IL DECLINO DELL'ECONOMISTA, Gyorgy Dalos

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IL DECLINO DELL’ECONOMISTA Traduzione di Franco Filice

Keller editore



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Adulto è chi ormai piĂš non si porta nĂŠ madre nĂŠ padre chiusi nel cuore‌ ď?Ąď?´ď?´ď?Šď?Źď?Ą ď?Şď&#x;łď?şď?łď?Ľď?Ś



P!"#$ P"%'! 2001



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uo padre morì i primi di ottobre, era un mercoledì. Il giorno precedente aveva avuto un malore dopo il pranzo consumato insieme al figlio, aveva accusato forti dolori alla spalla sinistra e faceva molta fatica a respirare. Gábor Kolozs provò ripetutamente a telefonare allo studio del medico di base della circoscrizione, ma la linea era occupata. Intanto suo padre si era un po’ ripreso, Kolozs decise quindi di aiutarlo a vestirsi e di chiamare un taxi. Chiesero di essere portati nello studio medico. Si erano appena accomodati sulla panca bianca quando il giovane dottore, apparso nel vano della porta, li fece entrare senza dover fare la fila. Auscultò suo padre con lo stetoscopio, gli misurò la pressione arteriosa e domandò se l’anziano signore avesse mai avuto problemi cardiaci. «Sì,» rispose il padre, «ho avuto un infarto nel 1960». «Temo» disse il medico volgendo lo sguardo a Kolozs, «che sia in atto qualcosa di simile. Un rischio che non dobbiamo sottovalutare». Prese all’istante il telefono e compose il numero del pronto soccorso – anche quella linea era occupata. «In questo Paese non funziona più niente» osservò il medico innervosito, e dopo una breve esitazione aggiunse: «Sa cosa facciamo? Prescrivo il ricovero per suo padre, lei chiama un taxi e si fa portare direttamente in ospedale con lui». Anche il numero del taxi era occupato e ogni minuto che trascorreva era un tormento per Kolozs. Riuscì a prendere la linea solo al

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quarto tentativo. Si sedé sul sedile posteriore accanto al padre. «Ti prego, non lasciarmi solo» lo supplicò il vecchio come un bambino. «Certo che no, papà» rispose Kolozs rassicurandolo e prendendogli la mano gelida. «Ti faranno degli accertamenti, poi chiamiamo un taxi e torniamo a casa». Ma le cose presero un’altra piega. L’ evidenziò un infarto posteriore e suo padre fu trasferito subito in terapia intensiva. «Dove potrò pregare qui?» chiese turbato con lo sguardo che vagava inquieto nella corsia. Kolozs andò a casa per prelevare le poche cose di cui aveva bisogno il vecchio, tra cui il tallit e i tefillin per la preghiera del mattino. Ma il malato non ebbe più modo di farne uso. All’alba l’infermiera di turno trovò il dr Dániel Kolozs morto nel suo letto. La stessa mattina alle otto fu consegnato a Kolozs il certificato di avvenuto decesso, oltre al documento d’identità del padre e ai pochi oggetti personali che aveva portato in clinica la sera prima. Trascorse il resto della giornata sbrigando le questioni più urgenti. Come prima cosa prelevò dal bancomat dell’agenzia della Cassa di risparmio  in via Kiraly cinquantamila fiorini per far fronte alle spese necessarie. Alle nove chiamò da casa la Chevra Kadisha per dar corso in tempo utile ai preparativi per il funerale nel rispetto delle norme religiose. Nella città natale di Košice, in Slovacchia, suo padre aveva già provveduto ad acquistare una tomba, di fianco a quella della moglie, tumulata nel cimitero ebraico nel 1988. E in quell’occasione aveva anche saldato il conto per il trasporto del proprio feretro e la sepoltura, quando fosse giunto il momento. A quel punto a Kolozs non restava altro da fare che richiedere all’anagrafe della  circoscrizione il certificato di morte. Esibiti l’attestato di avvenuto decesso e la carta d’identità, gli fu rilasciato immediatamente, in duplice copia, ciascuna munita di un bollo statale del valore di quindici fiorini. Dopo aver saputo che l’ultima dimora del

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defunto sarebbe stata Košice, l’addetta dell’ufficio consigliò a Kolozs di portare con sé, per ogni evenienza, la carta d’identità del padre. «La potrà consegnare in un secondo tempo» precisò. Forse commossa dalla circostanza luttuosa aggiunse: «Non si preoccupi, c’è tempo. Per il suo povero padre ormai è indifferente e lei adesso ha ben altro a cui pensare. Il nostro ufficio provvederà a informare l’istituto previdenziale». Quando Kolozs si presentò presso la Chevra Kadisha con il certificato di morte, questa si era già messa in contatto con la sua consociata di Košice. Il funerale era previsto venerdì alle ore undici. Kolozs corse a casa, era madido di sudore. Appeso alla maniglia della porta in un sacchetto di stoffa trovò il pranzo per il padre, fornito puntualmente e a titolo gratuito in vaschette di plastica monouso dalla cucina della comunità ebraica. La consegna del giorno precedente l’avevano consumata insieme, come quasi ogni giorno, da anni. Dopo essersi fatto la doccia e cambiato i vestiti, Kolozs trangugiò senza appetito qualche pezzetto di polpettone con contorno di fagiolini, prima di precipitarsi di nuovo in strada. Nel pomeriggio si recò presso un’agenzia di viaggi dove prenotò una stanza nella pensione più economica di Košice e alla Stazione Ovest acquistò il biglietto del treno. In uno sportello di cambio all’interno della stazione si procurò anche qualche centinaio di corone slovacche per le spese da affrontare. Infilò in alcune buste piccole somme di denaro destinate agli addetti al lavaggio della salma, all’organista, ai becchini, annotandone accuratamente il rispettivo uso. Dopo l’esperienza del funerale di sua madre aveva ancora memoria delle varie incombenze a cui sarebbe andato incontro. All’epoca, tuttavia, Košice faceva parte della Cecoslovacchia, aveva accompagnato lì suo padre con la propria auto, una Trabant, e avevano pagato con moneta cecoslovacca. Altra moneta, un altro Stato, un altro mezzo di trasporto, un’altra situazione generale – e un altro

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cadavere, pensò Kolozs tra sé e sé mentre saliva con la sua valigetta nella carrozza internazionale dell’eurocity Borsod e, con il biglietto della prenotazione in mano, si avviava nel corridoio alla ricerca del suo scompartimento. Tutti questi fatti si susseguirono a una tale rapidità da indurre Kolozs a preoccuparsi di aver dimenticato qualcosa che avrebbe poi dovuto sbrigare al ritorno. Primo: il lunedì successivo avrebbe consegnato all’anagrafe la carta d’identità di suo padre. Secondo: doveva trovare un modo di avvisare i conoscenti di suo padre dell’avvenuta scomparsa. Forse la cosa più semplice sarebbe stata quella di recarsi presso la comunità circoscrizionale in piazza Bethlen chiedendo di inserire un annuncio listato a lutto nel giornale ebraico. Nell’annuncio si sarebbe potuto scrivere che il medico dr Dániel Kolozs, sopravvissuto all’Olocausto, era passato a miglior vita all’età di novantacinque anni. Terzo: doveva informarne alcuni dei propri amici che conoscevano e rispettavano suo padre. Pensò soprattutto ai suoi ex compagni d’università a Mosca, Feri Túróczi e Laci Bakos. Quarto: doveva parlare con Márta, dalla quale si era separato dopo un breve e tumultuoso matrimonio. Márta adorava suo padre che, a sua volta, le era molto affezionato. A ogni modo lei era una delle poche persone che di tanto in tanto riusciva a sciogliergli la lingua. E, quinto: doveva assolutamente scrivere al dr Freiburger, sebbene non avesse la certezza che fosse ancora in vita. Era lui, infatti, che all’epoca si era prodigato per far sì che la Fondazione svizzera Medici per le vittime riconoscesse a suo padre un vitalizio mensile. Freiburger era di qualche anno più giovane di suo padre, avevano frequentato la stessa scuola, un collega con cui aveva stretto amicizia. Aveva addirittura fatto da testimone di nozze al matrimonio dei genitori. Tuttavia, al contrario di suo padre, non aveva aspettato la disgregazione della Cecoslovac-

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chia, ma era emigrato prima. In Svizzera aveva messo su famiglia, aveva fatto un’ottima carriera come medico e possedeva una villa a Herrliberg. Nel 1992, nel corso di una visita in Ungheria, era rimasto inorridito dall’appartamento in via Klauzál in cui viveva suo padre già vedovo. «Allora, vecchio mio,» aveva detto a suo padre, «dopo tutto quello che hai passato questa situazione non va per niente bene». Poco dopo il suo rientro in Svizzera la posta recapitò un modulo di richiesta in lingua tedesca, da indirizzare alla Fondazione Medici per le vittime, che suo padre doveva solo firmare. All’inizio di gennaio del 1993 arrivò il primo bonifico mensile di trecento franchi svizzeri sul conto corrente dell’anziano uomo presso la . Quella cifra era senza dubbio un sollievo che andava a integrare, raddoppiandola, la modesta pensione del padre di sessantamila fiorini appena sufficiente a sostenere le spese essenziali. In seguito lo stesso Kolozs che, dopo aver perso il lavoro, aveva dovuto lasciare l’appartamento in affitto per tornare nel luogo della sua infanzia, avrebbe avuto modo di beneficiare di quei soldi. Da allora padre e figlio vivevano di quegli introiti così come in passato avevano vissuto dello stipendio del padre e della madre, all’insegna della modestia e della parsimonia. Cambiarono solo i ruoli: Kolozs era diventato il capofamiglia, amministrava il denaro e gestiva la casa, mentre il vecchio padre sdentato faceva la parte del figlio, accudito e tutelato. «Prego, si accomodi, signor Kolozs!» Il rabbino, sulla quarantina, gli indicò la sedia davanti alla scrivania. «Prima di procedere alla sepoltura, dobbiamo chiarire alcuni dettagli». Dalla parlata del rabbino Kolozs capì che non era originario di quella zona. Le frasi erano corrette sotto il profilo sintattico, ma sulle parole rimaneva appiccicato l’accento forestiero di una persona che forse aveva imparato l’ungherese da bambino e da adulto non l’aveva

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