IL MANDARINO MERAVIGLIOSO, ASLI ERDOGAN

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IL MANDARINO MERAVIGLIOSO

Traduzione di Giulia Ansaldo

Keller editore



Il mandarino meraviglioso



nel vuoto dell’occhio perduto

C

on un’occhiata capii che erano turchi. Molto probabilmente erano venuti in questo storico continente francofono dell’Europa centrale per partecipare a una mostra fotografica o a un festival di cinema. I quattro avevano l’aspetto d’artista, ovvero lunghi capelli neri, occhiali, barba e pantaloni di velluto. Erano ubriachi da non reggersi in piedi. Si erano installati in una delle ripide strette strade del vecchio quartiere, di fronte a un locale notturno dove la nuova generazione di punk allungava la notte; con una birra dietro l’altra, confusione ed esuberanze di ogni tipo, avevano occupato letteralmente la strada. L’incuranza data dal trovarsi in un Paese straniero e più libero, congiunta all’alcool, e al fatto di essere lontani tremila chilometri dalla società che li giudica e li obbliga a difendere la propria “immagine”, faceva girare loro la testa. Capirete lo stato in cui erano. Si prendevano gioco di ogni ragazza, e pensando che nessuno potesse comprenderli, osavano in turco indecenze di qualunque genere. Le preoccupazioni artistiche lasciate dietro al tramonto, la notte occupava problemi più essenziali, più esistenziali, in una parola, la sessualità aveva preso il sopravvento. Inseguivano gioie epidermiche, vittorie facili. 9


Li stavo osservando da un po’ per vedere se mi avessero notata, per questo capii subito quando quasi contemporaneamente si accorsero tutti della mia figura nel buio. Un sabato notte, per le salite molto mal illuminate della Città Vecchia, una donna sottile e magra si faceva loro incontro aggirandosi come un fantasma. Nella luce pallida dei lampioni della strada, nonostante non avesse ancora trent’anni, una donna esaurita, un po’ misteriosa, un po’ tragica, una donna stanca. In ogni caso il personaggio di un romanzo. Non riuscivo più a sentire i loro discorsi, istintivamente avevano abbassato il tono della voce, la mia presenza pareva turbarli. In un attimo ero diventata il punto centrale della loro attenzione. Avvicinandosi a me, il quartetto cominciò a separarsi, come un’ameba. Il lampione illuminò improvvisamente il mio volto e mise in evidenza le bende che avevo cercato di nascondere invano nel buio. L’occhio sinistro era interamente assorbito, le bende in mezzo al mio volto aprirono un precipizio profondo… «Ah, guarda l’occhio della ragazza!» «La tipa non ha un occhio, guarda là!» «Che peccato eh!» «Cosa le sarà successo? Tipo un incidente o qualcosa del genere». (Frasi, esclamazioni, considerazioni mal udite…) «Peccato, una bella ragazza però!» Non sono molto sicura di aver sentito quest’ultima frase, forse un dono che il mio ego disgraziato, in carenza di complimenti, ha reso alle mie orecchie. Uno di loro, il più 10


coraggioso, camminava dritto di fronte a me, ma faceva attenzione a non avvicinarsi troppo. Forse il mio occhio storpio poteva saltare fuori come un mostro e contagiarlo con un virus mortale. Con un suono di velluto, in turco, disse: «Buona guarigione». Anch’io risposi nella mia lingua. «Grazie tante». Prima di continuare per la mia strada senza soffermarmi, vidi che dallo stupore aveva lasciato cadere la lattina di birra che teneva in mano. Poco dopo il vento mi trasportò qualche ultima parola in turco. «La tipa ha risposto in turco, no? Ho sentito bene? La ragazza ha parlato turco?»

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Mezzanotte, Città Vecchia di Ginevra: vie lastricate, statue, fontane, luci di lampioni dal vetro giallo-bianco, negozi dalle vetrine illuminate, gallerie… Vecchie cartine, francobolli, libri stampati nell’ultimo secolo, candelabri, lampadari, pianoforti, macchine da scrivere, grammofoni, soprammobili, scatole cinesi, statuette africane, maschere veneziane, Madre Maria e suo figlio in croce, lampade giapponesi, scrittoi, servizi da tè in porcellana, posaceneri d’argento, Buddha obesi, elefanti di cristallo, stoffe indiane… Tra mille e un genere di oggetti capaci di accarezzare la forza dell’immaginazione, neanche uno solo mi ricorda Istanbul, la mia infanzia e la mia indubbiamente triste, sterile e sprecata gioventù. La sola e unica cosa che ritrovo qui, sui marciapiedi, sono gli ippocastani… In autunno, il cortile della scuola elementare di Göztepe, con il suo vecchio chiosco rotto in legno, si riempiva di castagne matte di tutte le dimensioni. Sarà perché mi ci ero identificata che avevo un debole irrazionale per questo frutto spinoso, dal nome assurdo, immangiabile. A dire il vero da quando a cinque anni presi una sgroppata, avevo così tanta paura dei cavalli che non misi mai un’ippo-castagna in bocca. In ogni caso ero una bambinetta, estranea alle nozioni di amore, romanticismo e nostalgia del passato che richiamano agli adulti le foglie cadenti. Comunque sia adesso, quando all’estero nel clima del Nord mi appare davanti una castagna matta, che rotola attaccandosi ai cespugli, piena di sassi e scivola dal versante raggiungendo un fiume, ritorno al mio passato. 12


Da bambina – in realtà è comico sentirlo, ma anch’io un tempo sono stata una bambina – mi domandavo se il mondo apparisse diverso agli occhi castani. I miei occhi sono blu-grigi, piuttosto grigi che blu. Gli eroi dei best seller d’amore e di spionaggio, dallo sguardo duro e penetrante, “che sanno dominarsi”, hanno gli occhi grigi in ogni caso. Statisticamente parlando, anche nei romanzi polizieschi si può forse considerare che gli assassini abbiano in maggioranza gli occhi grigi; il grigio è presentato come il colore del sospetto, del mistero, di un cervello dal pensiero incessantemente mortale. Ormai sono cresciuta abbastanza, almeno da sapere che se vedo il mondo diversamente dagli altri, il motivo non sta nel colore degli occhi. Crescendo si sono trasformati da blu a grigio. Bambina dagli occhi blu, ora una donna dagli occhi di fumo; come quelli degli eroi dei romanzi gialli, soprattutto occhi pieni di dubbio. C’è un altro punto a proposito della mia infanzia che è necessario sottolineare apertamente; ovvero, che già a quell’età mi portavo dietro un barlume di follia. Non sono di quelli che non sopportando le disillusioni del nostro vecchio mondo fertile e complesso si rifugiano nella consolazione durevole dei tormenti della follia, insomma di quelli che diventano folli dopo. La mia follia non potendo essere inserita in categorie di tipo oggettivo o scientifico, non è classificabile. I pazzi aristocratici, prima di vendere la propria follia, fanno ricerche di mercato e di immagine, impazziscono a forza, considerando la follia una condizione essenziale per la creazione… Per quanto mi riguarda, 13


sono tra coloro che non hanno avuto il coraggio di attraversare un campo minato, pur girandoci intorno ogni tanto. La follia non è una storia che racconterò. Non è neanche una storia. Ormai non sono più una bambina, ma non ho ancora imparato come gli occhi degli altri guardino il mondo. Se non che l’occhio destro, l’occhio sano, rispetto ad altri occhi che non hanno perduto il loro pari, è molto più sapiente, espressivo quantomeno, come un vecchio fucile esperto. Si potrebbe persino dire che sia troppo sapiente, si appropria della realtà dell’altro occhio – che è, con un calcolo superficiale, la metà del reale. “Edipo re aveva un occhio di troppo”. Così pare abbia detto Hölderlin quando era ricoverato in un ospedale psichiatrico. Negli ultimi mesi la domanda che mi assilla la mente è questa: Edipo aveva un occhio di troppo, prima o dopo che gli venisse trafitto? Non posso commentare questa misteriosa, eccezionale frase di Hölderlin, certo, ma posso riconoscere che il mio occhio perduto, l’occhio sinistro, ha risolto l’indovinello senza l’aiuto dei miti, della memoria o dell’intelligenza, ha scoperto il segreto da solo. “L’amore ha un occhio di troppo” dice il Mahâbhârata. “L’amore ha un occhio di troppo”.

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