NON TUTTE LE SCIAGURE VENGONO DAL CIELO, Thomas Meyer

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thomas meyer

NON TUTTE LE SCIAGURE VENGONO DAL CIELO

Traduzione di Franco Filice

Keller editore



alle gentili signore della pasticceria spr端ngli che durante la stesura di questo romanzo non mi hanno mai fatto mancare i loro deliziosi pasticcini



Prima parte

E adesso, fratello, mi faccio una bella bevuta, e quando la testa comincerà a girarmi, mi metterò a ballare, op-op-op, infischiandomene del mondo! canto da osteria yiddish


nota per i lettori La versione originale di questo romanzo è punteggiata, dall’inizio alla fine, di locuzioni e termini yiddish, lingua affine al tedesco ma che non trova riscontro nell’ebraismo italiano. In mancanza di una tale variante linguistica, abbiamo preferito renderne le sfumature e la specificità dell’ambientazione mettendo a punto un piccolo glossario in calce al libro in cui sono riportate alcune peculiari espressioni yiddish, oltre ai termini relativi a ritualità e festività ebraiche, evidenziate in corsivo all’interno del testo.


MOTTELE, SE VAI AVANTI DI QUESTO PASSO MI PORTERAI ALLA TOMBA!

M

ottele, dove sei? Sono preoccupata!» Mamma era sul punto di scoppiare in lacrime. Eppure era trascorsa appena mezz’ora da quando si era accertata delle mie condizioni di salute e mi aveva infilato, per ogni evenienza, un fazzoletto pulito nella tasca del cappotto. Ma il lasso di tempo che mia madre poteva sopportare senza avere notizie di suo figlio era, con tutta evidenza, ampiamente superato. Aspettavo quindi da un momento all’altro la sua telefonata. «Sto facendo la spesa al Migros» risposi educatamente. In realtà lo sapeva già. Era stata lei stessa a mandarmi a fare gli acquisti. Con una lista scritta di suo pugno i cui caratteri, oltre a lei, riuscivo a decifrare solo io – dopo anni di esercizi. Con tono cospirativo mamma definiva il suo modo di scrivere “la nostra scrittura in codice!” Una delle tante iniziazioni di cui avrei volentieri fatto a meno. «Hai preso tutto?» mi chiese. In quell’istante ero impegnato a pesare un casco di quattro banane e sollevai la spalla con il telefonino incollato all’orecchio per avere le mani libere. 13


«Non ancora» risposi mentre applicavo l’adesivo stampato sul sacchetto di plastica. «Cosa manca?» «Non molto». «Sì, ma cosa?» Era chiaro che voleva saperlo con esattezza. Posai quindi il cesto della spesa per terra e tenni con mano sicura il telefonino all’orecchio. La mia posizione tra uno scaffale e la bilancia per la verdura non era proprio felice. Uno studente del vicino liceo mi urtò. «Mamma, non è un buon momento…» Mi costrinse a confrontare il contenuto del cesto con la sua lista e a elencare le cose che mancavano. Dopo avergliele comunicate, mi spedì al reparto casalinghi. Era comunque lì che stavo per andare. Glielo dissi: «Stavo per andare proprio lì». «Mordechai! Non essere insolente!» «Scusami, mamma». «Mottele, se vai avanti di questo passo mi porterai alla tomba!» esclamò lei tra il lieve tintinnio dei suoi orecchini a pendaglio, attese per un po’ che le sue parole sortissero il loro effetto e riagganciò. Rientrato in casa, mi aspettava un’altra lista: l’elenco completo delle preoccupazioni che avevano assillato la mamma durante la mia assenza. Vi erano comprese aggressioni di matrice antisemita, nonché rapine di stampo

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prettamente criminale oltre a una sfilza di possibili cedimenti fisici. «Non hai idea di quante cose possono succedere!» esclamò mia madre. Era una delle sue espressioni preferite. Ma, a dispetto dei suoi timori, anche quella volta ero tornato a casa sano e salvo. Sollevata, mamma mi strinse al suo seno enorme, mi coprì di baci confessandomi un amore che non poteva essere più bello e profondo: «Figliolo, figliolo,» canticchiò ripetutamente, «sei il tesoro della tua mamma!» Incapace di fuggire, mi lasciai cullare dalle sue grasse braccia che mi sbatacchiavano da destra a sinistra. E in qualche modo riuscì a infilarmi di nascosto un altro fazzoletto nella tasca.

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LE HO MOSTRATO DELLE TUE FOTO, ANCHE LEI TI TROVA SIMPATICO!

I

l mio nome è Mordechai Wolkenbruch, detto Motti. Mamma si chiama Judith. Ha un sedere smisurato, ma è dotata anche della migliore ricetta al mondo per fare i canederli di matzah. Ha ereditato entrambi da sua madre. Papà si chiama Moische. È magro e pallido come me. Da lui ho preso il fulgore rossiccio della barba, benché la sua sia decisamente più folta e chiazzata di bianco. Quando penso a lui, lo vedo seduto sul divano: pantaloni neri, camicia bianca su cui spicca la barba in parte coperta dal «Tachles», settimanale ebraico, o dalla «Jüdische Zeitung», mentre la sua ampia fronte è sormontata dalla kippah. Ho due fratelli maggiori. Salomon, detto Schloime, e David. Tutti e due hanno ereditato dalla mamma il sedere e dal papà il colorito pallido, il che conferisce loro una strabiliante somiglianza con un pupazzo di neve. Schloime, di professione chirurgo, e per questo motivo spesso apostrofato da papà “macellaio kasher”, è incapace di parlare a bassa voce. Un ulteriore tratto in comune con mia madre. David invece, biologo, è calmo e silenzioso.

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Due volte alla settimana lavoravo presso la Wolkenbruch Assicurazioni, la ditta di mio padre. Il resto del tempo lo dedicavo allo studio dell’economia, e di questo mamma era straordinariamente fiera. A ogni riunione di famiglia annunciava che il suo Motti era ormai prossimo al dottorato, mentre io, imbarazzato, cercavo di relativizzare i suoi proclami: «Mamma, guarda che solo per il master manca ancora un anno». Ma lei replicava ridendo: «Mottele, tu ce la farai in tre mesi, sei così intelligente; lo sei stato fin da piccolo; e dopo farai subito il dottorato!» Ma ormai non lo diceva più rivolta a me, ma a tutti i presenti, accompagnando le parole con energici cenni del capo, e io non osavo più contraddirla. Nella percezione di mia madre il dissenso costituiva un reato grave che puniva congelando all’istante i nostri rapporti. Quando ciò accadeva, invece di salutarmi con un abbraccio, si sporgeva in avanti offrendomi la guancia per concedermi un bacio espiatorio. Naturalmente anche l’approvvigionamento dei fazzoletti veniva sospeso per l’intera durata del castigo. A un certo punto la mamma decideva che avevo scontato una pena sufficiente per la mia cattiva condotta e i rapporti si normalizzavano: ero di nuovo il figliolo amato di sempre che veniva stretto al suo seno, e se infilavo la mano nelle tasche del cappotto con sollievo vi trovavo il familiare quadrato di stoffa.

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Conducevamo una vita normale, all’insegna della fede ebraica: mia madre cucinava i canederli e faceva sì che in casa si osservasse la disciplina, mentre papà vendeva polizze assicurative agli ebrei di Zurigo. La sua frase prediletta, finalizzata alla vendita, era «Non si sa mai!» Ed era anche quella più convincente, considerando che aveva a che fare con persone i cui antenati da un giorno all’altro si videro negata la possibilità di prendere il tram e in seguito poterono viaggiare solo a bordo di treni piombati. Ci recavamo quotidianamente in sinagoga per pregare. I miei genitori tre volte al giorno, io in certe occasioni solo una. Ogni venerdì sera mamma accendeva le candele, accoglievamo gli ospiti e cantavamo e mangiavamo insieme. Mio fratello Schloime aveva già messo su famiglia. Anche mio fratello David. Io no. Ciò rendeva particolarmente nervosa mia madre, la cui mediazione nell’individuare la sposa giusta per gli altri due figli aveva subito centrato il bersaglio. Con me invece non funzionava. E questo perché mamma mi faceva conoscere solo duplicati di se stessa: Rachel, Dania, Sara, Mazzal, Rifka, Joelle, Bracha, Schoschanna; e tutte mi riempivano di chiacchiere mentre, sedute nel nostro salotto, trangugiavano uno dietro l’altro i biscotti al latte che mia madre aveva comprato dal panettiere kasher. Io non di-

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cevo mai niente, e anche dopo, quando le paffute ragazze erano andate via e la mamma voleva sapere cosa ne pensassi, continuavo a tacere. «Ma è simpatica, no?» sosteneva lei a proposito di Rachel, per esempio. Io me ne stavo seduto al tavolo intento a contare le briciole di torta sul piattino vuoto. Erano quarantadue, escluse quelle piccolissime che non si potevano contare. Certo, Rachel era senz’altro simpatica. «E carina!» Beh, quello un po’ meno. «Mordechai! Adesso la chiami!» Ma io continuavo imperterrito a tacere fissando il piatto, fino a che mia madre non si alzava e sbuffando sbatteva dietro di sé la porta. E così rimanevo di nuovo a corto di fazzoletti. Poiché le comunità ebraiche di Zurigo sono relativamente piccole, ben presto mamma si è vista costretta a ripiegare su altre città. Mi ha mandato a Berna, a Basilea, a San Gallo e a Lugano calcolando con inquietante precisione il momento in cui avrebbero servito a me e a colei che secondo i suoi disegni doveva essere la mia futura moglie il secondo caffè. Era infatti proprio quello l’istante in cui telefonava per informarsi sul corso delle trattative: «Allora, Mottele, ti piace?»

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