Manuel El Negro

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david fauquemberg

MANUEL EL NEGRO Traduzione di Beatrice Parisi

Keller editore


Titolo originale: Manuel El Negro Traduzione dal francese di Beatrice Parisi Immagini utilizzate nella composizione della copertina © shutterstock | Tommaso Lizzul, Oxy_gen, Dankalilly, R_lion_o, Bailaora "Manuel El Negro" de David Fauquemberg World copyright © Librairie Arthème Fayard, 2013 © 2016 Keller editore via della Roggia, 26 38068 Rovereto (Tn) t|f 0464 423691 www.kellereditore.it redazione@kellereditore.it prima edizione, settembre duemilasedici


Manuel El Negro



Ai miei



M

anuel El Negro era un uomo… Vi diranno: singolare. La gente giudica senza ascoltare. Parole di chi non vuol sentire, frastuono d’inferno! Scusate questo giudizio così drastico, ma ragiono da musicista. Non mi conoscete: sono Melchior de la Peña, chitarrista flamenco. Gli anni di palcoscenico mi hanno insegnato che è inutile sforzarsi di suonare in mezzo al chiasso. Per essere ascoltati bisogna sfiorare il silenzio. Da quando vivo in disparte, rifuggo il giorno e il suo rumore, stendo le mie stuoie di sparto nell’ora in cui la luce acceca. Aspetto la notte, e compongo. Come diceva il poeta, “un amico sono io con un’altra pelle”. Raccontandovi Manuel vi parlerò di me – ma, in fondo, è quello che si fa sempre… La mia memoria è fedele, detesto le menzogne, ma non per questo dovrete credermi ciecamente. Sono come l’eretico di quella copla senza tempo che i flamencos andalusi cadenzano a ritmo di bulería: Nelle mie confessioni io posso Rivelare solo ciò che mi appare Non è la verità quel che dico Per come la vedo io, la vita di Manuel è segnata da incongruenze e contraddizioni, ha i contorni incerti, il fulgore sfocato di un sogno. Più che spiegarveli, mi piacerebbe farvi sentire il mondo che abbiamo sognato insieme, la musica, le emozioni, un mare di cose. Le mie modeste parole, probabilmente, non ne saranno capaci. Il racconto che sto per farvi si 11


potrebbe riassumere in queste tre: Manuel era cantaor. C’è chi canta meglio, forse, ma nessuno è più gitano di lui. L’eco di Manuel, quando si sentiva a suo gusto, mi fa ancora tremare, e sono passati vent’anni. Il canto metteva a nudo l’uomo. Io lo accompagnavo, tutto qui.

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UNO

V

engo da un villaggio bianco della Sierra di cui ho dimenticato persino il nome. Lì sono nato a metà del secolo scorso, ma ho messo radici altrove. Dei primi tempi so quello che mi hanno raccontato. I miei genitori erano contadini senza terra, fuori dall’alba al tramonto a sarchiare i sassi. Mi sembra di ricordare il profumo delle ginestre, l’acqua ghiacciata di un lago, la stanza buia dove mia madre rammendava la sera. Tengo una pena grande… Ogni volta ripenso a quella povera camicia, strappata sulla schiena, che Agujetas il Vecchio, il cantaor di San Miguel, evocava nella sua tragica melodia: Una grande pena mi stringe Sottoterra me la porto Senza mai rivelarla a nessuno La miseria ha stroncato mio padre, borracho annegato nell’acquavite. Nel vedermi soffrire la fame, mia madre ha perso la ragione. Quel vuoto allo stomaco non è un gran vanto. Perché mentire… È la mia strada, ciascuno percorre la sua. I tempi sono duri, sempre, per chi non ha niente. Gli anziani vi diranno che il flamenco nasce dalla fatiga, il dolore di essere, dallo sforzo che non ripaga mai. I giorni migliori sono una speranza. Il canto del piccolo popolo ha tutto il futuro davanti a sé. Non avevo ancora sette anni quando sono stato mandato da un’amica di famiglia, a Jerez de la Frontera. María Luisa Peña, che Dio l’abbia in gloria, gestiva la drogheria della calle Nueva, nel barrio di Santiago. ultramarinos, diceva l’insegna. 13


Ho sognato a lungo che i prodotti provenissero da un lontano oltremare, mi spiegavo così gli scaffali semivuoti. Nel libro dei conti che María Luisa annotava a penna, la lista dei crediti si allungava di giorno in giorno. «Prenda questi frutti, andranno a male…» María Luisa aveva l’età per poter essere mia nonna. Viveva da sola, modestamente, tre stanzette nel retrobottega, si è adattata per offrirmi una camera. La bontà in persona, senza un briciolo di malizia, ripeteva sempre: «Da me non c’è molto, solo tanta allegria». A distanza di anni sento ancora in bocca il sapore acido del pane di fichi, il gusto asciutto dei ceci. La dieta era semplice, ma mi giovava, mi chiamavano Gordo – il Grasso. Quel soprannome mi è rimasto anche oggi che sono magro da far paura. Rischio un episodio simile a quello capitato allo sventurato cantante Manolo Fregenal, che era tanto secco da sembrare tubercoloso. Un giorno, a un funerale, il suo compare El Sevillano, uno dalla battuta sempre pronta, l’aveva preso per un braccio all’uscita dal cimitero: «Manolo, amico mio, hai proprio una brutta cera… Non pensi che faresti bene a trasferirti qui?» I miei ricordi saltano di palo in frasca… Noialtri chitarristi siamo più chiacchieroni di un cavadenti. Il fatto è che le occasioni sono scarse in questo mestiere da solitari. La vita l’ho passata relegato dietro una sonante, con la testa china sulle corde, al servizio del canto. Ho tante cose sullo stomaco. Santiago è il quartiere gitano fuori dalle mura. Ma non dovete immaginarvi roulotte sulla strada o falò in riva al fiume… È già da molto tempo che i gitani della bassa Andalusia hanno abbandonato la vita nomade. Preoccupati da tanta libertà, i sovrani di Spagna avevano costretto quei vagamundos a rinunciare ai loro vagabondaggi, agli abiti da conti del Piccolo Egitto, ai nomi da maghi, agli incantesimi. Bisogna essere

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molto abili, oggi, per riuscire a distinguerli. “Andalusi fuori, gitani dentro” è una frase che sentirete spesso. Io ero un payo, un gachó come dicono loro. Venuto dal nulla, scoprivo la città; i primi tempi il rintocco delle campane mi faceva sobbalzare. Ma a Santiago non mi sono mai sentito veramente un estraneo. Qui, gitani e payos vivono insieme dai tempi della Reconquista, o addirittura da molto prima a sentire i nostri vecchi. Artigiani, braccianti, mercanti di tessuti ambulanti, gli uomini capitati quaggiù avevano tutti un’eredità di miseria. Pene e gioie si sono fuse – così è nato il flamenco, lamento dei diseredati. Io e Manuel, la storia della nostra amicizia. L’ho incontrato il primo giorno di scuola. Ero solo nel cortile, Manuel è arrivato: «Oyé, gachó!» Era più basso di me, i capelli scuri tagliati a zero, un viso così armonioso che sembrava un dono del cielo – la pelle, olivastra, gli era valsa il soprannome di El Negro. «Chi sei?» Il suo sguardo nero scrutava il mio. Per i gitani gli occhi, sacaïs, sono le finestre da cui si affaccia l’anima. Se qualcuno non ti mira, inutile insistere: i tuoi modi non gli piacciono. Con Manuel ci siamo intesi al volo. Mi ha preso per un braccio e ha esclamato: «Vieni con me!» Io ero agitatissimo. Ogni tanto penso che, da quel giorno, non ho fatto altro che corrergli dietro. Era un gatto magro, nervoso. Nessuno, nemmeno i più robusti, attaccava briga con lui. Anzi, nessuno si sarebbe mai sognato di farlo – Manuel incantava il mondo intero. Le signore andavano in visibilio: «Quel bambino, che grazia!» Possedeva il fascino degli angeli, el ángel appunto, un dono che per i gitani ha un enorme valore. Avreste dovuto vederlo ballare, fluido come l’acqua che scorre… Non ci siamo più lasciati. Uno di fianco all’altro a scuola, bueno, quando lui si decideva a sedersi… Manuel non stava fermo un momento, bastava un niente per far scattare la pul-

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sazione, picchiava con i talloni il pavimento sotto il banco, batteva i denti ritmicamente, faceva galoppare le dita sull’acciaio della sedia. Qualcuno dirà che il flamenco è una cosa da gitani, che i payos non lo capiscono e non lo capiranno mai… Io non mi voglio immischiare. Ma il ritmo, nei gitani, è come un sentimento, una palpitazione intima, sono i maestri del compás, quell’andamento ritmico tipico di ciascuno dei canti, misura e dismisura, sottile successione di tempi deboli, di accenti, punteggiato di silenzi. In questo sono impareggiabili. Quelli che sanno, claro, perché c’è anche chi non ha idea. Non è una questione di sangue, ma di nascita… A Santiago, gitani o no, ci definiamo tutti flamencos. Quattro santiagueros riescono a marcare il tempo con il palmo della mano, con uno schiocco di dita o con un sonoro “A’sa!” e, di colpo, il mondo comincia a vacillare. Il soniquete di Jerez, quel crepitio sincopato che stordisce ed è sempre centrato, farebbe ballare anche un morto. Non l’ho ritrovato da nessuna altra parte. Nasce dalla terra, dicono, dalla luce di qui, dal vino carico di sole. I preti della scuola non avevano orecchio per la musica. Dello swing flamenco non capivano niente. Dovete sapere che, a quei tempi, ci facevano mettere in fila al mattino nel cortile, con il braccio alzato, per intonare Cara al sol, l’inno della Falange… Manuel li esasperava col suo continuo dimenarsi. «SILENCIO!» Lo costringevano a mettersi in piedi contro il muro in fondo alla classe, un’ora senza muoversi. Lui restava per tutto il tempo lì impalato, sfidava il maestro, non abbassava mai lo sguardo. Anni dopo mi ha detto: «Te li ricordi, Gordo, quei figli de la gran puta? Quello che volevano, quei gachós, era strapparmi il ritmo dal corpo!» La vita senza ritmo è un piatto insipido. Ci vuole ritmo per cantare, per dipingere, per scrivere… Il cuore che batte, cha-

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BUM, cha-BUM, se va fuori tempo, si ferma. Guardate i fla-

mencos per le strade di Jerez: un istante camminano a passo gioioso sulle due battute di sei quarti della bulería, un altro si attardano, con la fronte aggrottata dalle preoccupazioni, al ritmo di una soleá. Sintonizzano l’andatura sullo stato d’animo del momento – la cadenza dei sentimenti. Manuel El Negro era il compás vivente. Mangiava, starnutiva sul tempo giusto. I vecchi si entusiasmavano: «Il giorno in cui la morte verrà a prenderlo, quel ragazzino cadrà esattamente sull’ultimo tempo!» Dieci, undici E… Nel tardo pomeriggio scendevamo in plaza de Santiago, davanti alla fontana coi leoni. Giochi infantili, biglie, trottole, inseguimenti a perdifiato e, quando spuntava un pallone, partite di calcio fino al calare della notte. Manuel era inafferrabile, le sue scarpe accarezzavano il cuoio più che colpirlo, inventava dribbling, finte impossibili solo per la bellezza del gesto. Sulle panchine della piazza gli uomini ammiravano il prodigio. «Olé chiquillo! Qué arte!» Gli esperti lo paragonavano a Di Stefano l’Argentino, la freccia bionda del Real. Se un difensore si azzardava a contrastarlo, apriti cielo: «Vergognati! Bisogna rispettarla, la grazia!» Manuel si rimetteva a correre, fendendo il campo in un senso, nell’altro – non tirava mai a rete. All’improvviso si bloccava, lasciava andare il pallone. Si asciugava la fronte con la camicia, poi mi prendeva per un braccio. «Andiamo a casa mia, Gordo!» Manuel abitava in calle de la Sangre, la via del sangue, al piano terra di una casa de vecinos – venti casette anguste, altrettante famiglie raccolte intorno a un lungo patio, tutte le porte aperte. Dalla strada non si vedeva niente di quel mondo.

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