Anno II - Aprile 2012
SPORT Snowkite
FASHION Duffy
ARCHITETTURA Wood Beton
ARTE Massimo Minini
SICUREZZA Fon.AR.Com
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Kairòs si fa promotrice in prima persona del rispetto ambientale con la coraggiosa scelta etica di stampare l’intera rivista su carta FSC certificata, ovvero proveniente da foreste correttamente gestite, controllate e da legno e fibre riciclate.
Anno II – N°3 – Aprile 2012 Presidente Giovanni Buffoli Editore Roberta Filippi Via Del Cestello, 10 40124 Bologna (BO) Direttore Editoriale Roberta Filippi Direttore Responsabile Lamberto Cantoni Reporters Simona Gavioli, Sara Guidi, Giancarlo Roversi, Lamberto Selleri, Anna Serini, Marcella Tusa
EDITORIALI
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SI PUÒ SMATERIALIZZARE LA FORMAZIONE ALLA SICUREZZA? di Giovanni Buffoli
TRAVEL
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LA MANDORLA SICILIANA di Roberta Filippi
WINE
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BORGO CASA AL VENTO di Marcella Tusa
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SPORT
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FASHION
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IMMAGINAZIONE, DIVERTIMENTO E AUDACIA NELLE DOLCI CREAZIONI DEL POSTRERO JORDI ROCA di Blue G.
LE USCITE DI SICUREZZA DI GIULIO TREMONTI di Lamberto Cantoni
EVENTI
FOOD
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NUOVI DESIGNER
FORMAGGIO IN VILLA E OSPITALITA’ VENETA A VILLA BRAIDA di Lamberto Selleri
SNOWKITE. INTERVISTA A DANIELE PESCI di Roberta Filippi
BRIAN DUFFY IL FOTOGRAFO CHE NON VOLEVA AMARE LA MODA di Lamberto Cantoni
L’ANIMA GRAFFIANTE D’ALMA di Roberta Filippi
FORMAZIONE
ARTE
ARTISTI
ASSOCIAZIONE
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Art Director Francesca Flavia Fontana Marketing Editor Luigi Centoducati commerciale@kairosonline.it Hanno collaborato Michela Bellinazzi, Blue G., Martina Fuscaldo, Gia e Stefano Lavori Stampa Varigrafica Alto Lazio s.r.l. Via G. Bettolo, 39 00195 Roma
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POLIMODA. LA QUALITÀ DEL MADE IN ITALY NELLA FORMAZIONE MODA di Marcella Tusa
BEYOND THE FUTURE. GALLERIA MASSIMO MININI. di Simona Gavioli
ARCHITETTURA
SICUREZZA
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WOOD BETON - GRUPPO NULLI ELEGANZA+ECOSOSTENIBILITÀ =BIOEDILIZIA. di Marcella Tusa
FON.AR.COM di Elena Scolari
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RAIMONDO GALEANO E LA PITTURA OLTRE IL CONFINE DELLA NOTTE di Simona Gavioli
EVENTI SICURLIVE DA OGGI LA SICUREZZA NON PARLERÀ PIÙ SOLAMENTE ITALIANO
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CONFABITARE: LA VIA DEL FARE di Roberta Filippi
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SICURLIVE GROUP 78 SICURLIVE • SICURLIVE SYSTEM EDILSERVIZI • SICURZONE
Si può smaterializzare la formazione alla sicurezza? Gli entusiasti profeti del digitale, da anni promettono l’imminente scomparsa di gran parte dei prodotti e del lavoro nel formato che conosciamo. In altre parole ci allertano sul fatto che la nostra vita si sta velocemente smaterializzando. All’inizio toccò alla carta stampata: dalle lettere che scrivevamo all’industria editoriale che produceva riviste e libri, dopo l’avvento del web, fu chiaro che nulla sarebbe rimasto come prima. Poi cominciarono a ridimensionarsi le agenzie di viaggio, i negozi di dischi, i cinema, la fotografia… Un gran numero di attività di mediazione scomparve dal panorama dei lavori redditizi. Attualmente, grazie ad alcune decisioni del Governo Monti, persino la moneta si sta svaporizzando. Cos’altro rimane da rendere liquido? Qualcuno comincia a sostenere che è giunto il momento di dematerializzare la formazione e i docenti. In realtà lo aveva già annunciato 15 anni or sono Nicholas Negroponte, nel suo libro epocale Essere digitali (Sperling & Kupfer, 1996): l’insegnante in carne ed ossa è obsoleto, ovvero si ammala, col tempo rincoglionisce e quindi fa errori, ogni tanto protesta e fa sciopero; conviene dunque rottamarlo e sostituirlo con espedienti digitali. Ma è veramente possibile fare formazione attraverso degli avatar o degli assistant (le figurine animate che ci appaiono sullo schermo e ci guidano come se fossimo dei bambini deficienti)? La verità come sempre sta nel mezzo. Non possiamo negare che il digitale sia una enorme risorsa per lo sviluppo di tantissime attività, compresa la formazione. Ma con questo arrivare ad attribuire un maggiore esito formativo solo ai sistemi automatici internetizzati ce ne passa. La vera didattica, soprattutto quella che deve prepararci ad affrontare attività a rischio, non potrà mai prescindere dall’esperienza concreta, nella quale il vecchio insegnante rappresenta un momento di ancoraggio del sapere difficile da rimuovere. Poi esiste anche un problema di rinforzo della formazione che implica l’utilizzo di banche dati, simulazioni, masse di informazioni crescenti rapidamente disponibili. Ebbene questo livello può essere più facilmente affrontato grazie all’utilizzo del digitale. Ma è sbagliato confondere i due livelli che ho segnalato. Cambiare i comportamenti e le mentalità non è la stessa cosa del manipolare informazioni. Educare alle responsabilità non può affatto coincidere con l’addestramento free style del soggetto basato sul come è divertente il sapere usa e getta. Evitiamo per favore di fare del web qualcosa di anti razionale e appannaggio della superstizione e dei fanatismi. Impariamo ad usarlo bene, conoscendone i limiti.
In copertina:
Calendario Pirelli, 1973 © Duffy Archive
Reg. al Trib. di Bologna N° 8190/7/06/2011
RUBRIKA
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ARTICOLI IN PILLOLE di Martina Fuscaldo, Simona Gavioli, Anna Serini , Marcella Tusa
Giovanni Buffoli Presidente Kairòs
EDITORIALE
INDICE
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Le uscite di sicurezza di Giulio Tremonti Giulio Tremonti appartiene alla ristretta cerchia di intellettuali che hanno colto le aberrazioni del nostro modo di concepire l’economia dopo la svolta deregolativa avvenuta nel corso degli anni ottanta, thacherismo più reganismo, i cui effetti sono stati moltiplicati dal globalismo a tappe forzate di fine secolo, prima che la crisi dei sub prime ci svegliasse dall’intontimento prodotto dalle grancasse mediatiche asservite agli interessi del mondo finanziario. Il suo best seller, La paura e la speranza (ed. Mondadori), uscì in libreria nella primavera del 2008. Chiunque abbia scritto un libro sa che per organizzare contenuti di quella portata sono stati impiegati almeno due anni in ricerche, scrittura, editing. É quindi corretto sostenere che con grande lucidità l’autore aveva compreso in anticipo rispetto la quasi totalità degli economisti la natura tras storica della congiuntura che si andava profilando all’orizzonte del post capitalismo. Infatti il sottotitolo recitava: la crisi globale che si avvicina e la via per superarla. Le idee di Giulio Tremonti, in controtendenza rispetto quasi tutti gli analisti economici, erano sostanzialmente tre: 1. la globalizzazione è stata fatta con troppa fretta e comporterà a breve uno stato di crisi dell’economia dell’occidente; 2. la crisi non sarà una normale congiuntura da ciclo economico bensì strutturale, sociale e morale; 3. i costi del mercatismo (l’ideologia centrata sul potere finanziario deregolato che l’Europa e gli Stati Uniti hanno diffuso enfatizzando il mito della globalizzazione) potranno essere contenuti solo se la politica riprenderà il timone di comando delle scelte strategiche per stati, nazioni o comunità. In questo libro epocale, l’autore suggeriva sette parole chiave per salvarsi dalla crisi globale, ovvero valori, famiglia e identità, autorità, ordine, responsabilità, federalismo; parole immaginate essere veri e punti di riferimento per un epocale cambiamento di mentalità. In aggiunta alla rispolverata semantica alle parole cambia-cervello, dal punto di vista degli interventi da effettuare
lungo i confini dell’economia Giulio Tremonti raccomandava il completamento politico dell’Unione Europea, come scudo protettivo dalle ondate destabilizzanti prodotte dalle tempeste globali. In concomitanza con l’uscita del libro citato, per moltissime persone la parola crisi divenne una aggressiva indesiderata ospite presente a tutte le ore del giorno. A distanza di cinque anni non solo non se ne intravede la fine, ma nessuno è riuscito ad intervenire là dove Giulio Tremonti aveva indicato risiedere il cuore del problema. In questo contesto paralizzante, particolarmente tragico per il nostro Paese, nasce dunque da parte dell’autore, l’urgenza di un supplemento di analisi dello stato di crisi, puntualmente arrivata nelle librerie all’inizio di quest’anno. Cercare nel passato i valori per fondare una nuova politica Giulio Tremonti, dedica gran parte dell’ultimo suo libro, Uscita di sicurezza (Rizzoli, 2012), per spiegarci l’ennesima dimostrazione del significativo potere della finanza sulla politica. A pochi anni di distanza dallo sconquasso economico evocato sopra, non solo i responsabili della crisi non hanno pagato dazio in proporzione ai danni inflitti al sistema economico e alla gente, ma addirittura sono stati salvati dai soldi dei contribuenti secondo la logica dell’intervento statale che per vent’anni avevano disprezzato. Ovviamente, secondo l’autore le facce che hanno più o meno consapevolmente spinto il sistema economico al suicidio perfetto, sono quelle dei banchieri e degli speculatori finanziari. Cosa rimprovera Giulio Tremonti ai principali players delle due strutture citate? Sostanzialmente l’autore non digerisce l’esaltazione del debito che per anni è stato trasformato nel motore primario della finanza. Una visione irragionevole del business e dell’economia avrebbe trasformato la cosiddetta
società di mercato nell’inquietante società del debito, con il più che prevedibile aumento abnorme di consumi privati, spesso svincolati da qualsiasi logica economica. Per reggere una crescita fasulla basata su una ricchezza di carta, abbiamo chiuso gli occhi su 4 patologie che minavano la salute del capitalismo. I banchieri invece che valutare i rischi ai quali sottoponevano il denaro a loro affidato, si liberavano di ogni onere analitico/ predittivo cedendo, nel più breve tempo possibile, i rischi a terzi ( i loro clienti), dopo averli incorporati a nuovi prodotti finanziari (cartolarizzazione del debito). In tal modo trasformavano investimenti assurdi in nuove possibilità di guadagno immediato, aumentando in modo esponenziale i propri emolumenti e diffondendo nella società in modo irresponsabile la quota di rischio precedentemente creata. La globalizzazione e l’eccesso di attività speculativa sono state possibili solo grazie alla deregulation, ovvero alla possibilità di sviluppare attività fuori da ogni tipo di giurisdizione. In tal modo una quota importante di ricchezza ha cominciato ad agire sul resto dell’economia a partire da una zona d’ombra che ne rendeva impossibile i controlli. Dalle società di capitali, legittimate da un sistema di controlli legislativi e giudiziari si è passati a società basate su strumenti come gli hedge funds, e gli equity funds completamente al di fuori dagli schemi classici delle società per azioni. L’ultima delle patologie colpisce la logica stessa del capitalismo espressa dal criterio strutturale della partita doppia: la distinzione tra conto patrimoniale e conto economico è fondamentale per l’agire imprenditoriale. Ebbene, scrive Giulio Tremonti, l’ultimo capitalismo liberandosi dal vincolo della partita doppia ha fatto saltare la base etica dell’agire economico. In sostanza tutto è diventato conto economico, fortemente centrato sul mondo dei prezzi, annullando il riferimento ai valori (espressi dal conto patrimoniale) orientati alla lunga durata. Quindi non conta più la storia di una azienda, la sua missione, ma il semestre, il trimestre, il fixing giornaliero. Il sistema economico ci guadagna in dinamicità ma la società perde la dimensione morale ed etica del fare impresa.
A questo punto la domanda è: quali sono le soluzioni proposte dall’autore? Diciamo che Giulio Tremonti, a tal riguardo perfeziona la visione del mondo già espressa nel libro precedente. In sintesi, secondo l’autore, abbiamo bisogno di riscoprire la forma di pensiero che il fanatismo del mercato e le follie della finanza hanno per decenni nascosto, ovvero dobbiamo ripensare l’economia all’interno di un contesto che privilegi valori comunitari e sociali. La soluzione di Giulio Tremonti dunque non ha a che fare con economicismi bensì con la riscoperta di valori come l’idea del bene comune, la famiglia, le comunità, lo Stato. In breve la possibilità di superare la fase di crisi, o l’uscita di sicurezza, come preferisce scrivere l’autore, dipende da come la politica riuscirà a ritornare ad essere alta e nobile, ovvero se i rappresentanti del popolo, ripreso il bastone di comando delle operazioni, riusciranno ad avere visioni generali ispirate dall’interesse comune. Insomma ci occorrono nuove regole (per esempio regole contro l’anarchia finanziaria) capaci di ridare fiato ad idee come la responsabilità d’impresa, unica barriera sostenibile contro la corruzione, il riciclaggio dei capitali, l’uso illecito delle strutture societarie. Senza una buona regolamentazione non sarà possibile dare stabilità al sistema finanziario e avviare grandi progetti di investimento pubblico per il bene comune. Non ho molta simpatia per chi crede negli spiriti comunitari; l’appello al bene comune non mi ha mai commosso e, tra l’altro, è sempre stato un pallino dei grandi demagoghi della politica. Anche l’esaltazione dello Stato mi fa problema: le sue dimensioni abnormi sono parte del problema, la schiavitù fiscale che impone ai cittadini ha raggiunto nel nostro Paese livelli da società comunista (in assenza del comunismo). Tuttavia penso abbia ragione Giulio Tremonti: l’uscita di sicurezza passa attraverso la riproposizione di concetti troppo in fretta liquidati come populisti, demagogici, romantici da una società che in modo acritico ha sposato l’utilitarismo economico e l’individualismo dei valori come unico metro per l’agire sociale.
Lamberto Cantoni Direttore Responsabile Kairòs
EDITORIALE
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La mandorla siciliana di Roberta Filippi
in apertura: mandorlo in fiore con particolare del frutto in questa pagina: mandorli in fiore Ph. Giuseppe Zuppardo
“Dalla finestra dell’albergo che sta sopra un colle, il mio sguardo, come una delle tante cornacchie che in quel momento si libra a mezz’aria squittendo, spazia sul vasto paesaggio della Valle dei Templi. Dalle nuvole scure e stracciate che viaggiano rapidamente sul fondo grigio del cielo, cade sulla valle una pioggia sottile, brillante, silenziosa. Oltre i filari degli alberi e i campi di grano e le vigne e gli orti e i cascinali e i giardini, le tre
TRAVEL
I greci fondarono la città di Agrigento che aveva il nome di Akràgas. Dopo molti tentativi persi, i Cartaginesi riuscirono a impossessarsi della città, e da qui partirono le prime influenze arabe. Successivamente la conquista di Akràgas passò ai Romani che la rinominarono Agrigentum. La città per loro era fonte di ricchezza perché dal territorio ricavarono tufo, salgemma, minerali, zolfo, spezie orientali e una grande quantità di grano, uva e olive. Già da prima della caduta dell’Impero Romano, i Cartaginesi, gli arabi, i barbari asiatici e del medio oriente premevano sulla città fino a quando l’impero crollò e conquistarono tutta la Sicilia. Gli arabo-berberi rifondarono la città che venne chiamata prima Kerkent e poi Gergent. In seguito la città venne occupata prevalentemente dalla componente berbera dei dominatori, divenendone la “capitale” in Sicilia, sempre in contrapposizione con gli arabi di Palermo. Diverse volte le due città si scontrarono con successi alterni finché la rocca girgentina non fu definitivamente conquistata dagli arabi intorno al 1015. I berberi furono espulsi e la città visse gli ultimi anni del dominio musulmano effettivamente come città prevalentemente araba. Ma l’eredità che i berberi hanno lasciato nella cultura locale è molto forte e va dal dialetto ai toponimi ai cognomi alla cucina ed anche nella fisionomia degli abitanti stessi. Queste influenze cambiarono totalmente tutta la vita siciliana e agrigentina, dalla cultura al commercio alla vita degli abitanti, dalla costruzione di monumenti ed edifici al rinnovo dell’agricoltura e allevamento. I Normanni chiamarono la città Girgenti, nome che rimase fino al 1927 quando abbandonò la secolare denominazione sostituendola con Agrigento, forma italianizzata del suo nome latino.
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in queste pagine: Valle dei Templi Ph. Giuseppe Zuppardo
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alture con i tre templi minuscoli ma precisi si profilano come tre calvari remoti sul fondo fumoso del mare”. Sembra che Moravia mi abbia rubato le parole. La Valle dei Templi è senza ombra di dubbio la zona più conosciuta e decantata di Agrigento ma non è l’unica bellezza da ammirare. Vi è la Scala dei Turchi, una bianchissima scogliera a picco sul mare, a cui il vento e la pioggia hanno dato la forma di una suntuosa scalinata naturale; palazzi storici come il Palazzo Ducale di Palma di Montechiaro o il Palazzo Filangeri-Cutò di Santa Margherita Belice, entrambi appartenuti alla famiglia Tomasi di Lampedusa; il centro storico di Naro dal cuore barocco o le innumerevoli Ville in stile Liberty realizzate da nobili e borghesi del tempo e che oggi ci narrano di un glorioso passato. Oltre alle bellezze culturali e naturali, è la gastronomia siciliana a rendere indimenticabile la rinomata ospitalità siciliana. Seppur a grandi linee sia abbastanza omogenea, la cucina dell’Isola è molto varia di provincia in provincia. Ciò è determinato, oltre che dalla distanza dal mare e dalla disponibilità di prodotti diversi, anche dalle diverse dominazioni che si sono susseguite in Sicilia. È facile quindi assaporare gli arancini di riso e la pasta con le sarde, piatti tipici di Palermo ma ormai diffusi in tutta l’Isola, oppure la Pasta alla Norma, il cui nome deriva dall’esclamazione che Nino Martoglio, il noto commediografo catanese, fece davanti ad un piatto di pasta così condito ad indicarne la suprema bontà, paragonandola all’opera di Vincenzo Bellini. Senza dimenticare i dolci: dalla cassata, ai cannoli, al biancomangiare… Credo però che la mandorla possa rappresentare in maniera sublime come un prodotto possa rappresentare una grande opportunità economica, legando usi e tradizione fondendo cultura e coltura, storia e folclore. Un appuntamento, la Sagra del Mandorlo in Fiore che si ripete da oltre mezzo secolo e che
è diventato un punto di ritrovo tra i popoli della terra. Storia, folklore ed arte si fondono armoniosamente come fosse una valle incantata dalla nube bianca dei fiori di mandorlo, una magia che ogni anno, in primavera e in maniera estremamente suggestiva, vede l’inizio della festa dinnanzi il tempio della Concordia, alla presenza dei rappresentanti di tutti i popoli partecipanti alla Sagra. La mandorla non unisce solamente con la Fiaccola dell’amicizia, ma anche, e soprattutto, a tavola. Basti pensare al marzapane utilizzato per preparare dolci delle più svariate forme. Come i biscotti ricci che tanto piacevano al Principe Tancredi di Salina del romanzo “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Ancora oggi nella cittadina di Palma di Montechiaro, le suore di clausura del Monastero Benedettine preparano i mandorlati del Gattopardo allo stesso modo di come le loro antenate le prepararono per Tancredi. Le suore di clausura “prendono gli ordini” attraverso una ruota che le separa dai clienti che ritirano il pacchetto di mandorlati in cambio di un’offerta. A Pasqua il soggetto preferito dagli artisti è, invece, l’Agnello pasquale: un caratteristico e prelibato dolce artigianale a forma di agnello, appunto, fatto di pasta di mandorla farcita di pistacchio fresco e finemente lavorato: probabilmente un modo sacrificale simbolico che porta l’agnello a tavola senza spargimento di sangue. Ed è a Favara che questa tradizione è nata e alimentata da una fiorente attività artigianale. Pianta di origine asiatica il mandorlo si è diffuso in Grecia, quindi nella Roma antica, passando per la Sicilia non più tardi del 300 a.C. Nel Medio Evo le mandorle venivano utilizzate nella preparazione di salse in combinazione con le spezie: pepe e zenzero, fino alla messa a punto della ricetta del torrone per le nozze nel 1441 tra Bianca Maria Visconti, figlia del Duca di
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in queste pagine: momenti della festa Ph. Giuseppe Zuppardo
info: Regione Sicilia Assessorato Risorse Agricole e Alimentari unità operativa - SOAT Agrigento via Acrone, 51 - Agrigento soat.agrigento@regione.sicilia.it Monastero delle Benedettine del SS. Rosario Palma di Montechiaro (AG) Tel. 0922 968108
Milano Filippo Maria, e il condottiero Francesco Sforza. È nel 1650 che un cuoco francese le utilizza avvolte da zucchero cotto, generalmente colorato in rosa o in bruno, inventando l’amande à la praline e un secolo dopo, nell’Encyclopédie di Diderot e D’Alambert che si ha una descrizione dell’utilizzo delle mandorle nella confiserie. Nel mondo esistono numerose specie di mandorlo e molte di loro sono eduli, ma la principale specie di riferimento dal punto di vista alimentare è il Prunus Amigdalus L., la sola coltivata in Italia. Molto utile, per conoscere le mandorle, è la suddivisione delle numerose varietà di mandorle in due gruppi: quelle amare o ermelline, che contengono nel frutto l’amigdalina (glucoside cianogenico ovvero capace di liberare acido cianidrico e presente in quasi tutti i semi della frutta) e l’emulsina; quelle dolci, molto utilizzate in campo alimentare. La mandorla dolce non contiene amigdalina ed è innocua ed inodore. Nel seme della varietà amara, l’amigdalina e l’emulsina si combinano quando la mandorla amara viene schiacciata, si bagna o si mastica liberando acido cianidrico. L’amigdalina viene inattivata con la cottura prolungata. Più sono amare più sono velenose e se ne sconsiglia l’assunzione sopra le 40. La frutta a guscio e le mandorle dolci in particolare, rappresentano un’ottima fonte di energia dato il loro elevato contenuto lipidico. Da un punto di vista nutrizionale le mandorle, alimento tipico della dieta mediterranea, sono un ottimo vettore di vitamina E, potassio, magnesio e di una grossa quantità di grassi ben assortita. Numerosi studi epidemiologici, inoltre, hanno dimostrato che il consumo regolare di mandorle produce una diminuzione dei fattori di rischio cardiovascolari. Ed è grazie all’impegno degli imprenditori siculi, degli chef che utilizzano prodotti autoctoni e delle istituzioni che cercano con non pochi sforzi di farci conoscere questa magnifica terra e il suo cibo che le mandorle siciliane, possono assurgere a simbolo di una cultura sia sotto il profilo paesaggistico, sia folkloristico che gastronomico.
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Borgo Casa al Vento: un bio-resort per regalare momenti unici con oli e vini d’eccezione
Borgo Casa al Vento: un bio-resort che regala momenti unici, con vini d’eccezione, oli e bagni al vino. Nelle colline senesi, immerso nel rumore del silenzio, attraverso le geometrie scolpite da vigneti ed uliveti sorge l’Agriturismo di Borgo Casa al vento, un piccolo resort nelle terre di Gaiole in Chianti nato dal restauro completo di un autentico Borgo Medievale. Un ambiente semplice, accogliente e curato in cui poter riapprezzare i sapori antichi di un vino unico, coccolati da massaggi e bagni alle essenze fruttate di uva rossa, in armonia con gli aromi di una cucina semplice e fatta di ingredienti veri. La Famiglia Gioffreda è riuscita a ridare lustro a questo antico Borgo , un tempo dimora di antichi mezzadri ed oggi meta ambita per momenti di relax intimi e raffinati. Ma i proprietari Pino e Ria Gioffreda hanno realizzato qualcosa di più: è proprio grazie alla loro determinazione e ferrea volontà che il vino di Gaiole, dopo secoli di abusi di pesticidi ed eccipienti sintetici, ritorna alla sua naturale essenza. Con coraggio e lungimiranza, ma soprattutto nel rispetto della terra, i titolari dell’azienda vinicola hanno creduto fermamente nella genuinità del proprio vino e con convinzione hanno deciso di riportare al biologico tutti i vigneti, gli olivi e l’intera proprietà. I vini di Casa al Vento nascono in queste terre, in uno scenario
WINE
di Marcella Tusa
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indimenticabile in cui i rossi maturano in barrique mantenendo uno stile convincente ma mai forzato. Nasce così il Chianti Classico Riserva Foho, il cui nome, pronunciato con il noto accento toscano, significa “Fuoco”, blend di sangiovese al 90% e merlot per il restante 10%. Un merlot che viene raccolto da una vigna trentennale che garantisce stupendi sentori e che ha consentito a Foho vendemmia 2008 di ricevere l’ambito premio dei 3 bicchieri dal Gambero Rosso, un grande riconoscimento per questa giovane azienda vinicola che crede nella qualità come elemento di differenziazione e prestigio. Un vino morbido, elegante, caldo, di prolungata persistenza. Di colore rosso rubino intenso, con nuance granate sull’unghia, questo vino sprigiona profumi intensi in cui si avvertono subito le note speziate del legno, cacao e noce moscata e, solo successivamente, il tipico sentore floreale di violetta. Non da meno è il Chianti Classico Aria , la cui etichetta è un romantico gioco di parole: il nome, infatti, ai più ricorda l’elemento naturale Aria. In verità il vino è dedicato a mamma Ria, “A Ria” appunto. La scelta del sangiovese in purezza e’ un giusto riconoscimento al territorio del Chianti, una scelta che premia un vino dedicato ai veri amanti della autentica tradizione viticola di queste terre; di colore rosso rubino, con lievi nuance granate sull’unghia, si percepisce immediatamente un bouquet complesso in cui si avvertono sentori di frutti a bacca rossa (in prevalenza more) che sul finale ben si integrano con le note speziate del legno. Aria è un vino armonioso, secco, caldo, piacevolmente tannico, indicato da “Il Golosario” come uno dei 100 vini migliori d’Italia nella classifica dei top hundred 2009. Un sangiovese puro che gioca su sensazioni speziate ed agrumate, in un contesto dolce e saporito, ricco di contrasti e di grande profondità.
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info Agriturismo Borgo CasalVento Località Casal Vento, Gaiole in Chianti (SI) Tel. 0577.74 90 68 www.borgocasalvento.com info@borgocasalvento.com
Una ricetta tanto buona quanto storica: il Peposo della Fornacina Cosa c’entra Brunelleschi con la gastronomia? Sebbene si possa pensare al grande maestro in analogia con arzigogolate architetture pensate per la presentazione scenografica del piatto, in realtà il nome del costruttore della cupola del Duomo di Firenze si lega per antica storia a questa ricetta di umili origini, caduta nel dimenticatoio per molti anni e riscoperta solo di recente, ricetta di cui lui stesso ne era ghiotto: il peposo della fornacina. La storia narra che gli operai addetti alla costruzione della cattedrale fiorentina, amassero cibarsi di un piatto composto da carne di manzo, vino rosso e pepe. I fornacini, addetti al controllo del fuoco che doveva restare acceso per tutto il giorno ed in cui si cuocevano le tegole del campanile (oltre quattro milioni), una volta arrivati a fare il turno di notte, trovarono il modo di rallegrare la veglia forzata preparando nel forno un piatto caldo. La carne, l’unica che potevano permettersi, era di bassa qualità: muscolo tagliato a cubettoni, messo in una pentola di coccio insieme a spicchi d’aglio ed abbondante pepe, il tutto ricoperto dal vino rosso. Posto in un angolo della fornace, affinchè il calore non fosse troppo forte, la carne cuoceva lentamente e si ammorbidiva, fino a risultare tenera e saporita. Ingredienti • 1 kg di muscolo di manzo • 1 l di Chianti • 15 chicchi di pepe nero • sale q.b. • 5 spicchi d’aglio • 6 fette di pane toscano • un mazzetto composto da salvia e rosmarino Procedimento In una pentola capiente possibilmente di coccio disporre il muscolo tagliato a cubetti non troppo piccoli. Aggiungere gli spicchi d’aglio non pelati, il sale, il mazzetto di odori e il pepe. Coprire con il vino e far cuocere a calore moderato, in forno o sul fornello, fino a che la carne non risulti estremamente morbida. Tostare le fette di pane, in forno o sulla griglia, versandovi sopra il peposo. Servire subito accompagnando la degustazione con Chianti Classico.
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Immaginazione, divertimento e audacia nelle dolci creazioni del postrero Jordi Roca
info: El Celler de Can Roca C/ de Can Sunyer, 48 17007 Girona, Spagna www.cellercanroca.com
In apertura: gran bombón de chocolate
Ne “Il profumo” di Patrick Suskind si enuncia che “Il profumo ha una forza di persuasione più convincente delle parole, dell’apparenza, del sentimento e della volontà. Non si può rifiutare la forza di persuasione del profumo, essa penetra in noi come l’aria che respiriamo penetra nei nostri polmoni, ci riempie, ci domina totalmente, non c’è modo di opporvisi”. La storia e le credenze dell’uomo sono, dalla notte dei tempi, legate al profumo. Per i Romani e i Greci gli odori servivano a sviluppare complesse funzioni rituali. Per la sua inconsistenza, l’odore, evoca una presenza spirituale e ricorda la natura dell’anima. Nelle religioni orientali è sinonimo di perfezione, bellezza e virtù. Se nella nostra quotidianità l’olfatto non è un mezzo di comunicazione esplicito, i profumi e gli odori divengono, comunque e inevitabilmente, parte della nostra percezione del mondo. Quanti di noi potrebbero dimenticare la mattina precedente il Natale, quando dal letto della propria stanza, accecati dalla luce che entrava dalla finestra, l’odore del latte caldo e della torta nel forno, anticipavano una ricca colazione fatta dalla mamma? In quel momento in cui, ancora assonnati, scendevamo le scale in direzione cucina, tra sogno memoria e illusione nasceva in noi un’unica domanda: “E se in questo momento stessimo sognando di vivere?” Se il profumo che si propaga nell’ambiente fosse semplicemente
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di Blue G.
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Nella pagina accanto: postre lactico in questa pagina: sorbete de destilado de limón
il ricordo di un altro momento passato o magari il nostro desiderio di trovare una focaccia fumante che emana aroma di cannella? “Se in questo momento stessimo sognando di vivere” probabilmente capiremmo, dal basso della nostra giovane età che “coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte”. La cucina dell’infanzia attraversa ogni generazione, è fatta di sapori e profumi che rimangono nel tempo se pur in piccole particelle pronte a risvegliarsi anche al più impercettibile alito di vento. Un giorno ti siedi a mangiare una “Madelaine” e ti accorgi che un ricordo rimasto nell’oblio per anni si scuote facendo eco nella memoria e risvegliando sensazioni vissute in un dato periodo della tua vita. È il ritrovamento del “tempo perduto” che avevi la sensazione di aver smarrito, quel tempo frusto che è passato veloce immagazzinando reminiscenze spesso legate al senso dell’olfatto e di riflesso al gusto. Deve essere stata la cucina dell’infanzia che secondo Rousseau “ha modi di vedere, di pensare, di sentire che le sono propri…” a stimolare il giovane Jordi Roca a ricercare nell’odore, l’esplosione finale e decisiva dei suoi “postres”. Jordi Roca classe ’78, “postrero” come ama definirsi lui, appartiene insieme a Joan e Josep alla terza generazione di una famiglia dedicata alla ristorazione. I tre fratelli, sulle orme dei nonni che avevano aperto una taverna a Sant Martí de Llèmena nel 1920, aprono nel 1986, il ristorante El Celler de Can Roca (tre stelle Michelin) accanto alla locanda dei genitori, a Girona. Tre, numero perfetto, secondo il cristianesimo. Sono, infatti, tre le personalità che compongono lo zoccolo duro del Celler, con Joan in cucina, Jordi alla pasticceria e Josep alla cantina. Tempio delle emozioni e della ricerca, in questo ristorante dove tutto è equilibrato, a partire dalla luce che entra nello spazio giocando un ruolo importante sulla stabilità delle sensazioni, ogni pasto termina con le creazioni della “mente dolce” di Jordi. Jordi, responsabile della pasticceria fa i primi passi tra cucina e bar dei genitori prima di incontrare il famoso pasticcere Damian Allsop che ai tempi era l’incaricato dei dolci del Celler. Importante incontro, questo, cambia la vita di un giovane ragazzo facendolo passare dalla sala al regno dell’innovazione: la cucina. Come nella cucina del Piccolo Principe, dove compare una punta di piccola sfida, così Jordi, da quel momento, pare “camminare adagio adagio verso una fontana…”, la “fontana” che lo porterà alla realizzazione dei suoi, umori/amori, sensuali/sessuali, olfattivi/ gustativi, dolci divini. Sono i primi passi verso un lungo cammino
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qui sopra: l’ingresso del ristorante El Celler de Can Roca; nella pagina successiva: Jordi Roca
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al fianco di Allsop che gli darà gli insegnamenti necessari per apprendere il “verdadero” significato della pasticceria, insieme alla precisione, al metodo, alla pazienza, alla sicurezza e al coinvolgimento ossessivo. Con il passare del tempo apprende perché un sufflè schiuma, come si porta a temperatura il cioccolato o come si soffia lo zucchero col metodo artigianale simile a quello della manifattura del cristallo. Con questi suggerimenti preziosi, Jordi, inizia a creare senza mai perdere la voglia di divertirsi, di sognare, di provocare, di sorprendere e sorprendersi e soprattutto di giocare. Al pari di una conquista amorosa, i suoi dolci esplodono di sensualità ed erotismo conservando però l’ingenuità fanciullesca che li rende ineguagliabili. Il dolce “LLimona” del quale è stato creato il profumo “nuvol de llimona” con bergamotto, limone, Madaleine, burro tostato, fragole, distillato di distillato di scorza di limone, miele e tanto amore, apre le porte della percezione e della via della dolcezza al pari di una ricetta immorale di Manuel Vasquez Montalban arrivando a sedurre facendosi assaggiare per farci scoprire il vero centro dell’erotismo. Il gran bombón de chocolate, sfera di caramello coperta da un sottile strato di cioccolato al latte che avvolge una mousse leggera e fresca di un altro tipo di cioccolato ha un sapore che tocca il palato con più espressività portandoci alla sublimazione. Ma il giovane Roca si è spinto oltre. Sembra quasi impossibile il solo pensarlo: è riuscito a trasformare un profumo in un piatto commestibile. Secondo Suskind chi “domina gli odori, domina il cuore degli uomini”. Nelle Corrispondenze di Baudelaire, “vi sono profumi freschi come carni di bambini, dolci come oboi, verdi come prati, e altri, corrotti, ricchi e trionfanti, che hanno l’espansione delle cose infinite, come l’ambra, il muschio, il benzoino e l’incenso, che cantano i trasporti dello spirito e dei sensi”. Un dessert denso di rimandi che debutta con l’implosione nella bocca per poi farsi spazio oltre i confini del palato, verso il naso. Come tutte le scoperte che avvengono per caso ma solo mentre si sta ricercando, così anche per Jordi l’abbattimento del limite della cucina legato al palato si sfata e percorre strade nuove dopo aver ricevuto una scatola di bergamotto dalla Calabria, agrume poco
conosciuto in cucina ma che vive una grande tradizione nella profumeria. In quel momento si scatena l’urgenza geniale del postrero che intuisce nel frutto un odore famigliare simile a quello del profumo Eternity di Calvin Klein. Un’associazione olfattiva molto curiosa che rileva mandarino, basilico, fiori d’arancio, vaniglia, spezie, fiori, e altri elementi che compongono l’essenza fatta di elementi che vengono comunemente utilizzati ogni giorno in cucina. Et voilà! Eternity è cucinato, cosi come Lancôme Trésor e Miracle, Gucci Envy, Angel di Thierry Mugler, L’Eau d’Issey, Eau D’Orange Verte e un giardino in Mediterranee di Hermès Carolina di Carolina Herrera, Chanel Coco Mademoiselle, Lolita Lempicka, Polo Sport by Ralph Lauren, DKNY Be Delicious. La cucina di Jordi Roca è immaginazione, divertimento e audacia, è una cucina della passione che pare attingere dalla filosofia da Antoine de Saint– Exupéry in cui il protagonista è un bambino e come tale ama i dolci perché gli danno la sensazione di completezza e di sincero amore. Una cucina delle emotività che trova massima espressione nel Postre lactico, in cui il dolce di latte, unito al gelato di latte di pecora, allo yogurt e alla “nube lactica” connette le sue potenzialità per generare la nostalgia dell’odore della nuca di un bebè. Semplicemente geniale e commovente sensazione che rimanda all’infanzia e alla dolcezza. Proust diceva che “ un odore, già sentito o respirato un tempo lo sia nuovamente, insieme nel presente e nel passato reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti, immediatamente l’essenza permanente e abitualmente nascosta delle cose si trova liberata, e il nostro vero io che, talvolta da molto tempo, sembrava morto, ma che non lo era interamente, si sveglia, si anima ricevendo il cibo che gli viene dato”. Al nostro Jordi piace giocare verso il limite, rompendo le convenzioni e utilizzando la fantasia per vivere in totale dolcezza sorprendendo nel finale e proponendo un’alternativa ricreativa alla routine della quotidianità. Portando alla bocca un dolce del postrero una domanda viene spontanea. “Siamo pronti per giocare?” Se sì, allora cominciamo.
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“Formaggio in Villa” e ospitalità veneta a Villa Braida di Lamberto Selleri
in apertura: formaggi di De’ Magi in questa pagina: locandina della manifestazione
EIVENTI
Guru del Gusto www.cartadaformaggio.it
L’appuntamento con i protagonisti del mondo caseario ha avuto luogo a Villa Braida dal 3 al 5 marzo all’interno della Seconda Edizione di “Formaggio in Villa”. Produttori, affinatori, selezionatori, chef, giornalisti hanno potuto assaggiare eccellenze della produzione di formaggi di qualità scoprendo, attraverso degustazioni guidate con abbinamento a vini e birre artigianali oltre che cene con chef stellati come ad esempio Massimo Bottura, che questo prodotto può rivaleggiare con qualsiasi portata del menu tradizionale e che, quindi, a seconda delle circostanze, può al tempo stesso rappresentarne un’alternativa o un complemento. Importanti le presenze dei Consorzi per la tutela del formaggio Asiago DOP, Piave DOP e Mozzarella di Bufala Campana che, grazie al sostegno e alla promozione, hanno permesso ad Alberto Marcomini, Luca Olivan e a tutto lo staff Guru del Gusto, di raccogliere le eccellenze della produzione di formaggi di qualità. Alla manifestazione erano presenti oltre 70 aziende che, con il linguaggio diretto della degustazione programmata, hanno introdotto tutti i partecipanti all’arte del riconoscimento dell’eccellenza produttiva di uno dei prodotti strategici per la nostra economia. L’Italia è, infatti, il Paese più ricco di varietà di formaggio d’eccellenza, ma, incredibilmente, anche il Paese che limita la distribuzione delle sue virtù. L’obiettivo strategico della manifestazione, oltre a creare la situazione tipica dell’incontro tra produttori e pubblico, è stato quello di individuare il nostro formaggio di qualità come risorsa economica e culturale del made in Italy. Il mondo del formaggio oggi è sottovalutato sia dal punto di vista simbolico che da quello economico. La nobilitazione del formaggio come alimento della dieta degli italiani, verrà esportata anche al di fuori dei confini, in una manifestazione ancora una volta centrata sulla degustazione del prodotto, nell’incantevole città di San Pietroburgo, vera porta d’accesso del mercato russo.
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Villa Braida
qui sopra: interno di una delle sale della villa; Luca Olivan nella pagina accanto: veduta di Villa Braida
Farsi costruire, fuori dal perimetro urbano, una villa “a propria immagine e somiglianza”, è prerogativa degli uomini che hanno riscosso successo nella vita. Famose sono quelle edificate nel Veneto e commissionate all’architetto A. Palladio (1508-1580), o costruite in stile palladiano che ricalcano la sua impronta. Anche nei secoli seguenti ricchi, politici, mercanti benestanti, nobili e notabili veneti amavano farsi erigere ville sempre più preziose, quasi ci fosse una gara tra chi la costruiva più grande e appariscente o regale. Oggi le ville venete sono diventate un pregevole patrimonio artistico ed architettonico, che richiama turisti da tutto il mondo come visitatori o ospiti. Infatti, molte sono state adibite a residence o alberghi, per la gioia di chi vuol trascorrere una vacanza, un week-end in una dimora principesca dove ospitalità, svago, benessere, cultura, gastronomia e sport vengono serviti su un piatto d’argento. Villa Braida si trova a Mogliano Veneto (12 km. da Treviso e 23 da Venezia): è il prototipo della villa veneta trasformata in albergo. Avvolta in un magnifico parco, ora è adibita ad ospitare clienti esigenti ed eventi raffinati e prestigiosi come “Formaggio in Villa”. La costruzione della villa risale al 1776, commissionata dal nobile Ferdinando Braida, che vanta tra gli avi Ducati, Marchesati e una quarantina di Baronie. Dopo la prima grande guerra la villa, passata a nuovi proprietari, va incontro ad un periodo di oblio fino al 1990, quando, per mani sapienti, viene adibita ad albergo per far sì che ogni pietra possa continuare a raccontare ai futuri clienti la sua storia. Oggi Villa Braida offre lo charme di interni in stile veneziano immersi nel verde e nella quiete della campagna trevigiana. Entrare in questa nobile dimora è come fare un salto nel passato, tornare agli splendori delle ville venete dell’800 e rivivere atmosfere dal fascino antico. La Villa, che si raggiunge facilmente con il nuovo passante di Mestre, si trova a soli 800 metri dalla uscita dell’autostrada. Inoltre, dista solo 30
km da Jesolo, una delle località balneari più famose d’Italia e autentica movida della riviera adriatica. Atmosfera accogliente e ospitalità raffinata si traducono in 2 suite e otto junior suite, frutto del connubio tra l’eleganza che i Braida hanno saputo infondere nella villa e il comfort moderno degli ambienti, tanto che si è tentati di dormire ad occhi aperti. Le suite, eleganti e prestigiose, sono arredate in stile veneziano, e usufruiscono di tutti i confort. Le junior suite, arredate con un’attenzione quasi maniacale in ogni minimo dettaglio, dispongono di elegante salottino e vasca idromassaggio, per rendere estremamente gradevole il soggiorno .In questa residenza dal sapore antico, la cucina si fonde con l’arte, tanto che colazioni, pranzi e cene assumono il significato di vere e proprie esperienze enogastronomiche uniche. I menu raffinati e ricercati, ma attinenti al gusto tradizionale e genuino, vengono realizzati con prodotti sempre freschi e tipici del territorio, secondo il naturale alternarsi delle stagioni. I vini provengono dalle migliori cantine del Veneto. Convegni, meeting, manifestazioni culturali o gastronomiche, corsi di formazione, stages o sfilate, Villa Braida è versatile e all’altezza di soddisfare ogni formula con eleganza e professionalità, potendo mettere a disposizione a richiesta servizi di Ambienting, Travelling, Mailing, Cooking ed Exploring. Per quel fatidico “si”, tanti giorni indimenticabili si sono succeduti a Villa Braida. Il supporto organizzativo collaudato che da anni viene offerto è la carta vincente che può sollevare sposi, genitori e ospiti da imprevisti dell’ultimo momento, perché tutti desiderano a Villa Braida che quel “si” sia ricordato come il giorno il più importante, per sempre. info: Villa Braida via Bonisiolo, 16/b - Mogliano veneto (TV) www.villabraida.it
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Snowkite. Intervista a Daniele Pesci. di Roberta Filippi
SPORT
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Sono i giorni della merla, quelli più freddi dell’anno, e questo 2012 ce li ha proposti veramente ghiacciati. Non desidererei null’altro che riscaldarmi vicino al camino e coccolarmi con una gustosa cioccolata in tazza. Ma sono in auto, direzione Passo del Tonale al confine tra la Lombardia ed il Trentino. Ammiro i giochi di luce che il sole crea col suo riverbero sulla neve e mi godo il panorama: pascoli pianeggianti innevati, scoscesi pendii ed i ghiacci del Presena. Improvvisamente scorgo in lontananza una macchia colorata che pare un aquilone, un gigantesco aquilone. E non è solo, ce ne saranno una decina. Pian piano che mi avvicino capisco che a quegli aquiloni sono imbragati altrettanti sciatori. Sembra di vedere dei kiters che, invece di piroettare tra le onde, volteggiano quasi a ritmo di musica, sul manto nevoso. Arrivo al rifugio e incontro Daniele Pesci, il direttore della Asd Snowkite School Tonale. Ci accomodiamo di fianco al tanto bramato camino con un thè caldo fumante stretto tra le mani a riscaldarci. Daniele è un ragazzo molto simpatico e pieno di vitalità che ha deciso di aprire la scuola di Snowkite e abbandonare il suo impegno di ufficio per fare della sua passione un vero e proprio lavoro. “Fino allo scorso anno c’erano solamente 4 o 5 scuole in tutta Italia. Già da quest’anno molte scuole di kitesurf hanno deciso di avviare anche la scuola di snowkite ed il numero si è raddoppiato. Probabilmente questo fattore è destinato ad aumentare nei prossimi anni, anche se i posti dove può essere praticato non sono molti” inizia a raccontarmi. Lo snowkite, quindi, è uno sport invernale che sta crescendo rapidamente. Ma tu quando hai iniziato a praticarlo? Ho iniziato a praticare lo snowkite 5 anni fa, per la prima volta proprio qui al Passo del Tonale. Io ho imparato per conto mio, qui al Tonale ed in altri posti sulle Dolomiti. Io e la mia ragazza Tiziana lo abbiamo praticato per 5 anni, tutti i weekend da novembre ad aprile. Luca Vassalli, amico ed esperto di aquiloni da trazione da 20 anni, mi ha trasmetto molte nozioni tecniche sulle vele e sulla meteorologia. Questo know-how, grazie alla scuola, vogliamo condividerlo con tutti i nostri studenti. Chi ha inventato lo snowkite? Lo ritieni un erede del kitesurf? Lo snowkite in realtà è più anziano rispetto al kitesurf da acqua, anche se molti credono il contrario. Già da molti anni, nei paesi scandinavi, vengono utilizzati degli aquiloni per il traino
sulla neve anche come mezzo di trasporto. Lo snowkite anche se ha molte somiglianze con il kitesurf ti permette di provare emozioni più forti ed è molto più semplice da apprendere. Partire ed andare alla scoperta di nuovi posti, percorrendo decine di chilometri senza mai passare nello stesso punto è una sensazione indescrivibile. È possibile praticare lo snowkite indifferentemente con snowboard o sci? Lo snowkite si può praticare sia con gli sci che con la tavola. Gli sci permettono di apprendere questo sport molto più rapidamente. Lo snowboard richiede più tecnica e più vento per essere trainati. Tutti possono praticare questo sport? Oppure è necessario essere esperti sciatori? Bisogna avere compiuto 12 anni di età per praticarlo. Non serve essere esperti sciatori, basta saper scendere da una pista rossa. Con lo snowkite inizialmente si percorrono solo tratti pianeggianti e molto semplici, sia per chi usa lo snowboard o gli sci. Quale attrezzatura occorre? Lo studente deve solo portare la sua attrezzatura da sci o snowboard, al resto ci pensiamo noi. Per praticarlo in autonomia, dopo avere conseguito il brevetto, servono anche un aquilone ed un imbrago. L’aquilone deve essere proporzionato al peso della persona. Mediamente hanno una dimensione che va dai 6 ai 13 metri quadrati. L’imbrago serve per attaccarci l’aquilone ed essere trainati, come se fosse il nostro ski-lift privato. Dove si pratica? Ci sono piste specifiche per lo snowkite? Lo snowkite può essere praticato in luoghi aperti, senza ostacoli come alberi o tralicci. Possibilmente in luoghi ventosi, come i passi o i laghi alpini. È importante verificare sempre che non ci siano rischi o pericoli dove lo pratichiamo. È sempre meglio praticarlo in compagnia ed informarsi prima se qualcuno lo ha mai fatto in quel luogo. Tu insegni in Tonale e sei direttore della Asd Snowkite School Tonale. Qual è la tipologia di allievi a cui generalmente ti rivolgi? La scuola ha aperto i battenti solo quest’anno e al momento
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gli utenti che si rivolgono alla nostra scuola sono al 90% chi lo pratica sull’acqua. Il nostro obiettivo è quello di diffonderlo anche a chi non ha mai utilizzato un aquilone da traino. Mi racconti la tua giornata tipo? La mattina mi godo l’alba ed il sole spuntare dall’Adamello, di fronte a casa mia a Vezzadoglio. Questo mi da l’energia per affrontare la giornata. Poi controllo la situazione meteo e vento in Tonale nella sezione meteo del nostro sito. Controllo anche le previsioni per le prossime 48 ore e programmo i corsi dei giorni successivi. Poi mi preparo e salgo al Passo dove alle 10 iniziamo i corsi. Incontro gli studenti e cerco di capire il loro livello di preparazione per colmare le loro lacune. Inizio la parte teorica dei corsi che dura circa 1 ora, poi ci spostiamo nel campo pratica dove si svolge la lezione vera e propria. In base alle condizioni meteo ed all’autonomia dello studente terminiamo circa verso le 16.00. Concludiamo la giornata di fronte ad una bevanda calda e programmiamo la prossima uscita o terminiamo il corso. Rientro a casa, controllo nuovamente le previsioni del meteo ed il vento e chiamo gli studenti del giorno dopo per confermare o riprogrammare il corso.
Lo snowkite inizia ad appassionarmi solo a sentirlo raccontare da chi ha una passione così forte come Daniele. Improvvisamente arriva Tiziana, la sua fidanzata, che è appena tornata da un’uscita con altri amici. Mi stringe la mano con un sorriso brillante ed affettuoso. Faccio fatica a credere che una ragazza minuta come lei possa praticare uno sport come questo, ma, come mi spiega, “più sei leggera e più voli in alto”. Fantastico. Ho deciso che domani mi sveglierò presto per vedere l’alba e poi seguirò le lezioni teoriche. Prima di arrivare alla pratica dovrò imparare almeno a stare in piedi sugli sci.
Puoi dare qualche consiglio a chi si vuole avvicinare a questo sport? Non voglio convincere nessuno a praticarlo. Provatelo e ve ne convincerete da soli. C’è solo un problema: vi creerà una folle dipendenza, e sarà dura farne a meno. Se siete indecisi, provatelo con un corso test di 2 ore, poi potete scegliere se proseguire l’avventura o terminarla, anche se la risposta è già scontata. Stai pensando anche di organizzare competizioni di snowkite? Sì, quest’anno volevamo organizzare AL TOP CRAZY RACE, una gara aperta a tutti i nostri soci, che abbiamo ideato insieme ai ragazzi di AL TOP IDEAS. È una gara senza troppe regole, il cui obiettivo è quello di coinvolgere tutti, esperti e meno esperti. Il grado di difficoltà è veramente basso e l’esperienza su questa tipologia di gare è che chiunque partecipi possa vincere. Purtroppo il tempo non è stato troppo clemente con noi quindi l’appuntamento è posticipato a fine anno.
Daniele Pesci, direttore della Asd Snowkite School Tonale con la sua fidanzata Tiziana Montagnoli
info: Scuola - ritrovo per briefing e parte teorica lezioni: presso Hotel Miramonti Via Nazionale, 4 Passo del Tonale (TN) daniele@snowkitetonale.it
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Brian Duffy Il fotografo che non voleva amare la moda
In apertura: David Bowie, Aladdin Sane, 1973 © Duffy Archive
Brian Duffy, nato nel 1933, scomparso nel 2010, non ha ancora trent’anni quando insieme a Terence Donovan (1936) e David Bailey (1938) diventa uno degli image makers più quotati dei cosiddetti Swinging Sixties. Dopo aver studiato arte e moda, inizia il suo apprendistato presso Adrien Flowers, fotografo professionista abbastanza noto nell’ambiente dell’advertising londinese. Insieme ai colleghi citati, dopo le prime timide apparizioni sull’edizione inglese di Vogue, cominciò a randellare lo stile tradizionale delle immagini di moda, con foto sempre più libere da schemi precostituiti; immagini che citavano in modo inconsapevole l’immediatezza della televisione ( che in proprio in quel decennio stava trasformandosi in un fenomeno di massa) e la freschezza a volte indigesta delle riprese en plein air. Brian Duffy aborriva la teatralità, la foto in studio, il ritratto senza sbavature, la pretesa del fotografo di cogliere l’essenza del soggetto, la foto artistica. Viveva la fotografia in modo nomade e selvaggio, preferendo creare situazioni dinamiche che davano alle riprese quel margine di incertezza che in brevissimo tempo divenne il marchio di fabbrica dello stile visuale degli anni sessanta, gli anni delle rivoluzioni annunciate, della gioventù al potere, del sex appeal diffuso etc. Non so se si può dire, come sostengono in molti, che Brian Duffy inventò le stile documentario per la fotografia di moda. Sarebbe come se ci dimenticassimo dell’esistenza del grande Martin Munkacsi, il cui stile da reporter sportivo piacque tantissimo a Carmel Snow, l’Editor di Harper’s Bazaar, all’inizio degli anni trenta. Per non parlare del grande Richard Avedon e dei suoi meravigliosi reportage di Alta Moda fatti per le vie di Parigi, fin dall’inizio degli anni cinquanta.
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di Lamberto Cantoni
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qui sopra: Queen magazine, 1965 © Duffy Archive nella pagina accanto: Vogue, Firenze, Italia, 1962 © Duffy Archive
Preferisco pensare che, prendendosi più libertà espressiva, anche a costo di inevitabili imperfezioni, Duffy creò l’illusione di una nuova ondata di energia che si spalmava in tutte le sue foto. Rispetto allo stile dissacratorio di un William Klein o alla mostruosa perfezione formale di Avedon e di Penn, The Terribile Trio (Duffy, Donovan, Bailey: così li definì il Sunday Times all’apice del loro successo), sperimentavano la trasduzione nel linguaggio della fotografia della spontaneità, dell’effetto non studiato di una idea, della gestura bizzarra, dell’espressione carica di energia vitale. Ecco perché quando Duffy faceva foto di moda, l’allure e il fascino delle sue immagini poteva sembrare qualcosa di mai visto prima. D’altronde, per emergere, la generazione di fotografi poco più che ventenni negli anni cinquanta doveva per forza liquidare la compostezza formale di John French, Norman Parkinson e Cecil Beaton (i tre fotografi di moda inglesi più famosi del periodo). La loro maestria, la padronanza tecnica che esibivano in ogni scatto, non era facilmente emulabile. Ma se il loro stile si fosse improvvisamente dimostrato inadeguato a catturare le energie vitali della moda, allora tutto il loro sapere visuale si sarebbe dissolto come neve al sole. Forse esagero un po’, ma negli anni decisivi tra la fine dei cinquanta e la prima parte dei sessanta, il gusto dei fashion editor cambiò. Divenne fondamentale incapsulare in una immagine qualità espressive tipicamente giovanili. E’ ovvio che in quei giorni se paragonati a Duffy i grandi interpreti della foto di moda inglesi citati sopra non potevano che apparire dei conformisti. I giovani fotografi non avevano nulla da ridire sulla loro capacità di controllare la forma attraverso una tecnica magistrale, ma l’avanguardia è un’altra cosa, ricordavano agli esperti di turno. Dal canto loro, gli esponenti del The Terrible Trio, rafforzarono queste convinzioni praticando la vita dell’avanguardia culturale e modaiola. In breve, divennero delle vere e proprie star mediatiche. Per certi rispetti erano più famosi dei personaggi famosi che fotografavano. Forse con loro, per la prima volta il fotografo di moda diviene una sorta di trend setter generazionale, al quale viene attribuita la capacitazione a raffigurare lo spirito del tempo, il mutamento delle mode. Ma forse fu tutto molto più semplice: erano giovani che lavoravano con altri giovani per magnificare un nuovo prodotto che si chiamava giovinezza. E’ nella logica della situazione, in questi casi, che prevalga il senso di novità rispetto la percezione dell’ordine; è
nella logica della situazione che si attribuisca maggiore valore a ciò che colpisce, a ciò che emoziona, rispetto alla dimensione funzionale o al rispetto delle codifiche di genere. Brian Duffy era il più intellettuale del The Terribile Trio. Nel 1950 studiò pittura alla St Martins School of Art. Ma quasi subito fu attratto dall’avvenenza delle ragazze che nella stessa scuola studiavano fashion design e cambiò corso di studi. Si ritrovò ad essere uno stilista e cominciò a lavorare per Victor Stibel, l’allora couturier della principessa Margaret, con sede in Bruton Street. Tuttavia lo stile aristocratico e la convenzionale teatralità della moda di Stibel non lo appassionavano. Prese quindi in seria considerazione l’idea di andare a Parigi presso Balenciaga. Ma poi preferì impegnarsi come illustratore presso Harper’s Bazaar. In questo contesto maturò il suo interesse per la fotografia. In alcune pagine autobiografiche pubblicate nel libro/catalogo della mostra (ed. ACC Editions, 2011) Duffy ricorda con queste parole l’inizio della sua attività di fotografo: “So I went out and got a job as an assistant with a photographer called Adrian Flowers, who had four assistants of which I was the fourth! It was very exciting, we talked philosophy and photography ad nauseum, and from the first day of photography I thought, ‘Shit, this is the game. This is it. This is for me” (pag.14). Per quanto ci è dato sapere, l’impatto che ebbe Flowers su Duffy fu di duplice natura: ovviamente rese cosciente il giovane allievo sui fondamenti della fotografia commerciale, ma fu anche un professionista che rispettava l’autonomia dei suoi assistenti più talentuosi. Da parte sua Duffy apparteneva a quella giovinezza che verso la metà degli anni cinquanta mise in discussione praticamente tutto e contribuì al più grande cambiamento sociale nel più breve tempo, mai visto nella storia umana. Ciò che oggi definiamo frettolosamente anni sessanta in realtà cominciarono nel 56/57 per terminare la loro spinta propulsiva poco prima del 68’. Duffy e i suoi colleghi citati avevano un atteggiamento molto più aggressivo di quanto le loro immagini raccontassero. Non sopportavano l’adorazione del femminile, elevato ad arte di grandissimi fotografi come Beaton e Parkinson. Detta come vuol detta, consideravano contaminato dall’omosessualità il taglio fotografico da essi imposto sulle riviste. E reagivano contro lo stile affettato delle immagini della moda teorizzando una pratica fotografica molto on the road e rigorosamente priva di effetti teatrali. Le loro immagini pubblicate apparivano brutali,
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“La strategia di Duffy si basava su un situazionismo spontaneo centrato sulla deviazione compatibile, sul differimento calcolato (faccio finta di seguire le indicazioni del cliente ma in realtà lo porto su un terreno nuovo)”
improvvisate, bizzarre ma anche vere e cariche di energia. Parte del successo delle foto di moda di Duffy appartiene alla nuova generazione di modelle che proprio in quel periodo conquistarono le copertine. Ragazze come Jean Shrimpton, Paulene Stone, Enid Boulting, Twiggy, Penelope Tree recitavano benissimo il ruolo di donna reattiva previsto dal gioco di emozioni che i giovani fotografi introducevano nel campo fotografico. L’eccitamento dovuto ad una percepibile tensione sessuale, rappresenta il marchio di fabbrica più evidente dei giovani fotografi londinesi di quel periodo. Grazie a questa tensività introdotta nel rapporto con la modella seppero configurare una nuova dimensione del sex appeal fotografico, subito utilizzato dalle riviste di moda per cavalcare le attese della liberazione sessuale che stava animando le donne di tutto l’Occidente. Nel 1961 Duffy andò a Parigi alla corte di Hélène Lazareff e di Peter Knapp, rispettivamente direttrice e direttore artistico di Elle, rivista in quel momento al culmine del successo. In questi anni Duffy fece il suo migliori lavori per la moda, riuscendo ad interpretare benissimo il passaggio dalla couture al pret à porter, interpretando in modo suggestivo l’esibizionismo spettacolare ad uso e consumo della piccola borghesia, per la prima volta al centro dell’attenzione dei mass moda. Verso la fine dei sessanta Duffy si trovò ad essere uno dei fotografi più richiesti sul mercato ma la sua notorietà si impennò quando ricevette l’incarico di creare le immagini per il calendario Pirelli. Il suo soft porn sadomaso ebbe un grandissimo successo e gli aprì le porte dello star system; le sue foto di David Bowie furono unanimemente considerate tra i migliori ritratti degli anni settanta. La foto d’advertising lo vide protagonista anche se con il cinismo che lo contraddistingueva Duffy sembrava disprezzare il lavoro che gli assicurava il successo economico. Nel libro catalogo della
mostra fiorentina leggiamo: “In the end I guess I was the ultimate prostitute. I felt like I was on the game, because I had no respect for the people who were giving me work”. Sembrano parole improntate al romanticismo del creativo che vive come fosse puro veleno le contaminazioni con la mercificazione del proprio lavoro. Oggi ci appaiono parole scontate, forse un po’ ipocrite. Ma non dobbiamo dimenticare che la generazione di Duffy credeva veramente fosse possibile non far parte del sistema e al tempo stesso fotterlo con la sua complicità, portando agli eccessi il suo linguaggio, i suoi miti. Questa credenza ha plasmato la mentalità di tutti i protagonisti degli anni decisivi della decade dei sessanta fino al ‘68, un breve arco di tempo nel quale praticamente tutto è cambiato. Per rimanere nel campo della fotografia, in quel periodo, si può senz’altro dire che nessuno come Duffy abbia saputo interpretare la resilienza al conformismo che come un ospite indesiderato accompagnava l’incitamento a cambiare. La sua strategia si appoggiava ad un situazionismo spontaneo centrato sulla deviazione compatibile, sul differimento calcolato (faccio finta di seguire le indicazioni del cliente ma in realtà lo porto su un terreno nuovo). Ad certo punto la sua resilienza terminò. L’ansia di tagliare tutti i ponti con un passato che lo irritava divenne irriducibile. Raccolse tutti i suoi negativi e li incendiò. Forse pensava di poter ricominciare percorrendo strade nuove. O forse semplicemente non sopportava più le immagini e il circo mediatico intorno ad esse. Non sopportava di essere famoso per qualcosa in cui non credeva. La follia di quel gesto radicale ci ha privato di un eccezionale repertorio d’immagini in uno dei momenti leggendari della moda e del costume del novecento; ma per fortuna non ha cancellato completamente le foto che lo hanno reso celebre, foto ammirate nella belle mostra presentata a Firenze.
qui sopra: Michael Caine, 1964 © Duffy Archive nella pagina accanto: Jane Birkin, 1965 © Duffy Archive
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L’anima graffiante D’ALMA di Roberta Filippi
“Le donne sciocche seguono la moda, le pretenziose l’esagerano;
Una ventata di ricordi dei primi Novanta, quando c’erano i pantaloni di Norma Kamali con frange in pelle, giacche e pantaloni di Helmut Lang, apripista del decennio, che ha indagato il nero, certo, ma non solo. Seduti ai lati della pista della Disco Restaurant YAB di Firenze, che, per l’occasione, si è trasformata in una passerella a 360°, fashion addicted, fotografi di moda, giovani imprenditori, professori di moda e persone illustri pronte a scoprire la novità di quest’anno: D’ALMA. La collezione D’ALMA nasce dallo spirito imprenditoriale di Federica Melani e Romina Palladino. La sperimentazione di nuovi tagli, la scelta dei colori e delle borchie crea un gioco di doppia identità e di assoluta raffinatezza per chi indossa un capo D’ALMA. Due anime, Dos Alma, che si fondono a crearne una sola D’ALMA, confermando il forte legame tra Federica e Romina. Due sorelle separate alla nascita, una, Federica, Toscana DOC, l’altra, Romina, originaria di Buenos Aires. Ritrovate a Firenze hanno deciso di unire le loro creatività per realizzare un prodotto unico. D’ALMA è inoltre l’acronimo che sta alla base della loro filosofa: Davanti Ai Limiti Mai Arrendersi. Ed è proprio quello che le due designers hanno fatto: non si sono arrese davanti alla difficoltà del momento economico che il nostro Paese sta attraversando. Anzi, ci hanno messo tutta la passione e l’ostinazione per raggiungere un obiettivo importante: realizzare una collezione Made in Italy, o meglio,
NUOVI DESIGNER
ma le donne di buon gusto vengono a patti con essa”
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realizzata a mano a Firenze, con pellame di pregio ed ottenendo la perfezione del prodotto su misura. Il valore del “made in Italy” racchiuso nella tipica lavorazione della bottega fiorentina: il miglior pellame lavorato secondo le più rigorose tecniche artigianali, dalla fase di concia alla tintura e lucidatura. La pelle che si adatta al corpo come fosse una seconda pelle, rinnovando il concetto del mero giacchetto: da indumento che protegge dal freddo ad urlo silenzioso di egocentrismo. Una pelle che torna elegante, per silhouettes d’ambiziosa seduzione materica. La sfilata, suddivisa magistralmente in due parti ben distinte, si apre con fiammate cromatiche e sulle note di Paul Kalkbrenner. “Gli uomini provano un grande piacere nel vedere i colori, hanno bisogno dei colori come della luce”. È attraverso queste parole che Goethe espone come i colori fanno bella e suggestiva la natura, sono la sorgente del piacere estetico. Ed è da qui che parte il concept D’ALMA: oggi il colore approda sulla passerella attraverso dosi elevate di stile ed ispirazioni. Sono 15 i primi outfit ad uscire. Ragazzi e ragazze che indossano sotto ai capi di pelle colorata, con o senza maniche e con cerniere in evidenza, la collezione delle maglie con stampa atta a raffigurare il pensiero della loro collezione: la volontà di puntare al massimo, mettersi in gioco senza mai arrendersi. Un look dal sapore estivo e piccante. Un trend casual e disimpegnato, ma esigente e ben costruito. Uno tocco fresco e colorato, da portare il giorno in tenuta sportiva o durante un aperitivo sulla spiaggia in maniera più intrigante. Ed è in punta di piedi, con un inaspettato quanto piacevole passo a due, che la collezione prende la forma strong: accessori pop-rock, make-up ultrablack ma allo stesso tempo ultrachic. Il look cambia e diventa graffiante, da rockstar. Fanno il loro ingresso in passerella le borchie, comunemente associate allo stile punk e sviluppatosi con ideologie ribelli negli anni ‘80, ma che, oggi, traslano da una definizione di un movimento ad uno stile di vita più personale. Il ritmo della musica aumenta, sulla passerella altri 12 outfit: donne
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La pelle che si adatta al corpo come fosse una seconda
pelle, rinnovando il concetto del mero giacchetto: da indumento che protegge dal freddo ad urlo silenzioso di egocentrismo.
e uomini in total look, cavalcano la scena con chiodi, pelle nera e borchie e vestono i manichini che per tutta la serata hanno assistito inermi allo show. Ora i riflettori puntano su di loro, una sorta di tableax vivant che ricrea un effetto grunge e underground, ma incredibilmente raffinato e ricercato. Émilie du Châtelet aveva ragione: “Le donne sciocche seguono la moda, le pretenziose l’esagerano; ma le donne di buon gusto vengono a patti con essa”. E la moda non ha mai saputo rinunciare a quella inconfondibile grinta e ribelle personalità che sono capace di infondere solamente un chiodo in pelle e un tripudio di borchie e applicazioni in metallo disseminate all over su abiti e accessori. Un’edizione limitata fatta da capi che si distinguono per il tocco aggressivo ed accattivante. Borchie sulle spalline rinforzate, borchie nel reverse e sulle maniche, borchie sulla cintura da portare rigorosamente slacciata. Una “borchia killer” che aumenta quell’alone di mistero che ogni donna porta con sé. Quell’altalenarsi di ruoli che ogni donna interpreta. Quel gioco di identità che diventa tangibile solo quando ad un vestito all’apparenza sobrio e casto, viene abbinato un giacchetto attillato e borchiato in pelle nera che ribalta il messaggio: dietro alla porta della classica brava ragazza si cela un mondo graffiante. Donne e uomini in situazioni diverse, ma con un’unica parola d’ordine: un’eleganza dall’anima rock-glam firmata D’ALMA.
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Polimoda. L’eccellenza nella formazione dei mestieri della moda
13:53, sono puntuale per fortuna. Arrivo direttamente dalla stazione centrale di Firenze, completamente bagnata da una intensa pioggia dicembrina. Sono puntuale ed anche un po’ agitata perché mi accingo ad incontrare Linda Loppa, indiscusso personaggio del mondo della moda, ex direttrice della Royal Academy di Anversa ed ora Dean della scuola internazionale Polimoda, da poco trasferitasi nella scenografica e suggestiva residenza storica fiorentina di Villa Favard. Decido di salire a piedi al secondo piano, dove la direttrice mi attende, così da gustarmi le prime note della scuola: aule numerose e distribuite geometricamente lungo corridoi ampi, scanditi dal dicotomico ritmo del colore bianco e nero e da un gradevole sottofondo di telefonate studentesche nelle diverse lingue del mondo. Il corrimano in ferro battuto è un piacevole particolare che mi ricorda la storicità del luogo in cui mi trovo. Ufficio F20. Non sapevo esattamente cosa attendermi dall’incontro: poltrona in pelle o grande piano in cristallo? Piante grasse o tappeto hi-tech? Ebbene, al di là dei pochi arredi evidentemente temporanei, ciò che mi stupisce appena varco la soglia dell’ufficio, è proprio il posizionamento della scrivania. Un vero e proprio piano di lavoro in cui sono visibili riviste di settore, cellulare e notebook. Mi domando: ma io dove mi dovrò sedere? E la risposta che la Dott.ssa Loppa mi indica con il gesto della mano mi fa subito comprendere quanto “avanti” sia la visione di questa donna. Mi siedo esattamente di fianco a lei, apro il mio pc e con molta piacevolezza cominciamo la
chiacchierata. La mia prima domanda verte proprio sulle caratteristiche del suo primo quinquennio da direttore Polimoda: da sempre il Polimoda è stato sinonimo di illustre scuola ma solo con il suo avvento si ha la percezione che la scuola si sia managerializzata, abbia intrapreso un percorso più internazionale, dinamico ed attento alle mutevoli richieste del mercato. Quali sono le caratteristiche della sua direzione, quale la sua visione e filosofia? L.L: Occorre togliersi dal provincialismo tipico degli ambienti consolidati poiché oggi dobbiamo fare i conti con il mercato globale e con le mutazioni continue di esso. Da opinion leader è necessario sapersi mettere in gioco senza il timore del cambiamento. Provare ad essere i migliori, questo è un nostro obiettivo. Vogliamo avere studenti performanti nel mondo della moda e per fare questo ho introdotto la didattica appresa e sperimentata ad Anversa anche qui a Poimoda. Cambiare non è facile per nessuno, ma qui è stato possibile grazie ad un corpo docente che ha imparato a conoscermi, ad interpretare il mio carattere, le mie passioni, il mio orientamento all’innovazione ed all’eccellenza. Piuttosto che fare tanto ho preferito concentrare tutti gli sforzi verso una direzione ben precisa, molto chiara: posizionare la scuola nel quadrante dell’eccellenza. E devo dire che il corpo docente mi segue in tutte le mie intuizioni, siano essere inerenti al marketing che alla comunicazione che ad eventi collaterali. Non riesco a fare le cose a metà, proprio non è nel mio dna. Quando ho un’idea la rendo chiara e ben definita, la disegno con precisione e lavoro duramente per arrivare lì.
FORMAZIONE
di Marcella Tusa
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Devo ammettere che questa donna mi stupisce man mano che parliamo: la sua eleganza, determinazione ed allo stesso tempo umiltà sono un sicuro modello di successo per tutti i suoi studenti, non ho dubbi. Scorrendo per le sezioni della scuola mi hanno colpito questi nuovi executive short courses: brand management, non-visual merchandising, tutte tematiche impegnative condensate in due giorni di training. Dott.ssa Loppa, come mai l’idea di questi corsi? A chi sono rivolti? L.L.: in effetti molte delle tematiche affrontate negli executive courses sono piuttosto complesse, vedi ad esempio il “brand management” per il quale occorre avere ottime conoscenze sia in materia di design, che di brand che di leadership, per poter guidare l’azienda in una ben determinata scelta. Ma anche in pochi giorni i docenti ed i testimonial presenti sono in grado di dare una visione alternativa a professionisti e manager già consolidati. L‘obiettivo di questi corsi è di esporre nuovi concetti, osservare le stesse cose da un altro punto di vista, valutiamo esempi in un confronto continuo. Nel short course “Trend forecasting”, ad esempio, la domanda ricorrente è: “come si possono percepire i cambiamenti del futuro?”. In un contesto molto stimolante affrontiamo le diverse tematiche didattiche in modalità brainstorming, con esercitazioni e interactive situation. Alcuni dei nostri “studenti” sono illustri personaggi come i manager di Chalhoub, noto gruppo internazionale che opera nel Middle East, consolidata sì ma forse “seduta” sulle comodità della routine. Al termine di una settimana di corso noi chiediamo sempre ai nostri partecipanti cosa è rimasto loro maggiormente impresso dell’intero corso. Ebbene, la risposta che più ci fa onore è quando lo studente, soprattutto se è manager di successo, afferma che il corso gli ha dato la possibilità di credere nelle proprie intuizioni e di comprendere come realizzare potenziali idee rimaste nel cassetto. Linda Loppa è decisamente una donna bellissima e lungimirante che ama “fare le cose come si deve”; il corso di visual non-visual merchandising ne è una delle tante dimostrazioni. La Dott.ssa Loppa mi spiega che è limitativo chiamare visual merchandising un corso che analizza nello specifico lo shopping emotivo e che utilizza i nuovi canali di informazione/divulgazione di internet. Un Polimoda dunque attento ad offrire corsi che puntano all’eccellenza con un corpo docente orientato al continuo aggiornamento. I corsi intendono insegnare agli studenti a discernere le informazioni e a crearne corrette aggregazioni funzionali e simboliche districandosi
nella pagina precedente in apertura: Polimoda portraits, design Alicia Declerck (PH. Mengoni); In questa pagina: Dott.ssa Linda Loppa (PH. Mengoni); nella pagina accanto: Polimoda student at Villa Favard, Alex Cook (PH. Mengoni) nella pagina seguente in chiusura: Polimoda student, Alex Cook (PH. Mengoni)
nelle infinite maglie del web. Così il corpo docente, per stare al passo con i tempi e con i numerosi studenti stranieri – il 50% del corpo studentesco del Polimoda è straniero - non manca mai di navigare in internet e di tenersi informato su qualunque trend o novità possa essere di rilievo e interesse. Proprio pensando agli studenti stranieri mi viene spontanea una domanda: ma per uno straniero Firenze non è una città troppo piccola? L.L.: È proprio l’aspetto intimo di Firenze che intriga gli studenti stranieri che preferiscono la città d’arte italiana a grandi metropoli come Shangai o New York. Insomma, arrivano qui per trovare loro stessi. Sì, perché la moda è anche questo, riprendere idee facendole proprie. Ma è pur vero che il mondo della moda è in continuo confronto con il mondo. E Linda Loppa ha da sempre spronato gli studenti al confronto con il mondo così come testimoniano il Dipartimento di Fashion Design presso la Royal Academy of Fine Arts di Anversa da lei fondato o il Flanders Fashion Institute che la annovera come fondatrice dal 1996. Dott.ssa Loppa quali sono le differenze di massima tra la scuola di Anversa ed il Polimoda? L.L.: In realtà la metodologia didattica che ho applicato ad Anversa si può implementare ovunque. È una filosofia di insegnamento che abitua all’essere critici, a fare ricerca continua e a far uso della propria memoria storica insita nelle esperienze personali di ognuno di noi. L’unica vera differenza è il numero di studenti: ad Anversa 120, qui 1000. Il Polimoda è una scuola più completa rispetto a quella di Anversa focalizzata prettamente sul design. Qui si studiano tutte le applicazioni inerenti il mondo della moda pertanto mi è stato possibile applicare la metodologia belga a circa 50 corsi. Ma per una mera questione di numeri, tutto qui. E come hanno reagito i docenti alle novità didatticoformative introdotte? L.L: Il corpo docente mi ha seguito molto bene, si è adattato con le proprie peculiarità ad una metodologia didattica diversa. Pochi sono i docenti che se ne sono andati. Ora tutti lavorano di più ma, soprattutto, fanno lavorare di più ed i risultati sono evidenti. Questo crea un circolo virtuoso di soddisfazione studente/docente di valore inestimabile. A questo punto sono proprio curiosa di sapere come Linda Loppa interpreta la moda: Dott.ssa Loppa secondo lei cos’è la moda? Può nella moda esistere l’etica del consumo?
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L.L.: A mio avviso la moda non ha molta etica. Attualmente la moda vende ad un consumatore oserei dire bulimico. Inventiamo modi diversi per poter giustificare un evidente over-consuming ma la moda, secondo me, non si deve giustificare. Se volessimo potremmo benissimo vivere con pochi capi di abbigliamento, quelli strettamente necessari. Ma la moda serve per sognare. La moda deve essere bella perché il fitting è importante. Il ritorno del bello è un concetto a cui, secondo me, dobbiamo assolutamente ritornare. I prodotti devono essere beli, curati, onesti ed artigianali. Vorrei creare una ISO sul concetto di bello ma penso sarebbe una dura battaglia. E’ vero, il concetto di bello è sicuramente personale, ma ci sono canoni e regole che non si possono ignorare ed oltre cui non si può andare. Ma oggi il consumo è così tanto e troppo veloce che il customer non ci fa più caso. La nuova generazione è abituata a comprare abiti che hanno perso “il bello”. Ma tutti possono riabituarsi al bello, e pretenderlo. Per la mia formazione, grazie agli anni trascorsi nei retail, quando un capo non ha una produzione curata, a partire dal cartamodello, io me ne accorgo e la percepisco immediatamente. La stessa cosa vale per gli accessori in cui ricerco e pretendo una triangolazione perfetta tra bellezza, maestria ed innovazione. Equilibrium è saggezza. È coerenza e indica la strada giusta per l’eccellenza. Da una donna così elegante non posso farmi scappare qualche consiglio sul look. Quali consigli può dare a tutte le giovani donne in carriera che fanno del loro look una vera e propria divisa distintiva? Quali sono gli elementi essenziali ed indispensabili per avere un look elegante, carismatico ed allo stesso tempo femminile? L.L.: Anche in questo caso suggerisco equilibrio. Non è necessario fare troppi sforzi per essere donna. Magari con meno, meno tacchi, meno vita alta, meno decolté profondi, si può fare molto e più equilibrato. Non deve essere l’occhio dell’uomo il nostro primo obiettivo. Dobbiamo essere noi stesse. Non si deve accondiscendere ed essere ciò che l’uomo si aspetta che siamo. Essere naturali è il punto di forza. Oggi, ad esempio, ho messo queste scarpe semplici ed il mio
Presidente (Ferruccio Ferragamo n.d.r.) mi ha fatto i complimenti. Nella sua semplicità la Direttrice del Polimoda oggi è bellissima: sguardo fiero ed occhio curato, capello corto e nero corvino. Look casual nei toni dell’antracite e del nero. Ridiamo insieme quando io confesso che spesso non ho tempo per sistemarmi la mattina e mi ritrovo, magari prima di appuntamento, a dover tornare a casa per cambiarmi … ebbene, non siamo le uniche, capita anche a grandi donne della moda come Linda Loppa. Si avvicina il termine dell’intervista ed è d’obbligo una domanda conclusiva: il Polimoda è una scuola formativa a tutto tondo, che spinge all’eccellenza gli studenti del fashion. Ad oggi, ci sono studenti che si sono distinti per la loro eccellenza? Ha uno studente su cui punta? Come si comprende il talento di un giovane? L.L.: Da quest’anno mi sono data come obiettivo di lanciare ogni sei mesi “il talento Polimoda” in tutti i settori comunicazione, design, marketing, calzature. Una grande scuola deve poter selezionare almeno un talento ogni sei mesi. Questo stimola tutti, me, i docenti e gli studenti che si mettono alla prova. E la competizione sana è un ingrediente indispensabile per avere successo. Erik Bjerkesjo è un giovane studente svedese che ha studiato qui al Polimoda (master) e su di lui punto molto. Under 30, ha avuto la possibilità di presentare la propria collezione di calzature ed abbigliamento a Villa Favard, durante Pitti Uomo, e sono convinta avrà molto successo. Ha tutte le qualità necessarie per affermarsi: equilibrio, eleganza, intraprendenza, metodo e determinazione. Con queste parole che mi caricano di positività si conclude questa intervista sull’eccellenza italiana nella moda ma prima che arrivi sulle passerelle internazionali. Un’eccellenza che ho potuto apprezzare in una donna meravigliosa ed in un contesto unico, il Polimoda a Villa Favard. Il 12 gennaio è stato, inoltre, possibile addentrarsi in questi spazi suggestivi con l’installazione di tableaux vivants “Vestirsi da uomo” a cura di Marc Asoli per il Pitti Uomo.
Info: Villa Favard via Curtatone, 1 50123 Firenze www.polimoda.com www.pittimmagine.com
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Beyond the future. Galleria Massimo Minini.
info: Galleria Massimo Minini Via Apollonio, 68 25128 Brescia www.galleriaminini.it
in apertura: Massimo Minini davanti a un’opera di Boetti nella pagina seguente: A main room door; Montclair art museum dyptych Window Wallpiece. Photo Mike Peters. Installation detail; Robert Barry, It is released, 1972, ink on paper, 3 elements in chiusura: Robert Barry, Crucial Tentative Another, Wallpiece, Galleria Massimo Minini, 2005
Brescia è oggi una fiorente città industriale, centro espansivo di modernità tecnologica e di pensiero, una realtà proiettata al futuro a partire dalle sue università fino ai servizi al cittadino. Fin dagli anni del dopoguerra si è distinta per l’impegno verso un progresso rapido e in costante crescita, una città che non teme il confronto internazionale ma che, anzi, sa mettersi in gioco insieme alla sua cittadinanza senza nulla invidiare ad centri urbani. Una città leggendaria le cui origini paiono risalire a Ercole piuttosto che a Troe. Ci piace pensare che i primi abitanti del territorio bresciano siano stato gli Etruschi seguiti molto tempo dopo dai Galli Cenomani che con varie battaglie, l’ultima in alleanza con i romani, consacrò ufficialmente l’inizio dell’età Romana. Con tutte queste influenze non c’è da stupirsi che Brescia e i bresciani detengano primati importanti che li ha marchiati all’eccellenza in alcuni importanti settori come l’enogastronomia e l’arte. Non dimentichiamo che è bresciana la strada del Franciacorta menzionata, nell’ottocento dal letterato e critico storico Tullio Dandolo e dalla moglie Giulietta. Questo magico luogo è ricco di colline tappezzate di vigneti, piccoli borghi in pietra, torri e castelli medievali, palazzi cinquecenteschi e ville patrizie settecentesche e ottocentesche. La cucina bresciana è sinonimo di maestria, finezza e raffinatezza. Lo testimoniano le tante citazioni nelle principali guide italiane e straniere tra cui la Michelin che conta ben tredici ristoranti stellati in tutta la provincia. Ma questa città, non è certo da meno nell’arte contemporanea che la vede culla di una delle più importanti gallerie del territorio nazionale e internazionale: la galleria Massimo Minini. Aperta a Brescia nel 1973 da Massimo Minini con il nome Banco, la galleria nei suoi primi anni di attività ha seguito soprattutto i movimenti dell’Arte Concettuale, dell’Arte Povera e Minimal. Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, per continuare idealmente quelle esperienze, viene inserito il lavoro di alcuni giovani artisti italiani e stranieri, tra cui Ettore Spalletti, Jan Fabre, Didier Vermeiren, Bertrand Lavier, Anish Kapoor, Alberto Garutti, Icaro, Gerwald Rockenschaub. La linea del
ARTE
di Simona Gavioli
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gallerista non trascura però l’aspetto figurativo lavorando con artisti come Salvo, Luigi Ontani, Ger Van Elk, Jiri Georg Dokoupil, Ryan Mendoza. Numerosi sono gli artisti italiani che si distinguono a partire dagli anni novanta tra cui Eva Marisaldi, Stefano Arienti, Maurizio Cattelan, Vanessa Beecroft, Sabrina Torelli, Sabrina Mezzaqui e Paolo Chiasera. Negli ultimi anni la galleria si è aperta a nuove possibilità con importanti mostre di Yona Friedman, Roger Ballen, Nedko Solakov, Haim Steinbach, Peter Halley e Ghada Amer e parallelamente ha presentato il lavoro di giovani tra cui Dara Friedman, Manfred Pernice, Sean Snyder, Mathieu Mercier, Jan De Cock, Tino Seghal, David Maljkovic. Dopo il successo della mostra di Giulio Paolini, chiusa proprio in questi giorni, in cui l’artista ha realizzato quattro lavori inediti di grande formato appositamente studiati per gli spazi espositivi e dove ciascuna stanza accoglieva una sola opera che, attraverso il suo titolo ne evocava un’altra esposta dall’artista in precedenza nella stessa galleria, è ora la volta di Robert Barry. Sabato 17 Marzo si inaugurerà la quarta personale dell’artista newyorkese, Different Times Different Works. Una mostra che riassume alcune tipologie di lavori che l’artista ha sperimentato durante gli anni della sua lunga esperienza nel mondo dell’arte. Come il titolo suggerisce, saranno presenti lavori vecchi e nuovi, realizzati con dimensioni e media diversi, sempre coerenti con la linea di ricerca intrapresa dall’artista negli anni Sessanta. Different Times Different Works presenterà nella prima stanza della galleria
una Word List e alcune tele con parole dipinte che sembreranno unire gli esordi pittorici con la successiva fase di ricerca sul linguaggio. I vetri e gli specchi della seconda stanza saranno un’evoluzione del lavoro e testimonianza della sua continua indagine e apertura verso nuovi supporti, mentre alcuni preziosi Statements degli anni Settanta sposteranno l’attenzione dall’oggetto d’arte al concetto, chiedendosi cosa sia l’arte attraverso una serie di affermazioni o negazioni che mai ne precisano il significato. Nella quarta stanza, il Floorpiece Cobalt Blue è un’analisi del linguaggio in relazione allo spazio, così come il Window Piece, realizzato sulle vetrate degli uffici al primo piano. Come a voler far uscire l’arte dal contesto della galleria, dallo spazio, dal tempo. Quest’anno tra i cambiamenti inaspettati della galleria c’è stata la scelta di non partecipare ad Arte Fiera Bologna, optando, invece, per le già frequentate Art Basel a Basilea, Fiac a Parigi, Artissima a Torino, Frieze a Londra e New York, Miart a Milano e partecipando anche alla neonata VipArtFaire fiera completamente online. Sono invece consolidati i rapporti che ha con la città di Brescia con mostre organizzate dalla galleria alla Pinacoteca Tosio Martinengo con la mostra Capolavori in corso nel 2008-2009, all’Accademia Tadini di Lovere (Bergamo) con Quattro collezionisti a confronto nel 2009, allo Spazio Contemporanea con Massimo Minini: una storia contemporanea nel 2011.
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Raimondo Galeano e la pittura oltre il confine della notte
In apertura: “LE TRE GRAZIE” luce su materiale plastico 2011 in questa pagina: Grande Slam, visione diurna e notturna, luce su tela, 2011, collezione privata nella pagina seguente: “MARILYN metamorfosi del mito” visione notturna, luce su tela 2011 PH. Luca Fontana
Nel 1558 Giovan Battista della Porta scrive il Naturalis Magiae, raccontando di meravigliosi fenomeni che si verificano in natura e interrogandosi su come si possa fare a far risplendere una oggetto nelle tenebre. Studiando assiduamente risponde con una ricetta a base di lucciole distillate e seccate dalla quale si ricava una polvere magica nota nell’ambiente del teatro per la sua peculiarità, incline a produrre effetti sbalorditivi. Della Porta studia e risponde al quesito ignaro del fatto che qualche decennio dopo Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, genio inquieto dall’intelligenza fervida e acuta, presterà attenzione proprio a quel passo descritto nel suo testo. Sedotto dalle potenzialità del composto incantato, Caravaggio lo applica nella sua agitata sperimentazione tesa allo studio della luce e all’impiego della camera ottica della quale si avvale per dipingere dal naturale. Nella magica miscela del pittore si rileva la presenza di argento, arsenico, zolfo, iodio, magnesio, materiali fotosensibili che accrescevano la luminosità del dipinto, migliorandone la profondità spaziale e permettendogli di lavorare anche al buio. Questi, usando distillato di lucciole dall’effetto fluorescente fissava temporaneamente l’immagine in un tempo compreso tra i cinque minuti e le due ore dando inizio, così, al suo operato che oltrepassava la soglia dell’oscurità. Più recente è invece, la scoperta fatta sull’acquerello di Van Gogh, Les bretonnes set le pardon de Pont Aven del 1888, in cui l’autore fece brillare le sue opere utilizzando alcuni colori fosforescenti. Sulla superficie del dipinto è stato rivelato un inconsueto splendore verdastro in corrispondenza delle macchie bianche. Pare che per ottenere questo effetto, Van Gogh, si servisse di un pigmento formato da ossido di zinco, tracce di solfuro di zinco e altri elementi metallici. Ne risulta che il colore si comporta come un materiale semiconduttore generando una fluorescenza verde. Le recenti scoperte, fatte da studiosi di varie
ARTISTI
di Simona Gavioli
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università tra cui Roberta Lapucci per Caravaggio, hanno reso ancor più compatta e salda la ricerca sull’utilizzo del pigmento di luce in pittura. Ai giorni nostri c’è un’artista che è riuscito ad oltrepassare il confine della notte con la sua pittura, è stato capace di scardinare i canoni convenzionali della semplice visione diurna di un’opera d’arte consentendoci di trovare il visibile in ciò che prima si mostrava invisibile, la luce si è amalgamata con l’oscurità, il giorno con la notte, il percettibile con l’impercettibile, tutti a braccetto mettendo da parte i preconcetti della visione consueta a favore di un nuovo credo che ha consacrato Raimondo Galeano come “il pittore illuminato”, demiurgo della luce e profondo conoscitore delle tenebre che svelano realtà inaspettate. Il pittore della luce, che ha sempre cercato le risposte attraverso la pittura, facendo sì che sia lei a doversi trasformare per svelarci una nuova dimensione percettiva. Raimondo Galeano classe ‘48. Il suo percorso artistico inizia a Roma con i maestri della Scuola di Piazza del Popolo e nonostante il forte ascendente di Franco Angeli, Tano Festa e Mario Schifano,
riesce a sganciarsi e riconoscere la sua strada non tra pennelli e barattoli di colore, bensì ricercandola tra particelle di atomi eccitati che liberando fotoni, rendono percepibile, al buio, un’opera celata che vive una doppia vita. Pittore della luce e primo artista contemporaneo a riuscire a fondere la percezione dell’opera diurna a quella notturna con l’utilizzo di un particolare pigmento luminescente (da lui sapientemente preparato rendendolo in grado di assorbire e trattenere la luce acquisita durante il giorno, per liberarla poi in sua assenza) con i suoi lavori notturni mette in evidenza ciò che esiste intorno a noi ma che spesso è dissimile da ciò che vediamo. Guardando il lavoro di Galeano la capacità di percepire l’ignoto (percettività) si aggancia immediatamente all’illusione immaginaria dell’immagine e alla formazione stessa della visione, attraverso quello che Deleuze chiama l’interstizio o spazio vuoto che, nella pittura di Raimondo, riconosciamo come spazio di emozione che separa il momento di passaggio dalla luce all’oscurità. Nel cinema di Godard, secondo Deleuze, l’interstizio tra le immagini é “l’assunzione ontologica di un non visto, di un invisibile che passa “tra” un’immagine e l’altra e che,
riscatta l’immagine dalla sua illusione inscrivendola in un processo di svelamento”. Nella pittura di Galeano l’interstizio/spiraglio è la nostra commozione, l’attesa, lo stupore e se vogliamo anche la paura del passaggio vedo/non vedo o meglio vedo e poi mi accorgo di presenze oltre la luce. “Il colore non esiste” esclama l’artista “perché in assenza di luce nessuno di noi sarebbe in grado di distinguerne alcuno”. In effetti, il colore non è una caratteristica fisica, ma è una sensazione elaborata dal cervello quando i nostri occhi percepiscono fotoni di una certa lunghezza d’onda. Secondo la fisica siamo noi esseri umani ad avere un determinato sistema visivo dando una percezione personale del mondo, ne deriva che il colore è una creazione umana e la vera natura delle cose è il buio. Ogni oggetto in realtà è oscuro e non emette un colore di per sé. La luce è sempre alla base di tutto. “La luce è per me la madre di tutti i colori. Sono un pittore che con una tecnica particolare tenta di ribaltare dei concetti dati per scontati. Se tutto l’universo si rivela a noi attraverso la luce, io ho preso la luce e gli ho dato forma. Un dipinto di luce è come una stella la cui essenza viaggia all’infinito. È un misto tra scienza, poesia, pittura e cosmo. Non a
caso molte mie opere si chiamano Navigatori del Cosmo”. Così, imprigionando la realtà con la sua pittura ci apre un mondo sconosciuto dove le sagome prendono vita e si animano d’emozioni e sentimenti che corrono attraverso l’oscurità e rendono percepibile ciò che prima era nascosto. Un dialogo con l’universo al quale l’artista invia immagini che viaggiando a trecentomila chilometri al secondo vivranno nello spazio all’infinito. A tale proposito mi viene spontaneo ricordare un’affermazione del noto scrittore britannico Terry Pratchett per cui “La luce crede di viaggiare più veloce di tutto, ma si sbaglia. Per quanto sia veloce, la luce scopre sempre che il buio è arrivato prima di lei, e l’aspetta. Ma le opere di Galeano non si limitano ad essere solo pittoriche e rimanere appese alle pareti, al contrario assoggettano anche l’oggetto. Sono innumerevoli gli oggetti decontestualizzati e fatti divenire opere d’arte tridimensionali tra cui vasi, anfore, orci, ventagli, vespe che attraverso il lumen si guadagnano l’immortalità. Sono parte integrante del lavoro dell’artista anche le performance in cui lo spettatore può, finalmente, riuscire a scorgere la sua ombra sulla tela, la sua anima rimane impressa e ognuno di noi può diventare un
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Nella pagina accanto: “SOGNO del CARVAGGIO” visione notturna, luce su tela 2011 in questa pagina: Raimondo Galeano al lavoro e “GHEISHA in 3D” visione notturna, luce su tela 2011 PH. Luca Fontana
navigatore del cosmo viaggiando a velocità insospettata. In questo frangente, l’artista riesce a catturare l’essenza dell’anima delle persone guardando al grande Leonardo che in merito all’ombra scrisse: “Il secondo principio della pittura è l’ombra del corpo, che per lei si finge, e di questa ombra daremo i principî, e con quelli procederemo nell’isculpire la predetta superficie”. L’ombra è la prova visibile dell’esistenza e della fisicità del proprio corpo e Galeano riesce a farne prigionieri i contorni. Così, nel mito della caverna di Platone, le ombre diventano allegoria della prima forma di conoscenza di un’umanità schiava delle percezioni sensoriali, che non è in grado di voltarsi per guardare direttamente la luce del sole dietro le loro spalle, mentre nelle performance di Raimondo possiamo voltarci e rimanere attoniti dal fatto che la nostra ombra sta lì a guardarci con la stessa intensità con cui la osserviamo noi. Ma non è finita qui. Abbiamo conosciuto il lavoro di un’artista che è rimasto chiuso in una cantina a studiare la luce per un’intera vita ed ora è arrivato ad una ulteriore evoluzione della tecnica dell’uso del lumen. Dopo trent’anni di sperimentazione, Galeano si è accorto che accostando al pigmento di luce verde, un altro pigmento di luce blu, la figura sembra solcare la terza dimensione. I soggetti delle sue opere fuoriescono dal limite della bidimensionalità e addirittura paiono mutare man mano che ci si appresta a starvi di fronte, l’opera che vedremo sarà diversa da quella dell’attimo prima. Di fronte ai nostri occhi si manifesta un fenomeno a dir poco incredibile. I quadri di Raimondo Galeano mutano con il tempo. Come ne “Il ritratto di Dorian Gray” in cui il protagonista chiede che il quadro regalatogli da un artista “possa invecchiare al posto suo” in quanto “il pensiero del tempo che passa lo distrugge”, così nella desolazione del buio di una stanza, immersi nell’oscurità più totale ci si riproporrà esattamente ciò che Wilde sembrava aver predetto scrivendo uno dei romanzi più importanti per l’estetismo letterario decadente. Una magnifica Marilyn Monroe si trasformerà da sensuale icona a teschio raffigurante la morte così come altri soggetti rappresentati, da carnali e lascivi personaggi, assumeranno l’immagine del tempo che scorre, diventando vecchi. “Aveva espresso un pazzo desiderio: che potesse lui rimanere giovane, e il ritratto invecchiare; la sua bellezza restare intatta, e il viso dipinto sulla tela portare il peso delle sue passioni e dei suoi peccati. [...] Pareva mostruoso persino pensarci…” Galeano genio incompreso, ma sicuramente genio.
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Confabitare: la via del fare di Roberta Filippi
Dott. Alberto Zanni Presidente di Confabitare
ASSOCIAZIONE
info: Confabitare Via Marconi 6/2 40122 Bologna www.confabitare.it
Oggi il sole vuole farmi compagnia e decido di fare una passeggiata sotto i portici di Bologna. Ho appuntamento con il Presidente di Confabitare, Dott. Alberto Zanni. Arrivo in via Marconi 6/2 e mi accoglie direttamente lui che, in quel momento, si trovava alla reception a verificare, con i suoi collaboratori, le ultime schede di associati arrivate. È un uomo alto, elegante e molto gentile. Mi fa strada tra i moderni uffici dalle pareti di vetro. Il rumore dei miei tacchi rimbomba sul pavimento ligneo. Ci accomodiamo in studio e il Dott. Zanni mi mette subito a mio agio. Organizzato e preciso ha preparato per me alcune fotocopie di vecchi redazionali e brochure informative. Ma non ce ne sarà bisogno. Sarà lui in prima persona a raccontarmi come è nata e di cosa si occupa Confabitare. Nata a Bologna a novembre 2009, Confabitare è un’associazione a tutela della proprietà immobiliare. Oltre ad offrire ai propri associati una serie di servizi legati alla gestione della proprietà immobiliare dal punto di vista legale, tecnico, tributario, amministrativo, contrattuale e sindacale, si pone come riferimento e come interlocutore principale nei confronti delle Autorità e delle Istituzioni per discutere di tutte le questioni legate al mondo della casa e dell’abitare. Numerose le attività di consulenza che possono aiutare gli iscritti a risolvere le problematiche, sia in casa che in condominio, fornendo informazioni e aggiornamenti riguardanti leggi, decreti e norme in materia di sicurezza, impiantistica, ascensori, contratti di manutenzione, affitti e canoni, gestione colf e badanti, amministrazione condominiale e consulenze immobiliari per compravendita e locazioni. Fra i compiti dell’associazione c’è quello di agire presso gli organi di governo e di integrarsi nelle diverse realtà territoriali, creando una rete di legami e collaborazioni con altre entità sia a livello locale che nazionale.
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crediamo che “la via del fare” sia quella giusta, che onestà e impegno siano premiati
Alberto Zanni e l’On. Gianfranco Fini
Dopo soli 2 anni di piena attività, Confabitare può vantare un’associazione in crescita sia in termini di adesioni che di servizi offerti, di radicamento sul territorio e di riconoscimenti. «In una società troppo spesso dominata da fumosi teatrini e da irritanti rituali parolai, noi ci ostiniamo a credere che “la via del fare” sia quella giusta, che onestà e impegno siano premiati. Ed è quella via che abbiamo intrapreso e continueremo a percorrere con sempre maggior impegno per garantire una tutela ancora più puntuale e servizi più efficienti». Numerosi i progetti e le iniziative già in cantiere. In primis la sicurezza nei luoghi di lavoro e la campagna di check up energetico gratuito nelle abitazioni dei soci interessati, in un’ottica di risparmio energetico e di riduzione di sprechi a tutto vantaggio di un ambiente più sano e pulito. Attualmente l’associazione si sta attivando anche per instaurare una convenzione con Sicurlive group per poter dotare tutti gli immobili dei loro associati delle linee vita essenziali per le corrette misure di sicurezza. Inoltre Confabitare si fa promotrice di una novità che a livello nazionale dovrebbe divenire legge entro pochi mesi: l’inserimento on line dei bilanci condominiali al fine di garantire la massima trasparenza e correttezza permettendo ai condomini un controllo completo sulla gestione finanziaria del condomino. L’amministratore fornirà ai proprietari di casa una password per accedere a tutti i movimenti on line del conto corrente condominiale e scaricare i
documenti, verificare i pagamenti ed «evitare sia l’appropriazione indebita da parte di chi amministra, sia lo spostamento di denaro da un conto condominiale all’altro». Indubbiamente le opportunità che l’Associazione è in grado di fornire ai propri soci, sono possibili grazie alla forza e alla tenacia del Dott. Zanni, approdato alla guida di Confabitare dopo sedici anni di esperienza nel mondo associativo. Nel 1994 fu nominato presidente provinciale di UPPI (Unione Piccoli Proprietari Immobiliari) e, dopo una scissione interna ha deciso di ripartire da zero, rimboccandosi le mani e creando questa nuova realtà. Il nome dell’associazione, scelto personalmente da lui, voleva essere semplice e incisivo, di facile comprensione e senza acronimi. Un’associazione giovane ma che nel giro di un paio d’anni ha raggiunto traguardi importanti: un forte radicamento sul territorio, la riconoscibilità a carattere nazionale grazie anche alle 50 sedi presenti in Italia, incontri e relazioni con istituzioni e politici che hanno permesso al Dott. Zanni di illustrare l’attività associativa, gli scopi e gli obiettivi di Confabitare. Il Dott. Zanni è grintoso, sa cosa vuole e soprattutto sa qual è il bene per i propri soci. Il suo impegno è quello di fare sempre di più e al meglio, ricordandosi le priorità di sicurezza e sostenibilità ambientale indispensabili alla sopravvivenza del nostro pianeta.
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Davide Frassine racconta lo skater Lerri di Roberta Filippi
clima mite durante l’inverno, dall’altro anche per quanto riguarda i miei studi mi trovo molto bene. Dopo l’anno in Erasmus ho capito un po’ quello che volevo dall’università. La teoria e le ore passate sui libri sono importanti, ma in un campo come il mio la pratica è molto più efficace, anche in prospettiva di un lavoro futuro. Quando dici “il mio marchio di tavole da skate che si chiama Enimol” intendi che l’hai creato tu? Sì esatto, Enimol è partito tutto da me nel 2009, ho fatto il logo, disegnato le prime grafiche e soprattutto messo i soldi!! con il tempo ho iniziato a collaborare con altre persone che mi hanno e mi stanno aiutando con le grafiche e promuovendo il marchio. Com’è stata la tua esperienza allo SportShow a Brescia? L’atmosfera dei contest in generale è sempre piacevole, è un’occasione per vedere i miei amici che vivono lontano e fare un po’ di festa tutti insieme, specialmente ora che io vivo ancor più lontano. In più ci permette di skateare strutture nuove, magari inusuali e di progredire molto in pochi giorni, se non ci uccidiamo... tenevo a partecipare a quest’evento anche perché ho dato un piccolo aiuto ai ragazzi della Knodelbowl nell’organizzare e promuovere il contest. Devo dire però che la mia idea di skateboarding non ha nulla a che vedere con questo tipo di eventi. mi piace skateare per me stesso e non essere osservato da 200 persone che non sono mai salite su una tavola, mi sembra di essere allo zoo. Io sono nella gabbia ma nessuno mi porta da mangiare gratis! Quali saranno le tue prossima “avventure”? Purtroppo ora mi sono avventurato in un semestre universitario bello intenso, quindi credo che tra un mesetto il massimo dell’avventura sarà chiudermi in me stesso in compagnia dei miei appunti, mangiare pasta in bianco 6 volte a settimana, trascurare la mia igiene personale e bere caffè, ogni tanto dedicarmi ad Enimol e fare a pugni con la mia coscienza per uscire a skateare per filmare qualcosa. E se a luglio avrò passato tutti gli esami proverò a pianificare qualcosa. Non perdiamolo di vista!
PH. Federico Romanello
FREESTYLE
Sicurlive Group da quest’anno ha deciso di sponsorizzare alcuni ragazzi in varie discipline. Il primo che incontriamo è Davide Frassine aka Lerri, skater di origini bresciane che sta seguendo i suoi sogni a Barcellona. “Mi chiamo Davide Frassine e sono nato a Brescia nell’87. Skateo da 10 anni, forse 11. Sono sponsorizzato da Frisco, Vans e Playwood Distribution, e da ora anche da Sicurlive group. Mi sono laureato a Padova in Scienze per l’Ambiente e adesso mi sono trasferito a Barcellona per continuare a studiare e cercare di migliorare il mio skateboarding. La passione per lo skate mi ha portato a lavorare molto con alcuni tra i miei più cari amici, costruendo la Knodel Bowl (www.knodelbowl.com) dove organizziamo, oltre che per adulti e ragazzi, anche dei corsi per bambini. Nel 2011 noi della Knodel Bowl abbiamo anche iniziato a collaborare ad altri skater bresciani e bergamaschi che conosciamo da sempre, i quali da un paio d’anni stanno costruendo uno skatepark in cemento a Castrezzato. Il tutto disegnato, costruito e finanziato dagli skaters! Tutte e due le strutture nel giro di pochissimo tempo hanno richiamato l’attenzione di molti media internazionali e di molti skater professionisti che sono passati a trovarci. Nel 2009 ho anche deciso di avviare il mio marchio di tavole da skate che si chiama Enimol, attraverso il quale riesco ad essere ancor più attivo nella scena sponsorizzando alcuni skaters, sparsi in tutta Italia, che ho avuto modo di conoscere durante gli anni di contest e viaggi, e con i quali si è creato un bellissimo rapporto, ancor prima che Enimol nascesse.” Attualmente, oltre a praticare lo skate, qual è la tua principale occupazione? Stai seguendo gli studi fatti? In questo periodo sono a Barcellona per continuare i miei studi in scienze per l’ambiente, ho fatto la triennale in Italia e qui sto facendo la specialistica, anche se l’università in Spagna è organizzata in modo un po’ diverso. Barcellona è il massimo per me: da un lato perché è una delle migliori città in Europa per poter skateare e migliorare, un po’ per l’architettura che si presta molto un po’ per il
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WOOD BETON - GRUPPO NULLI Eleganza +ecosostenibilità =bioedilizia.
Architecture by ADP & Partners
È vero, ogni tanto lo sconforto può avere il sopravvento. Basta guardarsi intorno o leggere le pagine di un quotidiano per constatare amaramente che l’Italia è culla dell’edilizia abusiva e di imprenditori edili senza scrupolo, è patria di ecomostri che hanno deturpato il territorio e di contaminazioni territoriali prodotte da materiale tossico smaltito abusivamente. Tutte notizie che fanno il giro del mondo e tornano alle nostre coscienze costringendoci, ogni giorno, a riflettere sulle mille contraddizioni del nostro paese. Ma se riusciamo a guardare oltre, ecco che l’animo nobile risale in superficie, l’animo artistico dell’ingegno tipico della nostra cultura ritorna ad affermarsi con incisività sul territorio nazionale ed internazionale. È il caso di Wood Beton, azienda bresciana nata nel 1990 come braccio del Gruppo Nulli, un’azienda dinamica ed in continua espansione che ha focalizzato il proprio core sull’ecosostenibilità nel settore della bioedilizia. Inutili discorsi? Può darsi, in effetti i dati percentuali sulla regolarizzazione delle abitazioni residenziali in termini di certificazione energetica non sono confortanti. Ma a questo punto sorge spontanea una domanda: è la cultura ecosostenibile a mancare oppure mancano idee e soluzioni che siano davvero ecosostenibili? Se sulla sensibilizzazione della cultura “eco” vi è ancora ampio margine di miglioramento, è decisamente piacevole constatare come in Italia vi siano realtà imprenditoriali che hanno dedicato tempo, energia e denaro nella ricerca di tecnologie edilizie sempre più performanti ed ecosostenibili. La Wood Beton ha identificato nell’ecosostenibilità edilizia un valore aggiunto da far crescere con ricerca ed innovazione: il legno, legato
ARCHITETTURA
di Marcella Tusa
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info: Wood Beton SPA Via Roma, 1 - Iseo (BS) Tel. 030 98 69 211 www.woodbeton.it
all’antica tradizione costruttiva ma ancor poco considerato in ambito edile, torna a nuova vita portandosi dietro una semplificazione nella gestione del cantiere, gestione che in termini di tempi e costi fa la differenza. Il crescente impiego delle strutture in legno, non solo nell’ambito delle coperture ma anche nei solai di calpestio, ha consentito la formulazione di un brevetto certificato per solai misti legno cls collaboranti, senza connessioni metalliche. La monoliticità tra il legno e la caldana di calcestruzzo è ottenuta senza l’impiego di connettori metallici in quanto il calcestruzzo (cls) stesso si innesta nelle apposite cavità (antiscorrimento) realizzate all’estradosso del travetto. Se confrontato con un solaio classico in legno, questo sistema innovativo consente di ottenere riduzioni geometriche (altezza) ed economiche di materiale del 50% circa. Allo stesso tempo le prestazioni sono paragonabili ad un solaio di laterocemento di pari altezza ma di metà peso. (Wood Beton Prepanel©) Con la realizzazione di grandi e prestigiose opere come il teatro La Fenice di Venezia, il teatro Alla Scala di Milano, la sede Ikea di Brescia e di Villesse (GO) o svariati Palazzetti dello sport, la Wood Beton ha dimostrato un’inequivocabile expertise nell’impiego del legno lamellare e nella realizzazione di residenze prestigiose, expertise che ha esportato con successo anche all’estero (Russia, Svizzera, Romania, Estremo Oriente, Sri Lanka).
Un elemento che colpisce nell’impiego del legno per la realizzazione di residenze abitative è proprio l’eleganza della struttura stessa, come dimostra la linea Wood Beton Prestige, dove eco sostenibilità e finiture di pregio si fondono nella logica del Made in Italy. Ogni progetto Wood Beton Prestige inizia dall’analisi delle esigenze del cliente sviluppandosi, poi, come un vero e proprio “abito su misura”, seguito passo passo in tutte le fasi di realizzazione da un team dedicato di professionisti dell’edilizia. La compatibilità ed armonia architettonica sono alla base degli studi preliminari che tendono a realizzare un edificio in piena sintonia con il territorio circostante sì da creare un equilibrio ideale fra interno ed esterno. L’utilizzo di materiali ecocompatibili ed innovativi consente di completare la fabbricazione dell’edificio senza scarti di cantiere ed in massima sicurezza grazie al preassemblaggio degli elementi realizzato in fabbrica che non richiede l’ausilio di ponteggi. La natura e l’architettura divengono un binomio vincente: le soluzioni realizzate diventano sinonimo di eleganza, personalizzazione ed ecosostenibilità in termini di risparmio energetico sfruttando le proprietà del legno integrato a soluzioni impiantistiche innovative come la geotermia, il fotovoltaico o il micro-eolico, integrazione che consente di raggiungere elevate performance in termini termoacustici, antisismici e strutturali.
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Fon.AR.Com: finanziare la formazione continua. Intervista a Elena Scolari di Anna Serini
Fon.AR.Com (Fondo Paritetico Interprofessionale Nazionale per la Formazione Continua) creato nel 2006 da C.I.F.A, parte datoriale e Conf.S.A.L., parte sindacale, finanzia la Formazione Continua dei lavoratori e dei dirigenti delle aziende italiane. Le imprese italiane – operanti in qualsiasi settore – aderendo al Fon.AR.Com hanno l’opportunità di utilizzare lo 0,30% del monte contributivo obbligatorio versato all’Inps per realizzare Piani Formativi a vantaggio dello sviluppo aziendale e delle risorse umane. Fon. AR.Com finanzia azioni formative e informative organizzate in Piani Formativi Individuali, Aziendali, Territoriali e Settoriali. Abbiamo incontrato la Dott.ssa Elena Scolari, consulente aziendale e responsabile del progetto formativo all’interno del Centro di Formazione e Sperimentazione Sicurzone, per approfondire quali sono gli elementi distintivi del Fondo Fon.AR.Com.
Elena Scolari
SICUREZZA
info: www.fonarcom.it www.cifaitalia.info www.confsal.it
Elena Scolari: Il ricorso alla formazione finanziata, talvolta non considerata dalle aziende per i troppi vincoli burocratici, è diventata sempre più una necessità inderogabile per ovviare alle ristrettezze di bilancio senza gravare sulle competenze indispensabili delle figure professionali aziendali. Da questa esigenza si è progressivamente dilatata la richiesta di semplificazione da parte delle aziende ed è nel contempo cresciuta la disponibilità dei fondi a consentire metodologie didattiche e modalità di realizzazione dei percorsi formativi più consoni ai fabbisogni reali delle aziende. Da tale impostazione aperta sono nati e crescono progressivamente fondi come Fon.AR.Com e altri più recenti che hanno introdotto strumenti agili sia per le PMI che per le grandi imprese.
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Qual è il principale vantaggio che ha un’azienda nell’aderire a Fon.AR.Com? E.S. Il principale vantaggio è sicuramente quello economico, dato dalla possibilità di poter garantire una formazione continua rivolta a tutta l’azienda anche se questa ha budget poco elevati. Il Conto aggregato consente di poter beneficiare delle risorse versate da tutte le imprese aggregate, come in un unico conto, e di poter dunque realizzare un intervento formativo pur avendo effettuato versamenti minimi. È particolarmente indicato per le piccole e medie imprese. Ma vediamo i principali elementi che per cui un’azienda dovrebbe scegliere di aderire a Fon.AR.Com. Me ne può indicare alcuni? E.S. In primis assenza di problematiche relative alla condivisione del piano con le parti sociali, accantonamento del 75% anziché del tradizionale 70%, adesione di tutti i dipendenti senza distinzione dei dirigenti, possibilità di formare tutto il personale aziendale, lavoratori con contratto subordinato, dirigenti, e ammissione degli “auditori” (collaboratori, imprenditori, libero professionisti, lavoratori a progetto). Nel conto aziendale e in quello aggregato non vi è nessun vincolo sulle modalità formative, sul numero di allievi, sul numero di ore, né obbligo di formare in orario di lavoro. Inoltre i tempi di approvazione sono rapidi (tre settimane circa dall’invio del piano formativo alle parti sociali) e c’è avvio di attività e anticipazioni finanziarie da parte del fondo anche nel caso di utilizzo del conto formazione.
Perché consiglia di aderire a Fon.AR.Com? E.S. Personalmente credo che aderire a Fon.AR.Com, fondo fortemente strutturato per le PMI, sia un’opportunità per le aziende di creare reti stabili che permettano di intessere legami, creare opportunità, integrazione, definire modalità di comunicazione stabili tra entità diverse che condividono un obiettivo. Se poi consideriamo che aderire offre l’opportunità di accedere a risorse economiche da destinare all’abbattimento dei costi di formazione, perché rimanere fuori? Come scrisse Édith Cresson nel Libro Bianco sull’istruzione e la formazione (1995) in merito al passaggio tra Medioevo e Rinascimento, “l’Europa del Medioevo e dei tempi moderni ha dovuto far fronte al mondo bizantino, al mondo arabo, all’Impero turco. Oggi si tratta per fortuna di un confronto più pacifico ma l’esistenza di attori della storia giganteschi per estensione o per la forza economica, o per entrambe nello stesso tempo impone all’Europa di raggiungere una dimensione paragonabile alla loro se vuole esistere, evolversi e conservare la sua identità. Di fronte all’America, al Giappone, domani alla Cina, l’Europa deve avere la massa economica, demografica e politica capace di garantire la sua indipendenza. Essa ha per fortuna dalla sua la forza della sua civiltà e dei suoi patrimoni comuni. L’abbiamo visto: nel corso di venticinque secoli, la civiltà europea è stata creatrice; e ancora oggi, la principale materia prima dell’Europa è la materia grigia”.
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Dott.ssa Grazia Giacobone export@sicurlive.com
EVENTI
Da oggi la sicurezza non parlerà più solamente italiano.
Sicurlive Group allarga i propri orizzonti e si espande verso nuovi mercati. Per seguire l’intera filiera, dalla produzione allo sviluppo, inteso dal punto di vista della strategia commerciale, fino alla vendita nei paesi esteri, Sicurlive Group ha fortemente voluto che fosse l’export manager Grazia Giacobone, a seguire la creazione delle reti vendita all’estero, oltre alla generazione di nuove opportunità di sviluppo commerciale e analisi di mercato. L’opportunità di sviluppare strategie di inserimento di tipo commerciale ed esportativo nei mercati esteri con iniziative di consolidamento e di operare in più mercati con un approccio globale che miri a creare legami strategici ed operativi tra le operazioni realizzate nei diversi mercati, è il primo passo di internazionalizzazione che Sicurlive Group ha compiuto. “Ci siamo voluti affidare ad una figura professionale che racchiudesse in sé tutte le competenze necessarie a gestire e presidiare un processo di internazionalizzazione” dichiara Giovanni Buffoli, Amministratore Unico di Sicurlive. “La Dott. ssa Giacobone, oltre ad un’adeguata capacità di analisi dei mercati internazionali, solide basi economico-finanziarie, giuridiche e linguistiche, opera con efficacia sui mercati esteri grazie alle capacità relazionali e all’alto livello di preparazione”. Un’accezione più ampia, dunque, che travalica il concetto di sola vendita all’estero e che risponde all’esigenza di affiancare le strategie di inserimento di tipo commerciale–esportativo nei mercati esteri con iniziative di maggiore consolidamento della presenza in loco, operando inoltre in più mercati con un approccio “globale” che miri a creare legami strategici ed operativi tra le operazioni realizzate nei diversi mercati. La capacità dell’azienda è stata quella di comprendere i mercati internazionali riuscendo ad adeguarsi a livello di progetto, di risorse umane, di comunicazione e di gestione preoccupandosi fortemente della formazione del personale specifico responsabile della gestione export. “L’esportazione non è vista da noi come un’ancora di salvezza per uscire dalla crisi del mercato interno: è una strategia aziendale per crescere in competitività. L’esportazione richiede un impegno costante in termini di professionalità, qualità, creatività.” E Sicurlive Group si sa mettere continuamente alla prova.
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PROVA STATICA CLASSE A1 Secondo UNI EN 795:2002 Ar.4.3.1.1
Mettimi alla prova!
PALO DELLA CONCORRENZA
Un palo non deve solo essere bello o assomigliare a quelli che realmente funzionano. Per poter salvare la vita in caso di incidente deve mantener fede alle promesse fatte: i prodotti devono essere conformi e certificati secondo le normative vigenti, sicuri e idonei alla tipologia di copertura. I pali SICURlive sono testati e certificati al fine di evitare spiacevoli inconvenienti. Chi decide di montare un palo SICURlive non solo garantisce un maggior livello di sicurezza nell’esecuzione dei lavori in quota ma si affida ai leader nel settore. Attraverso una prova statica classe A1, secondo la normativa UNI EN 795:2002, il palo SICURlive vince il confronto con la concorrenza. La prova prevede l’applicazione di una forza di 10 Kn su due pali (uno della concorrenza e l’altro il PAL P di Sicurlive), con lo stesso carico di 1000 KG. Appare immediatamente evidente come il palo di SICURlive non presenta alcuna deformazione mentre quello della concorrenza si piega come fosse di burro. Questa prova fa riflettere sull’importanza di affidarsi a aziende affidabili, che fondano la loro filosofia sulla ricerca e che pongono la vita delle persone al primo posto, al contrario di chi, invece “risparmia” sulla sicurezza. Sicurlive non ha paura di mettersi alla prova.
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Prodotti SICURlive a Porta Nuova Garibaldi
È iniziata a fine febbraio l’operazione di posa della linea di classe C presso il cantiere Porta Nuova Garibaldi a Milano. Porta Nuova è il naturale prolungamento di via Manzoni e di via Turati, a soli 1.500 metri dal Duomo. In pochi minuti a piedi è possibile raggiungere piazza San Babila, il Castello Sforzesco e i giardini di Porta Venezia. Il progetto si colloca nell’ambito della riqualificazione dell’area Garibaldi-Repubblica e sorgerà su più livelli, per una superficie complessiva di 110.000 metri quadrati. La futura cittadella del capoluogo lombardo vanterà architetture dalle maestose dimensioni per le quali la scelta di forme e materiali all’avanguardia diviene testimonianza di fedeltà alla sostenibilità ambientale quale fondamentale principio ispiratore. I progetti assegnano destinazioni particolari all’interno delle tre aree distinte: residenze, aree commerciali, uffici, un hotel, servizi, luoghi di aggregazione, centri culturali, laboratori creativi, un ampio spazio espositivo, aree verdi e pedonali per adulti e bambini. Sicurlive Group, grazie alla competenza acquisita negli anni e all’abilità dei suoi collaboratori, sta mettendo in sicurezza l’intera area. L’area Porta Nuova avrà caratteristiche di spicco dal punto di vista della sostenibilità civica, ambientale e infrastrutturale, candidandosi a rappresentare in Italia e in Europa un modello di eccellenza per la sostenibilità nella riqualificazione urbana. Anche in vista dell’Expo 2015 questa realizzazione sarà, per Sicurlive, un biglietto da visita importante.
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Saper trasmettere la qualità L’importanza della formazione non riguarda esclusivamente o prettamente gli addetti ai lavori. Chi si occupa di sicurezza, infatti, non è solo colui che monta la linea vita, sale sui ponteggi o movimenta una gru. I rappresentanti di un’azienda edile come Sicurlive, devono essere formati e in grado di spiegare, installare, smontare i prodotti che vendono. Come sarebbe possibile vendere bene un gelato o un automobile se chi lo fa non ne sa riconoscere il gusto o le qualità su strada? Per gli stessi motivi, Sicurlive Group ha la necessità e vuole fortemente che i propri agenti conoscano, apprendano a fondo e metabolizzino tutti i concetti racchiusi nei prodotti offerti. Non basta consegnare ai clienti un manuale d’uso. Chi opera a contatto con le persone deve essere in grado di comprendere le esigenze delle stesse e di proporre la miglior soluzione. Edilservizi, a scadenze regolari, organizza per i propri agenti corsi formativi presso il centro Sicurzone per mettere nelle condizioni adeguate i propri collaboratori di vendere con maggior consapevolezza tutta la gamma Sicurlive. Trasmettere efficacemente al target la qualità e la tipologia dei servizi, tecnologie e dei prodotti offerti è un’attività dalla quale ogni imprenditore che vuole vedere la sua azienda progredire non può esimersi. L’impegno e la continua formazione divengono così strumenti indispensabili per mantenere alta la filosofia aziendale di Sicurlive Group.
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Crescere per far crescere “Vorremmo implementare la formazione puramente tecnica e l’addestramento in campo sulla
sicurezza con attività formative utili, incisive, riguardanti varie aree tematiche” Sicurzone è nato con l’idea di diffondere la cultura della sicurezza nei luoghi di lavoro, sperimentare e presentare le innovazioni tecnologiche del settore e creare un luogo di incontro tra numerose realtà e professioni. “Per creare un progetto responsabile ed efficiente, il centro è stato dotato di un campo prove che ci permette di integrare i programmi di formazione alla sicurezza con attività pratiche, utili a far apprendere ai lavoratori le strategie per prevenire o affrontare il rischio” dichiara il Geom. Raffaele Scorza, Direttore di Sicurzone. “Vorremmo implementare la formazione puramente tecnica e l’addestramento in campo sulla sicurezza con attività formative utili, incisive, riguardanti varie aree tematiche. E riteniamo fondamentale presentare il Centro a giovani che si stanno per inserire nel mondo del lavoro e in merito ai rischi che corrono nell’affrontare i lavori in quota.” A tal fine Sicurzone metterà a disposizione delle classi V degli istituti tecnici, ovviamente a titolo gratuito, il campo prove per organizzare una giornata formativa alla quale saranno presenti addetti del settore e operatori atti alle dimostrazioni pratiche. La tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori rappresenta una assoluta priorità per l’Italia che, secondo le indicazioni dell’UE, ha l’obiettivo di ridurre del 25% gli infortuni sul lavoro entro il 2012. Un traguardo piuttosto ambizioso ma di grande
importanza, non solo in relazione ai costi che il fenomeno infortunistico produce (oltre 45 miliardi di euro all’anno nel 2005 secondo i dati INAIL, pari al 3,21% del PIL), ma principalmente per l’attenzione dedicata alla dimensione sociale ed umana del problema. Dalle statistiche, infatti, emerge che la maggior parte degli incidenti sul lavoro possono definirsi di natura “comportamentale”. Con questo dato, naturalmente, non si vuole imputare la responsabilità del fenomeno al lavoratore ma, al contrario, evidenziare quanto sia importante l’investimento delle imprese e delle istituzioni pubbliche nella formazione, nell’informazione e in tutte quelle attività che consentono di prevenire il determinarsi di una condizione di rischio. In tale scenario Sicur Zone vuole promuovere un vero e proprio cambiamento culturale con un processo collettivo di sensibilizzazione e responsabilizzazione, in cui ogni cittadino assume un ruolo attivo. “E avvicinare i ragazzi alla pratica di quello che quotidianamente studiano sui libri” continua il Direttore “significa fargli assumere un ruolo attivo, in maniera differente, più divertente, e sicuramente che rimarrà impresso nella loro esperienza curriculare.”
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rubriKA arte a cura di Simona Gavioli
La collezione attiva. Opere mediali da Vito Acconci a Simon Starling A cura di Letizia Ragaglia e Frida Carazzato 26 novembre 2011 - 16 settembre 2012 Per la mostra vengono riattivate, ricomposte e “risvegliate” una selezione di opere di recente acquisizione dalla collezione MUSEION – la maggior parte presentate per la prima volta. Tra queste, l’installazione di Vito Acconci Candy Bar From GI Joe, 1977 e From Here to There di Jana Sterbak; Particle Projection (Loop), 2007 di Simon Starling e il video di Francesco Jodice Dubai_Citytellers, 2010). Filo conduttore dell’esposizione è l’attivazione del suono, medium utilizzato da molti artisti - da Krüger & Pardeller agli stessi Allora & Calzadilla - e del movimento, rappresentato sia da installazioni performative che dall’immagine in movimento di molti video. Artisti in mostra: Vito Acconci, Mario Airò, Allora & Calzadilla, Gerard Byrne, Elmgreen & Dragset, Michael Fliri, Peter Friedl, Francesco Jodice, Korpys/Löffler, Krüger & Pardeller, Haroon Mirza, Deimantas Narkevicius, Walid Raad / The Atlas Group, Simon Starling, Jana Sterbak. Museion - museo d’arte moderna e contemporanea Bolzano Via Dante 6 - 39100 Bolzano Info +39 0471 22 34 13 - www.museion.it
RE-CYCLE, Strategie per l’architettura, la città e il pianeta a cura di Pippo Corra, MAXXI, Roma 1 dicembre 2011 – 29 aprile 2012 Gallerie 1, 2 e Sala Carlo Scarpa La pratica del riciclo come “uno dei massimi generatori di innovazione creativa”. È RE-CYCLE. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta, la grande mostra che il MAXXI Architettura dedica a uno dei temi principali del terzo millennio, quello del riciclo dei materiali di scarto. In mostra oltre 80 opere tra disegni, modelli, progetti di architettura, urbanistica e paesaggio, in dialogo continuo con opere di artisti, designer, video maker, con ampi sconfinamenti verso produzioni musicali e televisive. Il risultato è un viaggio interdisciplinare attraverso opere di natura e provenienza diverse, tutte però accomunate dal riuso creativo dello scarto. MAXXI, Museo nazionale delle arti del XXI secolo via Guido Reni, 4 A 00196 Roma Info +39 06 39967350 - info@fondazionemaxxi.it
Omaggio a Luciano Minguzzi 26 Gennaio 2012 – 29 Aprile 2012 La Fondazione del Monte rinnova, a partire dal 26 gennaio 2012, l’appuntamento con i grandi Maestri italiani della seconda metà del XX secolo. Dopo Pirro Cuniberti, Giovanni Ciangottini, Bruno Pulga, Giuseppe Ferrari, Sergio Romiti e Luciano De Vita, è la volta adesso di Luciano Minguzzi, che con la potente energia espressiva delle sue sculture animerà gli spazi della Fondazione. La retrospettiva “Omaggio a Luciano Minguzzi”, realizzata con la collaborazione della Fondazione Museo Luciano Minguzzi di Milano e curata da Michela Scolaro, celebra il centenario della nascita dell’artista e presenta al pubblico un importante nucleo di opere, tra le quali alcuni inediti. Fondazione del Monte fino al 29 Aprile 2012. Ingresso gratuito Via delle Donzelle 2, Bologna Info +39 051 2962511 - www.fondazionedelmonte.it
rubriKA cinema Posti in piedi in Paradiso Un film di Carlo Verdone. Con Carlo Verdone, Pierfrancesco Favino, Marco Giallini, Micaela Ramazzotti, Diane Fleri. Genere Commedia, produzione Italia, 2012. Da venerdì 2 marzo. Il club dei separati, potremmo definirli così. Tre padri si lasciano alle spalle poltrone e comodità della vita matrimoniale, decidono di dividere un appartamento e iniziare una nuova vita. Obiettivo: far quadrare conti, fronteggiare avventure tragicomiche e una convivenza forzata. Un’eccentrica cardiologa (Micaela Ramazzotti) e un improbabile triangolo (Verdone, Favino e Giallini) compongono la verve comica e graffiante dell’ultima pellicola del regista romano. Una tenera ironia per una commedia lucida e leggera, un tema serio e controverso per una trama di ex, intensa e divertente, dove protagonista è un uomo impoverito spesso incapace di sostenere (e reagire a) un divorzio, arrivare a fine mese, mantenere i figli e ricominciare. Anche questa è l’Italia di Verdone. Un uomo un po’ ansioso e un po’ depresso, l’anima in pena di Maledetto il giorno che ti ho incontrato, un eroe nazionalpopolare, eclettico e poliedrico a cui, anche questa volta, De Laurentiis non ha saputo dire di no.
Magnifica Presenza Un film di Ferzan Ozpetek. Con Elio Germano, Margherita Buy, Beppe Fiorello, Vittoria Puccini, Daniele Pecci. Genere Commedia drammatica, produzione Italia, 2012. Da venerdì 16 marzo. Ferzan Ozpetek è sempre una garanzia. Per chi scrive, sicuramente. Nella sua filmografia vanta successi stratosferici, controversi o poco felici ma sempre chiacchierati e ricordati. Dal 16 marzo torna al cinema con un film che per il regista “parlerà dei massimi sistemi della vita con il tono della commedia”. Pietro è un giovane pasticciere, timido e solitario, siciliano, che arriva a Roma con un sogno in tasca, diventare attore. La sua nuova casa è un palazzo popolato da strani personaggi e presenze inquietanti. All’inizio sembra che non ci siano rapporti tra Pietro e i vicini, ma col tempo nascono amicizie, si creano legami forti e avvengono cose che lo spingeranno a cambiare atteggiamento nei confronti della vita. Rimangono i must delle sue pellicole: case multitasking e pluriabitate, sentimenti particolari ed emozioni strong. Ne vedrete delle belle, a partire dal protagonista, una sempre più sicura conferma del panorama attorale italiano, Elio Germano.
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a cura di Martina Fuscaldo
Biancaneve (Mirror Mirror). Un film di Tarsem Singh. Con Julia Roberts, Lily Collins, Armie Hammer, Nathan Lane, Robert Emms. Genere Fantastico, produzione USA, 2012. Da mercoledì 4 aprile. Al via una kermesse di revival e retrò-movies. Da Titanic a Biancaneve, sono loro i volti del 2012 campioni d’incasso, di storici successi, indimenticabili, per tutti. Quest’anno, riproposti in 3D. Bett Ratner produce il live action Mirror Mirror basato sulla sceneggiatura di Melisa Wallack. A differenza del film d’animazione, primo lungometraggio di Walt Disney, pietra miliare del Novecento, leggenda del cinema, la pellicola diretta da Tarsem Singh è molto più fedele alla storia originale scritta dai fratelli Grimm. Lo specchio delle brame rimane, la mela è sempre una tentazione, i nani non sono dei minatori ma dei ladri, e c’è il drago della fiaba. Il film è girato in 3D e torniamo a sognare, con una pretty woman, regina incontrastata, Julia Roberts.
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I 20 anni di Christian Louboutin Per celebrare il ventesimo anniversario del brand Christian Louboutin ha disegnato una capsule collection di 20 creazioni dalla suola scarlatta. Questa immaginifica Capsule Collection riesce nell’ardua impresa di fotografare e condensare in pochi pezzi l’evoluzione della ventennale carriera di questo geniale artista delle calzature, celebrando quella che Louboutin stesso ha definito la sua “prima, giovane avventura”. L’iconica suola rossa nasce da una fortunata casualità: “Quando arrivò il primo prototipo, aveva una grande suola nera. Morta!”. Afferra quindi lo smalto rosso della sua assistente ed inizia a dipingere la suola: “La scarpa tornò immediatamente in vita”. Inizialmente pensa di cambiare colore di suola ad ogni collezione, idea subito abbandonata perché “il rosso è più di un colore. È come un fazzoletto che una donna elegante lascia cadere se ha visto un uomo che la attrae”. Benché caratterizzato da una creatività poliedrica e visionaria, è innegabile che guardando con attenzione tutte le creazioni di Christian Louboutin, ritroviamo sempre il fascino per il mondo esotico del burlesque e delle showgirl. Ed è anche per questo che il Crazy Horse ha annunciato una collaborazione d’alto livello con Christian Louboutin, scelto come “Guest Createur” dal celebre Cabaret parigino. Louboutin è stato invitato ad interpretare a modo suo il Crazy Show, dirigendo quattro tableaux davvero unici, ispirati al mondo dell’hip hop e dell’arte in collaborazione con la coreografa e ballerina Patricia Folly. Louboutin si è avvalso di artisti di rilievo tra cui David Lynch e Swizz Beatz per le musiche; Gilles Papain e Youssef Nabil, che si sono occupati del video design e delle locandine. La preview dello show, che si intitola Feu, fuoco, sarà il 4 marzo, per rimanere in calendario fino alla fine di maggio. www.christianlouboutin.com
rubriKA moda
rubriKA people
a cura di Michela Bellinazzi
KAIROS • 89
a cura di Gia
“Non si nasce liberi, lo si diventa”. Parola di Simone Perotti Addio Prof. Dulbecco
Ishikawa Stile spiccatamente underground ed eccellenza manifatturiera 100% Italiana. Questi i due elementi che fanno di Ishikawa un brand che interpreta la moda attraverso le proprie creazioni con grande attenzione per lo styiling e la qualità. Ishikawa è un mix perfetto fra l’esperienza ed il know how strategico-commerciale di Angelo Lupis, advisor e strategic consultant di marchi di successo come Jeckerson, Dondup, Napapirj, Hollywood Trading Company, nonché designer della sneakers di successo Diadora SW, unitamente alla creatività di una giovane designer giapponese (da cui prende nome il brand) che vanta trascorsi professionali presso Yamamoto e Watanabe. Il brand sigla un’intrigante collezione di sneakers uomo-donna ed una linea di t-shirt ed è già pronto per lanciare, durante la stagione Spring/Summer 2012, una linea di sneakers destinate al mondo dei kids, felpe uomo-donna e bambino, abiti in jersey ed una collezione glamour di borse: tutto rigorosamente caratterizzato dall’ineguagliabile graffio. “Tempo fa mi sono innamorata della scarpe Ishikawa, sneakers con 8 cm di tacco all’interno, comodissime” scrive sul suo blog La Pina (Radio Deejay). “È stato un amore così folle che ne hanno creato un modello apposta per me, con dei colori fluo! Esistono 300 modelli e 20 euro a paio saranno devoluti a SOS Villaggi dei Bambini.” Scarpe belle, dunque, che fanno anche del bene. www.ishikawa.it www.tuttasbagliata.com
Il 20 Febbraio 2012 se ne è andato Renato Dulbecco a quasi 98 anni, uno dei più illustri e celebri “cervelli” fuggiti dall’Italia nel 1974 per dedicarsi ai suoi studi. Amante della fisica, chimica, matematica e medicina il Prof. Dulbecco era considerato un vero preveggente in materia di cura contro il cancro. Studiò i “fagi”, i virus batteriofagi ed i meccanismi che riparano il Dna quando è danneggiato da radiazioni. Nel 1955 isolò il primo mutante del virus della poliomielite consentendo a Sabin di preparare il relativo vaccino. Nel 1986 una grande sfida, il “progetto genoma”: identificare tutti i geni delle cellule umane e il loro ruolo, per comprendere e combattere concretamente lo sviluppo del cancro.
Simone Perotti c’è riuscito. In un’impresa difficile, un sogno proibito per la maggior parte dei lavoratori dell’ultimo millennio che alla fine, poi, sfuma in un più o meno piacevole hang over da aperitivo del venerdì sera. Simone Perotti è autore del libro “Adesso Basta”, un estratto divertente, curioso e circostanziato sul fenomeno del “downshifting”, ovvero il cambiare marcia nella propria vita, rallentare per giungere ad una volontaria e consapevole riduzione del lavoro - e conseguentemente del salario – per una riconquista del senso di vita. Quello che il libro ci aiuta a comprendere è che, indipendentemente dal tipo di lavoro, è sempre possibile rallentare, cambiare marcia per ritrovare una dimensione più umana del proprio vivere.
L’architetto delle “case passive”: Hermann Kaufmann Nato in una famiglia di tradizione carpentieri, Hermann Kaufmann cresce nella regione austriaca del Vorarlberg la cui unica ricchezza è il legno. Lavorando all’interno dell’azienda di famiglia, conosciuta come una delle industrie leader in Europa di “sistemi-legno”, Kaufmann arriva a conoscere le caratteristiche e le possibilità offerte da questo nobile materiale. Il giovane architetto si forma grazie allo zio Leopoldo Kaufmann, sviluppando concetti di costruzioni in legno strutturate basati su tecniche innovative. Diviene così l’ideatore della prima abitazione passiva (a basso consumo energetico ed autoalimentata). Attualmente Kaufmann è impegnato nello studio e nella creazione di edifici detti “a energia positiva”, cioè con un bilancio energetico positivo.
KAIROS • 90
rubriKA tecnologia
KAIROS • 91
a cura di Stefano Lavori
New iPad “risoluzionario”
Camera Luce Lytro La Camera Luce Lytro vanta un obiettivo zoom ottico 8X con una costante f / 2 aperture, catturando la luce al massimo. Lytro consente di scattare foto come mai prima. A differenza di una macchina fotografica convenzionale che cattura un unico piano di luce, la fotocamera Lytro cattura l’intero campo di luce, che è tutta la luce che viaggia in ogni direzione, in ogni punto dello spazio. La tecnologia del campo luminoso si traduce in scatti più veloci. Inoltre, con una potenza istantanea, è possibile catturare il momento perfetto, non è il momento dopo.
La caratteristica più importante del nuovo Ipad e che lo differenzia in modo netto dal precedente modello è lo schermo che ha una risoluzione 4 volte maggiore grazie al retina display (2048x1536 pixel). È lo schermo con la definizione più alta per tutti i dispositivi portatili. Monta un processore A5x, variante del vecchio A5. Processore dual-core molto avanzato che si pone come punto di riferimento per i tablet. Abbinato ad esso c’è anche una scheda grafica quad-core per poter soddisfare anche i videogiocatori più esigenti. Migliorate inoltre sono anche le due fotocamere (posteriore e anteriore). La prima è da 5 Megapixel con autofocus e riconoscimento facciale per mettere meglio a fuoco i visi delle persone nelle immagini scattate. Può girare filmati in alta definizione a 1080p quindi anche in questo ambito è all’avanguardia. SIRI (l’assistente vocale) ancora non è stato rilasciato per il mercato italiano, ma hanno assicurato che entro fine anno sarà disponibile. Il New iPad monterà anche una antenna LTE (Long Term Evolution). LTE è la nuova rete mobile che stanno installando in tutto il mondo. Grandi velocità di navigazione mobile (fino a 73 Mbps, ora siamo a 7,2 Mbps). Prima che da noi risulti effettivo, però, passerà almeno un anno. La cosa che hanno migliorato maggiormente, oltre al display e al processore, è sicuramente la batteria: dichiarati oltre 10 ore di autonomia (vedremo). I prezzi risultano invariati rispetto al modello precedente. In vendita in Italia dal 23 marzo.
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