ANDREI KURKOV, IL VERO CONTROLLORE DEL POPOLO, KELLER 2014

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andrei kurkov

IL VERO CONTROLLORE DEL POPOLO Traduzione di Rosa Mauro

Keller editore



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cani del villaggio mandavano latrati dai cortili, scuotendo rumorosamente le catene e annunciando la sera che avanzava. Con una scure smussata qualcuno spaccava la legna, preparandosi all’inverno ormai imminente. Da una remota estremità del villaggio arrivavano improperi maschili. La voce era così arrochita da trasmettere a distanza l’odore di pessima vodka. All’interno delle izbe cominciavano ad accendersi le lampadine Il’ič. La loro luce discontinua rispondeva appieno ai capricci della corrente elettrica, una sorta di nemico invisibile e misterioso in grado di insinuarsi attraverso i cavi sfrigolanti in ogni singola famiglia del villaggio. Nella piazza centrale, tra il circolo e l’amministrazione del kolchoz, una debole brezza faceva oscillare una lampadina identica, alla cui luce emerse una massa chiassosa e concitata di colcosiani pronta ad apportare nuove idee e un nuovo senso alla propria vita ancora antiquata. Anche Pavel Dobrynin, uomo capriccioso come l’elettricità ma sorprendentemente onesto e perciò poco amato nell’ambiente del kolchoz, stava rientrando stancamente a casa. Camminava e si stupiva di come quella sera gli pesasse ogni singolo passo, di quanto facesse fatica a respirare e di come di colpo le stelle appannate, quasi impacciate, baluginassero deboli nel cielo sereno. Avanzava così, prendendosela con calma, con l’orecchio teso al coro disorganizzato di cani, nel quale distingueva il latrato del proprio Dmitrij, detto semplicemente Mit’ka. Un cane che assomigliava in qualche modo al padrone e che forse proprio per

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questo motivo non suscitava le simpatie delle cagnette del villaggio, malgrado fosse un gran dongiovanni e un eccellente cane da guardia. Il cancello cigolò e Mit’ka, fiutato il padrone, attaccò ad abbaiare con foga e gioia ancora maggiori. Una volta nel cortile, Pavel non si affrettò verso casa, ma si avvicinò alla finestra e si bloccò a guardare l’amata moglie Manjaša cullare tra le braccia il piccolo Pet’ka di tre mesi. Poi alzò lo sguardo al cielo, attese la caduta di una stella evidentemente non troppo necessaria, espresse un recondito desiderio e solo a quel punto aprì la porta ed entrò. Alla vista del marito, la moglie si rallegrò in silenzio. Lo osservò imbambolata disfarsi degli stivali quindi, tornata in sé, corse alla stufa a scaldargli la cena. «Di cosa avete parlato all’assemblea?» Manjaša infranse il rassicurante silenzio domestico. Pavel emise un sospiro grave, rimase un attimo in silenzio ma poi, scegliendo con cura le parole, si dispose a riferire: «Mi hanno conferito un difficile onore…» «Quale?» domandò la moglie, allarmata dall’incomprensibile frase del coniuge. Pavel riprese fiato, s’incurvò e si sedette al tavolo. «Sono stato scelto come controllore». «Del kolchoz?» «No». Scosse la testa e sospirò di nuovo. «Dell’intero Paese». «Che significa?» «To’, leggi tu stessa». Le tese un foglio con l’autorevole timbro lilla dell’amministrazione del kolchoz. «Leggilo tu» replicò Manjaša. «Sai che non me la cavo tanto bene…» “Con il presente documento si attesta che Pavel Aleksandrovič Dobrynin è stato insignito dall’assemblea generale del kolchoz dell’inca-

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rico a tempo indeterminato di controllore per tutto il Paese dei Soviet, alle dirette dipendenze della massima autorità del Paese. I dirigenti di istituzioni e fabbriche sottoposti a controllo saranno obbligati a nutrirlo e retribuirgli il lavoro in conformità alle sue necessità e al tempo impiegato nel controllo”. «Che significa?» domandò Manjaša già con i lucciconi. «Che vuol dire? Quindi si sbarazzano di te! Signore mio! Ti mandano via apposta!» «Ma no» proferì Pavel poco convinto. «È un onore… Dopotutto mi hanno scelto. Poi mi sostituiranno e ritornerò qui… Tu, però, prenditi cura dei bambini». All’accenno ai bambini, Manjaša scoppiò in singhiozzi e, Pet’ka, svegliatosi di conseguenza, attaccò a piangere e strillare insieme a lei. Pavel sentì che pure i suoi occhi erano sul punto di buttar fuori le lacrime e strinse più forte i pugni per dominarsi. Partì la mattina seguente. L’avevano mandato a prendere con un carro. In serpa era seduto un vecchio nanerottolo di un metro e mezzo circa. Si era arrotolato una sigaretta e se la stava fumando mentre osservava Pavel congedarsi dalla moglie sulla soglia di casa. Il distacco fu straziante. Manjaša aveva trascorso la notte insonne a preparare la bisaccia del marito. «Be’, io vado» disse infine Pavel con decisione, desideroso di piantarla una volta per tutte con quelle inevitabili sofferenze. «Aspetta!» La moglie di colpo fece un gesto di disperazione e corse dietro casa, verso la legnaia. “Cos’altro andrà a prendere?” si domandò Pavel, ma in capo a mezzo minuto la vide riapparire con gli occhi ancora lucidi e una scure in mano. «Ecco, prendila per il viaggio!» gli propose. «Ma che ti salta in testa? Una scure? Cosa dovrei farci?»

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«Prendila, prendila! Non puoi andar lì senza niente… E se incontrassi dei banditi?» «D’accordo». Afferrò la scure, si gettò su una spalla la bisaccia e si avviò verso il carro. Manjaša lo seguiva con passo malfermo, neanche vedeva la strada davanti a sé, visto che si copriva il viso con le mani e piangeva. Ragion per cui si fermò in un punto tra la casa e il cancello e si piantò lì. «Su, va’» gracchiò il vecchio nanerottolo al cavallo, e le ruote di legno presero a martellare la malconcia strada sterrata.

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l sole, percorso il semicerchio del quadrante celeste, tuffò i propri raggi oltre l’orizzonte, laddove iniziava l’abisso. E sulla terra avvolta nell’oscurità della sera ogni vita sbadigliava, disponendosi al sonno ristoratore; persino le piante chiudevano i propri fiori, di modo che non vi ronzassero intorno gli insetti esenti dalla stanchezza e dalla necessità di dormire a causa della brevità della loro vita. Ogni cosa si fermava, si bloccava, a parte il movimento dell’aria sospinta dal respiro di uomini e bestie. Ed ecco che in questo silenzio un angelo scese sulla terra. Atterrò, si guardò intorno e, sinceratosi della tranquillità del mondo circostante, si distese sull’erba. La stanchezza si fece subito sentire; dopotutto la discesa non era stata né semplice né rapida. E, serrati gli occhi, fece un sogno che quasi non era un sogno, più che altro si trattava del ricordo di quella giornata dura, nella quale si era infine risolto a lasciare fratelli e sorelle, al pari di lui di bianco vestiti, e abbandonare il Paradiso per discendere su questa enigmatica terra, enorme e misteriosa, della quale i suoi ormai ex confratelli non sapevano nulla se non che gli abitanti dopo la morte non finivano in Paradiso. Forse proprio da questa stramba constatazione era nata la sua idea di quel viaggio; non era stata la comune curiosità a spingerlo a intraprendere una discesa tanto ardua, semplicemente non credeva che in un Paese così grande non ci fossero giusti, anche se non era in grado di dimostrare il contrario. In fin dei conti, se ci fossero stati dei giusti, il cancello del Paradiso sarebbe sempre stato spalancato per loro. Dunque, rigettando ciò che per gli altri abitanti del Paradiso era indiscuti-

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bile, aveva deciso di mettersi in viaggio, trovare un vero giusto e, percorsa con lui fino alla fine la sua vita terrena, fargli oltrepassare il cancello bianco tempestato di perle e diamanti, ottenendo in tal modo il perdono dei fratelli e delle sorelle per aver abbandonato il Paradiso di nascosto, senza autorizzazione. Ma le stelle splendevano più luminose, sfruttando l’assenza del chiarore del giorno scomparso al centro dell’emisfero inferiore, e il sogno che non era propriamente un sogno, terminò, facendolo sprofondare ancor più dentro se stesso sino a percepire i battiti del proprio cuore e lo sciabordio del sangue che gli scorreva lento nelle vene immacolate. All’improvviso un respiro caldo ed estraneo ne scosse l’udito e un sussurrio, infiltratosi nelle orecchie, lo destò. «Compagno…» stava sussurrando qualcuno. «Compagno, sveglia!» L’angelo aprì gli occhi e, tiratosi su, rimase seduto sull’erba. Davanti a lui era accucciato un ragazzo con i capelli ricci. «Compagno» tornò a sussurrare quello. «Scambiamoci i vestiti! Ti darò in aggiunta una pagnotta. Che ne dici? Ci stai?» L’angelo rimase interdetto da una simile proposta. Studiò i vestiti del ragazzo: pantaloni verdi e giubba dello stesso colore, ai piedi degli stivali. «Ma io ho solo questo vestito!» disse, sollevando la sottile stoffa bianca. «Sentirai freddo». «Non importa». Il ragazzo agitò una mano, incurante. «Allora, facciamo a cambio?» L’angelo si strinse nelle spalle. Poi annuì. Il ragazzo si sfilò la giubba dalla testa e si liberò di stivali e pantaloni. L’angelo si svestì a sua volta. «Ma come si mette?» domandò sconcertato il ragazzo, tenendo in mano la veste bianca. «C’è un buco per la testa» spiegò l’angelo.

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Trovatolo, il ragazzo ci infilò la testa e si sistemò per bene addosso la veste angelica. Poi calzò in fretta gli stivali. «E gli stivali?» chiese l’angelo. «Naa» rispose il ricciuto. «Gli accordi non erano questi. Abbiamo scambiato i vestiti con i vestiti, ma gli stivali non sono vestiti, sono stivali…» «Come vuoi tu» convenne l’angelo. «Di’ un po’, qui sono tutti vestiti così?» «Quasi tutti. Solo che io ho strappato via le mostrine dalla giubba…» «Cosa sono le mostrine?» «Ah, non lo sai?! Allora è meglio che rimani nell’ignoranza. Eccoti il pane, e buona permanenza!» Posò per terra davanti all’angelo una piccola pagnotta tonda, si tirò su e proseguì per i fatti suoi. L’angelo seguì a lungo con lo sguardo la macchia bianca della propria veste rilucere mentre si allontanava tra alberi e cespugli. Quindi, allorché il ragazzo fu inghiottito dalla notte, prese il pane, lo spezzò e se ne portò un tozzo alla bocca. Diede un morso, masticò e fu assalito dall’inquietudine. Aveva un sapore sgradevole, niente a che vedere col pane sfornato in Paradiso. Si ritrovò in bocca certe pallottoline e alla fine sputò il boccone immasticabile, provando una gran pena per la gente che lo mangiava. Sospirò gravemente, come mai gli era accaduto in precedenza, e si distese col viso al cielo. Rimase in quella posizione in attesa del mattino, quando avrebbe ispezionato alla luce del sole quella terra misteriosa. Il mattino sopraggiunse di lì a poco, svegliando gli uccelli e tutto ciò che c’era di vivo. L’angelo si alzò e si guardò intorno: si rese conto di trovarsi in un boschetto con alberi radi alternati a bassi arbusti. Tre angusti sentieri si dipartivano di lì in direzioni diverse, dal che dedusse che nelle vicinanze dovessero vivere delle

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persone che li percorrevano. Ne imboccò uno per andare tra le gente. Gli uccelli cinguettavano magnificamente, neanche stesse camminando per il Paradiso. Di colpo gli si pararono davanti degli uomini a cavallo. Non più di una decina: giovani, belli, vestiti con lo stesso completo verde che quella notte aveva scambiato con la veste bianca. Si scansò dal sentiero per lasciarli passare ma quelli, arrivati all’altezza del viandante appiedato, lo circondarono e lo guardarono con ostilità. «Chi sei?» gracchiò uno di essi, avvoltolando con la destra il lungo baffo. «Un angelo…» si affrettò a rispondere il viandante. «Cosa?! Avete sentito?» Il baffuto scoppiò a ridere. Quindi assunse bruscamente un’espressione cattiva. «Mani in alto, canaglia! Adesso ti spedisco in cielo, così sarai davvero un angelo!» Tirò fuori dalla fondina alla cinta una pesante Mauser, prese la mira e poi la spostò da una parte, osservando con malignità l’angelo come a verificare se quello si fosse impaurito o meno. «Perché vuole uccidermi?» domandò l’angelo, contrariato. «E tu perché indossi una divisa militare con le mostrine strappate? Sei un disertore, oppure hai ucciso uno dei nostri e poi hai strappato le mostrine? Allora? Su, rispondi!» «L’ho scambiata stanotte col mio vestito» rispose il viandante appiedato. «Un ragazzo ricciuto lo voleva così tanto… Mi ha dato pure una pagnotta». «Ricciuto?!» Il cavaliere baffuto d’un tratto s’indurì come una pietra. «Da’ qui il pane!» L’angelo glielo allungò. Quello diede un morso, masticò con appetito e sbirciò gli altri con gli occhi strizzati. «Non sarà stato Sergun’kov?» ipotizzò un ragazzetto lentigginoso in groppa a un cavallo nero come il carbone.

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