HERTA MÜLLER
IL RE S’INCHINA E UCCIDE Traduzione di Fabrizio Cambi
Keller editore
In ogni lingua dimorano altri occhi
ella lingua di paese – così mi sembrava da bambina – tutte le persone che mi stavano intorno riferivano le parole direttamente alle cose che intendevano indicare. Le cose si chiamavano così com’erano ed erano proprio così come si chiamavano. Un accordo stipulato in eterno. Per la maggior parte della gente non si aprivano varchi fra la parola e l’oggetto attraverso cui dover fissare lo sguardo nel nulla come se dalla propria pelle si scivolasse nel vuoto. I movimenti quotidiani delle mani erano istintivi, era un lavoro svolto in silenzio, la testa non accompagnava il movimento delle mani, né seguiva i loro spostamenti. La testa serviva a portare gli occhi e gli orecchi che occorrevano per lavorare. L’espressione: “Quello porta la testa sulle spalle giusto perché non gli piova sul collo”, questo detto potevano metterlo in pratica tutti, ogni giorno. Oppure no? Perché mia nonna, quando fuori d’inverno non c’era nulla da fare e non c’era giorno che mio padre non fosse ubriaco fradicio, consigliava a mia madre: “Se pensi di non farcela, riordina l’armadio”. Tenere ferma la testa mettendosi a sistemare la biancheria. Mia madre dove-
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va piegare di nuovo le sue camicette e le camicie di lui, le calze sue e i calzini di lui, le sue sottane e i calzoni di lui per poi disporre i capi uno sull’altro o appenderli. Gli abiti di entrambi, così rinfrescati avrebbero dovuto impedire che lui, alcolizzato, mandasse all’aria il matrimonio. Le parole accompagnavano il lavoro solo quando più persone facevano qualcosa insieme e uno aveva bisogno del movimento dell’altro. Ma anche in questo caso non sempre. Il lavoro pesante come trasportare sacchi, vangare, zappare, falciare era una scuola del silenzio. Il corpo era troppo occupato per dar fondo alle proprie forze parlando. Venti, trenta persone potevano stare in silenzio per ore. A volte pensavo che stando a osservarle mi sarei resa conto di come possa accadere che non si sappia più parlare. Dopo aver finito di sfacchinare non verrà più in mente una parola. La parola non deve raddoppiare la fatica di quel che si fa. Le parole disturbano i movimenti, sono un intralcio vero e proprio per il corpo – queste erano tutte cose che sapevo. Ma la discrepanza fra l’esterno in cui si muovevano le mani e l’interno dove agiva la testa, il sapere che ora pensi qualcosa che non ti compete, di cui nessuno ti ritiene capace, era una cosa un po’ diversa. Questo succedeva solo quando ti prendeva la paura. Non avevo più paura di altri, ma come loro avevo forse
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anche i tanti motivi privi di fondamento per avere paura – motivi costruiti, concepiti nella mente. Ma questa paura immaginata non è solo frutto di fantasia, esiste quando la si deve affrontare perché essa è reale tanto quanto la paura che ha le sue cause all’esterno. Proprio perché è costruita nella testa, si potrebbe definire anche una paura panica. Panica, perché non conosce cause precise né rimedi. Emil M. Cioran diceva che i momenti di panico ci avvicinano più di ogni altro all’esistenza. La ricerca improvvisa del senso, la febbre nervosa, i brividi dell’anima alla domanda: che valore ha la mia vita. Questa domanda si abbatteva imperiosamente sul quotidiano, baluginava dai momenti del tutto “normali”. Io non mi trovavo a soffrire la fame né ad andare a piedi nudi, la sera mi addormentavo nelle lenzuola lavate di fresco e fragranti di stiratura. Prima di spegnere la luce mi cantavano: “Prima di riposare, / a Te, oh Signore, innalzo il mio cuore”. Ma poi la stufa di ceramica accanto al letto si trasformava in una torre idraulica come quella ai margini del paese, ricoperta di piante rampicanti. Allora non conoscevo ancora la bella poesia di Helga M. Novak “Trascolora il verde abbarbicato alla torre d’acqua quando avvizzisce come il labbro dei soldati”. La preghiera, che avrebbe dovuto calmarmi e farmi subito dormire, provocava l’effetto contrario di mettermi in agitazione. Anche in seguito e fino a oggi non
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ho mai capito come la fede possa sedare la paura degli uomini assicurando equilibrio negli altri e facendo tacere i pensieri nella testa. Perché ogni preghiera recitata tanto spesso meccanicamente diventava un paradigma. Esigeva che interpretassi la mia condizione. Il posto dei piedi è sul terreno, un po’ più in alto stanno la pancia, le costole, la testa. Nel punto più in alto i capelli. E come si alza il cuore verso Dio attraverso i capelli oltre il soffitto spesso della stanza. Per quale motivo una nonna mi canta quei versi se lei stessa non può fare ciò che chiedono. La pianta rampicante si chiama in dialetto grappoli d’uva perché le sue bacche nere colorano le mani di macchie che penetrano nella pelle per molti giorni. La torre idraulica accanto al letto, i suoi grappoli neri di tinta, come deve essere il sonno profondo. Sapevo che addormentarsi significava farsi annegare nella tinta. Ma sapevo anche che chi non è capace di dormire ha la coscienza sporca, un brutto carico che gli grava nel cervello. Dunque ce l’avevo, solo non sapevo perché. Anche nella notte di paese, fuori, c’era la tinta. La torre aveva il controllo sulla regione, trascinava via la terra e il cielo e tutti in paese avevano nella tinta un minuscolo luogo sicuro dove ritrovarsi. Da tutte le direzioni gracidavano le rane, impazzavano i grilli mostrando la via sotto la terra. E rinchiudevano il paese nell’eco di una cas-
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sa, così che nessuno poteva scamparla. Come tutti gli altri ragazzi, portavano anche me dai morti. Le salme erano esposte nella stanza più bella delle loro case. Si andava a far loro visita un’ultima volta prima che fossero portati al cimitero. Le bare erano aperte, i piedi con le suole delle scarpe in posizione più alta, rivolti alla porta. Entrando dalla porta e passando davanti ai piedi si faceva un giro intorno alla bara e si dava un’occhiata ai morti. Le rane e i grilli erano il personale al loro fianco. Di notte dicevano ai vivi una qualche verità che doveva confondere la testa. Per capire quel che dicevano trattenevo il respiro finché potevo. Ma poi, presa dal panico, boccheggiavo. Volevo capire ma non perdere la testa senza possibilità di ritorno. Chi capisce per una volta la verità, viene afferrato per i piedi, va via dalla terra, pensavo. La sensazione di essere in quel paesucolo preda del pastone di quella terra era la stessa che mi coglieva quando nelle accecanti giornate di canicola nella vallata percorsa dal fiume dovevo fare la guardia alle mucche. Non avevo orologio, il passaggio dei treni diretti in città era il mio orologio. Attraversavano la valle quattro treni al giorno, solo dopo il quarto potevo mettermi sulla via del ritorno. Ed erano le otto di sera. E anche il cielo cominciava a divorare l’erba e prendeva con sé la valle. Mi affrettavo ad andarmene prima che accadesse. Durante quelle lunghe giornate in una gran-
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de vallata immersa in un verde sfacciato, quante volte mi sono chiesta che valore avesse la mia vita. Mi davo pizzicotti per capire dalle chiazze che si formavano sulla pelle di quale materia fossero fatte le gambe e le braccia e quando Dio ne avrebbe voluto la restituzione. Mangiavo foglie e fiori perché mi si legassero alla lingua. Volevo essere simile a loro perché sapevano come si vive e io no. Li chiamavo con i loro nomi. Cardo da latte avrebbe dovuto essere veramente la pianta spinosa con il latte negli steli. Ma quel nome non andava bene alla pianta perché non prestava ascolto. Provai con nomi inventati: costola di spine, collo d’ago in cui non comparivano né latte né cardo. Nell’inganno di tutti quei falsi nomi, davanti alla pianta vera si schiudeva il varco nel vuoto. La vergogna di parlare ad alta voce da sola con me stessa e non con la pianta. I finestrini dei quattro treni che passavano erano aperti, i passeggeri erano in maniche corte, io mandavo cenni di saluto. Mi avvicinavo quanto più possibile ai binari per scorgere qualcosa dei loro volti. Sul treno c’era la gente pulita di città, parecchie signore sfoggiavano gioielli scintillanti e unghie smaltate di rosso. Il vestito che si era alzato svolazzando al passaggio del treno mi si era appiccicato di nuovo addosso, sentivo la testa annebbiata dal vento contrario cessato all’improvviso, come dopo l’atterraggio da una giostra in corsa rivedevo le cose con equili-
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brio e gli occhi mi facevano male. Le pupille un po’ staccate dalla fronte, raffreddate dal vortice d’aria, erano troppo grandi per le orbite. Il respiro si era fatto debole, la pelle delle braccia e delle gambe era sporca, graffiata, le unghie erano verdi e marroni. Dopo ogni passaggio di un treno mi sentivo abbandonata, provavo disgusto per me stessa e mi guardavo ancora con più attenzione. Allora il cielo sulla vallata diventava un grande spazio di sudiciume azzurro e il pascolo uno spazio di sudiciume verde altrettanto grande con me nel mezzo, un piccolo essere sudicio che non contava niente. La parola solitario non c’è in dialetto, esiste esclusivamente l’aggettivo solo. E si pronunciava alleenig e suonava wenig – e così era in realtà. Era così anche nei campi di granturco. Pannocchie con capelli di vecchio, ci si potevano fare delle trecce, denti gialli e spezzati, i chicchi di mais. Il corpo frusciava poco, quanto il vento vuoto nella polvere. Il collo disseccato dalla sete, in alto un sole estraneo come un vassoio che persone distinte portano a un ospite con sopra un bicchiere d’acqua. Ancora oggi i grandi campi di granturco mi rendono triste, e ovunque vada, quando vi passo accanto in treno o in auto, chiudo gli occhi, perché mi afferra la paura che i campi di mais girino a perpendicolo intorno alla terra. Odiavo la monotonia di quei campi, che divorano
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