Claudia Schreiber, Dolce come le amarene, Keller

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claudia schreiber

DOLCE COME LE AMARENE Traduzione di Angela Lorenzini

Keller editore


Annie

A

nnie adorava starsene nel punto più alto del frutteto, arrampicata su un albero per abbracciare con lo sguardo ogni cosa. Tutto intorno cresceva il bosco e l’orizzonte che le si offriva era una linea verde di querce, faggi e abeti. Sotto di lei i campi si stendevano come i riquadri marroni o gialli di un tappeto, sopra di lei il soffitto era azzurro e bianco. Siepi e cespugli avevano la forma di armadi e comò, l’erba folta era morbida e comoda come un cuscino. Ecco il suo salotto: molto spazioso e arredato a suo gusto, in più d’estate le metteva a disposizione fiori e frutta sempre freschi. Annie si trovava mille volte più a suo agio qui che nell’ammuffita casa di famiglia. Fin da quando Annie era ancora piccolina, la madre era solita legarle un tamburo intorno alla pancia, metterle in mano due bacchette e spedirla a scacciare gli storni dal frutteto a suon di colpi e urla – così che non solo gli uccelli, ma anche e soprattutto la ragazzina, che a quanto pare altrimenti avrebbe beccato i nervi della propria suscettibile madre, non causassero troppi danni almeno durante la canicola estiva. Anche quell’anno Annie se ne andava in giro per i campi a fare baccano, benché nel frattempo non fosse più una bambina anche se sembrava non volerlo far sapere a nessuno. I pantaloncini di cotone color sabbia erano tenuti su con l’elastico, sul lato destro aveva cucito una tasca che si 11


poteva chiudere con la lampo: era lì che conservava le cose importanti, portare una borsetta le sarebbe parso ridicolo. I lunghi capelli scuri erano ostinatamente folti, e se li tagliava da sola. La lunga frangia le cadeva perciò sugli occhi nerissimi, costringendola a scostarsi spesso le ciocche dal viso. Aveva per lo più un’espressione critica, se non addirittura riottosa e la bocca sempre appena socchiusa – sul punto di ribattere qualcosa o di sospirare di spossatezza, avrebbe potuto pensare qualcuno. Il frutteto s’inerpicava dolcemente sul colle, scendeva dal lato opposto fino alla legnaia in riva al ruscello e poi saliva di nuovo fino ai margini del bosco. A Annie piaceva immaginare che queste leggere ondulazioni del terreno fossero cavalloni e lei stessa una nave dalle vele nere che, sola nella tempesta, affrontava i marosi. E quando il caldo era opprimente e l’aria quasi immobile, quando la calura fremeva sopra l’asfalto e il sudore colava dalla fronte lungo il collo e poi dentro la camicia degli uomini e formava chiazze sotto ai seni alle donne, quando le mandrie di mucche, pigiate strette, trovavano l’ultima pozza d’ombra sotto agli alberi e i cani ansimavano disperati, Annie immaginava di essere una nomade del deserto che sfidava la canicola in groppa al suo cammello, dominando le alte dune di una landa desolata, anche se in realtà quello che faceva era correre su e giù per le gobbe di terra secca e dura. Oppure fingeva che là fuori, tutt’intorno a lei, si stessero commettendo atroci delitti: migliaia di neri criminali sventravano i frutti come le pance turgide di vittime inermi, schizzando succo rosso su foglie e rami. La voracità

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delle bestie affamate si poteva persino udire, perché mangiavano con schiocchi e risucchi insudiciandosi l’un l’altra, ebbre di sangue di ciliegia. A un capo del frutteto, Annie si avvicinava di soppiatto ai predoni, sollevava pian piano entrambe le braccia, poi picchiava sul tamburo con tutte le sue forze e gridava a squarciagola. Al mattino presto i suoi schiamazzi facevano ancora volar via gli uccelli per lo spavento, interrompendo le loro razzie; volavano in alto e si disperdevano nell’aria, ma subito si riavevano e, spinti dalla fame, si riunivano a stormo per posarsi di nuovo dall’altra parte del frutteto, occupando gli alberi e continuando a mangiare. Annie inseguiva l’orda, finché non era proprio sotto a quei parassiti. Vedeva e udiva gli storni che col becco appuntito trafiggevano la polpa, la strappavano e la inghiottivano bevendo rumorosamente. Sulle braccia di Annie gocciolava succo di ciliegia, cui si aggiungevano gli escrementi dei pidocchi delle piante che le grondavano addosso – proprio “melata” dovevano chiamarla, quella roba. Tutto ciò si accumulava durante il giorno sulla sua pelle come una glassa, incollandosi alla schiena, ai capelli, pizzicandole il viso e le ascelle. Quando le bestie si divertivano di più, lei picchiava più forte il suo tamburo, urlava come una furia facendo il finimondo, e la banda volava via, spaventata. Annie la inseguiva ansimando fino all’altro capo del frutteto. Durante queste gare i rami la colpivano in viso e le graffiavano le guance, con l’avambraccio nudo si puliva da sudore, lacrime e sporcizia. Su e giù inutilmente, sempre dietro agli uccelli che già erano volati via, ancora e ancora, in un perenne andirivieni.

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Ma dopo un po’ gli storni si abituavano al chiasso, e Annie doveva battere più forte e gridare a più non posso per riuscire ancora a disturbare i saccheggiatori. Nella calura del mezzogiorno però volavano via come a comando, e si ritiravano a digerire sulle cime degli alberi nel bosco, più fresco. Annie si lavava nel torrente, poi, sfinita, riposava all’ombra della legnaia e faceva finalmente una pausa. Quel giorno era in giro già da sei ore. Alla parete esterna della legnaia era appoggiato un vecchio letto di ferro con un materasso di gommapiuma e abbondante paglia fresca; si sdraiò lì, mangiò le fette di pane imburrato e il salame che aveva portato da casa, lesse qualche minuto il suo giornale e si addormentò. Quasi tutti conoscono l’odore della propria infanzia: forse è quello dei panini freschi che c’erano sempre a colazione, oppure quello del metallo arrugginito dell’altalena scassata al parco giochi, dipende. O quello dell’asfalto nuovo, se si è cresciuti in uno di quei posti dove le strade devono essere sistemate di frequente; l’odore delle scale pulite con acqua e aceto o delle soffitte ammuffite in cui si potevano trovare vecchi tesori o dar da mangiare alle colombe del nonno. Il suo odore preferito, quello che sempre le avrebbe ricordato il luogo dov’era nata, era l’aroma di quel fieno che aveva appena finito di bruciarsi al sole, un miscuglio di erba, trifoglio, acetosa e camomilla, con un pizzico di menta. Lì il sole splendeva costantemente, proprio come i cittadini si augurano che accada durante le loro costose vacanze; Annie invece lo aveva gratis. Nuvole bianche attraversavano il cielo

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azzurro, e poteva inoltre godersi la frescura del ruscello ogni volta che voleva, e sentire sotto ai piedi nudi il terreno scivoloso e cedevole della riva. Quando tornarono gli uccelli, si rimise al lavoro, finché nella quiete serale gli storni non si riunirono e volarono via. Il frutteto distava tre chilometri dalla casa della sua famiglia. Annie abitava con la madre e il nonno nella via di fiaba risistemata per i turisti, in una tipica casa a traliccio, ristrutturata. Gli unici svaghi possibili in quel posto erano il corpo dei vigili del fuoco, che non spegneva mai un incendio, bensì fondamentalmente la sete di lorsignori, e un gruppo di ginnastica per dame piuttosto arrugginite, che ogni anno organizzava una sagra, apogeo della festosità e della ridicolaggine locale. Tanto qui come nei paesi vicini sorgevano case medievali, le facciate a traliccio impeccabili nel loro bianco e nero, le vie lastricate di basalto, graziose e sottili torri-prigione come in Raperonzolo, oppure, nel bosco vicino, un piccolo castello stregato in cui tanto, tanto tempo fa doveva aver vissuto e dormito la bella addormentata. Quel suo paesino dell’Assia del nord era citato nei documenti di un monastero nel ix secolo dopo Cristo, e Annie si chiedeva perché in tutto quel tempo proprio il suo paesello non fosse riuscito a combinare nulla. Berlino era sorta molto più tardi ed era riuscita a diventare capitale. Sotto al bidone della carta all’incrocio col sentiero di campagna c’era regolarmente, protetta dalla pioggia, la «Süddeutsche Zeitung» del giorno precedente, piegata con cura, le pagine nel giusto ordine. Era così che il farmacista del luogo

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lasciava sistematicamente a Annie le sue letture. La via che portava al frutteto era una strada di campagna ma di lusso, insolitamente larga, asfaltata, che dava accesso alla zona industriale in cui, fatta eccezione per un paio di volpi, non si era insediato nessun altro, tanto meno qualche industria. Lotti di terreno inutilizzato erano fiancheggiati da costosi lampioni a energia solare; il nonno di Annie affermava con amarezza di averli dovuti pagare personalmente con le sue tasse: tutti soldi buttati al vento. «Sai che cosa sono io?» imprecava, ingollando un altro goccio di birra dalla bottiglia. «Uno sponsor di questa Repubblica federale, sono, e senza che nessuno mi chieda per che cosa voglio pagare». «Perché? Paghiamo ancora le tasse?» chiese Annie, che sapeva bene com’era messo il bilancio familiare. Il nonno restò zitto. Le cose non andavano per il meglio: o il raccolto era cattivo, oppure il prezzo della frutta crollava. Da anni ormai parecchi contadini lasciavano marcire la frutta sugli alberi, perché non valeva più la pena pagare per farla raccogliere. Alla fine le amarene dell’est Europa erano più economiche, i frutteti nostrani venivano estirpati e la terra del posto si disabituava alla frutticoltura. Questo aveva messo a dura prova la famiglia, e la madre di Annie nel frattempo era diventata una donna visibilmente frustrata. La confusione per il suo nome scoppiava non appena la si chiamava: Nette-Marie*. *Nette significa gentile, n.d.t.

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