Febbre bianca. Un viaggio nel cuore ghiacciato della Siberia

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Jacek Hugo-Bader

FEBBRE BIANCA Traduzione di Marzena Borejczuk

Keller editore


La presente è una mappa anglosassone e la traslitterazione dei nomi delle località può essere diversa da quella utilizzata nel volume.



Chin Li. Il cinese girovago nei pressi di Novosibirsk


Con il cofano contro vento

P

regavo soltanto di non rimanere in panne di notte in piena taiga e di non incappare nei banditi. Alla prima di queste disgrazie ero preparato, alla seconda: no. Probabilmente ero l’unico matto che viaggiava non armato, e oltretutto in solitaria, attraverso quello spaventoso oceano di terraferma. Lo sport prediletto dagli abitanti del posto è il tiro a segno. Guidano normalmente, cioè tenendosi sul lato destro della carreggiata, ma siccome girano su macchine giapponesi, hanno sulla destra anche il volante. Lo impugnano con la sinistra, in modo da poter allungare agevolmente il braccio destro fuori dal finestrino e scaricare raffiche di colpi contro cartelli stradali, manifesti pubblicitari e targhe informative, senza neppure prendersi la briga di rallentare. Nella Siberia orientale non vidi un solo segnale stradale che non fosse bucherellato come uno scolapasta. Si riconoscono proiettili di piccolo e grosso calibro, spari singoli e lunghe sventagliate, talvolta squarci enormi da cannoni a pallini. Ogni qualche decina di chilometri si incontrano carcasse di macchine bruciate. Di certo si sono rotte d’inverno, per di più di notte, e i disperati proprietari le hanno incendiate per scaldarsi. Ma è poco probabile che questo abbia permesso loro di sopravvivere.

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la notte Dilettanti! Prima di mettersi in strada avrebbero dovuto informarsi su come affrontare la notte invernale nella taiga. Io metto sempre la macchina con il cofano contro vento. Per ogni evenienza. Altrimenti le folate d’aria potrebbero convogliare i velenosi gas di scarico all’interno dell’abitacolo. Per tenere il riscaldamento acceso lascio girare il motore al minimo. Consuma poco, circa un litro all’ora, quindi non c’è rischio che rimanga a corto di carburante, e comunque ho almeno mezzo serbatoio pieno. Questo è il più sacrosanto di tutti i principi quando si viaggia d’inverno in Siberia: fare il rifornimento tanto spesso da avere sempre almeno mezzo serbatoio pieno. Tuttavia, prima di mettermi a dormire, spengo il motore. Non vale la pena rischiare. Se di notte il vento dovesse cambiare direzione, potrei non svegliarmi più. Però metto la sveglia sul cellulare. Ogni due ore balzo su, avvio il motore e lo lascio girare per dieci, quindici minuti. Non è tanto per scaldare l’abitacolo, quanto il motore e la coppa dell’olio. Ma anche per dare una ricaricata alla batteria. Senza tutte queste manovre, già con trenta gradi sotto zero non c’è la minima speranza che la mattina dopo la macchina vada in moto, perché l’olio diventa denso come plastilina. Una volta mi sono trovato a doverne aggiungere un po’ a quella temperatura, e già che c’ero ho pensato di rabboccare il liquido dei freni e quello del servosterzo, ma erano diventati talmente densi che non sono riuscito a farli uscire dai contenitori. Ma poniamo il caso che il telefonino si scarichi e non ci si svegli prima del mattino. Non resta che accendere un fuoco.

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Nessuno sano di mente si metterebbe in viaggio attraverso la Siberia senza portare con sé un’ascia. Spaccheresti la legna che c’è lì intorno e faresti un falò. Tuttavia non riusciresti ad accenderlo neanche cospargendolo di benzina, perché c’è un vento spaventoso e tutto è incrostato di neve. Io sono preparato anche a questa evenienza: mi porto dietro una tanica con la miscela di olio e benzina in parti uguali. Una mistura del genere infiammerebbe persino la legna bagnata. Mettiamo però il caso che resti bloccato non nella taiga, ma nelle steppe dell’oltre Bajkal, dove non si trova neanche l’ombra di un ramoscello da ardere. Io, per prevenire questa emergenza, trasporto dall’Europa in Siberia una scatola di cartone piena di legna. Non per darmi una scaldata alle mani, è chiaro. Una volta acceso, bisogna raccogliere il falò con un badile (arnese tanto importante quanto l’ascia) e introdurlo sotto la macchina in modo che scaldi il motore, ma soprattutto la coppa dell’olio. In alternativa si può usare un bruciatore a petrolio. È un aggeggio molto semplice, simile a un piccolo lanciafiamme. L’ho comprato in un ferramenta per seicento rubli (15 euro*). Ma supponiamo che il gelo sia talmente forte, e tu dorma così a lungo che la batteria si scarichi completamente. Io ne ho un’altra. La trasporto nella cabina che è senza dubbio più calda del bagagliaio. Non devo nemmeno spostarla, perché la tengo collegata con dei cavi alla prima. Mi basta girare il commutatore. Ma mettiamo ancora il caso che si guasti il motore che ti tiene al caldo. Devi riuscire a resistere almeno fino al mattino dopo. È vero che tra i siberiani gira il detto che nella taiga non * Il cambio in euro è a scopo indicativo e si riferisce al momento di traduzione del volume in lingua italiana. n.d.r.

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si lascia solo nemmeno il peggiore nemico, ma questa massima non si applica né alla circolazione stradale né alla notte. Con il buio il traffico diminuisce in modo sensibile, anche se non si arresta del tutto, ma non c’è forza che possa costringere il guidatore russo a fermarsi dopo il tramonto. Hanno tutti il terrore dei banditi. La soluzione migliore sarebbe un vebasto, cioè un apparecchio di riscaldamento autonomo azionato da un piccolo motore a scoppio, che funziona indipendentemente dalla macchina. Costa mille euro, perciò ho deciso di farne a meno e ho ripiegato su un piccolo fornello da campeggio che accendo nella cabina e spengo prima di addormentarmi per non consumare troppo gas. Durante la notte mi scaldano una o due candele piazzate sul pavimento. La più bassa temperatura esterna con cui ho passato la notte in macchina aveva toccato all’alba i trentasei gradi sotto zero, ma nella cabina ce n’erano soltanto meno quindici. Naturalmente possiedo un magnifico sacco a pelo e un giaccone, e porto sempre con me viveri sufficienti per alcuni giorni. il sogno Correva marzo 1957 – poteva essere il sabato 9, perché le riunioni settimanali si tenevano di sabato, all’una di pomeriggio – quando il caporedattore di «Komsomól’skaja Pravda» affidò a due reporter della redazione scientifica un incarico inconsueto. (Lo stesso giorno e alla stessa ora, sul pavimento di legno tirato a lucido, a metà strada tra la cucina e la stanza da letto dell’appartamento di mia nonna in via Warszawska 62 a Sochaczew, venni inaspettatamente al mondo).

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«Dobbiamo raccontare ai nostri lettori il futuro» annunciò il caporedattore. «Descrivete la vita nell’Unione Sovietica tra, diciamo, una cinquantina di anni, nel novantesimo anniversario della Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre». Vale a dire nel 2007. Il libro di Michail Vasil’ev e Sergej Guščev, giornalisti di «Komsomól’skaja Pravda», s’intitola Reportage dal Ventunesimo secolo. Gli autori immaginarono che nella vita quotidiana del futuro avremmo usato cervelli elettronici (oggi si chiamano computer), stazioni ricetrasmittenti in miniatura (cellulari), la bibliotrasmissione (Internet), che avremmo aperto le nostre automobili da lontano (e quindi col telecomando), scattato fotografie con macchinette elettriche (digitali) e guardato la televisione satellitare su schermi piatti. Prefigurarono tutto questo all’epoca in cui nella casa dove venni al mondo non c’erano un televisore in bianco e nero, un gabinetto e nemmeno un telefono per chiamare il medico. Vasil’ev e Guščev trascorsero molto tempo nei laboratori dell’Accademia Sovietica delle Scienze, dopodiché si proiettarono con la mente nel futuro e si avviarono a bordo di uno splendido aviogetto verso la Siberia del 2007. Decisi di farmi un regalo per il mio cinquantesimo compleanno e di attraversare tutta la Russia, da Mosca a Vladivostok, in compagnia di questo libro. Ma non avrebbe avuto senso andarci in aereo come fecero gli autori del Reportage dal Ventunesimo secolo. In treno, d’altro canto, ci avevo già viaggiato varie volte. Dio santissimo! Ecco un’occasione impareggiabile per ripetere l’impresa di Kowalski! L’ultimo eroe sulla faccia di questo pianeta, un guerriero meccanico, un semidio, un cavaliere solitario per cui la velocità significava libertà. Così ve-

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niva descritto nel famoso road movie americano Punto zero, divenuto negli anni Settanta uno dei manifesti ribelli della mia generazione. Finalmente mi capitava l’occasione giusta per realizzare il sogno giovanile e scavalcare come Kowalski in solitaria e al volante di una macchina un intero continente. Solo che il mio era due volte e mezzo più grande dell’America, dopo Čita la strada asfaltata finiva, e io mi ero messo in testa di andarci d’inverno. Dovevo assolutamente assaggiare l’inverno in Siberia. «D’invernoooooo?! Se non torni per Natale, puoi anche non tornare più» minacciò mia moglie e sapevo che non scherzava. Mannaggia! Significava dover fare in fretta. Proprio come Kowalski! Con la differenza che io dovevo correre per via del Natale, mentre lui per una dose di speed che aveva scommesso con uno spacciatore. E non dimentichiamo che guidava una Dodge Challenger del 1970 con motore 440 in grado di viaggiare a 250 km/h. Lui. lo sponsor Tutti i viaggiatori hanno avuto problemi con gli sponsor, e quelli del calibro di Colombo, Amundsen, Livingstone o Nansen non fanno eccezione. Il mio caporedattore disse senza mezzi termini che non mi avrebbe mandato all’estero per tutti quei mesi, perché avrei prosciugato le risorse per le diarie dell’intera redazione. Mi diedi quindi da fare. Telefonai personalmente ai direttori marketing delle concessionarie polacche di case automobilistiche che figuravano nell’elenco telefonico, e spedii a ognuno una proposta scritta di collaborazione. Mi servivano

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i soldi e una macchina. Argomentai che se fosse tornata intera da una traversata invernale del continente eurasiatico, da Varsavia a Vladivostok lungo tutta la Russia, sarebbe stata la migliore pubblicità che la loro macchina potesse mai avere. Nessuna concessionaria delle automobili asiatiche (Toyota, Nissan, Honda, Hyundai, Suzuki, Subaru, Mitsubishi, kia) si degnò di rispondermi. E così pure la Volvo. La Fiat, la Ford e le marche francesi non le avevo neanche considerate, perché mio fratello che si intende di macchine era stato categorico: non mi avrebbe mai lasciato partire con un mezzo che iniziava con la “f”. La bmw, la Mercedes e la Land Rover risposero di non avere “risorse automobilistiche disponibili”. La Jeep si dichiarò pronta a darmi una macchina, ma non i soldi. L’unica che accettò tutte le mie condizioni fu la Kulczyk Tradex, una ditta importatrice di Audi, Volkswagen e Porsche. Mi offrirono l’Audi q7, un fuoristrada potente e sfarzoso. Trazione integrale, motore a benzina 4,2 litri, 350 cv, 0-100 km in 7 secondi, velocità massima 240 km/h. Ben due tonnellate e mezzo di lusso borghese venduto per la modica cifra di trecentocinquantamila zloty (85000 euro). Con gli occhi dell’immaginazione mi vidi approdare davanti al chioschetto di birra nel kolchoz degradato di Miečta Iljič e scambiare due chiacchiere sulla vita con i contadini del posto. L’inverno era ormai alle porte e io continuavo a rimandare la firma del contratto con lo sponsor. Tutta la filosofia del mio lavoro di giornalista è riassumibile in una parola: mimetizzarsi. Mimetizzarsi significa confondersi con lo sfondo, non farsi notare, non distinguersi, passare inosservato. È un sistema sicuro, perché non mi espone al rischio di attirare l’attenzione dei cattivi. Ma sbarcando nel kolchoz Miečta

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Iljič al volante di un’Audi q7 avrei dato nell’occhio quanto e più di un marziano. Chiamai lo sponsor e gli dissi che accettavo i soldi, ma che non avevo più bisogno della macchina. A quel punto le nostre strade si divisero. Disperato, mi precipitai dalla direzione del giornale. Sbattei la mappa sul tavolo, misi in chiaro i miei sogni e dichiarai che avevo appena divorziato dal dottor Kulczyk, e se quei soldi non me li avessero dati loro, li avrei chiesti a mia moglie (perché nella nostra famiglia è lei che tiene i cordoni della borsa), ma sarebbe stata una vergogna per un giornale di spicco come la «Gazeta Wyborcza» farsi sponsorizzare da una povera donna. Me li diedero. Ma per la macchina non bastarono, e così mia moglie dovette sganciare comunque venticinquemila zloty (6.000 euro). Decisi di comprare a Mosca un’auto di produzione russa con targa locale, così avrei potuto raggiungere l’Oceano Pacifico senza dare nell’occhio. Le uniche macchine russe con quattro ruote motrici sono la Lada Niva (ma gli intenditori del posto mi dissero che al di là degli Urali nessuno sapeva ripararla), e la Lazik, un fuoristrada robusto che anche un conducente di trattori del kolchoz sarebbe stato capace di aggiustare con una martellata, pare infatti che sia l’automobile meno complicata del mondo. la kruzak La uaz-469 (uaz è l’acronimo di Ul’janovskij Avtomobil’nyj Zavod, la Fabbrica di Automobili di Ul’janovsk) che avevo deciso di comprare è conosciuta come la “jeep sovietica”, o la “kruzak russa” (il termine krusak deriva dalla Land Crui-

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ser giapponese e da queste parti viene usato come sinonimo di fuoristrada). Ma in genere viene chiamata semplicemente “Ulaz”, oppure “Lazik”, che significa giramondo, perché è in grado di arrivare dovunque. È un modello che viene prodotto in forma invariata dal 1972. Ma non è niente. Le catene di montaggio di Ul’janovsk continuano a sfornate un microbus da fuori strada – soprannominato nella Russia europea buchanka, “filone di pane”, per via della sua sagoma oblunga, e al di là degli Urali: tabletka, “pastiglia” – che dal 1958 non è cambiato di una virgola. Entrambi i modelli pesano due tonnellate e mezza, hanno un motore a benzina da 2,4 litri, trasmissione a quattro velocità e una potenza di soli 72 cavalli. Le Lazik venivano esportate in ottanta paesi per lo più del Terzo Mondo. In Polonia ancora oggi ne sono immatricolate diciassettemila che ricordano i tempi del Patto di Varsavia e del comecon (il Consiglio per la Mutua Assistenza Economica). Negli anni Settanta i russi avevano attraversato con queste macchine il Sahara e risalito il ghiacciaio dell’Elbrus fino a 4200 metri. Attualmente sulle strade russe ne circolano due milioni. «Ti piacciono i lavori manuali?» fu la domanda di Griša quando gli chiesi di aiutarmi a comprarne una. «Li detesto» risposi sinceramente. «Te li farai piacere». Avevo trovato Griša su Internet. È membro del club degli appassionati delle Ulaz. Quattro dei suoi colleghi avevano pagato questa passione con la vita, perché si erano messi a dormire in macchina lasciando il motore acceso. In uno dei sobborghi di Mosca Griša gestisce una minuscola officina per i membri del club. È molto difficile trovare a Mosca una Lazik in buone condi-

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