David Fauquemberg, Mal Tiempo, Keller

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DAVID FAUQUEMBERG

MAL TIEMPO Traduzione di Tatiana Moroni

Keller editore


Mal tiempo

C

azzo di paradenti, non riesco più a respirare. Nei tempi morti fra due colpi mordo l’aria, non è mai abbastanza. Non riesco a uscire dalle corde, Toufik mi punta, incalza, il piede sempre davanti al mio mi impedisce di girare, mi espone al suo diretto incrociato, è lui che conduce l’assalto. Diretto, blocco, rispondo subito. Cambio appoggio, il mio destro cerca il mento. Fuori tempo. Toufik accompagna lo schiaffo, non fa una piega, ha sorriso. Il suo viso arrossato dallo sforzo mi si avvicina, poi oscilla nell’angolo morto del casco, i guantoni sfuocati e pesanti si abbattono al rallentatore su di me. Incasso, indietreggio. Sagome indefinite oscillano intorno al ring, mi arrivano delle grida attutite, il baccano della sala. Un’occhiata furtiva all’orologio. Solo trenta secondi da resistere. Trenta secondi. Soffoco, ho il cuore in gola, le mani cedono alla gravità. Strizzo gli occhi mio malgrado, scosso da un colpo alla tempia. Non abbassare le braccia. Toufik sposta il peso, tira una lunga serie di jab. Accelera ancora, senza rabbia. Sicuro della sua forza. Dieci secondi, in apnea. Vedo partire un altro destro, schivo, mi precipito nel varco. Lancio il

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gomito in un montante, alla fine c’è il vuoto. So già quello che mi aspetta. Un gancio pesante mi coglie al fegato, impatto preciso, senza appello, nell’incavo delle costole fluttuanti. Mi stronca. Le gambe cedono, eccomi in ginocchio. La campana riecheggia, troppo tardi. Toufik porge i guantoni, mi rialza. Accasciato sulle corde, fatico a riprendere fiato. Slaccio il sottogola, rumore di velcro, butto il casco ai piedi del ring. Toufik mi asciuga la fronte. «Bel lavoro, vecchio». Un bravo ragazzo, questo Toufik, e uno straordinario peso massimo. Ha solo diciott’anni, è la nuova speranza del club. Due volte troppo forte per me. Ha l’intensità e la presenza che mi fanno difetto ormai. Piegando i suoi reumatismi, Rouslan ci raggiunge sul ring. «Forza, Toufik, continua al sacco!...» Si china su di me. «Non si preoccupi, signor Rouslan». «Sei solido, lo so. E non c’è da vergognarsi. Un gancio come quello, che puncher!... Ne stenderà di forti, credimi...» «Di sicuro fa male». Tende il secchio bianco sopra la mia bocca, versa uno schizzo di acqua tiepida. Risputo sangue nella bacinella di ferro. «Vuoi chiudere quel becco?... Respira dalle narici, diamine! E la tua guardia non va. Su, vieni, guarda...» «Non perda tempo. Per oggi mi basta». «Se lo dici tu. Ci rivediamo domani?...» Testa bassa, uscita dal ring. Col fegato in briciole, in pappa, ho attraversato la sala, mi sforzavo di camminare dritto, mi reggevo appena in piedi. Il giovane Fred, peso leggero, concatenava le combinazioni davanti al grande specchio in fondo, degli uno-due, uno-due-tre, gesti corti, abbozzati, ritmici. Mi

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vedeva nello specchio, mi ha salutato con la punta delle dita. Si rivolgeva al mio riflesso, preso dalla frenesia del vuoto. «Beh, vecchio mio, te la cavavi bene!... Nessuno incrocia più i guantoni con quel mostro. L’hai visto l’altro giorno contro il campione francese?... Otto anni di carriera senza un KO, e te lo distrugge così!... No, ma guardalo...» Toufik lavorava al sacco, i suoi colpi crepitavano a ritmo, clac-pata-CLAC. Fred ha fatto dietrofront, mi si è piantato davanti. «Ehi, non devi rimuginarci!... Se ti va saliamo!» «Sì, ok... Ti sei visto?... Non sono ancora pronto per la boxe femminile». Mi sono seduto sulla panca in mezzo allo spogliatoio, ho slacciato i guantoni. Con le mani che tremavano facevo una fatica bestia a disfare le fasce incollate alla pelle umidiccia. Cristo, come amavo quell’odore di cuoio marcio intriso di sudore, che impregna la pelle, resiste al sapone. Il rumore dei colpi, suole che stridono, il violento metronomo della corda che schiocca. Gli scatti ritmati dell’orologio, tre minuti di sforzo per uno di riposo. L’acqua calda della doccia mi bruciava i lividi, risvegliava il dolore alle giunture delle mani, bombardava i muscoli induriti. Avevo delle fitte alle costole, ricordo del mio ultimo combattimento in un torneo di seconda serie. Avrei dovuto vincerlo ma avevo boxato alla rovescia, ancora una volta. Mi ero lasciato demolire da un picchiatore mediocre, uno sporco. L’armadietto si è aperto con un cigolio arrugginito, lo specchio oscillava appeso al chiodo. Avevo un brutto muso, gli zigomi segnati. Pulsazione sanguigna sulla tempia ammaccata, la cui borsa bluastra raggiungeva l’angolo dell’occhio. E

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quel naso dritto, miracolato. Trent’anni, ero finito. La grazia non aveva bussato alla mia porta. Ho lasciato la palestra evitando gli altri. Rouslan scalpitava all’entrata. Aveva ottantadue anni, ne dimostrava venti di meno. Camicia nera sulla canottiera, pantaloni con le pinces e scarpe di vernice. A incrociarlo all’angolo di una strada, lo si sarebbe preso per un gangster, con il suo berretto di pelle, i guanti morbidi, su misura, e la giacca lucida di agnello. Figlio di Novgorod, Russia, era sbarcato negli anni Quaranta, i pugni come unico bagaglio. Posava minaccioso sul manifesto sbiadito di un gala, attaccato con le puntine alla porta del suo ufficio: ROUSLAN KARELIN L’ URAGANO DEGLI URALI

«Dimmi un po’, non sei in forma... Ti è rimasta sullo stomaco la sconfitta dell’altra sera?...» Mi fissava dritto negli occhi, la sua aria afflitta m’ha fatto arrabbiare. «Non è questo, Rouslan. Non lo so...» «Avrei dovuto gettare la spugna, quel tipo era un bastardo». «L’avrei presa male». Mi ha battuto sulla spalla con un gesto maldestro. «È la boxe!... Cediamo tutti un giorno o l’altro. Ma non mollerai mica adesso!... Qui sei qualcuno. Avresti potuto passare tra i pro se avessi voluto. Non dico che avresti dovuto, ma ne avevi i mezzi». Avvolgeva un montante. «Gomito al corpo, diamine! Chiuso».

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Senza lasciarmi con lo sguardo ha tirato fuori un pettine, si è lisciato la capigliatura grigia, cranio gomminato, larga riga in mezzo. «Non possiamo essere tutti dei campioni. Ma di cuore ne hai, sul ring sei leale... non conosci la cattiveria. È questo che amo di te. Hai capito l’essenziale». Si è guardato allo specchio, ha messo via il pettine. «Io ho sempre vissuto a due passi dalla strada. A vedermi ora non sono solido, non avrei vinto granché. Di batoste, credimi, ne ho prese, ma non mi sono mai defilato. E quando incrociavo i guantoni con Cerdan, eravamo pugili, lui e io». Mi ha preso il pugno nel palmo, ha stretto così forte che le ossa hanno crocchiato. «Battiti con le tue armi, figliolo. Altrimenti non andrai da nessuna parte». Mi ha fatto segno, Vieni. È entrato nel suo ufficio. «Ascolta, ho bisogno di te. Parli spagnolo, no?... E conosci Cuba. Perché ecco: porto là i ragazzi, un campo di allenamento spartano. È il mio sogno da anni. Finalmente vedrò come creano i loro campioni. Bisogna che mi accompagni, viaggio pagato e un piccolo extra. Cioè, se sei d’accordo...» «Ci penserò, Rouslan. Di Cuba non ho solo bei ricordi». «Vedi tu, ma non sarebbe da te mancare una cosa simile... Boxerai con loro, ti rimetterà in sesto!» Fuori, il vento di aprile mi ha schiaffeggiato. Il respiro corto, denso, ho inghiottito una dose di Ventolin senza nemmeno pensarci. Sono tornato a casa a piedi, i pugni stretti in fondo alle tasche. Nel giardinetto all’angolo della strada ho incrociato tre emarginati che smaltivano sulla loro panchina, a testa bassa, a volte uno dei tre si tirava su per insultare i suoi

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amici, in polacco. Aveva le arcate aperte, sangue rappreso sul viso, praticamente più nessun dente. Nel mio bilocale regnava un disordine apocalittico. La finestra della sala, battuta dal vento, aveva rovesciato la pianta di vetro, le listelle del pavimento erano spolverate di terra grigia. La spia della segreteria lampeggiava, in sospeso. Un messaggio di Rouslan. «Non vorrei insistere, ragazzo, ma ho davvero bisogno di te...» Cuba. Niente di meglio, quanto a illusioni perdute. Il popolo trascinato alla rovina da un vecchio caudillo tenace che pronunciava anatemi contro il Grande Cattivo del Nord e gli esuli miserabili; gli oppositori nel dimenticatoio, la prostituzione. La collera. Ho richiamato Rouslan e gli ho detto di sì. Mi sono svegliato all’alba, avevo male dappertutto. Ho fatto stretching e una serie di flessioni. Sono uscito a correre, i viali erano vuoti, inondati dalla pioggia. Il mio corpo si è rilassato nel giro di dieci minuti, ho aumentato il ritmo. L’acqua mi colava negli occhi mescolata al sudore; il sangue mi ronzava nelle tempie, i bronchi doloranti fischiavano. Voglia di urlare. Di ritorno a casa ho incrociato la portinaia. Sbirciava il mio occhio nero, girava già sui tacchi. Al diavolo. Ho martellato il sacco un buon quarto d’ora, i vicini picchiavano al muro. Alle otto ho chiamato Rouslan, faceva le pulizie con un’aria di tango in sottofondo. Mi ha elencato le formalità nei dettagli. Era felice che partecipassi al viaggio. Mi ha fatto bene. Taxi, direzione ambasciata. La moquette bruna, di uno spessore tale da sembrare viva,

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aveva invaso il pavimento della reception, i muri, i soffitti. Il custode taciturno mi faceva aspettare in piedi da quasi un’ora, senza mai lasciarmi con lo sguardo, quando un consigliere è venuto a prendermi. Una donna, quarantenne carnosa. Contrariata. «Si è svegliato tardi!... Sarebbe stato necessario incontrare il viceministro, era qui il mese scorso. È una cosa delicata, capisce, non la conosco. Sarò ritenuta responsabile». L’ho seguita nei corridoi. Dei burocrati inquisitori mi hanno squadrato in silenzio, sprofondati nelle loro poltrone, mi hanno considerato con aria grave, poi mi hanno congedato. L’ultimo sembrava più coriaceo. Imbacuccato in un accappatoio di lana, era sepolto in fondo a una rimessa dove erano ammucchiati computer sventrati, tavoli in formica, cartoni di archivi declassati. I piedi in una bacinella d’acqua calda, inspirava a pieni polmoni vapori all’eucalipto. Tremava per la febbre. Ha preso il modulo, l’ha teso davanti a sé, palpebre strizzate. «Detto fra noi, cos’è questa storia?» «Uno stage di...» «So leggere. Ma cosa vuole?» Ha posato su di me uno sguardo infiammato. Perle di sudore brillavano sul suo cranio calvo, che si sollevava e si abbassava con la respirazione. «Boxa?» «Sì, da dilettante». «Questo non lo capisco: perché?» «Non è la questione, io...» «Ebbene sì, giustamente, esa es toda la cuestión!» Si è alzato, i piedi nell’acqua. Ha tirato fuori dalla tasca un fazzoletto bianco con cui si è asciugato la fronte, la nuca. Ha

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scavalcato la bacinella, attraversando la stanza lasciava dietro di sé delle impronte liquide. Ha posato il foglio su una scrivania, l’ha lisciato col dorso della mano. Ha aperto un cassetto, poi un altro, si è voltato verso di me. Gli ho prestato la mia biro, ha firmato in fondo alla pagina. Ha cliccato diverse volte sulla mina retrattile, esaminava la biro. L’ha asciugata con l’angolo del fazzoletto, e se l’è cacciata in tasca.

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Habana Vieja

T

re settimane dopo decollavo per L’Avana. Rouslan mi aveva incaricato di preparare il terreno, il gruppo mi avrebbe raggiunto in seguito. Il charter era pieno, dopo il decollo tutte le hostess erano sparite. Una pensionata inglese singhiozzava sul sedile accanto, svuotava una bottiglia di Bailey’s a canna. Il volo faceva scalo in Italia. Al di sopra delle Alpi, l’inglese sfogava il proprio dolore con la sfrontatezza piagnucolante dell’assiduo frequentatore di bar. Il fidanzato cubano, giovane giocatore di baseball, aveva accettato il matrimonio qualche settimana prima. Ma non aveva più dato sue notizie. «E se non mi amava davvero?...» A Milano delle orde di single ben vestiti ed entusiasti si sono uniti a noi. L’aereo ha ripreso il volo notturno, in quel carro bestiame riempito fino all’orlo regnava un calore opprimente, si sentiva puzza di testosterone a un miglio di distanza. Mi stiravo nel corridoio quando un rital* di mezza età è sbucato dalle toilette, cravatta aggiustata, la giacca impeccabile. Il suo alito puzzava di cigarillo e cattivo whisky. *Termine che indica un italiano, di solito a connotazione negativa. N.d.T.

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«Uno stage a Cuba! Almeno forniscono i preservativi?» Mi ha gratificato di una spintarella complice. «Le negrette carine non mancano...» «Neanche i grossi idioti del tuo genere». Sono tornato al mio posto. Stordita dall’alcol, l’inglese si è addormentata, testa sulla mia spalla. Verso mezzanotte ho scorto una diagonale luminosa nell’oblò opaco. Varadero, dove il grosso della nostra truppa si sarebbe rifugiato quella sera. Poi più niente. Il buio totale, non un lampione né il minimo fascio di fari, nemmeno nelle vicinanze di L’Avana. L’apparecchio si è arrestato ai piedi di un terminal grigiastro. Sono sbarcato sul tarmac, ho inspirato la mia prima boccata d’aria tropicale. Un’aria densa, surriscaldata, che lasciava in bocca un gusto di terra umida. Nel giro di pochi minuti si erano posati tre voli, la folla era ammassata in silenzio attorno al nastro dei bagagli. Le listelle in caucciù giravano già da un po’, con un fischio acuto di ingranaggi male oliati, quando quel gregge insonnolito si è scosso tutto insieme. La prima valigia emergeva dal tunnel. Altre sono seguite, subito afferrate da mani scaturite dalla mischia. Ho scorto la mia sacca di cuoio, per tre quarti schiacciata da un baule a rotelle così grande che ci si potevano infilare senza fatica due o tre pecore. O un passeggero clandestino imbarcato sul volo sbagliato. Ho spinto la porta a battenti che si apriva sulla sala della dogana, vasto campo di battaglia disseminato di scatoloni legati male e di corpi assopiti. Le persone si chiamavano, superavano in un balzo gli ostacoli, nella ressa alcuni tentavano di pagare. In fondo al gruppo un tipo urlava la sua rabbia: «Cazzo, ditelo se non volete i nostri soldi!» I poliziotti, con aria di rimprovero, contenevano i contestatori al di là della linea gialla.

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«Il prossimo!» Rinchiusa nella sua gabbia di vetro, la giovane doganiera mi faceva segno, Sbrighiamoci. Ho fatto scivolare il mio passaporto sotto il vetro dello sportello. Aggiustandosi il collo inamidato dell’uniforme, ha girato la prima pagina. I suoi occhi verdi mi studiavano, tardando a decidere se fossi quello che pretendevo di essere. Applicava la procedura. «E quindi lei è pugile?...» «Sì, insomma, dilettante». Ha richiuso il passaporto, poi mi ha lanciato un bel sorriso. «Cuba è il posto giusto, se cerchi delle storie». Luce di emergenza nella penombra, la hall era deserta. Un autista si è estirpato senza fretta dalla sua Lada gialla e nera, antiquata, parcheggiata tra due pullman marchiati VARADERO. Meccanicamente mi ha preso la sacca. La serratura ammaccata del bagagliaio rifiutava di cedere, ha scaraventato il mio bagaglio sul sedile posteriore. Con una mano guidava, con l’altra stringeva la sigaretta a pugno chiuso, risputava il fumo dal finestrino aperto. Schivava le buche senza rallentare, superava a tutta velocità i semafori lampeggianti agli incroci, sfiorando i camion, le biciclette. Il baccano nell’abitacolo impediva ogni conversazione. Manifesti giganti costellavano il percorso, la Rivoluzione trionfante, al passato, e al presente. Qua e là degli edifici moderni, scenografia dalle pareti a specchio. Le sale spoglie, illuminate come in pieno giorno, attenderanno per l’eternità le ultime rifiniture. Siamo penetrati nel cuore del Vedado, vialoni maestosi, vasti giardini, ville dalle facciate decrepite. Il conducente ha

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