della carne cotta con le spezie, mi disse ora insieme. Un boccone, poi un sorso di vino, sentii espoldere qualcosa dentro di mè, sentii prima caldo poi freddo, fui travolto da un insieme indefinibile di sensazioni ed emozioni. Il cibo e il vino discesero mano nella mano dentro di mè come innamorati che tutto si concedono, avrei voluto non finisse mai. Chiesi alla signora cosa fosse questo e mi rispose: l’ABBINAMENTO PERFETTO, disse con un sorriso, un vino, una persona, un piatto, i tre vertici di un triangolo che non avevo mai considerato, un’alchimia perfetta. La signora mi accompagnò alla porta, mi salutò, dopo tre passi mi girai per rivedere quella vetrina e quell’insegna ma vidi il muro di sempre. Tutti i giorni passavo davanti a quel muro sapendo che il mio ABBINAMENTO PERFETTO si trovava proprio lì dietro…….non vidi mai più quella signora.

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Angelo Sabbadin è nato a Camposampiero (PD) il 02 Settembre 1968, residente a Vigodarzere (PD). Diplomato nel 1985 all’Istituto Professionale Alberghiero di Stato di Castelfranco Veneto con qualifica di Addetto ai Servizi Alberghieri di Sala e Bar. Corsi di Sommelier a 3 livelli nel 1996/1997 dell’Associazione Italiana Sommelier. Esperienze Lavorative 10/1985 03/1986 presso il ristorante al Faraone di Borgoricco (PD) 10/1985-01/1989 presso il Ristorante il Calajunco a Milano 02/1989-02/1995 presso il Ristorante le Magnolie a Padova 02/1995-09/1995 presso il Ristorante Antico Brolo di Padova 09/1995-02/2003 gestione in società del Ristorante Belle Parti di Padova 03/2003-06/2006 presso il Ristorante alle Piazze di Padova Dal 07 2006 presso il Ristorante Le Calandre di Rubano Padova con qualifica di Capo Sommelier e addetto agli acquisti per il gruppo Alajmo Riconoscimenti Premio Duca di Salaparuta “Il Sommelier dell’anno 2011” Guida de l’Espresso I.QUALITY • 82

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SICILY FOOD&WINE

Saro D’amico e Enzo Alagna ambasciatori del buon gusto di Marsala e Pantelleria Di Giancarlo Roversi

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Saro D’Amico: dalle forbici ai fornelli Fra i tanti cuochi che con le loro delizie ci prendono per la gola, non importa se famosi o ancora celati dietro le quinte, non pochi sono quelli che hanno varcato le soglie della cucina attraverso percorsi non tradizionali, ossia senza essere figli d’arte o avere frequentato un istituto professionale di formazione. E neppure senza avere preso dimestichezza con l’arte culinaria come cameriere in un ristorante, “rubando”, giorno per giorno, con gli occhi i segreti al cuoco titolare. C’è chi si è dedicato alle casseruole spinto unicamente da un innato desiderio di esprimere una vocazione più o meno nascosta e chi, dopo anni spesi dietro un sportello bancario o in un ufficio, ha avuto - come S. Paolo sulla via di Damasco, una improvvisa folgorazione per la tavola. Ci sono quelli che prima di approdare in un ristorante hanno fatto i lavori più disparati: l’elettricista, il tassista, il rappresentante di vini, il commercialista, il medico, il sarto... Sì il sarto, e che sarto ! E’ il caso di Saro D’Amico, marsalese DOC, che a un certo punto della vita, quando era il maître couturier più affermato e ricercato della città dei Mille, con un seguito di varie decine di collaboratori, ha deciso di abbandonare le forbici per il coltello e la forchetta e di approdare ai fornelli. Detto e fatto. Assieme ai nipoti una quindicina d’anni fa aprì un ristorante, l’Eubes, sulla costa dello Stagnone, proprio di fronte all’imbarcadero antico per l’isola di Mozia che si staglia all’orizzonte assieme all’incomparabile silhouette delle isole Egadi, offrendo non solo un’esperienza gratificante per il palato, ma anche un panorama unico al mondo. Uno scenario completato dal colpo d’occhio sulle antiche saline marsalesi che si stendono con i loro cumuli cristallini

condita ogni volta con un pizzico di creatività, di estro, e in grado di mandare in sollucchero i palati più smaliziati. Sono piatti seducenti che hanno come punti di forza gli ortaggi dal sapore incredibile delle vicine campagne di Birgi, le saporose olive locali e, soprattutto, il pesce freschissimo, catturato a breve distanza e caratterizzato da un sapore ormai raro. E’ il pesce dello Stagnone, che sguazza in acque pulite (non per nulla Marsala fa incetta ogni anno di bandiere blu per la purezza del suo mare) e che è annoverato dagli intenditori fra i prodotti ittici d’eccellenza. Ma non basta. La marcia in più è la sua cordialità garbata e vibrante, il sorriso con cui approccia i commensali, la competenza con cui decsrive i piatti che ha preparato, il sottile humor con cui condisce i suoi racconti per mettere a proprio agio chi approda alla sua tavola. Al suo estro si deve l’invenzione dei piatti più sfiziosi, che sposano i sapori più codificati con le nuove esigenze dei gourmet e con una presentazione raffinata. Anzitutto le tipiche “busiate” marsalesi, riccioli di pasta attorcigliati a uno stelo di grano in grado di imprigionare condimenti dal profumo inebriante, come il ragù di tonno arricchito con pecorino, mentuccia e aglio E poi: la zuppa di polpettine di aragosta con gli spaghettini spezzettati; una insuperabile pasta con le sarde o con i broccoli, uva passa, pinoli e parmigiano; le fettuccine alla triglia con basilico e prezzemolo; la pasta all’isolana con pesce spada fresco, capperi, pomodorini, basilico, mentuccia e un pizzico di origano per arrotondare il gusto; la cernia diliscata, spellata e farcita con gamberetti, pomodorini, origano, aglio e mollica di pane. Senza dimenticare nella carrellata incredibile di antipasti da lui creati: i crostini coi patè a base di pesce, ortaggi, olive e formaggi, che Saro inventa ogni volta che

scintillanti e i caratteristici mulini a vento proprio di fronte al ristorante. E’ uno spettacolo di grande effetto che raggiunge il culmine specialmente al tramonto quando il cielo si tinge di sfumature rossastre e violacee che fanno sognare. In questa superba cornice Saro D’Amico ha fatto sfoggio di tutta la sua estrosa vocazione per la buona tavola, quella della tradizione siciliana ammantata di nuove sfumature di sapore grazie anche agli ingredienti esclusivi impiegati. Il ristorante per un quindicennio è stato una metà di pellegrinaggio obbligata per una folta schiera di buongustai italiani e stranieri. Dopo avere lasciato l’Eubes ai nipoti, ormai pienamente collaudati dalla sua maestria culinaria, Saro, stimolato dalla sua palpitante ricerca di nuovi orizzonti, ha prestato il suo bagaglio di esperienze al ristorante “Antico Giardino”, situato sulle colline di Marsala a Alto Oliva e circondato da un grande parco con oliveti e sorbi secolari e un carrubo di 300 anni. E anche qui la sua affezionata schiera di devoti seguaci viene a rinnovare il rito antico come il mondo della buona tavola. Oggi fa l’ambasciatore itinerante del buon gusto siciliano in Italia e all’estero in occasione di cene e degustazioni esclusive e di eventi golosi, lasciando negli ospiti il ricordo incancellabile di un mosaico di sapori allettanti espressi in mille sfumature Basta infatti gustare anche una sola volta le sue specialità per rimanerne conquistati e diventare degli assidui proseliti di Saro. Quella che viene proposta è una cucina fragrante, ispirata alla più pura tradizione siciliana e marsalese, ma

gli viene l’uzzolo. E, dulcis in fundo, le “pastarelle” marsalesi tradizionali e splendi gelati tra cui quello delicatissimo al gelsomino. In occasione delle celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia, che hanno uno dei loro fulcri nella città di Marsala, dove avvenne lo sbarco dei Mille volontari garibaldini, Saro D’Amico ha realizzato per l’Antico Giardino il “Piatto di Garibaldi” con la collaborazione dello chef Daniele Casano. Questa nuova specialità in onore dell’eroe dei due mondi è composta di fave e formaggio “primosale” e di un’anatra al sugo con vino Marsala, cibi di cui Garibaldi era un goloso consumatore durante la sua permanenza a Marsala. Per l’occasione è statao anche realizzato un originale piatto celebrativo dalla Ceramica Ombra di Marsala. Ma per gustare le ghiottonerie di Saro in tutte le loro sfumature di profumi, sapori e colori bisogna approdare alla sua tavola, nel piccolo scrigno che si affaccia sul giardino degli agrumi della sua casa di Marsala. Si tratta di un piccolo laboratorio del gusto che può ospitare selezionati gruppi di gourmet che seguono il lavoro di preparazione dei piatti prima di assaggiarli e vengono informati sulle loro storia e le loro peculiarità. E’ un’esperienza che vale veramente la pena di fare. E per pochi fortunati che desiderano fare un ciclo di cure gastronomiche rigeneranti ci sono anche due belle stanze, completamente ristrutturate, che consentono anche di sostare per qualche giorno e di assaporare le diverse specie di aranci che vegetano rigogliosamente nel giardino.

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Info: tel. +39 0923968415 cell.: +39 3337213185 - +39 3409336753

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Enzo Alagna: viticoltore per passione Al largo di Marsala, nel Mare di Sicilia, si adagia Pantelleria, un’isola favolosa che deriva il suo nome dagli arabi (Bentel – Rion, figlia del vento), approdati sulle sue coste nell’VIII secolo. Si trova a 85 Km. dalla Sicilia e a soli 70 dall’Africa, di cui si scorgono le fioche luci della costa tunisina nelle notti più limpide. E’ un’isola che emana un fascino tutto particolare, forte e selvaggio, in grado di sedurre quanti vi mettono piede. E questo grazie alla sua origine vulcanica che si esprime attraverso la straordinaria diversificazione e singolarità del suo paesaggio, dominato dalla Montagna Grande (836 m.), dove gli elementi naturali (colate laviche a blocchi, cale e faraglioni) convivono armoniosamente con le opere dell’uomo: i muri a secco (con la funzione di liberare il suolo dai sassi, arginare il terreno, delimitare le proprietà e proteggere dal vento); i giardini panteschi, strutture cilindriche in muratura di pietra lavica a secco creati per riparare dal vento gli agrumi (a volte anche una sola pianta) e consentire un giusto apporto di acqua; i dammusi, costruzioni rurali di forma cubica, con grossi muri a secco, tetti bianchi a cupola e ingressi ad arco tondo. Pantelleria è detta anche “isola del vento”, a causa della sua forte ventilazione presente durante tutto l’anno che ha il vantaggio di mantenere l’aria piacevolmente fresca anche nel corso delle estati più arroventate. I suoi primi abitatori, di cui è attestata la presenza fin dal quintgo millenio dell’era precristiana, non provenivano dalla Sicilia, ma erano di origine iberica o iberico-ligure, e si dedicavano all’estrazione ed esportazione dell’ossidiana, un minerali vitreo di origine vulcanica usato per fabbricare pugnali, coltelli, punte di freccia e collane. L’isola fu colonizzata anche da popolazioni puniche e infine dai Romani, che vi approdarono nel III sec. a.C e vi crearono un importante insediamento in parte rimesso in luce nel corso di recenti scavi che hanno restituito preziosi reperti tra cui due splendide teste marmoree di Cesare e Agrippina. Durante l’età imperiale accolse importanti personaggi politici mandati in esilio sulle sue coste . Pantelleria ha tanto da offrire ai turisti e agli amanti dei sapori più autentici grazie alla sua semplice ma sapida cucina, dominata da splendide insalate dove succosi e dolci pomodorini, erbe aromatiche selvatiche come origano e finocchietto e i celebri capperi dell’isola, una delle produzioni più tipiche, danno una tonalità di appetitosa fragranza. Ma Pantelleria è soprattutto un’isola di vini inimitabili, tra cui regna sovrano il famoso Zibibbo (il Moscato di Alessandria) da cui si ottengono vini da pasto e soprattutto passiti dal bouquet inebriante e suadente. Chi si inoltra fra i meandri dell’isola è colpito dall’onnipresenza dei vigneti che ammantano i terreni più protetti dal venti e vocati alla viticoltura. Uno dei luoghi più ammalianti si trova a “Dietro l’Isola”, un lembo di terra dove la natura è ancora selvaggia, il vento soffia forte, il mare dal colore blu intenso spesso è in burrasca, le poche spiagge nere hanno un accesso impervio. Anche il profumo dell’aria muta di frequente alternando i profumi speziati portati dal vento, dal mare, dalla terra che assomiglia a un tappeto di caffè tostato, dai fiori di cappero abbarbicati ai muretti a secco. Proprio in questa zona ancora incontaminata si estende per circa dieci ettari l’Azienda Agricola Alagna, una realtà vitivinicola, fatta di passione e ambizione di qualità, nata dalla caparbietà e dall’amore verso una terra che “quando riceve il rispetto di una mano sapiente sa essere generosa e grata”, come dice con orgoglio Enzo Alagna che qui ha piantato le radici della sua attività di vignaiolo e cantiniere. Grazie alla sua tenacia, alla sua competenza e al suo amore costante dai suoi vigneti è riuscito a stillare dei vini seducenti, annoverati fra i migliori della Sicilia. Ma facciamoci raccontare da lui stesso come è andata: “Ho messo piede sull’isola nera per la prima volta circa 30 anni fa per motivi che riguardavano la mia attività nel settore delle macchine per il movimento I.QUALITY • 90

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terra. Era già autunno inoltrato e dovetti restare forzatamente sull’isola per le avverse condizioni del tempo. Così mi allontanai dal capoluogo e mi misi a girovagare all’interno lungo le campagne. Sulla costa orientale mi sono fermato ad osservare quanto di più bello avessi mai visto nella mia vita. I muri a secco, le pietre, le terrazze serpentine che segmentano l’isola e che sembrano fortificazioni, hanno lasciato subito un’impronta profonda nella mia mente. Mi sono detto quest’isola è un sogno. E proprio per questo sogno vi iniziai la mia nuova attività di viticoltore, proprio in quel posto dove oggi sorge la mia azienda adagiata su un’altura che divide cielo e mare”. “La mia – prosegue Alagna – è una generazione di coltivatori della terra che si può far risalire all’800. Prima i miei bisnonni poi mio nonno, tutti siamo rimasti sempre nelle stesse terre, i poderi di baglio Mafì in provincia di Marsala. Ora ho creato un ponte ideale fra la mia tenuta sulla terraferma e l’isola di Pantelleria, tanto bella, tanto selvaggia, ma che alla fine di un anno di lavoro e tanta fatica riesce ad appagare me e le mie figlie Anna e Sara, cui ho trasmesso due valori fondamentali: la condivisione della stessa passione per la terra e la determinazione di puntare sempre sull’eccellenza dei prodotti”. Da questo comune amore sono nati vini impeccabili autoctoni di Pantelleria come il Capo Zebib e l’Eliotes. Il Capo Zebib è un passito naturale di Pantelleria DOC ottenuto da uve in purezza di Moscato di Alessandria (Zibibbo), raccolte a mano dopo la metà d’agosto e appassite su graticci per circa un mese. In settembre si raccolgono I.QUALITY • 92

le uve per la produzione del mosto cui durante la fermentazione si aggiunge l’uva già appassita. Successivamente, dopo una soffice pressatura, si passa all’affinamento. E’ un vino da meditazione di 14,5 gradi dal colore giallo dorato lucente con piacevoli sentori di albicocche e pesche mature, fichi secchi e miele. Si sposa perfettamente a temperatura ambiente con la tradizionale pasticceria siciliana, specie quella farcita con ricotta, ma anche col cioccolato fondente. Ideale se servito a fine pasto a 12 – 14 ° col foie gras e ci formaggi dal gusto deciso accompagnati con miele e confetture. di frutta. L’Eliotes (in greco: “figlio del Sole”), moscato naturale di Pantelleria DOC, è un vino bianco naturale dolce di 14 ° ottenuto dal Moscato d’Alessandria in purezza. Le uve vengono raccolte a mano nella prima decade di settembre. Il moscato rappresenta la massima espressione dello Zibibbo, in questo caso elegante e raffinato con le sue note di fiori d’arancio e mele mature e un gusto dolce e mai stucchevole. Ideale l’abbinamento, a una temperatura di servizio di 12 – 14 °, con formaggi particolarmente profumati accompagnati con miele e confetture, ma anche con la pasticceria in generale. Si può ottenere un originale aperitivo unendo sorbetto al limone e due parti di Eliotes. Nella sua tenuta di Marsala Enzo Alagna produce invece un bianco e un rosso di notevoli virtù: il Grillo bianco di Sicilia IGT I.QUALITY • 93


Info: Azienda agricola Alagna tel-fax 0923020585 cell. 3275614952

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e il Cabernet Sauvignon Rosso Sicilia IGT, entrambi contraddistinti dalla specificazione Baglio Mafì. Il Grillo in purezza è uno dei più classici vini autoctoni siciliani con una forte carica di aromaticità e ricchezza di sensazioni di olfattive. Di colore giallo intenso e un marcato bouquet floreale quello di Alagna è un prodotto di 13 ° dal sentore di fiori freschi e frutta con una predominanza di melone e pesca bianca. Bevuto fresco, come aperitivo, si sposa piacevolmente con antipasti a base di pesce, insalata di polipo, gamberi e piccole fritturine di pesciolini freschi. La sua esaltazione si ottiene accompagnandolo con risotti alla marinara o spaghetti allo scoglio e con piatti siciliani a base di pesce fresco ai ferri, ma anche con carni bianche e formaggi stagionati. Il Cabernet Sauvignon (14 °) proviene da uve raccolte manualmente nei primissimi giorni di settembre in leggero anticipo rispetto alla piena maturazione. Il mosto viene messo in vinificatori a macerare con le bucce per circa due settimane per fargli acquisire tutte le sue migliori caratteristiche e poi messo a maturare in botti di rovere per oltre un anno E’ un vino dal colore rosso porpora intenso con profumi e sentori di cacao e con particolari sfumature di frutti di bosco maturi. Ideale per accompagnare secondi a base di carne rosse, come la classica fiorentina ai ferri oppure il filetto al pepe bianco. Molto Intrigante anche con stufato di cinghiale e carni di maiale e con salumi stagionati e formaggi sapientemente addolciti con miele o confetture di frutta. Temperatura di servizio 16-18 °.

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COVER STORY Di Antonio Bramclet

collier della linea Coralli

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Il cuore creativo del marchio Angela Caputi Giuggiù ha sede nel centro storico di Firenze, a due passi da Ponte Vecchio, in un antico palazzo Seicentesco meglio conosciuto come “Palazzetto Medici”. E’ qui che la stilista/designer fiorentina, ispirandosi al cinema Americano della prima metà del ‘900, cominciò a dare forma alle sue creazioni, nate da una consapevole passione per una moda caratterizzata da una idea di bellezza moderna e dal desiderio di comunicare con le donne. Questi due aspetti motivazionali spiegano bene l’apparente magia del successo della designer. Da un lato, fin dall’inizio Angela Caputi ha immaginato i suoi bijoux in relazione a ciò che nel processo di modazione definiamo tendenza: cosa poteva esserci negli anni settanta più di tendenza dei piccoli gioielli di celluloide? Dove trovare un altro materiale così evocativo, sognatore, futurista?

Angela Caputi

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collier della linea Tiger

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Via S.Spirito 58/r - Firenze

Interno della Boutique

Lavorazione in laboratorio

parigi

B.go SS. Apostoli 44/46r - Firenze

Via S. Stagi 50A - Forte dei Marmi

Via Madonnina 11 - Milano

Galerie Véro-Dodat - Parigi

Boutique 15 Galerie Véro-Dodat - Parigi

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L’altro aspetto rilevante è la natura transazionale dell’oggetto di Angela Caputi. Un oggetto, cioè pensato e creato per entrare in contatto con le altre donne, per sognare insieme, per chiacchierare, per divertirsi, forse per difendersi insieme. Si pensa sempre che il bijuox o il gioiello in genere serva alle donne per sedurre, per sovrastare con il linguaggio del corpo lo sguardo malato dell’uomo. Non mi pare che sia questo il messaggio che forma dopo forma, con parole diverse Angela Caputi ha imbricato nei suoi bijuox. Piuttosto io vi vedo un gioco sofisticato tra donne, che nell’oggetto mettono un po’ di se stesse, finendo per trasformarlo nell’oggetto transazionale che celebra il loro contatto. Dunque, oltre ad essere belli, i bijuox di Angela Caputi hanno la proprietà di predisporsi ad una discorsività che la maggioranza dei gioielli grandi e piccoli non hanno. Essendo creati per rendere possibile un contatto si basano su di un sano realismo ideativo che funziona come un limite, contro gli eccessi cercati dalla visionarietà di molti designer attuali. Il realismo di cui parlo compenetrandosi con il buon gusto ha permesso nel tempo ad Angela Caputi di affermarsi in tutto il mondo con prodotti percepiti per l’alto valore in termini di contemporaneità. Non a caso le sue creazioni hanno conquistato attenzioni e riconoscimenti in tutto il mondo… Dall’Alta Moda ai Musei. A tal riguardo si può citare la speciale esposizione dedicata dal Matropolitan Museum alla collezione Iris Barrel Apfel, intitolata “Rara Avis”, nella quale un posto di privilegio lo hanno avuto proprio le creazioni di Angela Caputi. Molto spesso quando si osservano i bijuox di Angela Caputi si scopre che presentano la strana proprietà di manifestare un sostanziale equilibrio tra effetto moda e dimensione artistica. In altre parole: le sue creazioni lasciano immaginare una fantasia poetica che cerca in qualcosa di classico il suo punto di stabilità, rimanendo però coerente con l’andamento mosso dell’immaginazione. Ecco perché i suoi oggetti sembrano costantemente in evoluzione (moda) ma anche atemporali (arte). Un altro aspetto che caratterizza le creazioni di Angela è la cura dei dettagli. Dalle linee geometriche ma morbide, ai colori fantastici dalle mille sfumature, sino alla selezione dei materiali “semplici”; resine plastiche rese preziose dalla lavorazione tutta fatta a mano, dagli accostamenti accurati e dal design originale ed estroso… Ebbene tutte le dimensioni con le quali possiamo decostruire il bijoux di Angela Caputi sono sottoposte ad una regolazione accurata, per certi aspetti misteriosa. E’ il perfetto controllo di questa misura la dote fondamentale della designer da cui discende la fusione armoniosa di materiali, colori, estetiche altrimenti in tensione. La bellezza come armonia tra dimensioni in contrasto tra loro, ecco una definizione che potrebbe calzare per raccogliere in poche parole gli effetti simbolici dei Bijoux di Angela Caputi. Una bellezza dunque che si lega alla tradizione dell’artigianato artistico (controllo magistrale degli elementi costitutivi) e al bisogno delle donne attuali di vivere il loro tempo con oggetti intelligenti che le sappiano divertire e far sentire in armonia con sé stesse.

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nelle pagine 100-101 carellata dei negozi Angela Caputi; qui sopra linea Corno; nella pagina accanto dall’alto in senso orario: liea Mandela, Mattonelle, Marmo e Hawaii

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collier della linea Betulla

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collier della linea Stelle

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collier per i 150 anni dell’unità d’Italia

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Le valenze simboliche delle creazioni di Angela Caputi che ho sottolineato sono state perfettamente colte sia dal mondo dello spettacolo sia dall’Alta Moda. Non è certo stato per caso se le creazioni Giuggiù hanno arricchito abiti e costumi di scena della Televisione e del Cinema attraverso una collaborazione sempre più stretta con i più prestigiosi costumisti. Tutto ciò ha aumentato la notorietà travolgente del marchio, costringendo Angela Caputi ad allargare la diffusione dei propri bijoux in molti Paesi esteri e ad aprire un nuovo negozio monomarca a Parigi, ultimo arrivato dopo Firenze, Milano e Forte dei Marmi.

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GREAT EXHIBITION

Diana Vreeland after Diana Vreeland Una grande mostra organizzata a Palazzo Fortuny 10 marzo- 26 giugno 2012 (Venezia) da Judith Clark e Maria Luisa Frisa permette per la prima volta in Italia di ammirare la genialità, le scelte editoriali e curiatoriali di una delle donne più importanti della moda del novecento. Di Lamberto Cantoni

“Diana worked like a dog; she did not want to be perceived that way, but she was, without exception, the hardest working person I’ve ever know… Diana lived for imagination ruled by discipline, and created a totally new profession. Vreeland invented the fashion editor. Before her. It was society ladies who put hats on other society ladies! Now it is promotion ladies who compete with other promotion ladies. No one has equalled her – not nearly. And the form has died with her.” Richard Avedon, Discorso in memoria di Diana Vreeland al Metropolitan Museum of Art, il 6 Novembre 1989

Diana Vreeland

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Diana Vreeland, Richard Avedon e Dovima

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Ritratto di una mente in movimento Una foto molto eloquente di Richard Avedon racconta meglio di tante parole la serena gravità con la quale Diana Vreeland contribuì a creare l’eccezionale successo di Harper’s Bazaar dagli anni trenta agli anni sessanta. Osservate l’immagine: la celebre fashion editor riflessa in uno specchio osserva, stringendo occhi e sigillando la bocca, la sofisticata capigliatura di Dovima, una delle poche modelle conosciute in tutto il mondo intorno alla metà degli anni cinquanta. L’acconciatura di Enrico Caruso, l’hair designer, accentua i tratti del volto aristocratico della modella; il trucco e la foto in bianco e nero avvicinano il suo volto alle sembianze espressive di una diva del cinema muto. La posa improvvisata dalla modella, intesa a far emergere un effetto o un aspetto della bellezza che non riesco pienamente a comprendere, aggiungono all’immagine la tipica aura delle grandi foto di moda del periodo. Avedon, come un giocoliere sta girando intono alla scena cercandone l’attimo decisivo. Diana Vreeland è dietro al fotografo, la sua immagine appare sfuocata. Eppure è lei che cattura la scena. Percepiamo che il suo sguardo clinico cerca i sintomi di una bellezza “altra” che oggi definiamo tendenza. Era infatti di quest’ordine la richiesta dei committenti dei servizi: trasformare abiti, accessori, modelli di femminilità in un messaggio desiderante in addivenire; era la speranza di incontrare il futuro della moda che spingeva le lettrici ad amare con passione Harper’s (e il rivale storico Vogue). A Diana Vreeland veniva attribuita la capacitazione a vedere ciò che le sue lettrici non sapevano ancora di desiderare. Ecco dove porta lo sguardo della fashion editor, perfettamente colto dall’occhio intelligente di Richard Avedon. Ma esiste veramente questo sguardo che come nello specchio magico di “Alice nel Paese delle meraviglie” di L. Carroll, ci proietta in un mondo incantato nel quale gli abiti ci trasformano in personaggi da favola? Se osserviamo la questione dal punto di vista di Diana Vreeland la risposta non può che essere positiva. La celeberrima fashion editor di Harper’s fino al 1962, poi divenuta Editor in Chief di Vogue e infine nel 1972 la Special Consultant del Metropolitan Museum of Art’s Costume Institute, al culmine della sua carriera come fashion editor veniva considerata una vera e propria trendsetter. Ma in che cosa consisteva la sua particolare veggenza? Diciamo subito che operare fiancheggiata da personaggi del calibro di Carmel Snow (Editor in Chief di Harper’s dagli anni trenta fino alla fine dei cinquanta), di Alexey Brodovich (a mio avviso l’art director più efficace del periodo) e avere a disposizione talenti fotografici come Hoyningen-Hoene, la Dahl-Wolfe, Toni Frissell e il grandissimo Richard Avedon era di per sé una garanzia di qualità dei messaggi certamene da non sottovalutare. Bisogna aggiungere però che essere circondata da talenti a volte può avere un effetto devastante. Se penso al lavoro di routine di una rivista come Harper’s Bazaar non posso non immaginare quanto fosse difficile anche per una persona preparata reggere il confronto con i mostri sacri che ho citato. Per esempio nel corso delle revisioni dei layout, non doveva essere affatto scontato farsi approvare sequenze di pagine o determinate visioni della moda senza incorrere nelle censure di personaggi già leggendari come Carmel Snow ( fu stretta collaboratrice di Condé Nast e di Edna Chase, negli anni venti) e A. Brodovich. Il carisma e la giustezza delle visioni di Diana Vreeland fin dall’inizio della sua carriera le donarono il privilegio di trasmettere fiducia ed entusiasmo nelle persone che la circondavano. Era difficile trovare in una sola persona tute le competenze che Diana

Vreeland sembrava accumulare senza nessun sforzo. Poteva essere considerata la migliore stylist in circolazione; nessuno come lei aveva a cuore dettagli come le pettinature e altri accessori. Il rapporto che era capace di stabilire con le modelle divenne leggendario. Probabilmente l’aiutava tantissimo il fatto che lei stessa poteva essere una modella di impareggiabile pathos. Ci sono numerose fotografie scattate dall’amica Dahl Wolfe, regolarmente pubblicate, che lo confermano. Pur non essendo una donna bellissima, aveva perfettamente colto lo spirito della fotogenia, piegandolo ai bisogni della sua visione della moda: una Donna moderna, romantica, elegante, sofisticata, rigorosa ma anche molto autoironica. La sua immaginazione era debordante e penso fosse difficile rivaleggiare con le sue visioni o cercare di piegarle in direzione di un approdo non previsto dalla protagonista. Sul set fotografico era lei che menava la danza e bisogna aggiungere che i grandi fotografi di Harper’s diedero il meglio di sé proprio nei decenni caratterizzati dalla leadership della coppia Brodovich/Vreeland. Richard Avedon forse esagera quando ricorda che il lavoro di fashion editor fu inventato dalla nostra protagonista. Ma è senz’altro vero che dopo di lei nessuno lo ha mai interpretato con tanto successo. Oltre ad una fashion editor eccezionale, Diana Vreeland si rivelò anche un’abile redattrice. La sua rubrica mensile intitolata Why Not You…? debuttò nell’agosto del 1936 e divenne in breve tempo seguitissima dalle lettrici. Come mai pseudo-istruzioni del tipo – “Why don’t you rise your blonde child’s hair in dead champagne, as they do in France?” – generarono tanto interesse? Penso che le fans di Diana trovassero nei protocolli bizzarri che l’autrice, forse scherzando un po’, proponeva con l’assertività di una poetessa visionaria, quella libertà un po’ folle dalle quale nasce lo chic come modo del gusto assolutamente individuale. La grande mostra di Palazzo Fortuny Grazie a Lisa Immordino Vreeland, autrice di un pregevolissimo “Diana Vreeland, The Eye has to Travel (Abrams, Ney York,2011), committente della mostra in questi giorni a Venezia, e due tra le più affermate curatrici di eventi museali moda del vecchio continente, Judith Clark e Maria Luisa Frisa, della celebre fashion editor di Harper’s in seguito direttrice di Vogue, possiamo oggi ammirare gran parte del percorso professionale, attraverso una scelta di bellissime immagini e soprattutto grazie agli abiti dei couturier da lei più amati. A dire il vero con la mostra “Diana Vreeland After Diana Vreeland” le due curatrici hanno voluto focalizzare soprattutto l’ultima fase della sua carriera. Nel 1971, quasi all’improvviso, l’allora direttrice di Vogue, ovviamente già da anni una vera e propria leggenda per chi amava la moda, venne brutalmente licenziata dalla Condè Nast. Nemmeno il tempo per riprendersi dallo shock ed ecco arrivare l’annuncio ufficiale che l’ex direttrice veniva assunta dal prestigioso Metropolitan Museum con il titolo di special consultant per modernizzare la sezione dedicata alla storia del costume. Fino ad allora la museificazione degli abiti seppur prestigiosissimi non sembrava incontrare un successo travolgente tra il pubblico. Con Diana Vreeland cambiò tutto. In 10 anni di collaborazione curò personalmente 10 grandi mostre che divennero veri e propri eventi mediatici. Se oggi qualsiasi museo al mondo ambisce ad organizzare mostre sulla moda penso lo si debba soprattutto all’azione impetuosa

Diana Vreeland fotgrafata da Dahal Wolfe per Harper’s Bazaar

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Il primo “Why Don’t You...” di Diana Vreeland, Harper’s Bazaar, marzo 1936

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della Vreeeland. In un colpo solo spazzò via dal suo orizzonte tutti i pudori legati al modo burocratico conservativo di concepire un museo della moda, introducendo spettacolo, visionarietà ed emozioni in edifici divenuti freddi e distanti come chiese. Alcuni numeri possono farci capire meglio l’impatto che ebbero le scelte della Vreeland sulle strategie che sarebbero in breve tempo divenute un vangelo per tutti i musei: The Glory of Russian Costume, 835862 paganti; Romantic and Glamorous Hollywood Design, 798665 paganti. Aldilà del successo pubblico l’interesse mediatico che gli eventi della Vreeland suscitavano, divennero un altro parametro di valutazione oggi facilmente riconoscibile. Da The World of Balenciaga (1973) a Yes Saint Laurent:25 Years of Design (1983) l’ultima mostra che curò di persona, ogni evento voluto dalla Vreeland si riverberava in tutto il mondo, suscitando commenti, polemiche, entusiasmi. Si potrebbe sostenere che nel suo contesto lavorativo, Diana Vreeland sia stata tra le prime a sposare sistematicamente la strategia dell’evento spettacolare, senza cedere nemmeno di un cm, sul rigore e la qualità degli oggetti esposti. Ma perché fu così criticata? Negli anni sessanta e settanta del novecento, le poche mostre di moda o costume che venivano organizzate nei musei si basavano su manichini anonimi sui quali venivano accuratamente posti gli abiti storici, immancabilmente protetti da teche e da una luce anoressica che rendevano precaria la loro visione. Diana Vreeland la pensava diversamente. Come scrive Judith Clark il un saggio contenuto nel libro citato di Lisa Immordino Vreeland, “Vreeland added props as centerpieces (carriages, sleighs, suits of seventeenth-century armor, even cast elephants), she piped in music and sprayed perfume through the galleries, istalled dramatic directional lighting, and, most controversially of all, restyled historical silhouettes to her own taste, re-created the costumes she loved, and turned a blind eye to chronology”… In breve, l’abito doveva piegarsi alle esigenze della messa in scena e la sua significazione dipendeva dalla narrazione che la curatrice aveva scelto di privilegiare. Gallerie profumate, musica, oggetti di varia natura sparsi tra i manichini posizionati in piccoli raggruppamenti dotati di una certa autonomia... Sembra chiaro che la curatrice con queste scelte puntasse a coinvolgere la fruizione dell’oggetto in un’esperienza sempre più avvolgente, anche al costo di un allontanamento evidente dalle regole di esibizione di oggetti museificati, dominate dal rispetto della cronologia, della sacralità dell’oggetto. Inevitabili e feroci furono le polemiche con molti storici del costume, incapaci in quegli anni di comprendere la sottile trama semiologica che Diana Vreeland stava tessendo. Per i primi l’unica presentazione dell’oggetto degna di un museo doveva avvenire in modo incontaminato, rigoroso, sequenziale. Per Diana Vreeland l’oggetto senza qualcosa che lo strappasse di forza dalla suo annichilimento mortifero non aveva senso. Ecco perché i manichini potevano essere colorati e abiti da sera di metà novecento potevano essere accompagnati da un cavaliere corazzato in tenuta da guerra. Ancora una volta l’immaginazione travolgente di Diana Vreeland ha il sopravvento rispetto le semplici regole. L’istanza narrativa che con le sue contaminazioni imbricava tra gli oggetti esposti fu immediatamente percepita dal pubblico che ne decretò il successo. Judith Clark e Maria Luisa Frisa, incaricate di costruire un percorso tematico dal quale emergesse la storia di una vita professionale

Maria Luisa Frisa e Judith Clark curatrici della mostra di Palazzo Fortuny

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Per il servizio The Italian Collections, Benedetta Barzini e Mirella Petteni presentano gli abiti di Valentino, foto Henry Clarke, “Vogue”, 15 setembre 1968

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Benedetta Barzini con un collier di Bulgari, foto Gian Paolo Barbieri, “Vogue”, 15 setembre 1968

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Copertina dedicata alla vittoria dopo la seconda guerra mondiale “Harper’s Bazaar”, settembre 1945

dedicata alla moda, hanno tentato di riprodurre per Diana Vreeland le medesime suggestioni che la grande fashion editor creava con l’allestimento delle sue celebri mostre. Gli abiti di Yves Saint Laurent, Balenciaga, Chanel, Pucci, Schiapparelli, in parte provenienti dal guardaroba della protagonista e in parte da musei, sono esposti a Palazzo Fortuny con l’intenzione di presentare il racconto di uno stile di vita dominato dall’artificio poetico, dall’immaginazione romantica, dalla mente sempre in movimento. In modo esplicito le due curatrici ci invitano a pensare che se Diana Vreeland fu la prima fashion editor (nel senso che fu la prima a valorizzarne il lavoro) negli anni trenta; la stessa protagonista negli anni settanta fu assolutamente centrale nel far emergere l’importanza di una nuova figura creativa nel panorama espositivo: la fashion curating. Chissà, forse tra l’attitudine a costruire e dirigere una rivista e la capacità di mettere in scena la moda in un museo c’è quella somiglianza di famiglia che Wittgenstein amava citare quando parlava dei giochi di linguaggio.

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La rubrica “Why Don’t You...?”, Harper’s Bazaar, marzo 1937

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Mia Farrow modella per RIchard Avedon, “Vogue”, 15 aprile 1966

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NEW BRAND

D’ALMA Il romanzo di una Collezione Di Federica Melani

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Sono le 22:00 di un venerdì sera e la mia camera è un caos. Sto rivoluzionando il mio armadio alla disperata ricerca di un vestitino e un tacco 12 che risaltino le mie gambe e il mio corpo, per distogliere l’attenzione dalla faccia stanca e provata dalla settimana. Tra mezz’ora passa a prendermi Romina, mia fedele compagna di avventure da più di un anno, e ci dirigiamo insieme allo Yab, uno dei locali più in voga e IN di Firenze. Qui tutto è esasperato. Vedo arrivare macchine belle, bellissime. All’ingresso ragazzi e ragazze impeccabili ed eleganti che mentre mi passano accanto non lasciano la scia del loro profumo ma quella dell’aria che solo per un attimo vogliono farmi respirare per ribadire quanto sono fortunati, invidiabili e ricchi. Io non invidio ma osservo. Osservo quanti soldi girano all’interno del locale: tanti, tantissimi. Non stiamo parlando della classica clientela che consuma al bancone, stiamo parlando di ragazzi giovanissimi che ogni settimana spendono al tavolo normali stipendi, barattando la stima delle belle ragazze con bottiglie di vodka e champagne da 1000 € l’una. Osservo con quanto scrupolo tutto sia curato, ed è strano come si cerchi di inquadrare un mondo che invece non vuol essere inquadrato: il mondo della notte. Un’amante infedele, la notte. Nasconde ma svela, è l’altra faccia della nostra medaglia, crea l’illusione di vivere in un’altra realtà, una dimensione fatta di eccessi, di sballo, dove tutto è concesso, tutto accade veloce ma al tempo stesso a rilento, come se le ore non passassero mai. Tutto si consuma sul filo del rasoio, tutto è ovattato, la libertà di non avere freni è un gioco dove la gente si reinventa, un gioco pericoloso alcune volte, sesso, droga e per ultimo e minore importanza, rock’n’roll. Strano a dirsi ma è proprio in questo contesto che ho avuto lo stimolo per un progetto che da gioco è diventato lavoro. “Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L’ho sentito fischiare... Il treno? Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato!” Come Belluca il mio treno ha fischiato e mi ritrovo in un vortice di idee che non posso frenare quando, una normalissima notte come tante altre, io e la mia amica Romina ci siamo guardate negli occhi e abbiamo capito che era arrivata l’ora di cambiare un po’ le cose, era l’ora di agire e non più di subire, di imporsi con qualcosa di nostro, di far capire a tutta quella gente che eravamo due cervelli prima che due “cosce”, anzi, due anime, pronte a tutto pur di riscattarsi per la troppa ambizione. Due anime, dicevo, che in spagnolo sento pronunciare da Romina in modo perfetto, date le sue origini Argentine: Dos Alma. E da qui inizia la storia, da qui comincia il “romanzo di una collezione”. Mi chiamo Federica Melani e abito in un paesino vicino Firenze. Alle superiori ho frequentato il liceo artistico, indirizzo pittura ad Empoli non solo per la sensibilità verso l’arte e la facilità con la quale disegno, ma per la convinzione che nella mia vita avrei fatto qualcosa di inerente alla creatività. Sono un’anima in pena, “sconfusionata” e irrequieta per il sovraccarico di energie che mi ritrovo in corpo. Una vita frenetica la mia, per scelta, e segnata da moltissimi errori che, come accenti sulle vocali, completano la struttura di un dettato non molto lungo ma sicuramente intenso. Finite le scuole superiori, mi ritrovo a dover scegliere realmente quale sarebbe stata da quel momento in poi la mia posizione nella società. Dopo un anno sabbatico nel quale mi sono improvvisata commessa, cameriera e fioraia, ho scelto di iscrivermi ad una scuola di moda a Firenze: il Polimoda con indirizzo in Marketing Communication. Si riparte per l’ennesima volta da zero. Nuova città. Nuove compagne. Nuovi ritmi. Ma tutto dannatamente interessante e stimolante per me. Una scuola che prepara sui retroscena della moda, della pubblicità, del consumo, su quel circolo vizioso che si chiama “mercato”, sulla comunicazione e, a parer mio, “su come si abbindola la gente”. Non è facile, dovendo mantenere tutte le mie spese da sola, frequentare i corsi senza lavorare ecco perché, continuo a I.QUALITY • 122

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trarre più profitti possibili dalla mia seconda scuola di vita: i locali notturni, dove lavoro da più di quattro anni e dove ho modo di vedere migliaia di persone ogni sera. Dove ho modo di osservare mille volti e stili, mille modi di interpretare la moda per esibirsi, mille modi di atteggiarsi e vestirsi che danno vita a mille spunti e a mille idee. In questo mondo le righe non ci sono quindi non importa nemmeno leggervi dietro, tutto è abbastanza chiaro e l’abbigliamento delle persone rispecchia ciò che realmente sono, non avendo vincoli con il “perbenismo”. “Si parte, si parte … Signori, per dove? Per dove?” Quella magica sera, quando il mio treno ha fischiato, è stato un fulmine a ciel sereno. L’accumulo di stress che condividevo con la mia amica Romina per la frenesia dei nostri ritmi, ci ha portate a decidere che dovevamo stravolgere le cose e che mettendo insieme le nostre qualità, la nostra creatività, le nostre conoscenze, la nostra voglia di fare e il nostro estro avremmo potuto creare qualcosa di veramente interessante. Non c’è più tempo da perdere. Siamo arrivate alla fine dell’estate e questo progetto ci martella in testa incessantemente. Chiamo subito mio padre, l’uomo che più amo e odio al mondo, e mi intrometto nei suoi impegni lavorativi perché doveva dedicare a me e Romina dieci minuti del suo pomeriggio. Mio padre è titolare, insieme ad altri due soci, di una confezione di abbigliamento in pelle a Castelfranco di Sotto (PI) chiamata SEM e creano linee di giacchetti da più di trenta anni per un target elevato e classico. Sono cresciuta con l’odore della pelle nel naso e da piccola mi divertivo a disegnargli capospalla ridicoli e irrealizzabili convinta che un giorno li avrebbe presi in considerazione. Invece non mi ha mai considerato, anche quando, a distanza di anni, gli propongo di rinnovare la sua linea di abbigliamento, di rivisitare un po’ i modelli, i colori, le forme per ringiovanire e rendere più frizzante l’immagine della sua azienda. Ma in fondo cosa voglio saperne io di come va il mondo? Ecco cosa mi sento dire, e la voglia di rivalsa è sempre più grande perché in cuor mio, sapevo che le mie idee non erano poi così assurde e improponibili come diceva mio padre. Non mi arrendo. Inizio a disegnare, strappo le pagine dei giornali di moda appena vedo un chiodo di pelle, osservo le ragazze, i loro giacchetti, come un gufo scruto quelle che entrano traballando sopra i loro tacchi 15 cm già ubriache allo Yab e conservo tutto il materiale confrontandomi poi con Romina che ha gli stessi miei gusti anzi, la focosa argentina si appassiona quanto me a questa cosa e insieme ogni pomeriggio ci mettiamo a disegnare, a scaricare immagini, a sfogliare riviste per arrivare ad una conclusione che ci ha complicato la vita: avevamo una nostra linea di capospalla in pelle da realizzare. Ma come? Inizia una vera e propria guerra. Ma in guerra e in amore sono le ritirate che scatenano le avanzate e davanti a tutti i “no” di mio padre si accumula una determinazione sempre più prepotente da parte nostra. Doveva ascoltarci. Doveva darci fiducia. Doveva credere in noi. Noi che chiamiamo la nostra ipotetica linea D’ALMA, l’insieme di due parole (dos alma, due anime) che ribadiscono il forte legame tra me e Romina. Due sorelle. Quello strano susseguirsi di casi, che io chiamo destino, ci ha fatto conoscere in modo bizzarro ma ha dato vita ad un’amicizia talmente forte che solo con lei avrei potuto intraprendere un progetto del genere. Ma D’ALMA è anche un acronimo che sta alla base della nostra filosofa: Davanti Ai Limiti Mai Arrendersi. E noi non l’abbiamo fatto, neanche per un secondo. Non ci siamo arrese davanti a niente, davanti ai no di chi non ci credeva, davanti allo sconforto di chi ci dava per pazze, davanti a chi rideva dicendo che azzardavamo un passo troppo grosso e che, dato il nostro aspetto fisico, dovevamo puntare su quello e non sull’imprenditoria. I.QUALITY • 124

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“Settembre, andiamo, è tempo di migrare” sono forse gli unici versi di D’Annunzio che ho amato veramente ed è proprio a settembre che cambiano le cose. Mio padre sembra cedere alle nostre pressioni e decide di assecondarci dandoci l’opportunità di lavorare con la sua modellista e la sua stilista Elisabetta Gambini, di usare i suoi materiali e le sue attrezzature. Comincia un lavoro che dura interi mesi perché anche quello che sembrava più facile da realizzare in realtà non lo è. Iniziamo anche a cercare un diversivo per l’effetto che volevamo trasmettere sul giacchetto: un capo che doveva sembrare vissuto, un po’ consumato e che avesse “qualcosa da raccontare”. Quindi pelle tinta in capo, unita ad un lavaggio con le pietre che desse quel tocco di vintage al quale ci ispiravamo. Colori forti ed accesi che contrastano i tagli regolari e semplici. Spesso mi è capitato di chiedere agli amici quale fosse il capo nell’armadio al quale erano più affezionati. Nella maggior parte dei casi la risposta è stata: un giacchetto di pelle.

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È anche il mio caso. Mi sono chiesta il perché e la risposta l’ho trovata quando ho capito quanto si tenda ad associare un bel ricordo vissuto a ciò che stavamo indossando in quel momento. Ecco l’amore per il giacchetto in pelle, che non è più un oggetto che ripara dal freddo, acquista valori diversi, si libera della sua funzione e vive di luce propria come se filtrasse ciò che proviamo ed un po’ lo conservasse al suo interno. Abbiamo lavorato tanto e duramente, ma alla fine il sacrificio è stato ricompensato dalla soddisfazione di vedere realizzata un’intera collezione primavera/ estate 2012. Ogni capo curato nel dettaglio ed unico nel suo genere. Alle spalle abbiamo avuto la ditta di mio padre che lavora nel settore da tantissimi anni e senza la quale, lo ammetto, non avremmo potuto fare niente, abbiamo potuto contare sulla qualità della pelle, sul made in Italy e sulla manodopera che rendono ogni giacchetto inimitabile. E poi ecco arrivare un’altra idea. Qualcosa di veramente graffiante: la pelle nera che si adatta al corpo femminile come seconda pelle, e che sottoforma di capospalla diventa un urlo silenzioso di egocentrismo. Un’edizione limitata fatta da capi che si distinguono dagli altri per il loro tocco aggressivo e accattivante che solo la borchia può dare. Borchie sulle spalline rinforzate, borchie nel reverse e sulle maniche, borchie sulla cintura da portare rigorosamente sganciata. Un argento, quello della borchia, che viene risaltato in maniera perfetta dal nero lucido della pelle e che deve essere sdrammatizzato da un abbigliamento più classico e regolare. Due concept che sono opposti ma che si attraggono, perché secondo noi questi capi, se abbinati in modo giusto, riescono a rendere elettrizzanti e passionali anche i tubini neri più semplici. Una borchia killer che non ribadisce la trasgressione, dato che ormai tutto e niente è trasgressivo, ma che aumenta quell’alone di mistero che ogni donna porta con sé. Quell’altalenarsi di ruoli che ciascuna donna interpreta. Quel gioco di identità che diventa tangibile quando ad un vestitino all’apparenza sobrio e casto, viene abbinato un giacchetto in pelle nero borchiato attillato che ribalta il messaggio: sono buona quanto cattiva. Ci siamo divertite molto anche nel fare lo scouting e tutta la parte fotografica curata dal mio carissimo amico Francesco Nuti. Siamo state pretenziose e forse un po’ egocentriche ma come testimonial nessuno meglio di noi poteva incarnare il concetto D’ALMA. Quindi ci siamo improvvisate modelle per la nostra campagna pubblicitaria facendoci coinvolgere anche a livello emotivo. Qui finisce la storia, o forse comincia. Come andrà a finire non lo so ma di sicuro so con quanta grinta abbiamo creduto nel nostro progetto, anche quando tutto sembrava remarci contro. So che adesso vogliamo farci conoscere, abbiamo progetti per ingrandirci e migliorarci, vogliamo far capire che in mezzo all’oceano ci siamo anche noi. Sarà altrettanto dura e difficile la strada anche perché abbiamo scelto un gioco nel quale non ci sono regole ma voglio arrivare un giorno a poter dire: quanto abbiamo fatto bene a giocare.

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DESIGN

Giorgio Baroni. Casa: forme e colori Di Claudia Pelizzari

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Forse Giorgio non l’ha mai saputo, ma da sempre lo ricordo con un amarillis in mano. Conosciuto da poco, era arrivato per fotografare una casa da me realizzata, portandomi quell’unico fiore. Rosso. E il rosso l’ho ritrovato spesso nei tagli delle sue fotografie. Foto mai ovvie, prese da angolazioni sempre insolite, imprevedibili. Come quella volta che lui stava fotografando una casa per una famosa testata di architettura e insieme, nella stessa casa, si trovava una responsabile di una testata concorrente, con il suo fotografo. Giorgio si era messo a fotografare un sottoscala. E lei incuriosita e allibita allo stesso tempo, aveva subito capito con “che tipo di fotografo” avrebbe avuto a che fare da quel momento in poi. Perché da quel momento in poi non si sarebbero più lasciati. Professionalmente. Giorgio non conosce le prospettive ovvie, nelle foto come nella vita. In lui esiste una sincerità di fondo che non gli permette di falsificare le luci naturali, in una stanza come dentro un’amicizia. La luce del giorno che attraversa e scolpisce i piani e gli oggetti di un interno, non è mai falsificata da una lampada accesa in una giornata di sole. Ama raggruppare forme e colori come sulla scena di un teatro. Li anima, li muove, li inclina, li accatasta, li accosta. A volte li capovolge. E loro, gli oggetti, non rimangono lì impalati, come in uno still life qualunque. Regalano, a noi che guardiamo le foto, attimi di emozione. Lui, con quella sua risata dai denti bianchissimi e con quegli occhi da gatto che viaggia, unisce amici, artisti, clienti, editori, con lo stesso amore e la stessa professionalità con la quale sceglie o non sceglie un soggetto da fotografare. Si, perché si concede il lusso etico di saper rinunciare a incarichi che non sente. Devo confessare che io, dalla sicurezza dei miei colori sabbiosi, ho molto faticato ad accettare le sue esplosioni cromatiche. Ma poi la sua personalità l’ha avuta vinta sui miei timori. Aspetto fremente il momento di poterlo vedere all’opera, quando monta il suo cavalletto e dispone la scena, sistemando mobili ed oggetti. A volte cambiando gli accostamenti da me realizzati. Puntuale arriva la sua espressione di entusiasmo e scaramanzia che aspetto ogni volta: “Copertina!!!“ E allora so che si decolla… La casa prende forma, come lui la fa vivere, posizionando e scambiando. In quei momenti non mi importa più di essere una Interior Designer. Voglio essere solo la sua aiutante, un po’ facchina.

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Federico Wilhelm, Proiezione di fede - www.federicowilhelm.it

CHARITY

TIBET, DUEPUNTI DI VISTA Di Francesca Flavia Fontana

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Stefano Puviani, Raggi di speranza

Uno spiraglio di luce, un piccolo risveglio del cuore hanno guidato l’anima di Duepunti che ha voluto con un gesto concreto aiutare i bambini del Tibetan Children’s Villages (TCV) di Dharamsala in India. Lo scorso novembre a Milano, presso lo storico Palazzo Visconti, ha avuto luogo l’evento Duepunti di Vista, a cura dell’associazione no profit Tibet House Foundation Italy e di Duepunti, marchio di gioielleria che sostiene un importante progetto di charity nei confronti dei Tibetan Children’s Villages. Gli oltre 300 ospiti intervenuti hanno decretato il successo della serata. Grazie ai fondi raccolti sarà possibile aiutare e sostenere concretamente i numerosi bambini tibetani in esilio, orfani e bisognosi, attraverso progetti legati al loro mantenimento, alla loro istruzione fino alla realizzazione dei bisogni primari. Sono intervenuti tra gli altri: Alberto Fortis, Madalina Ghenea, Michi Gioia, Veridiana Mallmann, Cristina Parodi, Ana Laura Ribas, Francesca Senette, Francesca Versace, Raffaella Zardo e tante dame e signori del bel mondo. Durante la serata si è svolta una vendita di beneficenza di una trentina circa di fotografie e opere d’arte ispirate al mondo del Tibet, realizzate da numerosi artisti tra i quali Antonio Auricchio, Dario Ballantini, Cristiano Bendinelli, Paola Cassola, Claudio Cardelli, Alberto Giuliani, Pierangelo Gramignola, Renato Missaglia, Fernando Moleres, Enrico Pescantini, Stefano Puviani, Giancarlo Radice, Giuliano Radici, Gianni Rusconi e Federico Wilhem. Oltre a questa attività sono anche stati messi in vendita alcuni manufatti provenienti dal Tibetan Children’s Village (TCV) di Dharamsala, e gli anelli in silicone con brillante Duepunti. Il ricavato della serata è stato interamente devoluto ai Tibetan Children’s Villages.

Duepunti è un marchio di gioielleria che fa capo a Vai Milano. Una storia che nasce oltre 50 anni fa nel cuore del Milano è quella che racconta di un’Azienda, la Vai Milano, da sempre focalizzata sulla produzione artigianale di oreficeria. Diretta e amministrata da Emanuele e Matteo Vai figli del fondatore Enzo Vai, presidente onorario, che seguendo le orme e gli insegnamenti del padre, hanno iniziato da un decennio un percorso volto a innalzare il livello innovativo dei prodotti mirando ad un target decisamente più esclusivo. Tecnologia ed innovazione che hanno portato a una seria riorganizzazione nel processo produttivo che si è evoluto in una moderna produzione “in serie”, senza però perdere di vista il valore dall’artigianalità e della tradizione. L’azienda ha sede in Milano dove risiede anche il laboratorio produttivo e conta oggi su circa quaranta addetti. In linea con questa filosofia e sempre alla ricerca di novità interessanti, nei primi mesi del 2011 lanciano il brand Duepunti, nato dalla condivisione di un progetto con un’altra azienda orafa: l’idea è quella di coniugare una pietra preziosa, il diamante, con un materiale inconsueto e moderno, il silicone. Nel marzo di quest’anno, seguendo le tendenze del mercato e le esigenze dei clienti, è nata una nuova collezione EgoYou Graffiti d’amore. Si tratta di una linea di gioielli da personalizzare: anelli, orecchini, ciondoli, bracciali, in argento o in oro su quali è possibile far incidere delle parole, una frase, un messaggio, una poesia. La preziosità dell’argento o dell’oro e l’incisione artigianale danno vita a una collezione di gioielli assolutamente unici, assolutamente esclusivi. La Tibet House Foundation è un’associazione no profit nata a Brescia e i cui scopi principali sono quelli di raccogliere fondi per la sopravvivenza e l’aiuto ai bambini e giovani dei TCV, sotto l’autorizzazione personale del XIV Dalai Lama. I.QUALITY • 148

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Claudio Cardelli, Bambini rifugiati

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Enrico Pescantini, Dharma

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Stefano Puviani, Free spirit

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Antonio Auricchio, L’ora della conoscenza

Stefano Puviani, Holy smoke

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Giuliano Radici

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Alberto Giuliani, Prayers hill, a woman throwing prayers

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REPORTAGE

Israele: 64 anni di vita con 4000 anni di storia alle spalle Di Lamberto Selleri

La città di Geruusalemme

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da sinistra: Tel Aviv Hotel Orchid, Tel Aviv, il lungo mare e la spiaggia di Tel Aviv, vecchia e nuova Tel Aviv a confronto

3,5 milioni: a tanto ammontano i turisti che hanno visitato l’anno scorso Israele e 7,5 milioni sono gli israeliani che vivono in questo territorio che ospita 71 parchi nazionali e 230 riserve su una superficie pari al 25 % del paese. L’Unesco vi protegge ben 17 siti come Patrimonio dell’Umanità e tre religioni monoteiste hanno concentrato tante testimonianze in Palestina come in nessun altro paese al mondo. Patriarca per gli ebrei, i cristiani si considerano suoi discendenti, profeta per gli islamici: Abramo è l’anello di congiunzione di queste tre importanti religioni monoteiste. Purtroppo, però, da millenni coloro che le professano non sempre riescono a convivere pacificamente e questo ha creato in passato (10 Crociate) - e crea tuttora - motivi di contrasti anche molto cruenti, che spesso sono sfociati in guerre di religione. In Israele c’è una città considerata porto franco da un punto di vista confessionale (ma non politico) per la presenza di luoghi “sacri” di tutte e tre le confessioni: Gerusalemme. I mussulmani sono venuti alla ribalta con il profeta Maometto 1500 anni fa nella penisola arabica e Gerusalemme, in Palestina, è il luogo dove Maometto salì al cielo nel posto dove ora si ergono la moschea Al-Aqsa e la dorata Cupola della Roccia. Per i fedeli mussulmani questa città è considerata la terza città sacra dell’Islam. La divulgazione della fede cristiana ebbe inizio in Palestina 2000 anni or sono. Gesù Cristo, il Messia, subì la crocefissione a Gerusalemme dove fu sepolto, poi ascese al cielo (oggi Basilica del Santo Sepolcro). Per tutti coloro che professano le fede in Cristo, Gerusalemme è considerata Città santa. Vissuto circa 4000 anni fa Il patriarca della religione ebraica è Abramo che condusse il proprio popolo dalla Mesopotamia verso una terra I.QUALITY • 166

più fertile, la Palestina. A Gerusalemme, per ben due volte, fu costruito e distrutto il tempio ebraico. Resta in piedi parte del muro di contenimento del tempio (il muro del pianto), ora è diventato il santuario religioso più importante per gli ebrei. La storia di questo popolo è stata purtroppo un susseguirsi di esodi, diaspore e persecuzioni che spesso l’hanno allontanato dalla propria patria, la Palestina, obbligando gli ebrei a vivere separati (diaspora) nei singoli stati europei, africani e mediorientali. L’ultimo genocidio (olocausto o Shoah) perpetrato contro questo popolo iniziò nel 1938 (seconda guerra mondiale): 6.500.000 ebrei innocenti furono ferocemente eliminati. La rinascita dello stato ebraico inizia nel 1948, anno in cui l’ONU sancì ufficialmente la costituzione in Palestina dello stato Israeliano, là dove i padri giunsero 4000 anni prima. Oggi lo stato di Israele, lungo 500 km e largo in alcuni tratti non più di 15 km e con ampiezza massima di 140 km. Nonostante le ridotte dimensioni, il territorio si presenta vario: a nord le fertili colline della Galilea, alte fino a 1200 metri, dove d’inverno si scia, a sud il deserto del Negev, grande quanto metà del paese e popolato da pastori beduini, ma che, grazie all’irrigazione, gli israeliani hanno compiuto il miracolo di trasformare in serre agricole capaci di produrre anche ottimo vino. Israele è una repubblica democratica indipendente dove il 75% della popolazione è di religione ebraica. Vi sono peraltro ammesse anche tutte le altre confessioni con pari dignità e non viene perpetrato nessun razzismo religioso. La capitale Gerusalemme è una città storica (800 m s.l.d.m.) già ricordata nei testi egizi del XIX secolo a.C. I.QUALITY • 167


Mar Morto

Gerusalemme muro del pianto visto dall’alto

Gerusalemme museo della Shoah

Gerusalemme Basilica del Santo Sepolcro

Gerusalemme il Santo sepolcro

Gerusalemme ingresso Santo Sepolcro

Mar Morto Masada

Gerusalemme rabini nei pressi del Muro del Pianto

Vacanze al Mar Morto

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Carmel nella via omonima, per assaporare una spremuta di arancia o di carote, comperare i datteri giganti, spezie e souvenir a buon mercato. Ricordatevi anche che Tel Aviv è la piazza mondiale più importante per il taglio e commercio dei diamanti e sono gradite le visite. Tel Aviv e il porto di Giaffa si guardano a vista. La città vecchia è antichissima: dal 636 al 1949 fu dominata dagli arabi, poi entrò a far parte dello stato israeliano. Istruttivo: il mercato delle pulci che si tiene in questa città è una attrazione fatale, ma un appuntamento a cui non rinunciare quello di recarsi al Museo e Galleria d’arte di “Ilana Goor” artista capace di plasmare gioielli, plastica, legno ferro e bronzo per produrre oggetti di grande valore artistico. Scendere a 392 metri di profondità sotto il livello del mare è una esperienza unica al mondo che si può fare in Israele recandosi nel Mar Morto: l’acqua è cosi salata (10 volte quella che comunemente si trova nei nostri mari) che una volta immersi si galleggia naturalmente, tanto che si può leggere il giornale come se si fosse seduti su una sedia a sdraio. Le proprietà salutistiche dell’acqua del Mar Morto, già note ai romani e oggi confermate da studi scientifici, derivano dalla presenza di sali di magnesio, di iodio, di bromo e di potassio. Sono sorti sulla riva del mare alberghi con annesse Spa e Wellness che utilizzano anche acqua e fanghi del mare per la cura dell’epidermide. Un soggiorno nel Mar Morto consente anche di programmare un’escursione sull’altopiano dove a 400 metri di

da sinistra: Tel Aviv mercato Carmel Venditore di Souvenir, Tel Aviv Mercato Carmel, Tel Aviv Mercato Carmel frullati di carote

È meta di pellegrinaggi per gli ebrei, i cristiani e i mussulmani. Da un punto di vista artistico i quartieri di questa città riflettono l’architettura del popolo arabo che per vari secoli dominò questi luoghi, l’architettura cristiana che si sviluppò nel periodo delle crociate e l’architettura ebraica nei luoghi di culto. La vera città cosmopolita di Israele è Tel Aviv, edificata dai sionisti (ebrei ritornati in Palestina) a partire dal 1900: da un punto di vista architettonico è una città in continua evoluzione, il porto e la stazione ferroviaria non più utilizzati già fanno parte della archeologia industriale. Infatti i capannoni del porto e i magazzini della vecchia ferrovia turca del 1888 (www.hatachana.com.il), ora dismessi, sono stati adibiti ad attività commerciali e i nuovi padroni di casa sono l’arte, la moda, l’arredamento, l’abbigliamento, i prodotti enogastronomici e la ristorazione, la locale, la giudaica Kasher o quella raffinata, firmata Asia, Africa o Europa. I grattacieli spuntano come funghi nel centro della città dominata da costruzioni bianche che richiamano lo stile razionalista o Bauhaus ora classificate patrimonio dell’umanità . Il mare, la spiaggia, il lungo mare pedonale di Tel Aviv privo di barriere architettoniche sono i luoghi dove tutto l’anno e a qualsiasi ora gli abitanti ed i turisti si danno appuntamento per tuffarsi in mare, prendere la tintarella o fare jogging. La sera di Tel Aviv ha le ore molto piccole: teatro, concerti, spettacoli, discoteche, ristoranti alla moda sono la vera attrazione di questa città israeliana abitata da una popolazione molto eterogenea e quindi meno osservante dei rigidi dettami ebraici. Non si può visitare Tel Aviv senza programmare una sosta al mercato I.QUALITY • 170

altezza (rispetto al Mar Morto) una comunità ebraica, gli Zeloti, aveva costruito una fortezza, Masada, in cima allo sperone di una roccia. Gli Zeloti, pur di non capitolare e diventare prigionieri dei romani dopo due anni assedio (70 a.C.), prima di essere espugnati preferirono darsi la morte reciprocamente. I resti della fortezza di Masada in parte restaurati sono diventati patrimonio dell’umanità e oggi la fortezza si può raggiungere anche con la funivia (www.parks.org.il). Nel Mar Morto potete pernottare sul mare: al Leonardo Club Dead Sea con trattamento tutto compreso (www. fattal.co.il), oppure essere ospitati in un’oasi straordinaria vicino al mare e ai margini del deserto di Giuda. Il Kibbutz Ein Gedi (fondato nel 1953), dove vi aspetta una vacanza a stretto contatto con un giardino botanico ricco di 900 piante messe a dimora dall’uomo e nutrite goccia a goccia come richiede il deserto. Per soggiorni in Israele rivolgersi all’Ente del Turismo e anche all’operatore milanese “Adenium – Soluzioni di viaggio”. Tutti gli anni nel mese di febbraio si svolge a Tel Aviv una fiera dedicata al turismo I.M.T.M (International Mediterranean Tourism Market) dove è possibile prendere visione di tutte le opportunità turistiche che offre questo territorio. Dan Aghion è il General Manager di “Israel Tour Association”, l’associazione che ha dato alle stampe un prezioso vademecum “Israel Sites&Services”, dove è possibile reperire indirizzo, orari e il recapito internet di ogni posto di interesse turistico in Israele, come sedi culturali, musei, luoghi di culto, monumenti, trasporti, alberghi, Kibbutz e uffici turistici. I.QUALITY • 171


INFO Museo della Shoah a Gerusalemme www.yadvashem.org

Mar morto visto da Masada

Per il Pernottamento a Tel Aviv: Orchid Park Hotel (www.parkplaza.com), oppure B.B. (www.zimmer.com.il) Galleria d’arte di “Ilana Goor” 4 Mazal Dagim St. Old. Jaffa Israel www.ilanagor.com Dan Aghion - Israel Sites&Services dan.aghion@itga.org.il Ente del Turismo in Israele www.goisrael.it Adenium – Soluzioni di viaggio tel. 02 6997351 - www.adeniumtravel.it

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ECO FRIENDLY

Sicurlive Group. Con la vita non si scherza.

Di Anna Serini

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Giovanni Buffoli amministratore unico Sicurlive

Incontro Giovanni Buffoli, Amministratore unico di Sicurlive, all’interno dei suoi nuovi uffici. L’immensa vetrata della facciata principale mi trasmette subito l’idea di trasparenza e purezza. Dalla reception mi accolgono Roberta e Michela che, in maniera assai garbata, mi accompagnano al primo piano. L’ambiente è smart ma curato nei dettagli, firma inconfondibile di un bravo architetto (Arch. Luisa Favalli ndr). Alle scrivanie, tutte uguali ed estremamente ordinate, ragazzi dall’aria allegra. Mi guardo attorno e attendo di essere portata nella stanza dell’Amministratore quando Roberta dice “Giovanni, è arrivata la Sig.ra Serini”. Il mio sbigottimento è tale nel vedere che Giovanni Buffoli, A.U. dell’Azienda, è un ragazzo di poco più di trent’anni (33, ndr) ed è seduto in una di quelle scrivanie come tutti gli altri, senza distinzioni. Mi rendo subito conto che il Sig.Buffoli è una persona Apple oriented, L’unico oggetto che lo differenia dalle altre postazioni è un mac da 27” che svetta sulla scrivania insieme all’Ipad ed all’Iphone. Mi chiede se voglio un caffè ma prima di incontrarlo mi ero fermata in pasticceria quindi rifiuto e mi accomodo vicino a lui. Sicurlive è un’azienda nata più di cinquant’anni fa ed è l’evoluzione di due generazioni di imprese legate al settore della carpenteria. Nei primi anni ‘60, l’attività era strettamente legata al settore agricolo. Col passare degli anni la società sposta il suo interesse anche nel settore edilizio, rafforzando pian piano la sua incidenza nel mercato lombardo e diventando cosi una vera e propria realtà, oltre che nel settore edilizio, anche in quello militare. Dal 2000 comincia ad inserirsi nel settore sicurezza contro le cadute dall’alto. Da subito il sistema anticaduta riscontra risultati importanti ed oggi l’azienda è leader nella produzione e nell’installazione di sistemi di sicurezza anticaduta dall’alto, linee vita e dispositivi di ancoraggio a norma Uni EN795 classe A1 - A2 e C. Dallo scorso anno Sicurlive ha unito la sua attività a quella già consolidata di Sicurlive System ed EdilServizi, oltre che a quella della neonata Sicurzone, creando il marchio Sicurlive Group. In questo modo il gruppo è in grado di offrire ai propri clienti un pacchetto “chiavi in mano”: dal sopralluogo che anticipa la progettazione e il dimensionamento degli impianti più idonei alla fornitura e alla posa oltre al collaudo statico utile al fine di fornire al cliente un report completo e l’emissione del certificato di conformità. Sicurlive System vanta, infatti, un team di tecnici esperti, formati e qualificati per rispondere al meglio alle problematiche di cantiere. EdilServizi, invece, è l’azienda che gestisce la rete commerciale di Sicurlive Group grazie ad agenti dislocati su tutto il territorio. Da quest’anno, inoltre, Sicurlive Group allarga i propri orizzonti sviluppando strategie di inserimento di tipo commerciale ed esportativo nei mercati esteri con iniziative di consolidamento e operando in più mercati con un approccio globale che miri a creare legami strategici ed operativi tra le operazioni realizzate nei diversi mercati. Sicurlive nasce circa cinquant’anni fa come carpenteria e si sviluppa negli anni anche nel settore edilizio. Cosa vi ha spinto a specializzarvi in sistemi di sicurezza anticaduta dall’alto? Ritengo che non si possa rischiare la vita per sostituire l’antenna, per pulire la gronda o per sistemare una tegola. A volte purtroppo tali tragedie accadono, e spesso proprio perché non ci sono strumenti di ancoraggio idonei che permettono di camminare sul tetto in tutta sicurezza. I miei operatori, come chiunque necessita di un accesso al tetto, devono essere tutelati. Spesso le piccole manutenzioni urgenti vengono eseguite senza ausili di sicurezza adeguati. In Italia, il concetto intrinseco che risiede nel termine “sicurezza sul posto di lavoro”, non ha ancora penetrato l’essenza della nostra cultura e troppo spesso ancora viene ritenuto un costo da evitare, un costo da intraprendere solo per facciata e se necessario, quasi fosse un optional! Credo che nel breve, come avvenne per il casco e le cinture di sicurezza, rileveremo un aumento esponenziale del giusto utilizzo di queste protezioni

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Posa della linea di classe C presso il cantiere Porta Nuova Garibaldi a Milano

perché esponenzialmente sta aumentando la cultura, il concetto e la richiesta da parte dell’utilizzatore finale della sicurezza necessaria sul posto di lavoro. Come vengono ideati e costruiti i vostri prodotti? Tutti gli elementi della linea vita sono stati studiati cercando di incontrare le esigenze in funzione del loro utilizzo e o ubicazione e tutti i prodotti, oltre a essere certificati secondo le direttive europee, sono testati all’Università degli Studi di Brescia dal Dipartimento di Ingegneria Meccanica. Da notare che la partnership da poco attivata con CableSteel SrL garantisce al nostro cliente un prodotto di assoluta qualità e sicurezza. Le nuove procedure produttive hanno subìto un incremento di controlli ed una maggiore rigidità dei test di rottura a cui sono sottoposti: questo nuovo ciclo di produzione permette chiaramente anche l’immediata rintracciabilità di ogni singolo elemento garantendo un controllo accurato dell’intera filiera produttiva. Certa della propria qualità, Sicurlive è l’unica azienda in Europa che, tramite filmati e report, permette ad ogni ingegnere di poter dimensionare il fissaggio. Sicurlive non solo progetta, ma si occupa di tutti gli aspetti necessari agli ancoraggi: dalla produzione, al taglio laser, all’assemblaggio tramite saldatura robotizzata di ogni singolo I.QUALITY • 178

elemento, tutto avviene internamente ed i processi di lavorazione seguono i rigidi processi della normativa Iso9001. Ogni prodotto è dotato di un codice a barre che consente la tracciabilità dello storico: da chi ha prodotto il pezzo, a chi e quando lo ha installato. Questo per assicurare il massimo della sicurezza e garanzia. Sicurlive Group si sta fortemente impegnando nella creazione di dispositivi in grado di garantire il massimo della sicurezza negli ambienti di lavoro. La scelta di investire un cospicuo quantitativo di risorse economiche nella sperimentazione è sintomo di impegno e volontà nel proseguire il proprio obiettivo in modo rigoroso e coerente. Indubbiamente uno dei temi drammatici che la cronaca non smette di portare in evidenza quasi ogni giorno è la sicurezza sul lavoro: questa comprende tutte le misure di prevenzione e protezione che devono essere adottate dal datore di lavoro e dai lavoratori stessi. Secondo la normativa vigente (D. Lgs.81/2008 e modifiche apportate dal D. Lgs.106/2009, le normative locali per la messa in sicurezza delle coperture e la Norma UNI-EN 795:2002 per i dispositivi di ancoraggio, ndr), le linee vita sono obbligatorie e devono essere installate sulle coperture dei nuovi edifici già in fase di realizzazione. Al contrario, per gli edifici esistenti, si prevede che siano realizzati i dispositivi utili a garantire la sicurezza per la manutenzione sia ordinaria che straordinaria… I.QUALITY • 179


… Esatto. Le linee vita devono essere impiegate in tutti i casi di intervento sulle coperture sia che siano riparazioni generiche, controllo o sostituzione delle grondaie, manutenzione o riparazione di impianti fotovoltaici e per qualunque adeguamento per esempio alle antenne. La funzione di questi sistemi è duplice: da un lato permettono di arrestare un’eventuale caduta nel minor tempo possibile proteggendo l’incolumità della persona, dall’altro aiutano l’operatore a mantenere una idonea postura per il lavoro che si deve eseguire risparmiando tempo, energia ed inutili paure per una fatalità che non può avvenire.

Facciata di ingresso Sicurlive group

Non tutti sanno che la responsabilità, qualora ci fossero infortuni in cantiere, ricadrebbe anche sul committente, e non solo sull’azienda… In effetti la linea vita è la soluzione che soddisfa tutti: il committente, l’utilizzatore, il responsabile della sicurezza e l’impresa. Nonostante quello che si possa pensare è il sistema più economico, nel tempo, per creare sicurezza in tutti gli interventi di manutenzione in copertura. Installare una linea vita mette in sicurezza operatori e imprenditori anche dalle sanzioni amministrative previste dalla Legge. La sicurezza con il Decreto Legislativo 81 e le successive modifiche, è condizione obbligatoria nella manutenzione delle coperture. Come intendete sensibilizzare e, di conseguenza, formare gli operatori al corretto utilizzo di dispositivi di ancoraggio? Noi - e la mia azienda ne è una valida rappresentazione - crediamo fortemente che il nostro compito non possa prescindere dall’inseguimento del profitto ma che contemporaneamente debba cercare di divulgare la cultura e i concetti sulla sicurezza. Ho pertanto voluto fortemente una struttura in grado di formare gli operatori del settore sia dal punto di vista teorico che pratico. SicurZone, infatti, è l’unico campo di formazione in Italia ad avere 3000 mq di area a disposizione per l’effettuazione di corsi pratici con strutture all’avanguardia: dal piano di lavoro per imparare ad utilizzare i DPI, ai ponteggi e alle gru. Indubbiamente l’ambiente di lavoro è così stimolante e giovanile che invoglia proprio a restare ancora qui. Ma ho rubato fin troppo tempo al Sig. Buffoli che deve partire tra poco per un sopralluogo a Milano. D’altronde è un ragazzo così interessante e con innumerevoli racconti e aneddoti che il tempo è volato. Credo che non sia facile trovare ragazzi della sua età, con un’azienda leader nel settore, darsi tanto da fare per riuscire a far capire una cosa così banale: con la vita non si scherza, basterebbero dei piccoli accorgimenti che si potrebbero evitare molti incidenti e morti sul lavoro. E Sicurlive Group sa come fare.

Sicur Live Group Via I Maggio trav II, 7 25035 Ospitaletto (BS) www.sicurlivegroup.it Corsi di formazione presso Sicurzone

Sicurzone Via Vittorio Veneto, 219 25035 Ospitaletto (BS)

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Ovunque mi porti la cucina di Daniele Bendanti Di Blue G. www.aspassoconblue.it

Daniele Bendanti classe 81’, bolognese di nascita ha frequentato ALMA, la Scuola Internazionale d’Alta Cucina Italiana di Gualtiero Marchesi. Nel suo percorso formativo passa dalle cucine di Renato Rizzardi, Marcello Leoni, Gaetano Trovato e Fernando P. Arellano dai quali apprende innovazione e tecnica, metodo e precisione, abilità e rinnovamento. Insegnamenti importanti che gli fanno intraprendere la strada della cucina scegliendo la tradizione come cavallo di battaglia, senza mai perdere di vista la ricerca. Proust affermava che “la vera scoperta del viaggio non consiste nel trovare nuovi territori ma nel vedere con occhi nuovi”. È proprio questa la filosofia di questo giovane chef che approdato, da poco più di un anno, all’Osteria Bottega (Bologna) ha deciso di rispettare l’identità gastronomica della città mantenendo un menu che rispecchi l’abbondanza e la ricchezza della cucina locale, ma inserendo piatti dal sapore italiano con quel tocco d’internazionalità che fanno emergere le sue irrequiete esperienze stellate. In questo piccolo tempio del gusto, con poco più di trenta posti a sedere, si respira ancora l’atmosfera delle storiche osterie che hanno caratterizzato la cultura gastronomica della città felsinea, le tovaglie di carta gialla e i tavoli di legno qualificano l’ambiente caldo e accogliente. Il menu è studiato per accontentare il diffidente palato dei bolognesi cosi come di professionisti, studenti fuori porta o intellettuali in cerca di saperi e sapori che attingano alla memoria. In questo caratteristico luogo deputato all’elevazione del gusto, Daniele Bendanti ci fa innamorare delle sue “tagliatelle al Ragù classico di Bologna” o dei “gnocchetti di patate con ragù di faraona aromatizzata al timo” così come della “cotoletta alla Petroniana”, un tuffo nel passato per ricordare la cucina della nonna che ci faceva stare con gli occhi sbarrati ad osservare il brodo che si cuoceva lento sul fuoco. Un amore che arriva dalla sapiente dottrina culinaria famigliare che unita a quelli dei grandi chef con cui ha lavorato, gli hanno permesso di approdare alla consapevolezza che un buon piatto dovrebbe saperci riportare all’infanzia, in cui l’attimo irrimediabilmente passato lascia in noi il ricordo straordinario e magico che si risveglia quando meno ce lo aspettiamo. Una cucina scandita, pulita e sensuale, quella di Daniele che consacra il sodalizio tra gusto e lussuria facendoci varcare la soglia del piacere con il suo “piccione in doppia cottura I.QUALITY • 182

con letto di cicoria e pancetta croccante”. Un piatto a più livelli che inizia in morbidezza sotto ai denti per passare alla dolcezza espandendosi nel palato e lasciandoci una sensazione di già conosciuto con quel qualcosa in più che è dato dalle differenti cotture. Ma il vero piatto dell’amore per questo giovane chef bolognese è “l’Anatra muta glassata in cottura confit” in cui la senape di Dijon in grani, il cavolfiore all’agro e la brunoise di arancia candita fanno pensare alla delicatezza di un corpo femminile, alle sue curve, alla pelle liscia e al profumo naturale che emana una donna. L’alimentazione non è solamente un mezzo attraverso il quale un individuo viene giudicato ma rappresenta anche il rapporto con il proprio corpo. Mangiare l’anatra non vuol dire solo incorporarla dentro a noi, significa rendere sostanza all’immaginazione, evocando la sensualità del gesto che stiamo compiendo nel semplice atto di avvicinarlo alla bocca. Isabelle Allende afferma che “Sesso ed appetito sono i grandi motori della storia, conservano e diffondono la specie, provocano guerre ed ispirano canzoni, informano le religioni, la legge, l’arte. L’intero creato è un processo ininterrotto di digestione e fertilità; tutto si riduce ad organismi che si divorano l’un l’altro, si riproducono, muoiono, fertilizzano la terra e rinascono trasformati. Sangue, seme, sudore, cenere, lacrime e l’incurabile immaginazione poetica dell’umanità alla ricerca di un senso…”La vera educazione al piacere nasce dalle sinergie che si sposano, attraversando la gola, esaltandone odori e colori, pulsando sulle papille gustative per poi scendere e toccare quell’universo sconfinato che arriva all’estasi. “L’anatra muta” conduce all’appagamento dei sensi chiedendo permesso al tatto per tastarne la carne, rivolgendosi all’olfatto per sentirne l’aroma e implorando udienza al signor palato per assaporarne la sapidità. Secondo de Sade “Non conosco nulla che vellichi così voluttuosamente lo stomaco e la testa quanto i vapori di quei piatti saporiti che vanno ad accarezzare la mente preparandola alla lussuria”. Nei progetti futuri di Bendanti c’è “diventare grande ovunque mi porti la cucina” come lui stesso afferma e “girare il mondo con la valigetta di coltelli al seguito” ma intanto tiene aperte le porte dell’Osteria Bottega per deliziarci con i suoi piatti della “rinnovata tradizione”.

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Ricetta dell’amore: Anatra muta glassata in cottura Confit, senape di Dijon in grani, cavolfiore all’agro e brunoise di arancia candita. INGREDIENTI PER 2 PERSONE 1 anatra da circa 1Kg eviscerata 3 cucchiai piccoli di senape di Dijon in grani 1/2 cavolfiore buccia d’arancia 200ml di grasso d’oca 2 cucchiai di miele millefiori salvia farina per tempura 300cl di fondo bruno

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PREPARAZIONE Per l’anatra: Ricavare due supreme e due cosce, dividerle e riporle in sacchetti sottovuoto piccoli insieme al grasso d’oca. Cuocere a bassa temperatura, 58° per 8 ore. Raffreddare in abbattitore e toglierle dal sottovuoto e poi infornarle a 200° per 10 minuti fino a farle diventare croccanti. Glassare l’anatra sul piatto col fondo bruno ridotto in padella con l’aggiunta di senape in grani. Per l’arancia: Tagliare a brunoise la buccia dell’arancia e sbollentarla per 3 volte in acqua zuccherata. Poi amalgamala con il miele. Per il cavolfiore: Mondarlo e renderlo in piccoli pezzi mantenendo la sua forma. Sbollentarlo per 8 minuti in acqua bollente e aceto.

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Il potere della foto di moda Di Lamberto Cantoni

“Al suo apice, la fotografia di moda è l’erede di uno dei più frivoli ma grandiosi progetti: la creazione di una testimonianza di quell’alone del desiderio che sostiene l’umano bisogno di felicità, di serenità e di spensieratezza su questa terra” Alexsander Liberman

Se la moda viene riconosciuta oggi come uno dei dispositivi maggiormente implicati nel buon funzionamento delle società di mercato, infatti senza il ritmo accelerato di acquisti risulterebbe impossibile mantenere sotto controllo il PIL condannato alla costante crescita, lo si deve soprattutto al lavoro di amplificazione dei suoi effetti realizzato con la complicità della stampa e dei media. E se è vero che la capacità dei media di cambiare le aspettative della gente fa sorgere più di un dubbio etico ai molti critici della post modernità, non possiamo disconoscere che senza di loro probabilmente i cambiamenti di stile di vita decisivi per la crescita costante dei mercati, difficilmente avrebbero potuto realizzarsi. Per quanto riguarda la moda secondo la concezione che ha di essa il senso comune, la gente la pensa soprattutto in funzione dell’abbigliamento e accessori, siamo costretti a prendere molto sul serio l’ipotesi di una sostanziale autonomia delle immagini per quanto riguarda l’efficacia della sua comunicazione. Per chi opera nella moda e per chi la consuma con maggiore piacere, sembra che le parole per raccontarla abbiano scarsa importanza. Al contrario l’immagine esemplare di un prodotto è immaginata scatenare attenzione, interesse, emozioni… Dopo di che, l’azione di acquisto diviene una conseguenza collaterale scontata. Le riviste di moda sono state le prime a scoprire il potere dell’anticipazione dell’immagine nei confronti del desiderio di mutare il proprio aspetto, anche se, ricordiamolo, fino agli anni cinquanta il lavoro delle grandi redattrici era, in termini di prestigio, superiore a quello degli image makers. Per esempio difficile immaginare lo strabiliante successo di Dior senza la collaborazione di Carmel Snow (e Harper’s Bazaar) che coniò l’espressione New Look. Ma proprio in quel periodo esplode la prima grande generazione di fotografi di moda vissute da milioni di persone come autentiche celebrità: Avedon, Penn, Maywald, Clark, Klein…solo per fare I.QUALITY • 186

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alcuni nomi. E’ difficile quindi sopravvalutare il lavoro di chi opera attraverso le immagini. Per esempio, impossibile comprendere il successo del Made in Italy senza prendere in considerazione l’intreccio tra moda e star system di alcuni suoi protagonisti. E’ chiaro che queste liason sono avvenute attraverso un uso strategico di raffinate immagini ad ogni livello. Insomma, per farla breve, la stampa e i media non hanno avuto solo la funzione di diffondere le mode create da personaggi geniali; non hanno solamente proposto descrizioni o critiche più o meno adeguate ad una collezione. Grazie ad immagini di ogni tipo, hanno trasformato un gioco di forme in un vero e proprio romanzo work in progress, senza parole, a volte intriso di romanticismo, in altre occasioni provocante e trasgressivo, spesso visionario. Lo strumento fondamentale per questa semiologia a dominante visiva della moda sono state per lungo tempo le riviste glamour per il pubblico femminile. Senza voler dimenticare il cinema, Tv e Internet, vi ricordo che attualmente la carta stampata riveste ancora un ruolo di primo piano nelle strategie d’immagine e comunicazione delle aziende moda-orientate. Sulla carta stampata, il messaggio della moda preferibilmente prende la forma significante della fotografia che tematizza le infinite possibilità di mostrare il corpo perfetto dell’altro, rivestito della classe di segni che ne rappresenta l’attualità, lo stile, l’estetizzazione. Insistiamo su quest’ultimo punto. La forma significante per eccellenza della moda è raffigurata dell’immagine dell’abito indossato da un corpo eccellente, colto da un certo punto di vista, scelto da un image makers, di solito

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1- Steichen 2- Steichen 3- Hoyningen Huene 4- Beaton 5- Steichen 6- Horst 6- Beaton

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nella pagina accanto dall’alto foto di: La Chapelle e Penn

“La moda crea archivi di immagini probatorie e rappresentative di figure del desiderio che incapsulano idee e modelli di bellezza condivisi, innescando tra il suo pubblico emozioni e sentimenti facilmente prevedibili.”

un fotografo, che ha il compito di trasformarlo in un simbolo di eleganza, di tendenza, di distinzione. Questo dispositivo ha la funzione di scatenare dei desideri e non rappresenta qualcosa di specifico del nostro tempo e nemmeno della cultura occidentale. In molte forme di vita la rappresentazione di donne nude o vestite in modo sontuoso è stata fonte di piacere e ha contribuito a creare standard visuali di bellezza fatti propri da classi di individui al vertice della gerarchia. La moda contemporanea grazie alla potenza di fuoco dei media ha esasperato la funzione biologica della bellezza dell’altro, rivestendola di un fascio di segni eterogenei dai quali sono stati distillati simboli visuali capaci di attivare identificazioni che si sono dimostrate estremamente performanti per la loro diffusione. La moda crea archivi di immagini probatorie e rappresentative di figure del desiderio che incapsulano idee e modelli di bellezza condivisi, innescando tra il suo pubblico emozioni e sentimenti facilmente prevedibili. Possiamo congetturare che attraverso la foto di moda avvenga una sorta di istruzione collettiva alle logiche del desiderio (come conseguenza indiretta della scelta intenzionale di far vedere in modo persuasivo un prodotto). La memoria collettiva non è un ricordo (che è sempre individuale) ma il risultato di un contratto, per cui ci si accorda su ciò che è rilavante per il nostro desiderio (quindi non esiste una memoria collettiva bensì dispositivi che attivano processi di apprendimento individuali che attraverso la ripetitività del messaggio possono raggiungere esiti tali da configurare qualcosa che potremmo definire un desiderio condiviso). Perché la foto di moda è così efficace? La resa bidimensionale di un’effetto di realtà creato dalla fotografia pare che abbia risonanze particolari per la nostra memoria. Secondo accreditati studiosi la fotografia amplificherebbe le nostre possibilità di memorizzazione. Grazie alla credenza di questa “presa” sulla memoria, la fotografia è diventata un potente mezzo di comunicazione (e di vendita) di ogni merce. In questo contesto la foto di moda ha aggiunto al processo di comunicazione via immagini una seconda potenza che potremmo definire il sex-appeal delle merci. La bellissima modella trasfigura la merce che indossa o alla quale si trova in relazione di prossimità, trasformandola un una protesi del desiderio. Quindi attraverso la foto le merci possono insinuarsi in alcune agenzie della mente in cui la traccia mnestica acquisisce una

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certa durata. E, in secondo luogo, attraverso un certo modo di configurare la foto le merci si interfacciano con il piacere. Come spiegare altrimenti l’uso imbarazzante che la foto commerciale ha sempre fatto del corpo femminile erotizzato? Il corpo femminile nella nostra cultura occidentale da secoli è stato celebrato soprattutto attraverso drammatiche oscillazioni tra corpo nudo e corpo vestito. Questo interesse e l’impatto durevole di immagini che in un modo o nell’altro esibiscono la bella apparenza, ci costringono a prendere sul serio la congetturare che dietro questa forma di coinvolgimento esista un inesauribile flusso di desiderio. La foto di moda ha ereditato, amplificato e massificato immagini dalla doppia valenza: la forte impressione sulla memoria e l’attivazione del desiderio. Perché le foto di moda sono così attraenti? Che cosa vede una donna in una foto di moda? La risposta sembrerebbe scontata: vi vede l’immagine di una donna (una rivale immaginaria e al tempo stesso un modello con cui identificarsi) al massimo della propria bellezza. Ma che cos’è che ci fa presupporre che esista un passaggio dalla posizione contemplativa ad un coinvolgimento più profondo? Diciamo che tutto ci porta a pensare che il gioco tra coperto e scoperto costituisce un modello per poter abbracciare un comportamento che possiede implicazioni erotiche ineludibili. L’identificazione dello sguardo della donna a ciò che in una foto significa il suo desiderio di apparire bella, è cruciale per comprenderne l’efficacia. Perché il desiderio di apparire più belle riveste un ruolo così esorbitante? Possiamo congetturare che tentare di essere belli non significhi solamente fare sfoggio di leziosità o di comportamenti superficiali, bensì derivi da una strategia riproduttiva tipica della nostra specie, in gran parte inconscia, che privilegia la bella forma in quanto portatrice di fitness fisica e mentale. Una persona bella deve essere in forma (essere fisicamente in forma significa avere un corpo vicino al picco potenziale della propria specie) e mentalmente in salute, ovvero dotata di una certa razionalità e abilità nel comunicare. La moda con i suoi inesplicabili pseudo-codici culturali e le prescrizioni di carattere fisico rappresenta un “ostacolo” importante per dare senso alla competizione per apparire belli. La foto di moda dunque, lungo tutto il novecento, potrebbe aver raffigurato il linguaggio standard attraverso cui le persone hanno misurato e modificato la propria efficienza estetica, con l’obiettivo di arrivare ad essere desiderati dai propri simili.

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Rewind

Alta Roma Alta Moda

Dalla storia di antiche Maison francesi che aprono nella città eterna, al futuro della moda ‘Made in Rome’. Di Fabiola Cinque

Raffaella Curiel

Maison Louis Vuitton

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La settimana dell’alta moda ha avuto un pre-opening decisamente all’insegna del lusso internazionale con l’inaugurazione della prima Maison Louis Vuitton in Italia, nella storica piazza di San Lorenzo in Lucina a Roma, rafforzando così la presenza del marchio in Europa. Alla conferenza stampa di apertura il Presidente di Louis Vuitton Yves Carcelle ha dichiarato: “In questa storica sala, dedicata al cinema da più di un secolo, abbiamo raccolto una doppia sfida: architettonica e culturale. Senza rinnegare il prestigioso passato del luogo, emblema della Città Eterna, abbiamo dato vita ad un progetto unico, capace di coniugare nel tempo e nello spazio artigianato d’eccezione, arte e cultura”. “Roma-Etoile”, storica sala cinematografica, ha aperto le porte completamente rinnovata dall’architetto Peter Marino, offrendo ai visitatori l’intero universo dei prodotti Louis Vuitton: articoli da viaggio, pelletteria di lusso, ready-to-wear donna e uomo, scarpe, orologi, gioielli e accessori. Varcata la soglia della Maison si è accolti dall’opera dell’artista Georg Dokoupil, per poi raggiungere il cuore del negozio che si articola attorno ad una scalinata monumentale, omaggio all’architettura barocca della capitale, che permette allo sguardo, grazie alla sua forma elicoidale, di spaziare sui tre livelli. Questa straordinaria operazione di restauro mira alla condivisione dello spazio fashion con un piccolo cinema che avrà una programmazione

dedicata. La sera si è tenuta una grande festa, esclusivissima, che ha visto guest star internazionali ospiti a Roma dell’antica Maison francese. La sera del venerdi c’è stata la prima sfilata con un giovane stilista emergente, Luigi Borbone, che per l’alta moda ha ancora tanta strada da percorrere. Infatti la sfilata dell’architetto autodidatta della moda ci ha lasciato freddini con le sue modelle glaciali avvolte di bianco siberiano, se non fosse per altro che per la imprevedibile premonizione del grande gelo romano che sopraggiungeva. La vera kermesse dell’haute couture ha preso il via sabato mattina con la sfilata di Fausto Sarli, che, come da tradizione, ha aperto il Calendario di AltaRoma. L’opera del maestro napoletano continua a prendere forma attraverso le mani di Carlo Alberto Terranova e Rocco Palermo illuminando il tradizionale bianco e nero della maison con i colori della luce, dal giallo, dell’arancio intenso fino al rosso fuoco e arricchendo le geometrie tradizionali con ricami dal gusto persiano e ottomano. A seguire nella stessa giornata Jack Guisso, lo stilista libanese di origini italiane, che nella collezione ha proposto abiti dai tagli semplici e geometrici nei colori dell’arcobaleno, impreziositi da ricami con vere pietre preziose sempre in rappresentanza di uno

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Alta Roma Alta Moda

RE-EDITION Pino Lancetti

foto a sinistra in alto: Roberto Capucci tra Sindaco Gianni Alemanno e Presidente di Alta Roma Silvia Venturini Fendi Camillo Bona

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RE-EDITION Pino Lancetti

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Alta Roma Alta Moda sfarzo scenografico ed Hollywoodiano come le sue testimonial. In chiusura di serata, abbiamo vissuto gli antichi fasti della nobiltà romana nel salone Sistino di Palazzo Sacchetti. Qui la sfilata di Raffaella Curiel ha raggiunto l’apice con i suoi abiti inno ai pittori del Cinquecento. Grande ricerca e cura dei dettagli nella nuova collezione Curiel, in cui rende omaggio anche ad alcuni capi di successo realizzati da sua madre e pubblicati dalle principali riviste dell’epoca. Sogniamo nel vedere sfilare tailleur dalle costruzioni ardite che pian piano si addolciscono in colli a corolla, in gonne a piegoline, con ricami in seta, pizzo, merletto e romantici nastri del ‘700. Il capo simbolo della collezione è lo spolverino in seta stampata con i disegni della Sala Sistina. Dopo tale poesia della couture italiana ci verrebbe da citare la famosa strofa di Franco Califano «Tutto il resto è noia». Infatti fatichiamo un pò il giorno dopo ad andare alla sfilata di Gattinoni che invece ci sorprende piacevolmente per la rinnovata creatività di Guillermo Mariotto che si esprime, come diverse collezioni fà, in una collezione seducente di abiti linge-couture. Anche Gattinoni elabora uno stile Rinascimentale evocando la «Primavera» del Botticelli e «La dama con l’ermellino» di Leonardo da Vinci riprendendo nei ricami la passiflora, il fiore che la famiglia Farnese fece conoscere alle corti d’Europa. Peccato, dopo aver assistito a cotanto gusto e bellezza, il calo nel kitsch in un’apoteosi del travestitismo di Gianni Molaro. Scusiamo la sua ingenuità data dall’inesperienza e forse la voglia di «colpire» i media per emergere, ma riteniamo che il tutto abbia un senso solo perchè siamo nel periodo di carnevale, anche si abbiamo delle difficoltà a giustificare la partecipazione di tale carnevalata nella settimana dell’alta moda internazionale. Qualche ora dopo c’è il romanticismo e la nostalgica eleganza di Tony Ward. Collezione ispirata alla filosofia Zen, impreziosita da ricami e intarsi con in evidenzia grandi pietre Swarowsky. Abbiamo amato la versione del blu mischiato sapientemente in più strati con l’oro e l’argento, portando finalmente una novità nella nota palette medioorientale di colori impraticabili quali tutte le versioni del giallo e del verde. Ecco infatti che abbiamo ritrovato nella sfilata del terzo libanese in passerella la solita palette fatta di anacronistici accostamenti cromatici e linee fuori tempo che ricordano ancora la tradizione dei nostri grandi couturier che ci hanno reso celebri nel resto del mondo dagli albori degli anni ‘50. Tutto già visto, anche se chiaramente rimaniamo affascinati dall’antica poesia. Comunque Abed

Mafhouz è un veterano della settimana dell’alta moda e quindi apprezziamo il suo amore nel dipingere donne fuori tempo con uno sguardo rivolto alle nostre tradizioni dell’alta sartorialità Made in Italy, ma auspichiamo un po’ di ricerca e rinnovamento nel suo stile. Ed a proposito di alta sartorialità, in conclusione della quarta giornata della settimana dell’alta moda, c’è stato Camillo Bona. Lo stilista romano ci ha sorpresi e divertito costruendo e spogliando, attraverso la trasformazione fatta di strati sovrapposti, una delicata «matrioska» illuminata da sfumature di colori tenui, dall’albicocca al tabacco, dal fucsia alla lavanda. Un sipario si apre sulla passerella e la sfilata prende il via con una cappa trasformabile in uno spolverino, ed un’altra cappa-spolverino con manica fantasia, e così altre costruzioni geometriche, eleganti e creative che ci sorprendono nel loro gioco variopinto di forme e colori. Una collezione femminile e sensuale, moderna ed attuale come la donna di oggi, sempre curiosa di sperimentare innovazione e tradizione in un unico stile che la rende di naturale bellezza. Chiude la fashion week di Altaroma, come di consueto, la sfilata di Renato Balestra impreziosita da modelli sinuosi e abbaglianti, ornati da gioielli come l’abito “Glicine”, iridescente e cangiante, cosparso da centinaia di cristalli madreperlati in tutte le tonalità del lilla. Al termine la sposa estremamente romantica cosparsa da tanti petali di fiori di campo multicolore sotto un’organza finissima e trasparente. Alta Roma ha riproposto in un fil rouge delle storiche maison del Made in Italy, il progetto speciale REEDITION, (alla sua seconda edizione), dedicato al genio creativo di Pino Lancetti. Qui, alla celebrazione dei 50 anni del brand, l’evento ha creato un ponte ideale tra la tradizione dell’alta moda storica con designer giovani e promettenti, immaginando la nascita di nuove realtà imprenditoriali. Qui la reinterpretazione in chiave contemporanea di una giovane designer romana, Caterina Gatta, in otto capi per otto diverse ispirazioni reinventati attraverso l’utilizzo di tessuti vintage originali. La rielaborazione, che attinge dal passato per proiettarsi nel futuro, esprime così la passione per la ricerca dei tessuti attraverso i colori, le fantasie e le stampe che hanno reso celebre il grande Pino Lancetti. Il tutto è stato realizzato in collaborazione con yoox.com. A tal proposito Federico Marchetti, fondatore e Ceo di YOOX Group, afferma: “yoox.com è il palcoscenico perfetto per questa unione fra la storia e il futuro della moda ‘Made in Italy’, le interpretazioni di Caterina Gatta dello stile Lancetti avranno la possibilità di essere viste, apprezzate,

Gattinoni

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da sinistra: Sarli e Tony Ward

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Alta Roma Alta Moda

acquistate e indossate in più di 100 paesi”. Abbiamo poi con orgoglio assistito anche alla cerimonia per la consegna, dal Sindaco Gianni Alemanno al Maestro dell’Alta Moda Roberto Capucci, della Lupa Capitolina. La cerimonia si è svolta nella Sala dell’Esedra di Marco Aurelio, all’interno de Palazzo dei Conservatori in Campidoglio. Nell’ottica di celebrare il legame tra tradizione e innovazione, creatività e rispetto per il patrimonio culturale, la Presidente di Alta Roma Silvia Venturini Fendi ha chiuso con grande soddisfazione la settimana dell’alta moda dichiarando: “Il mio sogno rimane quello di poter rivitalizzare quei grandi nomi di maison storiche, con l’ingresso di nuova linfa creativa, e vederle tornare attive nel mondo della moda come succede già in altri paesi. Roma con il suo immenso patrimonio culturale e sartoriale ha tutte le carte in regola per farlo e un immenso bacino cui attingere”. Evidenziando così il contrasto tra l’esperienza, la maestria, la cultura della moda fusi nella sperimentazione tecnologica e nell’esperienza delle nuove forme stilistiche. E’ un auspicio che andrà perseguito con impegno, ma che nelle sue forme non potrà certo deluderci affinchè fonderà in un unico progetto il connubio tra moda, arte e artigianato del ‘Made in Rome’ e del ‘Made in Italy’.

da sinistra: Jack Guisso e Abed Mafhouz

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Formaggio in Villa

“Formaggio in Villa”. La nobilitazione del formaggio. Di Roberta Filippi

da sinistra: Alberto Marcomini e Luca Olivan

Sono state più di 70 le aziende che dal 3 al 5 marzo hanno preso parte alla Seconda Edizione di “Formaggio in Villa”, l’appuntamento con i protagonisti del mondo caseario. Produttori, affinatori, selezionatori, chef e giornalisti hanno potuto assaggiare eccellenze della produzione di formaggi di qualità scoprendo, attraverso cene con chef stellati e degustazioni guidate con abbinamento a vini e birre artigianali, che il formaggio, creato seguendo criteri produttivi d’eccellenza, può, con autorevolezza, ricoprire in una logica di composizione di sapori raffinata e in linea con il mito della nostra cucina. “FormaggioinVilla”,graziealsostegnoeallapromozione dei Consorzi per la tutela del formaggio Asiago DOP, Piave DOP e Mozzarella di Bufala Campana, oltre che all’eccellenza produttiva delle aziende presenti è riuscita

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a comunicare l’importanza strategica del formaggio per l’economia del made in Italy. Fondamentale è stato per Alberto Marcomini e Luca Olivan, ideatori e organizzatori della manifestazione, sottolineare come la mancata valorizzazione delle nostre eccellenze non può che comportare un incremento delle produzione di falsi prodotti. “Contro i «furbetti del formaggino» la soluzione immediata non può che essere la conoscenza delle vere eccellenze e dei marchi che da generazioni si trasmettono il segreto della qualità autentica che ha le radici nella nostra tradizione alimentare” dichiarano i responsabili. L’obiettivo strategico della manifestazione, oltre a creare la situazione tipica dell’incontro tra produttori e pubblico, è stato quello di individuare il nostro formaggio di qualità come risorsa economica e culturale del made in Italy. Il mondo del formaggio

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Vecchia Malga

Un momento di degustazione

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Formaggio in Villa

da sinistra: 32 Via dei Birrai; De’Magi Alchimia del Formaggio

da sinistra: Grana Padano; Taddei

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Formaggio in Villa

Entrata di Villa Braida foto di Simone Manzato

Alcuni formaggi presenti alla manifestazione foto di Simone Manzato

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oggi è sottovalutato sia dal punto di vista simbolico che da quello economico. La nobilitazione del formaggio come alimento della dieta degli italiani, verrà esportata anche al di fuori dei confini, in una manifestazione ancora una volta centrata sulla degustazione del prodotto, nell’incantevole città di San Pietroburgo, vera porta d’accesso del mercato russo.

Caseificio Di Nucci foto di Simone Manzato

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Di Roberta Filippi

Tendence Travel Tendence Travel

da sinistra: vedute di Agrigento e momenti della festa. Foto di Giuseppe Zuppardo

La Sagra del Mandorlo in Fiore Il mandorlo, pianta di origine asiatica, si è diffuso dapprima in Grecia, quindi nella Roma antica, passando intorno al 300 a.C per la Sicilia. Nel Medio Evo le mandorle erano utilizzate nella preparazione di salse in combinazione con le spezie: pepe e zenzero, fino alla messa a punto nel 1441 della ricetta del torrone per le nozze tra Bianca Maria Visconti, figlia del Duca di Milano Filippo Maria, e il condottiero Francesco Sforza. È nel 1650 che un cuoco francese le utilizza avvolte da zucchero cotto, generalmente colorato in rosa o in bruno, inventando l’amande à la praline e un secolo dopo, nell’Encyclopédie di Diderot e D’Alambert che si ha una descrizione dell’utilizzo delle mandorle nella confiserie. A febbraio, l’appuntamento con “La Sagra del Mandorlo in Fiore”, rende questo frutto protagonista di Agrigento che, per una settimana, tra il candore dei mandorli fioriti, si trasforma nella capitale mondiale del folklore. La Sagra nasce nel 1934 a Naro, paese della provincia di Agrigento, con l’intento di pubblicizzare i prodotti tipici della Sicilia, nella cornice dell’anticipata primavera e dei mandorli fioriti. Nel 1937 la Sagra si spostò ad Agrigento definitivamente e prese il nome ufficiale di “Sagra del Mandorlo in Fiore”. La manifestazione comincia ad arricchirsi della partecipazioni di gruppi folkloristici locali e stranieri fino al 1941 quando fu sospesa a causa dello scoppio delle seconda guerra mondiale. Nel 1948 rinasce in un susseguirsi di edizioni sempre più ricche. Nel corso degli anni ha mantenuto il proprio significato culturale di pace tra tutti i popoli della Terra. Il momento più significativo della Sagra, infatti, è sempre l’accensione della fiaccola dell’amicizia davanti al tempio della Concordia, a seguito di una passeggiata molto suggestiva, al tramonto, nella Valle dei Templi. La domenica successiva si svolge la grande sfilata con tutti i gruppi folkloristici, i carretti siciliani e le bande musicali dalla città alla Valle dei Templi, con uno spettacolo finale al tempio della Concordia e la premiazione del Tempio d’Oro.

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Nel mondo esistono numerose specie di mandorlo e molte di loro sono eduli, ma la principale specie di riferimento dal punto di vista alimentare è il Prunus Amigdalus L., la sola coltivata in Italia. La mandorla dolce non contiene amigdalina ed è innocua ed inodore. Nel seme della varietà amara, invece, l’amigdalina e l’emulsina si combinano quando la mandorla amara viene schiacciata, si bagna o si mastica liberando acido cianidrico. L’amigdalina viene inattivata con la cottura prolungata. Più sono amare più sono velenose. La frutta a guscio e le mandorle dolci in particolare, rappresentano un’ottima fonte di energia dato il loro elevato contenuto lipidico. Da un punto di vista nutrizionale le mandorle, alimento tipico della dieta mediterranea, sono un ottimo vettore di vitamina E, potassio, magnesio e di una grossa quantità di grassi ben assortita. Numerosi studi epidemiologici, inoltre, hanno dimostrato che il consumo regolare di mandorle produce una diminuzione dei fattori di rischio cardiovascolari. La mandorla, oltre ad avere queste importanti proprietà, è anche – e soprattutto – utilizzata per ottimi dolci. Basti pensare al marzapane utilizzato per preparare dolci delle più svariate forme. Come i biscotti ricci che tanto piacevano al Principe Tancredi di Salina del romanzo “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. O all’Agnello pasquale, un caratteristico e prelibato dolce artigianale a forma di agnello, appunto, fatto di pasta di mandorla farcita di pistacchio fresco e finemente lavorato. Storia, folklore ed arte si fondono armoniosamente come fosse una valle incantata dalla nube bianca dei fiori di mandorlo.

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Di Antonio Bramclet

da sinistra: After Dark, 2010 (Chasing Good Fortune series) archival pigment print, cm 120 x 180; Untitled, 2006 (Time After Time series) LVT print, cm 40 x 30; - Courtesy dell’artista e Brand New Gallery, Milano

Ori Gersht Brand New Gallery è lieta di presentare Still and Forever, prima personale italiana dell’artista israeliano Ori Gersht. Attraverso la creazione di scenari sublimi che diventano precipitosamente inquietanti per mezzo di una decadenza improvvisa e graduale, le opere di Ori Gersht rendono momenti prolungati di suspense grazie all’uso della fotografia in stop-motion e del film al rallentatore. Rifacendosi nelle composizioni a quadri storici di grandi maestri, l’artista offre una meditazione sulla vita, la perdita, il destino ed il caso. Catturare un attimo, fermarlo nel tempo e nello spazio per renderlo percettibile in modo chiaro e preciso è una prerogativa di questo artista. Nella serie Blow Up, che prende il nome dall’omonimo film di Michelangelo Antonioni, la composizione floreale richiama le tinte del tricolore di Francia e si rifà all’opera di Henri Fantin-Latour. Ori Gersht accelera la scomparsa di questo still-life facendolo letteralmente saltare in aria, attraverso una tecnica che prevede un preventivo congelamento dei fiori e la successiva creazione di una violenta esplosione attraverso piccole cariche di nitroglicerina sapientemente posizionate. L’azione viene catturata in modo assai vivido per mezzo di una speciale camera ad alta risoluzione ad 1/6000 di secondo: i momenti cruciali di quest’immagine, allo stesso tempo affascinante ed inquietante, vengono selezionati dall’artista ad evocare la dicotomia tra caos e serenità così come gli atti casuali di violenza, non solo della storia europea, ma anche del suo paese d’origine. Lo stesso procedimento è utilizzato nella serie Big Bang, dove frammenti di petali, steli e cocci di vaso schizzano nell’ambiente e cadono rallentati verso terra. In Pomegranate la composizione si rifà ad una natura morta del XVII secolo del pittore spagnolo Juan Sànchez Cotan, attraversata questa volta da un proiettile che sembra bucare il telaio per colpire e spappolare il melograno sospeso: Ori Gersht crea volutamente tensioni fra vecchi maestri e nuove tecnologie, è un momento di unione e simultanea distruzione, di opposti che, per una frazione di secondo, coincidono. In Falling Bird, invece, sulla base di una natura morta di Jean Baptiste Siméon Chardin, anatre e fagiani sono appesi senza vita per i piedi palmati, riflettendosi in uno specchio d’acqua scuro verso cui cadono

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Tendence Art Tendence Art

da sinistra: Big Bang Film Still; Never Again, 2010 (Chasing Good Fortune series) archival pigment print, cm 100 x 80; Untitled, 2008 (Falling Bird Stills series) light jet print, cm 40 x 30 - Courtesy dell’artista e Brand New Gallery, Milano

www.brandnew-gallery.com

impotenti a picco, consumandosi, nel tuffo, nel proprio riflesso. In mostra presso lo spazio milanese, anche alcune opere della serie Chasing Good Fortune, realizzata in Giappone nel mese di fioritura dei ciliegi. L’artista esplora il simbolismo di questo fiore, da sempre metafora della natura della vita, concentrata in una bellezza estrema ed in una morte altrettanto rapida. Prima associato al rinnovamento buddista e simbolo di buon auspicio, durante la Seconda Guerra Mondiale il fiore di ciliegio è stato utilizzato per motivare il popolo giapponese nei confronti del nazionalismo e del militarismo, e la caduta dei suoi petali è diventata il simbolo dei soldati kamikaze. Con il suo lavoro Ori Gersht cattura l’essenza di questi fiori emblematici in un’atmosfera sinistra e post-atomica: l’interesse dell’artista in viaggio per Hiroshima era infatti ugualmente diviso fra l’innocenza perduta dei ciliegi e la forza grazie alla quale essi continuano a fiorire su di un suolo contaminato. Nelle opere di Ori Gersht, più che un commento critico alla violenza, si nasconde l’osservazione delle assurdità che ci circondano, l’indagine di scenari in cui in un posto si combattono guerre sanguinose mentre in un altro luogo le persone vivono un comodo stile di vita decadente: esistenze opposte e parallele che talvolta s’incontrano, proprio come nelle sue opere convivono bellezza e distruzione. Ori Gersht nasce a Tel Aviv nel 1967 e, a partire dal 1988, vive e lavora a Londra, dove consegue il diploma di laurea in Fotografia, Film e Video presso la Westminster University ed il Master of Arts presso il Royal College of Art. Il suo lavoro è stato esposto presso importanti istituzioni museali, tra cui, Tate Britain, Tate Modern, Victoria and Albert Museum, Imperial War Museum di Londra, Boston Museum of Fine Arts, Santa Barbara Museu, Tel Aviv Museum, Frankfurter Kunsverein, Jewish Museum di New York e Hirshhorn Museum and Sculpture Garden di Washington.

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Si ringrazia per la collaborazione:

ANNO VI - N° 34 Marzo/Maggio 2012 doppio numero Bimestrale



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