Sartoria Los Milagros, Maria Cecilia Barbetta

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MARÍA CECILIA BARBETTA

SARTORIA LOS MILAGROS Traduzione di Fabio Cremonesi

Keller editore



Grazie a Miguel per il sostegno e la perseveranza



CAPITOLO 1 Prima che la zia Milagros riesca ad articolare una parola di saluto, Mariana si mette sulla spalla sinistra la cinghia della borsa di tela e lascia la sartoria, facendo le scale due gradini alla volta. Per strada è un’altra persona. Un senso di fiducia di origine incerta le mette le ali ai piedi, scommette che siano millecentocinquanta. All’angolo tra Gascón e Potosí inizia, uno, due, tre, quattro, cinque, passa accanto al chiosco, sei, sette, sta attenta a contare i passi e al tempo che fa passare in quel modo. Mariana-l’amministratrice-del-tempo fa passi più lunghi di ieri e dell’altro ieri, le sue gambe si fanno sempre più lunghe mentre lei accorcia i minuti che le occorrono per raggiungere la casa in avenida Castro Barros, tra avenida Rivadavia e calle Don Bosco. Di fronte al convento di Santa Teresa de Jesús abbottona la giacchetta celeste che si è cucita lei stessa, dirige lo sguardo sull’acciottolato, sulle molte pietre asimmetriche marroni e deve resistere alla tentazione di contarle dalla prima all’ultima. Preoccupata che il numero dei passi si converta nel numero delle pietre, guarda i suoi sandali bianchi. In quel preciso momento, suona la campana sulla torre al numero civico 449, un rapido inchino, poi Mariana si fa il segno della croce. Le riesce un gioco perfettamente sincronizzato tra la mano destra e i piedi che avanzano, in nome del Padre, trenta, e del Figlio, trentuno, e dello Spirito Santo, trentadue, all’amen, trentatré, si porta il pollice alle labbra, che prendono la forma di un bacio. Ancor prima del passo successivo

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rimemora la dolorosa morte di Gesù sulla croce, i chiodi nelle articolazioni trafitte delle mani e dei piedi, le infinite spine sulla sua testa di martire, versi di preghiere attraversano la testa di Mariana come ghirigori di un’insegna al neon: Fu crocifisso / morì e fu sepolto; discese agli inferi / in giro per una grande città come Buenos Aires, si dovrebbe stare all’erta per i molti borseggiatori, per gli escrementi di cane che bisogna schivare di continuo, per non rimanere appiccicati a una stupida gomma da masticare, conviene stare attenti, ci sono uomini ripugnanti che cercano di allungare le mani, oppure si rischia distrattamente di pestare un piede o il cappotto a un’anziana signora, si potrebbe andare a sbattere contro un passante che se ne sta andando a spasso altrettanto trasognato, c’è pericolo di scivolare o inciampare sulla radice di un albero, su un tombino di ferro, pure quelli sono pericolosi. Quando Mariana era ancora piccola, camminava con sua madre mano nella mano. Ogni giorno dopo il lavoro, Carmen andava a prendere la figlia all’asilo. Arrivata alla fermata del 160, si metteva a cercare nella borsetta tintinnante il piccolo portamonete in pelle marrone e poi nel piccolo portamonete in pelle marrone gli spiccioli per due biglietti da settanta centesimi ciascuno. Intanto Mariana era impegnata a uccidere lumache. Un’infinità di disgustose lumache nere senza guscio, una piaga difficile da debellare anche solo in uno spazio di mezzo metro di diametro, o per lo meno ne aveva tutta l’aria, ecco perché il piede da bambina di Mariana non aveva pace, si muoveva ininterrottamente su e giù, in maniera meccanica ma risoluta, finché dalla bocca della madre arrivava il primo, tranquillo avvertimento: «Arriva, Mariana, per fortuna! Saliamo, presto!» Mariana si irritava per quell’an-

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nuncio, diventava nervosa e la sistematicità del suo lavoro, che non era ancora concluso mentre il 160 stava già piombando su di lei, andava a catafascio. Non erano vere lumache quelle che all’epoca Mariana eliminava diligentemente, preoccupata per la pace della sua anima e di quella del mondo. In base a un piano imperscrutabile, in parecchi punti il marciapiede era stato riempito di buchi; al di sotto si era aperto un inferno di odori orribili, le cui entrate, che pure restavano ben visibili, erano state subito richiuse con pesantissimi tombini incassati nella pavimentazione, su ognuno dei quali si inarcavano come una specie di civettuola decorazione delle piccole collinette dell’esatta forma e lunghezza delle lumache. Agli occhi di quella bambina di quattro anni si trattava di vere lumache, lumache come quelle che vedeva la domenica strisciare sullo scivolo rosso in plaza Almagro, il suo preferito, lasciandosi dietro lungo i loro strani percorsi una scia appiccicaticcia che Mariana, con abnegazione e un po’ di disgusto, strofinava via dal piano inclinato con un colpo secco verso il basso. Ma ce n’erano sempre di nuove, ad arrampicarsi su quella superficie ripida. La madre, dopo essere salita sull’autobus, aver comprato i biglietti e averla chiamata inutilmente, scendeva i gradini, afferrava la sua mano di bambina e la tirava in maniera così energica da farle quasi perdere l’equilibrio. Mariana-la-cacciatrice-di-lumache si sentiva tirare come quando faceva volare l’aquilone, finché atterrava sul primo sedile libero del 160 con il suo insuccesso davanti agli occhi: malgrado i richiami che la madre le sibilava dall’autobus si fossero fatti taglienti, non era riuscita a interrompere la sua infinita lotta contro le lumache cattive, mollicce, ma soprattutto contro la sfrontata esibizione della loro viscida nudità. La bambina avrebbe preferito restare al suo posto sul marcia-

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piede e continuare la lotta fino alla fine, perché ogni volta, fatalmente, ne rimanevano alcune. Erano undici o dodici le lumache che le mancavano. A quei tempi non era in grado di contarle. Undici o dodici, che rimanevano in vita senza essere state contate. È per questo che ancora oggi Mariana evita di vestirsi di nero e grigio: nero e grigio sono uguali al nero-grigiolumaca. Nel pomeriggio ha accorciato la bella gonna verde mela di una cliente, per fare ciò gli spilli leggermente più lunghi, con la capocchia colorata del grossista El Progreso, sono risultati davvero utili. Se avesse fatto di testa sua, dal variopinto mucchietto Mariana si sarebbe presa solo quelli con la capocchia bianca. Bianco su verde mela, proprio un bell’accostamento. Elvira stava lavorando a un giubbetto rosso e ha iniziato utilizzando uno spillo giallo, poi uno blu, poi arancione. Per prendere l’ultimo spillo arancione, si è dovuta chinare sul tavolo da lavoro in legno, di modo che all’istante un’ondata del suo profumo dolciastro ha appestato l’aria. Mariana non è riuscita a evitare di arricciare il naso. Per ricomporsi ha dovuto fissare il suo sguardo e i suoi pensieri sulla freschezza del verde mela e pensare bianco, bianco, bianco, bianco. Elvira l’ha fissata diffidente. È spaventoso, la sua faccia somiglia ogni giorno di più a un acino di uva passa! Dopo il giallo, il blu e l’arancione, come se avesse letto senza difficoltà nei pensieri nascosti di Mariana, con un gesto ampio e sfacciato ha scelto uno spillo bianco. Sì, lo ha fatto e al tempo stesso si è protetta elevando ulteriormente il suo muro di profumo. Poi ne ha preso un altro bianco, dopo due minuti ancora uno bianco e poi, ogni pochi secondi, bianco, bianco, bianco, bianco, bianco, bianco… «Cara Elvira, avrai senz’altro

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notato che abbiamo tutte bisogno dei nuovi spilli. Saresti così gentile da lasciarcene qualcuno?» è sbottata Mariana. Milagros ha notato il tono irritato e ha ostentatamente aggrottato la fronte. All’improvviso è balzata dalla sedia e ha battuto con forza le mani sopra la testa, una sola volta. Esaminandosi i palmi delle mani – da una parte un cadavere spiaccicato, dall’altra dei minuscoli frammenti grigio chiaro – la titolare della sartoria ha esclamato: «L’ho ammazzata!… Qualcuna di voi potrebbe procurarsi uno spray contro le tarme? Queste bestiacce sono una vera piaga e finiranno per divorarmi qualche tessuto pregiato!» Elvira, l’innocenza personificata, ha fatto una faccia come se non ci stesse capendo nulla e si è presa un altro spillo bianco. Dopo quella discussione, Mariana non le ha più rivolto la parola fino alla fine della giornata di lavoro, due ore e mezzo più tardi, ma ormai, novecentonovantotto, novecentonovantanove, mille, milleuno, quel futile dissapore pomeridiano con Elvira è sparito come per incanto, dissolto nell’aria grazie a quel senso di fiducia di origine incerta che ha messo le ali ai piedi di Mariana.

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CAMPIONE DI TESSUTO

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