Maja Haderlap, Angelo dell'oblio, Keller

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maja haderlap

L’ANGELO DELL’OBLIO Traduzione di Franco Filice

Keller editore



C

on un gesto della mano nonna mi fa cenno di seguirla.  Dopo aver attraversato la cucina nera entriamo nella dispensa. Il fumo stantio è appiccicato al soffitto a volta come resina bruna, untuosa. C’è odore di roba affumicata e di pane appena sfornato. I secchi con gli avanzi di cibo per i maiali emanano un vapore acre. Il pavimento è argilloso e nei punti più calpestati scintilla come fosse stato tirato a lucido. Nella dispensa nonna prende dello strutto da un contenitore e lo spalma nella teglia, poi infila un cucchiaio nella marmellata di mele, toglie uno strato di muffa bianco-grigio e lo getta tra i rifiuti. Sulle etichette che ha apposto sui vasetti con un impasto di farina, latte e saliva è scritta la parola malada. La sua malada è di colore bruno scuro e ha un sapore agrodolce. Mi mette una manciata di uova nella gonnellina che tengo sollevata. C’è corrente d’aria, dalle pareti della cucina nera si staccano fiocchi di fuliggine che vanno a depositarsi sulle forme di pane sistemate di taglio in una scansia di legno. Sotto il foro della stufa, di fianco alla porta d’ingresso, è raccolto un mucchietto di cenere. Nonna è indaffarata in cucina. I pasti che prepara sanno di quell’ambiente nero, della grotta buia, mal illuminata che 9


attraversiamo un paio di volte al giorno. Ho l’impressione che tutti gli alimenti prendano l’odore e il colore dell’affumicatoio. Lo speck e la farina di grano saraceno, lo strutto e la marmellata, perfino le uova sanno di terra, fumo e aria rancida. Mentre cucina, la nonna attribuisce ai cibi le rispettive proprietà. Le sue pietanze hanno un potere occulto, possono collegare il mondo terreno con quello ultraterreno, guarire piaghe visibili e invisibili, sono in grado di far ammalare una persona. Bevo il caffè d’orzo dal biberon che lei tiene nascosto per me nel cassetto più basso della credenza. Sei troppo grande per il biberon, dice, ma continuerò comunque a preparartelo finché vorrai. Vado a sdraiarmi sulla panca della cucina per sparire dal campo visivo e succhio il caffè ancora caldo. Troppo, troppo grande, ripete nonna. Se viene qualcuno, devi subito posarlo a terra. Nonna dice che mia madre non ha dimestichezza con i fornelli. Sostiene che non ha proprio idea di come si cucini e che quello che le hanno insegnato le suore, a casa nostra non serve a niente. Mia madre, prosegue nonna, ignora che ci siano pietanze per i vivi e per i morti, e non c’è verso di farle capire che si può guarire o rovinare una persona a seconda del cibo che le si offre. Io invece credo a nonna senza riserve e giro entusiasta la manovella mentre tosta l’avena per il caffè. L’ascolto 10


quando racconta per quante persone cucinava, da giovane, a casa, quando c’erano ancora i famigli e le serve e tanti bambini. Dice di aver anche rubato del cibo, per sé e le altre, di aver preso perfino le bucce di patate e tutto ciò che sembrava commestibile, allora, quando lavava i pentoloni, e che può anche ritenersi fortunata, dice, di essere finita lì, in cucina, nel lager, lo so. Dopo averle lavate insieme ai piatti, posa le scodelline e le pentole a scolare sul davanzale della finestra. L’acqua sporca nella bacinella di latta la versa fuori. Le sue lunghe dita arrossate sono diventate violacee. Sembrano gli artigli di un uccello rapace. Di tanto in tanto le usa per picchiettarmi sulla testa. Con un attizzatoio solleva dalla piastra della cucina a legna un cerchio di ghisa grande come un piatto e spezza la brace per farla raffreddare più rapidamente. Non appena si mette in movimento, la seguo. Lei è la mia ape regina e io il suo fuco. Sento nelle narici l’odore dei suoi vestiti, il sapore di latte e di fumo, l’alito di erbe amarognole che emana il grembiule. Lei danza in cerchio e io la imito saltellando. I miei piccoli passi si adeguano ai suoi, lenti, canticchio a bocca chiusa una dolce melodia fatta di domande e lei fa il basso. Andiamo nella stube e diamo un’occhiata alla centrifuga per il latte dietro la porta. Lo giriamo un paio di volte a settimana per scremarlo. Nella stanza attigua si aprono le 11


finestre per cambiare aria nell’ambiente, per aerare i letti in cui dormiamo, si smuovono i sacchi pieni di foglie di mais avvizzite, si girano e si controllano le erbe posate sul davanzale della finestra o appese ai fili, si sale sul solaio con una sensazione inquietante, si dà un’occhiata alla soffitta in cui anni fa si sono rifugiati i fantasmi scacciando chi dormiva dalla stanza, come racconta nonna. Nonna esce saltellando all’aperto e lega l’arbusto di ranuncolo giallo al susino davanti al fienile. Sollecita il sambuco di fianco al letamaio a fiorire più in fretta. Poi torna indietro per venirmi a prendere. Attraversiamo il cortile per raggiungere i depositi di provviste nello scantinato e in soffitta. Apre sacchi di farina, cassapanche e secchi di legno, si riempie le tasche del grembiule di frutta fresca e secca, distribuisce alle galline chicchi di grano e di mais. La sua fronte è rugosa come le scandole del tetto che copre il granaio. Mi fa strada veloce perché lungo il ruscello vuole dare un’occhiata all’essiccatoio e alle incannucciate sulle quali, in autunno, vengono messe le susine e le pere. Due volte a settimana mi porta con sé nei capanni degli attrezzi e nel fienile per controllare i posti in cui le galline depongono le uova. Se dopo una settimana in un nido non ci sono uova, cerca la bestiola indiziata di non prendere abbastanza sul serio il proprio mestiere. Non appena è nelle sue vicinanze afferra, come in un’imboscata, il volatile schiamazzante e gli infila l’indice e il medio nell’ano. 12


Se vede un biancore tra le dita, dice che la gallina deporrà l’uovo domani o dopodomani, che il guscio è ancora troppo sottile. Una volta ha tirato fuori da una gallina un uovo che le si è sciolto tra le mani, suscitando le mie risa divertite. Bambina delle uova, così mi chiama nonna. Dice che quel nomignolo me l’aveva dato il nonno quando, malato e disteso sulla panca della stufa, doveva badare a me. Aggiunge che ero una bambina viziata, che avevo poco più di un anno quando scoprii le uova nel cassetto più in basso della credenza della stube, le avevo fatte rotolare una dopo l’altra sulle assi del pavimento di legno e non appena il tuorlo era fuoriuscito dal guscio avevo esclamato sonči gre, è sorto un piccolo sole! Il nonno mi aveva osservato e era rimasto così entusiasta da permettermi di svuotare tutto il contenuto della ciotola, vietando a nonna di sgridarmi. Mentre lei ripuliva il pavimento dalle uova strapazzate, nonno aveva detto che bisognava essere comprensivi con me e con lui. Morì poco tempo dopo, riferisce nonna, benché io gli facessi compagnia. Nonna apprezza l’aiuto di mamma solo quando deve stendere la pasta. La osserva come impasta la farina. Nella madia, tra uno schiocco e l’altro, è tutto un pasticciare. Gocce di sudore grondano dalla fronte di mamma nel pane in divenire. Si tira su e con la parte superiore del braccio si asciuga il sudore dal viso. Ha le guance rosse, le maniche 13


della camicetta rimboccate, attraverso la scollatura vedo la maglia intima. Chiede in che proporzioni vanno messe la farina di segale e quella di frumento, e la quantità di lievito di pasta madre e d’acqua, poi vorrebbe sapere quanti chili di farina occorrono. Nonna dice che quando arriva all’altezza di quella scanalatura sulla parete della madia, va bene. Mamma quindi si piega di nuovo sull’impasto. Quando comincia a staccarsi dalle dita e la madia non scricchiola più, vuol dire che il lavoro è compiuto. Nonna traccia una croce sull’impasto e lo copre prima di andar via. Due ore dopo che nonna ha infilato nella gola del forno i ventri di farina grigio-bianca, il forno restituisce le forme di pane. Il pane caldo viene tolto dalle fauci del forno, strofinato con un panno, segnato con la croce e deposto nel mio grembiule. Io lo porto a raffreddare nella stube, lo spingo sul tavolo o sull’ampia panca della stufa. La fragranza di pane appena sfornato inonda la casa. Nonna ispeziona tutti gli ambienti, come a volersi accertare che gli effluvi del lievito di pasta madre abbiano raggiunto ogni angolo della casa. Era poco il pane che c’era da mangiare nel lager, così poco, con un gesto del pollice e dell’indice nonna indica lo spessore dei pezzi di pane che venivano dati alle internate. Doveva bastare per un giorno, a volte due. A un certo punto non ci hanno più dato neanche quello e il pane l’abbiamo solo sognato. La guardo. Lei dice, come dirà sempre, je bilo čudno, era sconcertante, in realtà vorrebbe dire terribile, ma grozno non le viene in mente. 14


Nel fondo delle tasche del suo grembiule sono depositate briciole e croste di pane raffermo. Quando attraversa il cortile per andare nella stalla, distribuisce il pane agli animali. Alle galline getta le briciole con un ampio movimento del braccio, alle mucche e ai maiali infila le croste in bocca. Nonna dice che non bisogna lesinare sul pane per gli animali, perché il pane distribuito verrà reso. Nel giorno dei morti mette sul tavolo una forma di pane e una tazza di latte per i defunti. Perché abbiano da mangiare quando arrivano, nella notte, e perché ci lascino in pace, dice. Immagino i morti mangiare con le loro mani invisibili, ma la mattina dopo nessuno sembra aver toccato quel cibo. Il coltello è vicino al pane, il latte sul tavolo, si direbbe che non li abbia sfiorati neanche un soffio. Chiedo se i morti ci siano stati. Sì, risponde nonna. Lei lo saprà, penso, ha dimestichezza con la morte. L’ha vista, allora, quando si mostrava ogni giorno a ogni ora.

M

amma lavora fuori. Mentre faccio colazione, attraverso la finestra della cucina la vedo affaccendarsi nella stalla. Con un cesto di vimini sulle spalle corre nel fienile e poi di nuovo nella stalla, si piega a gambe larghe sui secchi del foraggio che sprigionano fumi e con le mani prende ciuffi di fieno tagliato e passato al setaccio che aggiunge al pastone dei maiali. Quando passa davanti alla 15


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