L'INDOMITO PAPPAGALLO, Andrei Kurkov

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andrei kurkov

L’INDOMITO PAPPAGALLO Traduzione di Rosa Mauro

Keller editore


Titolo originale: Sud’ba popugaja Traduzione dal russo: Rosa Mauro © Andrei Kurkov, 2000 © Ast, Folio Edition, 2000 immagini utilizzate nella composizione della copertina © Eugene Zagatin, Artem Musaev, Dimonika, Daseugen, Vectorstockstoker | shutterstock progetto grafico keller editore © 2016 Keller editore via della Roggia, 26 38068 Rovereto (Tn) t|f 0464 423691 www.kellereditore.it redazione@kellereditore.it prima edizione, novembre duemilasedici


L’indomito pappagallo



Capitolo 1

S

in dal primo mattino soffiava un vento forte, e sulla strada per l’aerodromo Dobrynin dubitava che sarebbero riusciti a decollare da Mosca. «Come, non le hanno dato le ferie?» si stupì Viktor Stepanovič, seduto accanto a lui. «Male, molto male… con un lavoro di tale responsabilità…» Dobrynin si strinse nelle spalle. Non si sentiva stanco, anche se, a dire il vero, non gli sarebbe dispiaciuto schiacciare un sonnellino: la moglie di servizio, Marija Ignat’evna, non gli aveva fatto chiudere occhio, tutta la notte ad abbracciarlo, baciarlo… Ormai avevano oltrepassato la città. Su un lato della strada si allungava una recinzione grigia, oltre la quale svettavano i blocchi di qualche fabbrica. Alla fine giunsero al casotto a strisce bianche e rosse, con la manica a vento e alcune antenne sul tetto. L’aerodromo era immerso nel silenzio. Dobrynin riconobbe subito il suo bombardiere. Quando entrò nel casotto, il pilota si alzò dal tavolo con un sorriso gioioso. «Salve!» lo salutò, tendendogli la mano. «Allora? Si torna indietro?» Dobrynin annuì. Alla vista del pilota militare entusiasta della vita gli tornò il buonumore. Gli era passata la voglia di dormire, sostituita dalla smania d’impegnarsi in qualcosa.

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«Tè?» propose il pilota. «Sì» accettò, prendendo posto al tavolo. «Be’ allora io vado…» proferì Viktor Stepanovič, fermo sulla soglia. «Ho un sacco di cose da sbrigare… Insomma, ci vediamo!» Dobrynin gettò un’occhiata nella propria bisaccia con la fastidiosa sensazione di essersi scordato qualcosa. Si concentrò. Quanto avrebbe pagato per la strana apparecchiatura del Cremlino in grado di farti ricordare persino quello che ignoravi! Dalla rabbia si diede una manata sulla fronte e all’istante gli tornò in mente di aver promesso al comandante Ivaščukin di portargli qualcosa per accompagnare il tè. Si intristì, visto che non aveva comprato niente né aveva messo piede nel negozio di alimentari. Un’auto nera si fermò davanti al casotto. “Sarà Viktor Stepanovič che ritorna?” pensò. La porta si aprì. «Meno male che ho fatto in tempo!» risuonò una voce familiare. Dobrynin sollevò la testa e vide Volčanov con un sorriso a trentadue denti. Il luogotenente anziano si avvicinò al tavolo e occupò la sedia libera tra il controllore del popolo e il pilota. Poggiata la cartella sulle ginocchia, si servì da solo il tè. «Come va la salute?» s’interessò Dobrynin. «Già meglio» rispose quello. «Stanotte mi sono fatto addirittura una bella dormita. Fortuna che mi sono ricordato!» disse e ficcò la mano dentro la cartella. «Questo è per te, per il viaggio…» E sul tavolo comparvero tre pacchetti di biscotti Oktjabr’ e un cartoccio.

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«Qua dentro ci sono dei panini» spiegò, accennando all’involucro di carta. «Il volo sarà lungo. E c’è pure una cosa da parte del compagno Tverin!» Il controllore del popolo prese dalle mani di Volčanov il libro, Ai bambini su Lenin, volume secondo. Lo aprì. Nel risguardo vide la dedica: “Al caro compagno Dobrynin dal compagno Tverin”. Provò un senso di calore e di pace. «Anch’io ho fatto incetta di libri!» s’intromise all’improvviso il pilota e indicò con un gesto l’angolo della stanzetta dove c’erano tre grandi pacchi di libri legati con lo spago. «Che libri sono?» domandò Volčanov, incuriosito. «Poesie per lo più…» rispose quello. «Al nostro comandante piacciono molto, e pure a me. Diciamo che da noi siamo tutti appassionati. Certe volte organizziamo delle serate poetiche e le leggiamo ad alta voce». «È una bella cosa!» approvò Volčanov. «Anch’io a casa ho messo su una biblioteca. Un libro me l’ha persino regalato l’autore. Sono poesie di Bem’jan Debnyj. Vive da noi al Cremlino. Un buon comunista, ma una pessima persona». «Debnyj?!» gli fece eco il pilota. «L’ho letto! Ha scritto un sacco sulla presa di Perekop*». Dobrynin si sforzò di registrare quel nome, casomai si fosse presentata l’occasione di dare una sbirciata ai suoi versi. Finirono il tè. Volčanov accompagnò i due fino all’aereo, li salutò con la mano e, quando i motori attaccarono a rombare, tornò alla macchina ferma davanti al casotto. Il bombardiere verde sporco iniziò la rincorsa e decollò. * Nell’autunno del 1920, vittoria decisiva dell’Armata Rossa sull’esercito “bianco” comandato dal barone Wrangel. L’istmo di Perekop collega la Crimea alla terraferma, n.d.t.

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Dobrynin guardò fuori dall’oblò. Il casotto, nel quale solo dieci minuti prima bevevano il tè, era ormai piccolissimo. E laggiù era rimasta anche Mosca. Si commiserò e gli occhi gli s’inondarono di lacrime. Come di nuovo andasse via di casa abbandonando lì i propri cari, senza avere idea di quando sarebbe tornato… Nella sua coscienza, il villaggio natio e Mosca si saldavano in qualcosa di grande, al quale erano legati i suoi pensieri e ricordi migliori; sentiva già arrivargli dal passato l’abbaiare dell’amato cane Dmitrij, ormai defunto, quasi si diffondesse sulla Mosca notturna. In quel momento per lui il villaggio di Kroškino si trovava al centro di questa città: come se, uscendo dal Cremlino e dando libero sfogo all’immaginazione, avesse potuto vedere la propria izba con la moglie Manjaša ferma sulla soglia e i suoi figli un po’ cresciuti. E quella visione lo placava, poiché gli dava l’illusione che in qualsiasi momento libero avrebbe potuto fare un salto a trovarli… I motori del bombardiere facevano un gran fracasso, le eliche fischiavano e il metallo vibrava sotto i suoi piedi, così come vibravano le pareti di quella macchina volante. La cosa lo immalinconì ancora di più, comprendeva infatti quanto poco dipendesse da lui, quanto fosse minuscolo in mezzo a quel cielo. Gli tornò in mente il verso della poesia che il pilota gli aveva recitato nel viaggio di andata: l’unità è zero. E adesso, a bordo di quell’apparecchio rumoroso e traballante, non poteva che concordare. Davvero, cosa poteva fare lui da solo? Considerò che neppure il pilota era onnipotente: di certo non avrebbe potuto evitare che precipitassero casomai si fosse rotto qualcosa, e quella prospettiva non lo spaventò. Comunque il suo era stato uno sconforto passeggero, tant’è che in capo a mezz’ora già confutava la veridicità di quel verso e scacciava

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la propria tristezza bollandola come estranea e inutile. Rigettato tutto ciò con cui non concordava, iniziò ad aspettare l’atterraggio nell’estremo Nord, laddove lo attendevano l’amico, salvatore e aiutante Dmitrij Vaplachov, il comandante Ivaščukin, sempre pronto a dare una mano, e ancora un sacco di lavoro da compiere prima di poter riferire al compagno Tverin che la vita nel Nord sovietico era stata controllata e si era provveduto a sanare ogni ingiustizia. L’aereo continuava a salire, speronando le nuvole solitarie che incontrava lungo la rotta. Accantonate le proprie considerazioni, Dobrynin era alle prese col primo racconto del volumetto donatogli dal compagno Tverin. S’intitolava Richiesta riservata e vi si narrava dell’insofferenza di Vladimir Il’ič Lenin per i regali. Il controllore del popolo venne così a sapere con grande interesse, come ogni giorno a Lenin arrivassero per posta decine e anche centinaia di pacchi e pacchetti inviatigli da operai, contadini e soldati. Assorbito dalla lettura, non badava più a rumori e vibrazioni. Nel racconto si riportava che un giorno Lenin aveva ricevuto da certi tessitori bielorussi una lettera, con la quale lo si informava che loro, i tessitori, stavano per mandargli uno scampolo di stoffa per un abito. Vladimir Il’ič aveva subito convocato Bonč-Bruevič* per lamentarsi della sopravvivenza in Russia della vecchia e pericolosa usanza prerivoluzionaria, diffusa tra i contadini, di omaggiare padroni e governatori con regali di vario genere. Intenzionato a stroncarla, gli aveva ordinato di prendere carta e penna e scrivere con parole sue una lettera ai * Vladimir Bonč-Bruevič (1873.1955), storico e attivista politico, fu braccio destro di Lenin. Tra l’altro, scrisse un libro di memorie su di lui e la raccolta di racconti per l’infanzia intitolata Il nostro Il’ič, n.d.t.

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tessitori bielorussi: li ringraziava per i buoni sentimenti nei suoi confronti, ma chiedeva di non inviare lo scampolo di stoffa e anche di riferire a tutti gli altri lavoratori della loro cittadina come lui, Lenin, non amasse affatto i regali. Bonč-Bruevič aveva spedito la lettera. I tessitori l’avevano ricevuta e letta in assemblea, annuendo. Insomma, avevano compreso e si erano adoperati per diramare la “richiesta riservata” – così era stata definita nella missiva – di modo che nessuno gli mandasse più nulla. Il caso aveva voluto che in quel periodo si trovasse lì un soldato tornato a casa in licenza dalla propria unità, di stanza oltre gli Urali. Venuto a conoscenza della richiesta del grande capo, una volta tornato in servizio, l’aveva riferita a soldati e ufficiali, visto che anche quelli si apprestavano a mandare il proprio pacco. Pure loro avevano capito e non ci avevano pensato più, ma solo finché non erano stati congedati ed erano tornati alle loro città e villaggi d’origine, dove ciascuno aveva riportato la richiesta che in tal modo aveva raggiunto ogni angolo del Paese. E, ammesso e non concesso che nei luoghi più sperduti ne fossero all’oscuro, di sicuro anche lì prima o poi sarebbe sbucato qualcuno ad annunciarla. Con l’estero era andata diversamente. La richiesta non era arrivata fino agli internazionalisti stranieri, di conseguenza ogni giorno giungevano da lì vagoni di pacchi e lettere che i compagni di lotta inviavano al grande capo. Contenevano di tutto: libri, cibo, vestiti. Tuttavia Lenin non scriveva loro nulla in proposito, giacché nei Paesi stranieri vigevano leggi e usanze proprie che occorreva rispettare. Della serie: Paese che vai, usanze che trovi! Dobrynin terminò di leggere il racconto, trasse un bel respiro e si mise a riflettere. I pensieri gli si agitavano in testa inattesi e curiosi, e a un tratto pensò che invece a lui piaceva

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un sacco ricevere regali, solo che nessuno lo sapeva. Frugò nella bisaccia per rimirare il revolver donatogli da Tverin, quindi tastò i biscotti, regalo del compagno Volčanov, e infine urtò qualcosa di piatto. Lo tirò fuori e gli vennero le lacrime agli occhi. Si era ritrovato in mano il passaporto del cavallo Grigorij. Percepì un senso di oppressione e fu assalito dai ricordi. In fin dei conti, pure il cavallo era stato un regalo. I pensieri si confusero, si bloccarono in attesa che si calmasse. Con mano tremante infilò il passaporto del cavallo perito al Nord nella tasca interna della giubba verde, poi tornò a guardare fuori dall’oblò nel tentativo di scacciare la tristezza. Laggiù la terra era ancora verdeggiante, intersecata da strade e binari ferroviari. Un treno merci si stava dirigendo senza fretta chissà dove, la locomotiva sbuffava. Gli andava incontro un lungo convoglio di cisterne. “Trasportano sangue” considerò. “Là dentro c’è il sangue dei compagni Tverin e Volčanov, ma non il mio”. Per quanto strano, nessuno gliel’aveva chiesto. Staccò lo sguardo dall’oblò, si sistemò più comodo. E subito gli s’inumidirono gli occhi al ricordo di se stesso in groppa al cavallo bianco Grigorij scortato dai motociclisti per le strade di Mosca. Aveva ancora il libro sulle ginocchia. “Chissà se amava gli animali?” si domandò, aprendolo di nuovo. Lo sfogliò e lo sguardo gli cadde sull’illustrazione dell’artista Fajnberg che rimandava al racconto di pagina 56, intitolato Lenin e i gatti. Sollevato, studiò attentamente l’illustrazione e contò il numero dei gatti. Erano cinque in tutto: uno sulle ginocchia del grande capo, due sulla panchina su cui era seduto, uno che gli si strofinava ai pantaloni, e un ultimo nell’angolo a destra, nascosto sotto un cespuglio di lillà. Pagina 56, registrò il controllore del popolo.

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