ERAVAMO DEI GRANDISSIMI, Clemens Meyer

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clemens meyer

ERAVAMO DEI GRANDISSIMI Traduzione di Roberta Gado e Riccardo Cravero

Keller editore


clemens meyer Clemens Meyer è nato a Halle nel 1977 e vive a Lipsia. Il suo primo romanzo, Als wir träumten (Eravamo dei grandissimi, 2006) è ormai un libro cult. Nel 2015 ne è stato tratto l’omonimo film di Andreas Dresen presentato alla 65a Berlinale. Sono seguiti Die Nacht, die Lichter. Stories (2008), che gli è valso il premio della Leipziger Buchmesse, Gewalten. Ein Tagebuch (2010) e il monumentale Im Stein (2013), finalista al Deutscher Buchpreis. Nel 2015 Clemens Meyer ha tenuto le prestigiose Frankfurter Poetikvorlesungen, pubblicate nel 2016 con il titolo Der Untergang der Äkschn GmbH. Questa è la sua prima traduzione italiana.


giochi da bambini

S

o una filastrocca. La canticchio tra me e me quando la testa comincia a giocarmi strani scherzi. Credo che la cantassimo da bambini saltellando da un rettangolo di gesso all’altro, ma può essere che me la sia inventata o l’abbia soltanto sognata. Certe volte la recito in silenzio, solo muovendo le labbra, altre mi metto a canticchiarla e nemmeno me ne accorgo perché mi ballano in testa i ricordi, no, non dei ricordi qualsiasi, ma quelli dopo la magnifica caduta del Muro, quando siamo, come dire… venuti in contatto. In contatto con tutte quelle auto colorate, con la birra Holsten e lo Jägermeister. All’epoca avevamo quindici anni, la Holsten Pilsener era troppo amara e quindi, almeno nel bere, eravamo conservatori. Leipziger Premium Pils. Costava anche meno perché ce la procuravamo direttamente nel cortile della fabbrica, la Leipziger Premium Brauerei. In genere di notte. Il birrificio era il fulcro del quartiere e della nostra vita. L’origine di notti etiliche nel cimitero di periferia, di infinite orge vandaliche e di balli sui tetti delle macchine nella stagione della Bock, la birra forte. La Original Leipziger era una specie di fatina bionda che usciva dalla bottiglia, ci prendeva dolcemente per i capelli e ci issava oltre i muri, faceva volare le macchine e ci prestava il tappeto magico con cui schizzavamo via sputando in testa alla pula. Peccato che queste sonnamboliche notti volanti si concludessero nella maggior parte dei casi con l’atterraggio in una

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cella di ubriachi o nel corridoio del commissariato sud-est di polizia, ammanettati a un termosifone. Quando eravamo bambini – a quindici anni si è ancora bambini? Forse abbiamo smesso di esserlo la prima volta che siamo comparsi davanti al giudice, quasi sempre una donna, o la prima volta che ci hanno riaccompagnato a casa di notte e il giorno dopo siamo andati a scuola (o anche no) con i polsi sottili ancora segnati da quell’8 del cazzo – quando eravamo ancora dei bravi bambini, dicevo, per noi il fulcro del quartiere era la grande azienda del popolo veb Giocattoli in Duroplast, Timbri e Affini. Avevamo un compagno di classe, per il resto irrilevante, che ci procurava timbri e macchinine tramite la madre impiegata al reparto dei tamponi inchiostrati, per cui non lo menavamo e, anzi, ogni tanto gli allungavamo persino qualche spicciolo. Nel 1991 l’azienda fallì, demolirono l’edificio, la madre del piccolo ricettatore perse il lavoro dopo vent’anni là dentro e si impiccò nel cesso sul pianerottolo, per cui continuammo a non menarlo e ad allungargli qualche spicciolo anche dopo. Oggi al posto del veb c’è un discount dove vendono birra e spaghetti di sottomarche. La storia che la madre si è suicidata è un’invenzione. Nel 1992 ha trovato lavoro in un distributore della Shell appena aperto, faceva sempre finta di non conoscerci quando andavamo a comprare birra e roba più forte da lei perché era notte, gli altri negozi chiusi e certe volte i muri del birrificio troppo alti anche per noi. La cosa fantastica è che il birrificio c’era sempre, c’era anche se non lo vedevamo perché stavamo portando a casa la borsa a una vecchietta un paio di vie più in là, o perché era notte (intendo quelle tarde serate invernali terribilmente buie in cui vedi solo le luci e ti senti tristissimo), o perché ci sfreccia-

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vamo davanti in macchina a occhi chiusi. La grande, vecchia Leipziger Premium Pilsner Brauerei c’era. Lo sapevi dall’odore. Un odore veramente buono, cazzo, una botta di luppolo, come di tè forte ma molto meglio. Con il vento giusto lo sentivamo a chilometri di distanza. Se apro la finestra lo sento persino adesso, anche se sono molto lontano; peccato che gli altri non vogliano saperne niente. Del resto come potrebbero, non ho nemmeno provato a dirglielo e nelle notti in cui non riusciamo a dormire e restiamo svegli nei letti mordo un angolo della coperta pur di non raccontare quegli anni selvaggi. In notti come queste penso molto a Alfred Heller, che chiamavamo Fred e a forza di bere aveva la faccia grigio-blu come una muffa di quelle cattive. Dimostrava quindici anni anche se ne aveva qualcuno in più, portava un paio di occhiali rotondi da secchione ma girava senza patente per il quartiere e il resto della città, con macchine rubate o rimediate per due soldi chissà dove. Era strano andare in macchina con lui perché quasi non ci stavamo tant’era piena di lattine di birra sparse dappertutto, e quando eravamo in giro insieme combinavamo le robe più folli. Non so cosa ci prendesse una volta saliti con lui, qualcosa che ci faceva mollare ogni freno, sentivamo dentro una libertà totale e un’indipendenza ancora sconosciuta che sfogavamo urlando come animali; chissà, magari i catorci di Fred erano stregati dalla megera con i cinque gatti che abitava vicino a me. Ogni tanto ci facevamo surf in piedi sul bordo del finestrino abbassato, aggrappati al tetto con una mano. Dopo una bottiglia di Stroh 80 era come andare sulle montagne russe. Una notte che sfrecciavamo per la città Fred ha mollato ubriaco il volante e ha detto: «Non ce la faccio più, porca eva».

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Io ero seduto dietro vicino a Mark, che era fatto da scoppiare, e a Rico, che ai tempi era ancora pulito, e non ce la facevamo più neanche noi, avevamo occhi solo per le luci della nostra città che sfilavano all’impazzata. E se Walter – lo stesso Walter a cui poi avrei salvato due volte la vita nell’arco di una sola notte, e che in un’altra notte molto tempo dopo se ne sarebbe andato via comunque –, se quel piccoletto del Walter non avesse preso il volante a Fred, ormai afflosciato sul sedile, e non gli fosse saltato in braccio per inchiodare lasciando chissà quanta gomma sull’asfalto, io adesso sarei morto o magari avrei perso il braccio destro e scribacchierei con la sinistra. Fred Heller aveva anche un fratello, Silvio. Silvio non aveva l’energia criminale di Fred, ma in compenso giocava a scacchi. Abitavano insieme e, mentre Fred & Co. facevano le peggiori schifezze in soggiorno, io giocavo a scacchi in cucina con Silvio. Aveva delle regole tutte sue, io le accettavo perché ai tempi della ddr gli avevano rovinato la salute nel ghetto e gli restavano pochi anni da vivere, come mi aveva raccontato una volta mentre mi dava scacco con una torre che aveva piazzato sulla bottiglia. Doveva esserci del vero, dato che trascinava una gamba e aveva il braccio sinistro semiparalizzato. Inoltre capitava che storcesse la faccia in certe smorfie orribili, rovesciasse gli occhi finché si vedeva solo il bianco e sbattesse a ripetizione la testa sulla scacchiera (avevo il terrore che potesse ficcarsi un alfiere nell’occhio). Mi faceva così impressione che persino mentre stavo vincendo, ossia quando, secondo la sua visione delle regole, il mio cavallo stava violentando il suo re, gliela davo vinta lo stesso per abbandono, nel senso che staccavo la testa al mio re con un morso, la infilavo nel congelatore quattro stelle e me la battevo in soggiorno da Fred & Co. a fare le peggiori schifezze.

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Salute rovinata nel ghetto. Ci ho messo un po’ a scoprire cosa intendessero Fred e suo fratello quando parlavano di ghetto. Siccome i genitori non li avevano voluti, erano rimasti per anni in un istituto correttivo per bambini e adolescenti difficili, senza contatti con l’esterno, un ghetto appunto, dove avevano imbottito Silvio di antidepressivi e iniezioni rimbambenti che gli avevano fatto partire fegato e reni; ogni tanto accennava anche a certi trattamenti sperimentali, ma io non ci credo. Una volta ho chiesto a Fred se avesse ancora rapporti con i suoi. «No» ha risposto, «se li vedo mi si rizza il coltello». Adesso invece al buon vecchio Fred si rizzerà a guardar fuori dalla finestra, perché è rinchiuso in una qualche prigione di merda. Non so bene per quale ultima impresa sia finito dietro le sbarre, so soltanto che era fuori in condizionale per l’ennesima volta e che aveva un fascicolo spesso come un elenco del telefono, so solo quel che si diceva in giro e ormai è quasi leggenda. Era notte, Fred girava in macchina per la città con la polizia alle calcagna e non era più sbronzo del solito, quando di colpo gli è preso lo schizzo. Probabile che fosse un’uscita di scena studiata con cura. Lo stile non gli mancava. Inchioda. Fa inversione. Accelera. Prima volante, sbam. Seconda volante, sbam. Retromarcia. E via da capo. Non so quante volte. Dicono che alla fine gli sbirri non riuscissero neanche più ad aprire le portiere. Poi è sceso, ha alzato le mani come Billy the Kid e ha detto: «Mi arrendo». Chissà se i poliziotti siano poi usciti da quelle fisarmoniche attraverso il tettuccio, in ogni caso al primo dei due che gli è venuto incontro barcollando Fred ha spaccato il naso con un pugno, e da allora non lo si è più visto in circolazione. Eppure mi aveva detto che lui nel ghetto non ci tornava più e che vo-

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leva farla finita con quel monte di cazzate. E io gli avevo quasi creduto. Perché una volta che dei tizi avevano attaccato briga con Fred per certe vecchie storie, mentre eravamo in un bar con Mark, sempre strafatto già allora, lui non ha reagito alle provocazioni, neanche quando gli hanno buttato una birra in faccia. E vedendomi afferrare lo sgabello mi ha detto: «Daniel, sta’ calmo, lascia perdere, è un problema mio». I tre tizi erano al bancone attorno a noi, uno ha spinto Fred e lo ha fatto cadere. Lui si è rimesso seduto con gli occhiali rotti e, ammiccando dietro le lenti spaccate mi ha detto: «Daniel, sta’ calmo», e a loro: «Tanto non reagisco, stronzi, sono in condizionale». Ha continuato a ripeterglielo mentre lo spintonavano, uno gli ha persino mollato un paio di ceffoni. Poi Fred ha tirato fuori di tasca il coltello, lo ha fatto scattare, ha messo la mano sinistra sul banco e l’ha trapassata con la lama. «Di qui non mi spostate, frocetti di merda!» E loro se ne sono andati alla svelta e io ho chiamato il dottore. Prima che arrivasse a tirar fuori il coltello dal legno dove era ben conficcato, io e Fred ci siamo fatti un altro paio di bicchieri di Doppelkorn con il barista che puliva il sangue, stranamente poca roba. E Fred ha detto che non si era mai sentito tanto bene in vita sua come con la mano inchiodata in quel modo lì. Il mio ex compagno di scuola Mark, che era parcheggiato di fianco a noi in stato di semincoscienza, non si era accorto di niente. E continua a non accorgersi di niente anche oggi, perché è legato a un letto chissà dove, in una stanza bianca e vuota, in disintossicazione. Letto. Disintossicazione. La mia piccola Estrellita. La canto, la sogno, la mia piccola Estrellita. In realtà non si chiama neanche Estrellita ma a me piace chiamarla così, stellina in spagnolo, che quando uno stronzo è andato a schiantarsi in

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macchina contro un albero con lei di fianco ha passato cinque settimane in coma e poi si è svegliata ancora più carina di prima, così piccola e fragile, e mi ha fatto almeno cinque volte gli occhi dolci. Non so neanche più di che colore siano, i suoi occhi. Dovevo essere innamorato di lei o qualcosa del genere, dato che era davvero una meravigliosa, piccola… mignotta. Walter, altrettanto piccolo ma non altrettanto meraviglioso, mi aveva messo in guardia e detto di lasciarla perdere perché la conosceva già mezza Lipsia (lui compreso, il bastardo) fin nei dettagli. Peccato che nessuno si ricordi il colore degli occhi. Se non altro così Walter mi ha risparmiato la sifilide e si è un po’ sdebitato di quella notte in cui gli ho salvato la vita due volte. Una notte come un sogno. Eravamo nel nostro parco, dove presto tornerò a fare una passeggiata e a guardare i bambini giocare nella sabbiera, la stessa dove una volta pisciavamo e non di rado vomitavamo pure. Quella notte tanto per cambiare avevano ribeccato Fred che, in piedi sul muro di cinta del birrificio, stava passando le casse di birra a Rico, Rico il matto, come lo chiamavamo quando non c’era, perché ai tempi della ddr aveva staccato con un morso la punta del naso al nostro capopionieri che voleva requisirgli un giornaletto di Capitan America, e se non lo hanno espulso da scuola è solo perché poco dopo i pionieri sono scomparsi e il capopionieri con loro. Però non è vero che Rico abbia staccato la punta del naso anche al poliziotto che voleva requisire la cassa di birra a lui e a Fred. Mark invece, che avrebbe dovuto aiutarli nell’operazione e era rimasto strippato sul marciapiede a buttare sassolini in aria, capìta la situazione, ha approfittato che la polizia non si era nemmeno accorta di lui e facendosi strada fra ragni e ragnatele ci ha raggiunti nel parco, dove lo aspet-

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tavamo assetati io, la mia sifilitica Estrellita, Walter e Stefan, che allora chiamavamo già Pitbull. Avevamo davvero una sete pazzesca perché poco prima, per aprire in bellezza la serata, avevamo fatto a pezzi una delle macchine più o meno legali di Fred. Lui aveva annunciato che non gli serviva più, allora uno di noi ha mollato un calcio a una portiera, poi l’abbiamo scardinata tutti insieme, e poi abbiamo spaccato i vetri, tagliato le gomme e quant’altro. Penso che se avessimo avuto le qualità di quel francese del Guinness dei primati l’avremmo sbranata. Non so che ci era preso, una specie di ebbrezza, anche per via dell’alcol, certo, ma era più un qualcosa che aveva fatto clic dentro di noi, spostato la leva su “tempesta nel cervello”. La mia piccola Estrellita si è messa a ballare gridando sul tetto. Quanto l’amavo, diosanto. La tempesta nel cervello si è scatenata anche quando Mark ci ha riferito dov’erano Rico e Fred. Decisi a tirarli fuori, abbiamo fatto a pezzi tutti i bidoni, i cartelli stradali, le panchine e una macchina su cinque da lì al commissariato sud-est di polizia. Pazzesco che quando abbiamo educatamente preso a calci il grosso cancello e comunicato il motivo della nostra visita gli sbirri ci abbiano detto solo: «Andatevene e tornate a prenderli domattina». E dire che tra urla, schianti e botte avevamo fatto un tale casino che avrebbe svegliato pure la nonna sorda di Rico. La nonna che dormiva male perché il nipote, che stava da lei, non era ancora rientrato a casa. Intanto Rico aveva le braccia legate dietro la schiena, lo stavano spintonando per un lungo corridoio bianco fino a una stanza bianca e luminosa dove c’era la macchina da scrivere per il verbale di fermo: indiziato di furto. Lo abbiamo sentito urlare da dentro: «Tutto a posto, sto bene, siamo dei grandi!» come se già ai tempi avesse fatto il callo a stare dietro le sbarre.

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Intanto fuori Estrellita vomitava sul parabrezza di una volante in manovra e l’abbiamo portata subito a casa. Arrivati lì Walter ha cercato di buttarsi dal terzo piano per via di una stronza che non lo amava e non voleva andare al mare con lui, ma io l’ho preso per la maglietta; lui gridava, o meglio biascicava, «ti amo, Anja!», poi la stoffa si è strappata e intanto si è sporto dalla finestra pure Mark per cercare di aiutarmi a tirarlo dentro, anche se non riusciva più nemmeno a coordinare i suoi, di movimenti. Non so bene come abbiamo fatto a uscirne senza romperci l’osso del collo, so solo che più tardi Walter ha provato a farla finita una seconda volta gettandosi sotto un camion e che, dopo che l’ho salvato per un pelo dallo spappolamento, ci siamo trascinati a casa sbronzi e frastornati. Era tutto impazzito come in un sogno, l’incubo di una torrida notte di mezza estate. Non c’è notte in cui non sogni queste cose, e di giorno mi ballano in testa i ricordi, e mi tormento a chiedermi perché tutto è andato com’è andato. Certo, ai tempi ci divertivamo anche un sacco, ma in quel che facevamo avevamo sempre dentro un senso di smarrimento che non riesco a spiegare. È mercoledì, e tra un attimo apriranno la porta per accompagnarmi dal dottor Confessore. So una filastrocca. La canticchio tra me e me quando la testa comincia a giocarmi strani scherzi.

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