EDUARD MARQUEZ, L'ultimo giorno prima domani

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eduard márquez

L’ULTIMO GIORNO PRIMA DI DOMANI Traduzione di Beatrice Parisi

Keller editore



Per テ]gel Seral



Una cosa però l’aveva vista: quanto gli uomini possano essere vicini al disastro pur sembrando perfettamente al sicuro. Aveva visto certe situazioni cambiare, una disgrazia dopo l’altra. Poteva accadere senza preavviso. A volte la gente riusciva a salvarsi, ma da un certo punto in poi non ne era piĂš in grado. A volte rifletteva su se stesso: quando fosse scoppiato il temporale e le travi avessero cominciato a cedere e a crollare, che cosa sarebbe successo? james salter



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grammi. Ripongo le ceneri nell’urna. La chiudo e inspiro profondamente. Faccio i conti. 2 chili e 760 grammi meno di quando era nata. Con gli occhi già aperti. Molto aperti. Uno sguardo così commovente che mi era venuto un nodo in gola. Il riso di Nora, con le lacrime che le rigano le guance, si confonde col primo pianto di Jana. La levatrice la avvolge in un asciugamano. La puliamo un po’ e ve la riportiamo. Ci vorrà un attimo. 623 grammi. Rimetto la bilancia nel pensile della cucina e mi accorgo che ho lasciato fuori dall’urna la custodia con la pietra che conferma che le ceneri di Jana sono proprio le ceneri di Jana. Darei qualsiasi cosa perché non fosse così, ma come al solito è troppo tardi. Estraggo la pietra dalla custodia e me la metto in tasca. A forma di disco. Di un bianco offuscato dalle fiamme. Esco in terrazzo. L’acqua della baia scintilla. Si sente solo il rumore delle onde e il martellio incessante delle drizze. Freddo. La tramontana ha spazzato via tutte le nuvole. 13


Il cielo è azzurro. Denso. La puliamo un po’ e ve la riportiamo. Ci vorrà un attimo. No. Questa volta non ci vorrà un attimo. Accarezzo la pietra e passo la punta del dito sulle iniziali di Jana. Il rilievo delle lettere si avverte appena. Ruvida al tatto. Mentre guidavo per venire qui, con l’urna sul sedile del passeggero, continuavo istintivamente a cercare Jana nel retrovisore. Ma, ogni volta, i miei occhi trovavano solo il seggiolino vuoto. C’era stato un periodo, quando era più piccola, in cui era convinta, perché così le avevamo fatto credere, di poter aprire e chiudere i finestrini della macchina toccandosi la punta del naso. Quindi noi dovevamo semplicemente stare attenti a premere il pulsante al momento giusto. In genere era facile. Ogni tanto, però, lo faceva di nascosto. Come se, diffidente, volesse metterci alla prova. Ma Nora la scopriva sempre. E allora il sorriso complice che mi rivolgeva sarebbe stato un motivo sufficiente per fermare la macchina e abbracciarla stretta stretta. Così come, se fosse possibile, mi piacerebbe abbracciarla domani mattina, quando verrà per disperdere in mare le ceneri di Jana. Ma non potrò. Non più. La spiaggia è vuota. Mi tiro su il bavero del cappotto. Piango.

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Roberto si siede vicino a me. Abbiamo otto anni ed è il primo giorno del secondo anno di egb*. Lo guardo e non riesco a staccare gli occhi dal suo naso. Grande. Eccessivamente grande in mezzo a un viso magro, con le sopracciglia molto folte e la pelle scura. Con la stessa paura che mi ha fatto vomitare il latte della colazione a qualche isolato dalla scuola, constato che, nello spazio ridotto di un unico banco, il caso ha riunito abbastanza elementi di presa in giro da consentire al resto dei compagni di classe di stare tranquilli. Perché le mie orecchie grandi, eccessivamente grandi ai lati di una testa troppo piccola e con i capelli quasi rapati a zero, sono il complemento perfetto del suo naso. Roberto non resta in silenzio a lungo. Che stronzata! Che cosa? Il discorso di benvenuto... Sì. In piedi nel cortile, in fila per due e dopo aver segnato la distanza con il braccio teso, ci siamo sorbiti l’arringa dell’hermano prefecto** su Dio, sul peccato, sulla disciplina, sull’importanza della famiglia e sulle virtù cristiane di san Giovanni Battista de La Salle. Finito il sermone, abbiamo seguito l’hermano Barto* Educación General Básica, cioè la scuola primaria dell’obbligo. [N.d.T.] ** Fratello prefetto. Nel testo originale catalano i dialoghi con i professori sono in spagnolo, che nella Catalogna di allora era la lingua obbligatoria nell’insegnamento come in tutte le istituzioni pubbliche. [N.d.T.]

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lomé su per le scale fino alla porta dell’aula, dove si è fermato in mezzo al passaggio, ossuto e con le mani dietro la schiena, per costringerci a entrare uno alla volta. Roberto comincia a tirare fuori i libri dalla cartella. E che ridicolo quel bavaglino sulla tonaca. Sì, abbastanza. L’hermano Bartolomé si chiude la porta alle spalle e scrocchia le dita con una potenza che ci lascia ammutoliti. Roberto mi guarda e sbuffa. L’odore di caffellatte mi rivolta lo stomaco. Francesca e Roberto mi aspettano al bar dell’università. Esco dall’aula, attraverso il cortile di Lettere e scendo le scale. Fumo. Rumore di bicchieri e di piatti. Voci. Ordino una Voll-Damm al banco e mi avvicino al tavolo. Francesca si alza e mi dà due baci. Finalmente. Era ora che ci conoscessimo. Roberto mi ha parlato di lei per mesi, con un entusiasmo che non gli avevo mai visto. Ora che le sto così vicino lo capisco. Sì, era proprio ora. Gli occhi chiari. I capelli raccolti in una grossa treccia. Il viso rotondo e pallido. Le labbra carnose. Inconsapevolmente trascinante. Poso la cartella e i libri su una sedia e bevo un sorso di

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