Muro con banana
L
a mattina del 9 novembre 1989 mia madre si sottopose a un complicato intervento per farsi ricostruire i tendini lacerati della mano destra. Per rimettere insieme i pezzi di ciò che è destinato a essere unito (la frase viene generalmente attribuita a un discorso dell’ex Cancelliere Willy Brandt a proposito dell’ineluttabilità della riunificazione della Germania divisa, n.d.t.). Quando si risvegliò dall’anestesia, tutti i programmi televisivi erano interrotti e ai posti di frontiera lo spumante scorreva già a fiumi. Mio padre, che era andato a un concerto jazz, era rimasto all’oscuro degli eventi. Tornato a casa verso le tre, era subito andato a letto. Lo svegliai io al telefono, alle sei, dicendogli: «Papà, non preoccuparti, sono in Occidente». Avevo trascorso la serata a una festa di commiato di amici che volevano prendere il treno notturno per Praga. Avevano fatto le valigie, venduto i mobili e regalato il resto. Go West. Eravamo passati un attimo alla Stazione Est per cambiare in corone i pochi soldi che erano rimasti loro. Nell’attesa, ero rimasta in macchina ad ascoltare la RIAS. “Il Muro è aperto. Il segretario del partito di Berlino Est Günther Schabowski ha comunicato in serata che…” Io non reagii. Dalla radio giungevano le voci concitate dei berlinesi che si confondevano con i clacson delle Trabi. Lo speaker piangeva dalla commozione. Io invece, niente. Avevo un blackout. Ancora oggi non riesco a spiegarmi cosa mi stesse accadendo. Avevo raccolto l’informazione ma
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non mi suscitò alcuna emozione. Anche quando i miei amici mi raggiunsero reagendo subito alla novità, io restai impassibile. The person you have called is temporarily not available. Tornammo alla festa. Gli altri, completamente ignari, ballavano scatenati sulle note di Marius Müller-Westernhagen. Solo man mano che l’eccitazione aumentava, contagiando gli altri, cominciai a rendermi conto. Le mie sinapsi avevano ripreso a funzionare. Il Muro era aperto… Era la fine. Manifestazioni del lunedì, Nuovo Forum, veglie per la pace, tutto inutile. Niente socialismo riformato. Il Muro era caduto e la strada che conduce ad Aldi (catena di supermercati, n.d.t.) era libera. Era troppo prematuro, avrebbe significato la riunificazione. Cosa che non era nei miei programmi. Credevo fermamente in una DDR autonoma e indipendente. L’idea di una Germania mi era estranea. A casa avevo imparato che la DDR , nonostante lo stalinismo e la manipolazione delle masse, era comunque nei suoi presupposti lo Stato tedesco migliore. Il nostro compito doveva essere quello di riformarlo e di portarlo sulla retta via. Ed è per questo motivo che siamo rimasti qui, che non abbiamo scelto di andare in Occidente. Consideravo degli imbecilli tutti i miei insegnanti di educazione civica, ma nel profondo del cuore ne condividevo probabilmente le convinzioni. Evidentemente la mia percezione delle cose si sottraeva spesso al mio controllo. La possibilità di muovermi liberamente per andare a Berlino Ovest mi lasciava indifferente. Il Muro aveva per me un significato più che altro simbolico. La limitazione della libertà di movimento all’interno di Berlino non mi turbava più di tanto. Nell’altro settore della città non conoscevo comunque nessuno. In generale non conoscevo nessun tedesco occidentale. Solo Ossi espatriati che vivevano in posti lontani. C’era Pierre, un
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amico francese, che abitava da due anni a Kreuzberg. Lo avevamo conosciuto per caso a metà degli anni Ottanta ed eravamo rimasti in contatto. In quanto alleato poteva fare il pendolare senza problemi. Veniva spesso all’Est. L’intera città era per lui un enorme ed eccitante parco giochi. Non importava il settore. In occasione delle feste di famiglia era sempre a casa nostra. E poi era probabilmente andato a letto con tutte le donne e gli uomini di Berlino Est sotto i 50, non disdegnando, naturalmente, di fornircene i dettagli. Per me era una specie di fratello maggiore. Si integrava perfettamente nella famiglia. Alla festa l’umore era cambiato. Tutti volevano esserci. Ci avviammo disordinatamente verso il varco di frontiera più vicino. Raggiunta la Bornholmer Strasse, finalmente l’euforia del momento pervase anche me. Lì era impossibile sottrarsi alla gioia e alla confusione. Ognuno aveva in testa la stessa martellante domanda. Hanno davvero aperto il Muro? Improvvisamente sentii, in mezzo a quella folla sconvolta, che non avrei mai più dimenticato quel momento, che la mia vita stava cambiando in un modo che facevo ancora fatica a cogliere. Più ci avvicinavamo al posto di frontiera vero e proprio, più aumentava la ressa. Non c’era verso di andare avanti. D’altronde, nessuno conosceva la strada. Quando avemmo finalmente raggiunto la frontiera mi accorsi di aver perso i miei amici. Ero rimasta tutta sola nel buio di quella massa umana. E poi accadde un miracolo. Non può essere stato altro. Sentii qualcuno chiamarmi per nome. Una voce familiare. Mi voltai e guardai dall’altro lato della recinzione. Era lì, l’unica persona che conoscevo a Berlino Ovest: Pierre. Mi tese le mani attraverso l’inferriata e mi guardò raggiante. Vieni, disse, vieni subito di qua. Animata da un’incredibile risolutezza, scavalcai la recin-
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